Nonostante aspetti non
condivisibili qua e là, e il fatto che avesse errato delle “previsioni” (ma,
secondo lui “divinazione e necessità” non coincidevano [1]), è molto ma molto bene ricordare questo passo di Giorgio Colli,
che dedico ai residui “nichilistici” dei nostri tempi (l’epoca del nichilismo,
se ne facciano una ragione alcuni, è definitivamente passata [2]).
Ma veniamo al passo di Colli.
“Quelli che attendono
la catastrofe finale, gli ammalati di febbre nichilistica, quelli che s’inebriano
con sogni di distruzione dovranno ancora
attendere a lungo. Nelle tenebre
da cui siamo avvolti è certo più facile che ladri e assassini
spaventino e versino sangue, ma il mondo non finirà tanto presto. La
violenza è all’inizio delle cose, non alla fine. Noi proveniamo dalla violenza,
ma intorno a noi regna ormai la mansuetudine. Della violenza rimane ancora la smorfia
decorativa, il geroglifico astratto. E se il mondo dovesse finire - momentaneamente - non sarà in una deflagrazione” [3].
Si tenga ben conto che Colli scriveva nel 1974 … ! !
E si è dimostrato verissimo …
Qui per “violenza” Colli intendeva quella nichilistica, di “annientamento”, non la violenza quotidiana cui siamo ben abituati. Anzi, “nella tenebre da cui siamo avvolti”, capita che questo tipo di violenza sia ormai quasi quotidiano. Ma non è una “violenza” davvero “nichilistica”, non ha le benché minima intenzione di “distruggere il mondo con sé” trascinandolo in un Gran Fuoco “finale”. Non è Hitler, non è Stalin, non è Mao, non vuole “rinnovare” un bel nulla, vuole anzi soltanto affermare un ego stupido ipertrofico e vano e inutile. Piccole formiche narcisiste prosperano e attaccano qualsiasi sciocchezza non vada loro a genio. Ma questo non può “distruggere il mondo”. Questo è ormai escluso, nel senso “nichilista” classico.
Troppi si sono attardati su queste febbri tra Ottocento e Novecento, l’epoca dell’arte d’avanguardia che voleva “rinnovare il mondo” e che oggi è, al massimo, un’ombra d’ombra se, poi, non siede nelle Accademia come arte “normale” (e dunque di quale “avanguardia” si vuol qui parlare …).
Il “mondo”, comunque, finirà per davvero, ma soltanto “momentaneamente”, ché la “fine di un Ciclo” implica necessariamente l’ inizio di un “altro Ciclo” umano a seguire, ma questo, che pure è “già scritto”, “non sarà in una deflagrazione” ma invece, come Guénon “divinò” illo tempore (cioè comprese quanto già “scritto” in base a “cause nel passato”, in base a ciò che “già” faceva parte del passato ma non si era ancora manifestato), sta finendo nella dissoluzione, non nella deflagrazione … .
NOTE
[1] “La divinazione del futuro non implica il dominio della
necessità. Se io vedo ciò che accadrà (ma che esiste da sempre nell’immediato),
questo non significa nulla riguardo al prodursi di quest’oggetto futuro.
Necessità non vuol dire prevedibilità, ma indica un certo legame tra gli
elementi che portano a qualcosa. […] Il sapere che fra un anno o mille anni
succederà qualcosa di molto preciso non riguarda il futuro, ma il passato. La
divinazione è possibile perché al verità di un evento sta già nel passato, o
meglio esprime qualcosa di passato, non perché l’evento concluda una
concatenazione necessaria. Questo legame è rotto dal caso, e ciò nonostante
sorgerà l’accadimento che esprime quel passato, proprio attraverso l’alternanza
di caso e necessità. […] Tutto ciò sembra arduo a districare, per l’inveterata
confusione della verità con la necessità. Di regola, quando si dice che
qualcosa è vero, si ritiene inevitabile pensare che sia altresì necessario, e
viceversa. Nella sfera della divinazione invece ciò che io prevedo è soltanto
una verità (ossia l’essere di qualcosa), non è una necessità. Divinare
significa cogliere un evento, dunque soltanto una verità, prima del tempo in
cui si mostrerà” (G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi Edizioni, Milano
1974 (II° ediz. 1979), pp. 180-181).
[2] Correttamente, infatti, G.
Anders, in L’uomo è antiquato,
2 voll. Bollati Boringhieri, Torino 2003 (su di lui cfr. la pagina Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/G%C3%BCnther_Anders),
ricollega il nichilismo - nato in Russia come fenomeno sociale intenso - alla crisi, avvenuta in quel
paese europeo ma modernizzatosi molto
tardi, quando le scienze moderne tolsero Dio dall’equazione delle forze
naturali. E questo lì provocò una crisi in cui “nulla aveva più senso”, il nichilismo,
e tuttavia in una forma non passiva, bensì attiva,
e dunque “occorreva distruggere”. O - per lo meno - bearsi nella e della
distruzione.
[3] G. Colli, Dopo Nietzsche, cit., pp. 163-164,
corsivi miei.
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