domenica 31 gennaio 2021

In relazione alla nota finale N.“I” (di **UN** precedente POST)

 

 

 

 

 

 

 

“Ma gli dei serpenti non muoiono, e la storia c’informa che il sottile antico maestro del giardino dell’Eden si prese sul nuovo venuto una rivincita ironica e curiosa. Il Libro secondo dei Re narra infatti che c’era nel tempio di Gerusalemme un serpente di bronzo, che veniva venerato insieme a un’immagine della sua sposa, la Grande Dea Asherah. Il nome del serpente di bronzo era Nehustan[i]. Il re Ezechia (719-691 a.C.) li fece entrambi distruggere e bruciare. Ma non finì così, perché entro il II secolo a.C.; all’epoca dei Maccabei, il serpente s’era infiltrato nell’immagine stessa di Yahweh, e tal imbarazzante sviluppo sollevò naturalmente il problema di chi, dopo tutto, fosse Dio e chi satana. […] Ora, in base al racconto del Libro secondo dei Re, l’idolo distrutto da Ezechia era «il serpente di bronzo che Mosè aveva costruito» in quella curiosa circostanza, descritta in Numeri (21:4-10), in cui il popolo affamato, nel deserto, si era lamentato d lui e del suo Dio. «Allora il Signore inviò contro il popolo i serpenti infuocati che mordevano il popolo, cosicché molta gente d’Israele morì. Il popolo si recò allora da Mosè e disse: ‘Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te. Intercedi presso il Signore che allontani da noi il serpente’. Mosè intercedette in favore del popolo, e il Signore ordinò a Mosè: ‘Fatti un serpente e collocalo sopra un’asta, in maniera che chiunque sia morso lo possa guardare e guarire’». Non è facile riconciliare quest’ordine con il comandamento di non creare immagini (Esodo 20:4). Si accorda bene, tuttavia, con la leggenda del bastone di Mosè, ch’egli imparò a trasformare in serpente per spaventare il faraone (Esodo 4:1-5), e con cui, alcuni anni più tardi, colpì una pietra nel deserto per farne sgorgare l’acqua, vivificante elemento proprio del serpente (Numeri 20:7-11)”[ii],

J. Campbell, Le figure del mito, Edizioni di red studio redazionale, Como 1990, pp. 294-296, corsivi in originale.

 

 

“Le teorie che abbiamo fin qui ricostruito trovano la loro espressione più decisa negli scritti del cabbalista spagnolo Avraham Abulafia di Saragozza. Essi furono redatti, per la maggior parte, in Italia meridionale ed in Sicilia tra il 1280 e il 1291 […]. La mistica del linguaggio si trova al centro di queste opere di Abulafia, e ciò è tanto più sorprendente in quanto l’autore si dichiara sempre sostenitore radicale di Maimonide: di quel Maimonide la cui scolastica di matrice rigorosamente arabo-aristotelica – sia pur con elementi neoplatonici – non contiene alcuna concezione mistica del linguaggio […]. Abulafia tuttavia ritiene che la propria dottrina esponga l’aspetto esoterico del pensiero di Maimonide, un aspetto che Maimonide aveva tenuto accuratamente nascosto, pur accennandovi i non pochi passi del suo capolavoro filosofico, La guida dei perplessi, e sul cui contenuto anche i più acuti interpreti di Maimonide non hanno finora trovato un accordo”,

G. Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi Edizioni, Milano 1998, p. 73, corsivi in originale.

 

 

“Numerose tradizioni narrano che il fabbro trascina una gamba, imitando in questo il dio del tuono[1], il quale ha una sola gamba e danza su di una coda di serpente. Ma poiché il corpo dell’ eroe civilizzatore e del suo rivale hanno una forma più simile a quella umana, con due gambe, essi imitano gli dèi zoppicando su di un piede[2],

M. Schneider, La musica primitiva, Adelphi Edizioni, Milano 1992, pp. 58-59, corsivi miei[3].

 

 

“Cecio ascoltò, e chiese: «E tu, che cos’hai imparato dal tuo mestiere?»

L’artigiano stava accarezzando un bastone progressivamente ingrossato verso la base, e nel risponder l’usò come appoggio.

«Ho imparato il significato del bastone. La voce dell’animale è il suo grido; ma per l’uomo, che ha complicato la ‘parola’, il portatore più primitivo del suo ‘Verbo’ è il bastone. Tramite il bastone l’uomo esprime il proprio gesto e la propria natura; con esso dimostra minaccia, castiga; attraverso di esso si misura, e su di esso si riposa. Nell’oscurità, il bastone lo guida. Il bastone esprime la sua forza; la sua canna esprime la sua funzione. Un uomo può anche esser nudo, purché abbia il suo bastone! … L’umore dell’uomo è variabile, la sua canna è immutabile; essa ristabilisce l’armonia, impone il rispetto, s’egli dorme, essa veglia; se è stanco, lo protegge; se è tentato di dimenticare la propria funzione, la sua canna lo richiama al dovere. Il bastone partecipa dell’energia e della fiacchezza di un uomo … Figliolo, quante cose potrei dire sui bastoni!» Cecio ascoltava il suono di quelle parole […] medù – parola – medù bastone - … ”,

I. Schwaller de Lubicz, Her-Bak (Cecio), L’Ottava Edizioni, Milano 1985, p. 190, corsivi in originale[4].

 

“Queste genti si chiamano: Gog e Magog, Amic, Agic, Arenar, Defar, Fontineperi, Conei, Samante. Agrimandi, Salterei, Armei, Annofragei, Annicelefelei, Tasbei, Alanei. Proprio queste, insieme a molte altre generazioni, il giovane Alessandro Magno, re dei Macedoni, chiuse tra monti altissimi, verso settentrione. Quando vogliamo le conduciamo contro i nostri nemici e dopo che la Maestà nostra ha dato licenza di divorarli, subito non resta uomo, non resta animale che non sia divorato all’istante. Poi, dopo che i nostri nemici son stati divorati, le riportiamo nelle loro regioni. E lo facciamo perché, se tornassero indietro senza di noi, divorerebbero completamente tutti gli uomini e tutti quanti gli animali che si trovassero sul loro cammino. Certo queste generazioni malvagie usciranno dai quattro angoli della terra prima della fine del mondo, al tempo dell’Anticristo, e accerchieranno tutte le fortezze dei santi e la grande città di Roma, che ci siamo proposti d’assegnare al figlio nostro, al primo che ci nascerà, insieme a tutta quanta l’Italia, a tutta la Germania, all’una e l’altra Gallia, all’Anglia, alla Bretagna e alla Scozia; gli assegneremo anche la Spagna e ogni terra sino al mare ghiacciato. E questo non deve stupire, poiché il loro numero è paragonabile alla sabbia che c’è sulla riva del mare ed invero ad esse nessun popolo, nessun regno potrà opporsi. Queste generazioni, proprio come il profeta ha predetto, a causa della loro infamia, non saranno ammesse al giudizio [poiché non son “uomini” …], ma Dio scaglierà su di esse il fuoco dal cielo e le distruggerà, così che di esse non resterà nemmeno la cenere”,

La Lettera del Prete Gianni, Pratiche Editrice, Parma 1990, p. 57, dalla Versione in latino, 16-20, corsivi miei, mie osservazioni fra parentesi quadre. Nei nomi, a parte quello delle “stirpi” di Gog e Magog, vi si riflette tutto il “meraviglioso” medioevale, al qual era sensibile Guénon (di qui la tante critiche cui è stato sottoposto il suo testo: Il Re del Mondo).

Vi si mescolano, poi, dei nomi di popoli effettivi, ma cambiati leggermente: gli “Alanei” non son altro se non il popolo, guarda caso d’origine caucasica, degli Alani, popolo però di lingua iranica, che, nell’epoca della Völkerwanderung, che noi chiamiamo “Invasioni barbariche”, si fuse con i Vandali di Genserico, al quale diedero la loro stessa corona e che, in buona parte seguirono. Altri entrarono nell’esercito imperiale, anche come comandanti, contro Alarico I. Infine, una parte partecipò all’invasione sassone della Britannia celtica. Ammiano Marcellino considerava gli “Alani” esser dei “Messageti” e cioè una forma di Sciti (Scythae).

Il fatto che stessi “popoli” si dividessero con esiti diversissimi, dimostra, al di là d’ogni ragionevol dubbio, non solo che non v’era proprio alcuna “nazione” – formazione che non va più indietro della fine del XVIII e l’inizio del XIX secc. –, ma che anche la forma “regno” e “popolo” non esisteva in quei tempi, nei termini che, soltanto molto dopo, avrebbe preso.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In relazione alla nota finale “i” di cf.

https://associazione-federicoii.blogspot.com/2021/01/il-digitale-in-realta-e-lo-scacco-alla.html 

continuiamo –, un po’, il discorso …

 

 

Sul bastone (“la verga”) di Mosè[iii]: “Molto si potrebbe dire sul simbolismo sufico della verga di Mosè, raffigurante la nafs, l’anima [“passionale” nel senso etimologico, nel senso che “patisce alterazioni”, le parti “sottili” dell’anima, da non identificare con la “ragione”, sia detto en passant, tra l’altro: l’ “antropologia” del razionalismo è totalmente sbagliata, basata, com’è, su assunti falsi]. Così, nella vicenda del roveto ardente, Iddio chiede a Mosè: «Cosa tieni nella destra?», Mosè risponde: «La verga, sulla quale mi reggo, con cui percuoto la greggia e che mi serve anche per altri usi». L’Altissimo gl’ingiunge allora di gettare a terra la verga che si trasforma subito in serpente o drago [significativo quest’ultimo dettaglio: in Cina – la “terra del Dragone” (il Drago essendo simbolo dell’ Impero cinese, il toro della Cina tout court) – si dice che il Drago sia yang e il serpente sia yin, due facce della stessa medaglia]. Quindi ordina a Mosè di raccattarlo e, ripreso in mano «per ordine di Dio», ridiventa verga [chi “sa” di certe cose, sa bene che avviene proprio così, nel senso che il “fenomeno” – “illusorio ma ‘vero’” – si “ritrasforma” nella “realtà comune” precedente …], ma conserva ormai un potere teurgico [cioè “manifestante” …]. Si tratta della trasformazione della nafs [e non solo, perché si tratta pure di un “potere” ben reale, “tecnicamente” simile a quello dei “maghi egizi”, solo che questi ultimi “facevano appello” solo ad una realtà del “mondo intermedio”, mentre – poiché trattasi di teurgia e non di mera “magia” –, nel caso di Mosè, si fa poi anche appello ad una realtà effettivamente spirituale, cioè trascendente il mondo intermedio]: l’anima. Così nella vicenda del roveto ardente, Iddio chiede a Mosè: «Cosa tieni nella destra?» Mosè risponde: «La verga, sulla quale mi reggo, con cui percuoto la greggia e che mi serve anche per altri usi». L’Altissimo gl’ingiunge allora di gettare a terra la verga che si trasforma subito in serpente o drago. Quindi ordina a Mosè di raccattarlo e, ripreso in mano «per ordine di Dio», ridivenne verga, ma conserva ormai un potere teurgico. Si tratta della trasformazione del nafs[5].

 

Parlando delle varie “facoltà dell’anima” – e della loro relazione con i pianeti, simbolicamente intesi – si legge: “La parola al-wahm designa la facoltà congetturale, l’ immaginazione attiva o il potere d’illusione, che costituisce la più terribile potenza cosmica avuta in prestito dall’uomo, poiché manifesta la propensione demiurgica che attrae ogni possibilità non ancora esaurita. […]

La sesta facoltà di cui scrive Jîlî è l’ immaginazione (al-khayal), il cui compito è relativamente passivo in opposizione a quello della facoltà congetturale (al-wahm); difatti al-khayal è come la materia plastica della mente, di modo che tale facoltà corrisponde analogicamente alla materia prima del mondo delle forme.

Ci siamo soffermati alquanto su questi capitoli concernenti le facoltà dell’anima, stante che non v’è in essi un’autentica psicologia spirituale, cioè una scienza dell’anima per quanto riguarda le sue relazioni col mondo dello Spirito)”[6].

Le due facoltà – al wahm ed al-khayal – son complementari (ed è appena il caso di dire che alle origini – “occulte”, quelle cui Guénon alluse varie volte, avvenute nell’ “Autunno del Medioevo” – vi è stato un “contatto” con “certe” forze “sottili” che, per poter essere “operato”, necessitava(va) della facoltà di al-wahm “(ap)postasulla/nella al-khayal; tal “influsso” s’è rinnovato in una fase determinata dello (stupido) XIX sec., in certe sue (nascoste, cioè, letteralmente, “occulte”) componenti …  

Tali due “facoltà dell’anima” (quella della “proiezioni” come quella dell’ “immaginazione”) sono complementari:

“Il simbolismo planetario cui abbiamo accennato, permette di collocare queste facoltà in una gerarchia visiva: il cuore corrisponde al sole, la posizione del qual è in ogni caso centrale rispetto ai restanti pianeti, indipendentemente dal sistema astronomico adottato [si riferisce ai due sistemi: quello tolemaico e quello copernicano]; l’intelletto equivale alla sfera di Saturno, la Volontà spirituale a Giove, la facoltà congetturale a Marte, l’immaginazione a Venere, il pensiero [razionale] a Mercurio. Alla Luna, Jîlî fa corrispondere lo spirito vitale, chiamato anche rûh. Si noteranno le posizioni antinomiche, secondo l’ordine geocentrico dei pianeti [astronomia tolemaica], di al-himmah [la “Volontà” spirituale, come distinta dalla capacità della volontà di “proiettare” se stessa, che attiene a Marte, come s’è detto] e di al-fikr [il pensiero solo razionale, cioè legato a Mercurio], come di al-wahm [Marte] e di al-khayal [Venere]”[7].  

Va quindi chiarito che per “intelletto” s’intende il nous, e non la ratio (al-fikr, in arabo), la quale corrisponde a Mercurio, la facoltà che in Occidente ha così tanto ricevuto attenzione. E poi Venere, come facoltà di dare forma ad un mondo d’immagini, forma concreta: Venere più Mercurio: Ermafrodito, appunto. Qui, al contrario, abbiamo parlato della relazione fra Marte e Venere, tra la facoltà di “proiezione” sottile – ch’è “al-wahm” –, e la capacità di “dar forma” che ha la “sostanza ‘astrale’” in quanto tale, cioè la capacità “immaginativa” non in quanto si “densifica” in un oggetto (un oggetto d’arte, o d’artigianato, per esempio), ma tale “sostanza” – la “luce astrale” famosa – viene “impressionata” da una “congettura” ch’è una “proiezione”, “proiezione” (“formazione”, “forma pensiero”) d’una forza che “vuole” realizzare un qualcosa, un qualcosa qualsiasi, “buono” o “cattivo” che sia: la facoltà “demiurgica”, per l’appunto, demioùrgos essendo, in greco antico, l’ “artigiano”, donde anche dèmos, il cosiddetto “popolo” della “democrazia”, dèmos che, in origine, non era nient’altro se non l’insieme degli artigiani d’una polis greca. Tout se tient, dicono “lè fransè” …

 

Vi è chiaramente anche un’ “immaginazione attiva” e cioè il dominio della facoltà “proiettiva” (“marziale”) che sa recepire le “immagini superiori” nella sostanza “astrale” resa pacificata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andrea A. Ianniello

 

 


 

 

 


 

 

 

 

 



[1] Cf.

https://associazione-federicoii.blogspot.com/2017/08/la-compagnia-e-l-anello.html,

nota finale n°10. Con l’immagine del retro di copertina del libro citato nel post, peraltro un’immagine molto bella, con quel po’ di potenza evocativa che ha un’ “arte” ancora vicina alle “origini” … Non sono, cioè, delle “mere” immagini, e, questo punto, si dovrebbe a lungo discorrere sulla differenza tra ciò che qui s’è detto – l’ “evocatività” – e il lungo, ricorrente discorso che si è fatto, in questo blog, a riguardo della “simulazione” oggi centrale nel System … Non havvi, ahi noi, tuttavia, né “lo tempore” né “la” occasione … Pertanto, con questo presente post, or ci si concede un ritorno a passati fasti – ma non fastigi …– per poi tosto, con o senza toast …, tornare al nostro “piccolo cabotaggio” ed al “monitoraggio” d’una situazione che rimarrà sempre più caotica, per ragioni strutturali.  

[2] Sulla relazione tra i fabbri e gli sciamani, cf. M. Eliade, Arti del metallo ed alchimisti, Bollati Boringhieri, Torino 1980, ripubblicato nel 2018. Gengis Khan – che non è l’ “anticristo”! –, il “fabbro dei destini”, era ricollegato al doppio volto dell’ “eroe civilizzatore” e del suo “nemico” – i “due Gemelli”, come nella storia della fondazione di Roma – al punto che uccise un fratello, nel mito-storia conservatoci ne La storia segreta dei Mongoli, e cioè la sua parte “negativa”, divenendo, così, “l’eroe civilizzatore” – caratterizzato dal “gesto demiurgico” – della Mongolia. 

[3] Di seguito, si parla della corrispondenza simbolica fra nota e figure animali. Al sud son ricollegati i seguenti animali: serpente, cavallo, pecora, cf, ivi, p. 90. I quali, rispettivamente, si ricollegano alle seguenti note: si b, si, e do, cf. ibid. E, come animale sacrificale, a tutt’e tre corrisponde il sacrificio d’un gallo, significativo.

[4] Sul Nilo, simbolico, sul quale Mosè fu trovato “galleggiare”, cf.

https://associazione-federicoii.blogspot.com/2019/08/inno-al-nilo-cioe-hapi.html,

il PS finale che spiega cos’è il Nilo simbolico.  

[5] “Sommario dell’opera di ‘Abd al-Karîm al-Jîlî” di T. Burckhardt, Sommario introduttivo ad ‘Abd al-Karîm al-Jîlî, L’Uomo universale, Introduzione, commento e note di T. Burckhardt, Edizioni Mediterranee, Roma 1981, p. 27, in nota a pie’ pagina, corsivi in originale, grassetti miei, miei commenti fra parentesi quadre. Burckhardt sta riassumendo i passi dove l’autore sta parlando delle Dieci Tavole ricevute da Mosè sul Sinai e del loro significato simbolico. “La quarta tavola è chiamata la Forza, giacché svela le analogie intercorrenti tra la Saggezza divina e gli aspetti della forza [psychica] umana, analogie da cui muove la teurgia”, ibidem, corsivi in originale, mio commento fra parentesi quadre.

[6] Ivi, p. 34, corsivi in originale, grassetti miei.

[7] Ivi, p. 35, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre, nota a pie’ pagina. 

 

 

 

 

 



[i] Sembrerebbero esserci dei paralleli col serpente degli Yezidì, sembrerebbe …

[ii] “E’ abbastanza curioso che il nome di Sheth, ricondotto ai suoi elementi essenziali ST nell’alfabeto latino (che è solo una forma di quello fenicio) dia la figura del ‘serpente di bronzo’. A proposito di quest’ultimo, segnaliamo che in realtà in ebraico la stessa parola significa «serpente» (nahash) e «bronzo» o «rame» (nehash); in arabo si trova un altro accostamento non meno strano: nahas «calamità», e nahâs «rame»”, R. Guénon, Simboli della scienza sacra, Adelphi Edizioni, Milano 1975, p. 128, corsivi in originale, cap. 20, nota a pie’ pagina. Interessante anche questa nota a pie’ pag.: “Si veda anche, su certe monete galliche, la rappresentazione d’un personaggio enigmatico, che tiene in mano un oggetto che sembra essere un lituus o bastone augurale, e nell’altra il martello con il quale batte una specie d’incudine; si è dato a questo personaggio, a causa di tali attributi, la designazione di «Pontefice fabbro»”, ivi, p. 158, corsivo in originale. Da tutto ciò, Guénon ne deduceva “per lo meno una conseguenza” – in realtà, ve ne sono di molte di più … – e cioè questo: “Si potrebbe dire che la stregoneria è fatta delle vestigia delle civiltà morte; sarà forse per questo che il serpente, nelle epoche più recenti, ha conservato quasi solo il suo significato malefico, e il drago, antico simbolo estremo-orientale del Verbo, suscita soltanto idee ‘diaboliche’ nello spirito degli Occidentali moderni?”, ivi, p. 131, corsivi miei. Chiaramente, trattasi di domanda retorica …

[iii] Vorrei qui parlare di un altro modo di relazionarsi, sempre col bastone di Mosè, cioè con la verga di Mosè; il passo parte dal sanjaq, lo “stendardo” (in turco), stendardo che ha forma di pavone, tipico degli Yezidì: “i sanğaq stavano in origine presso il re Salomone […]. I Yezidi hanno ancora altri idoli e oggetti sacri che adorano: la verga di Mosè (di bronzo), un serpente e un montone (pure di bronzo), un uccello (forse un merlo o un usignuolo), una cintura, un rosario, un pettine, un bastone e un bicchiere […]. Una curiosa cerimonia collo stendardo in forma di pavone riferisce J. W. Crowfoot, A Yezidi rite, Man, I, 145-146. Il pavone dovrebbe avere un piccolo foro nel mezzo della schiena, coperto da un coperchio. L’uccello fu riempito, secondo quanto gli narrò un Armeno presente alla scena, attraverso il foro, di acqua santa mentre tutti i presenti cantavano in curdo. Il sacerdote officiante si avvicinò all’uccello, baciò prima la base e poi altre parti dello stendardo finché arrivò al becco che suol portare un foro. Il sacerdote vi pose le labbra e bevve una goccia dell’acqua. Così fecero pure tutti gli altri presenti. Il Crowfoot vuol vedere in questa cerimonia una specie di sacramento. Uno stendardo yezidico si conserva ora al Museo Britannico [al British Museum, cioè: confermato?, qualcuno ne sa qualcosa?]. Una fotografia di esso si può vedere davanti al frontispizio del libro citato dall’Epson. Però esso è diverso di forma da quegli stendardi che si trovano riprodotti n quasi tutti i libri che trattano direttamente o anche soltanto accidentalmente dei Yezidi. Quello del Museo Britannico è d’acciaio e proviene da un piccolo tempio yezidico presso Diārbekir (Diyār-Bekr [si tratta di Diyarbakır, nell’attuale Turchia, in kurdo: Amed; essa si ritrova non lontano dall’antica Tigranocerta, “Tigranokert” in armeno, che poi è il nome che viene usato in armeno proprio per l’attuale Diyarbakır]). Di solito i sanğaq hanno forma più di un gallo che di un pavone [“dettaglio” interessante], senza dubbio per l’inabilità dell’artista, se così si può chiamare il fabbricatore degli idoli yezidici [Furlani spesso rimarca la scarsità e pochezza culturale degli Yezidì, magari può esser anche vero, non discuto, ma il punto è che gli sfugge del tutto l’aspetto simbolico di tali cose]”, Introduzione del curatore a Testi dei Yezidi, traduzione introduzione e note di G. Furlani, Zanichelli Editore, Bologna 1930, pp. 45-46, nota a pie’ pagina, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre. In tutta questa pagina, Furlani, oltre che dello “stendardo”, parla degli “interdetti” cui son sottoposti gli Yezidì, facendo riferimento ad un testo che ho trovato soltanto qui: la “Memoria” yezide al governatore ottomano, dove si parla esplicitamente di queste cose, fra le altre, ovviamente: si sa che, nel sec. XIX, gli Yezidì furono sottoposti ad una persecuzione da parte delle autorità ottomane. La cosa interessante, intendo del libro di Furlani, si è che “fotografa” la situazione del lontano 1930, quando la situazione per gli Yezidì (kurdo: “Ezidì”, dove la “z” = “esse cosiddetta ‘dolce’”, sarebbe a dire: sonora, più esattamente] era meno peggiore di come sarebbe poi, per loro, divenuta in seguito.

In ogni caso, il rito, di cui ha scritto, nella nota suddetta, Furlani, è molto antico, ed è davvero “curioso” quanto da lui riportato … Furlani parla pure della gerarchia del clero yezide, dal quale si conferma quanto scritto da Guénon sul fatto che son certi “irregolari” fra di loro a “usare” – o esser usati … – della “torre” fra di essi nascosta (e son spesso non i qawwal – “cantori” di canti tradizionali – bensì effettivamente “irregolari”, come “incantatori di serpenti”, per esempio …); “A questo proposito, è significativo che i sacerdoti yezidi regolari si astengano dal compiere qualsiasi rito in questa torre, mentre alcuni tipi di maghi erranti vengano spesso a trascorrervi molti giorni; cosa rappresentano esattamente questi personaggi?”, R. Guénon, Considerazioni sull’esoterismo islamico e sul taoismo – La metafisica orientale, Arktos Oggero Editore, Carmagnola (TO) 1990, p. 111, corsivi miei.

 

 

 

 

 

venerdì 29 gennaio 2021

Cosa vuol dire: “simulazione”, una precisazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Occorre qui l’esser precisi su cosa s’intenda per “simulazione”.

Essa **non vuol dire** “cosa che non ha effetto (su di te)”, perché ne ha, oh se ne ha! Vuol solo dire che trattasi di una costruzione “seconda”, cioè che necessita di un qualcosa si preesistente, al quale si aggiunge, pian piano crescendo, arriva poi a sostituire quel qualcosa sul quale s’ “installava” all’inizio.

Questo vuol dire. Per cui, quando Baudrillard sosteneva che “l’11 Settembre ‘era una simulazione’” non significava che non era successo, ma che l’evento simulato – costruito su dei “device” digitali – avrebbe coperto così tanto l’evento stesso fino al punto in cui “l’evento” era completamente “annullato”, “mangiato” dalla sua riproduzione digitale. Come poi è stato. E dov’è la “realtà”, dunque? Ecco il problema.

Simula e simula, giunge – fatalmente – il punto in cui la simulazione copre completamente, la cosa iniziale, che riproduceva al’inizio. Ecco il “circolo vizioso” che porta all’ “assenza di senso” (“buco nero del senso”, Baudrillard), e ch’è un “delitto perfetto”; e “delitto perfetto” perché?, perché completamente autoreferenziale. Ed “autoreferenziale” significa solo questo: si riferisce a se stesso, espellendo dalla sua logica fondante ogni altra considerazione, che c’è, ch’esiste, ma è “in effettuale”, che significa: privo di effetti. “Ineffettuale” vuol dire: non tocca i meccanismi di funzionamento – “cibernetici” e per nulla “etici” – dello stesso System.

Quelli che hanno messo in moto la Grande Macchina sono i veri “colpevoli” del “delitto perfetto”, e **non** chi crede di poterla gestire – la “Big Machine” – perché non la gestisce affatto: non è in grado di gestire la Macchina. La complessità della Macchina va oltre qualsiasi capacità umana, e la “Megamacchina” si sta sempre più autonomizzando, in “armonia” (termine ironico) con il postulato fondamentale: il funzionamento “cibernetico”. E “cibernetico” (ci vorrebbe la ypsilon, che l’ iper semplificazione linguistica italiana c’impedisce d’usare, ahi noi) deriva dal greco kybernètes, “pilota”, vale a dire: Il “Mega System” si auto pilota, si autoregola, vale a dire che ha un meccanismo di autoregolazione che sta nel “programma” – codificato – fondamentale,  “di default”, come dicono gl’informatici. Tutto ciò è già, ora. Semplicemente, popoli, sedicenti governanti, democrazie, filosofie, religioni ecc. ecc., non hanno mai, ma proprio mai, preso atto della realtà. Ed allora, simulazione ha un altro senso: realtà virtuale che si basa sui fantasmi – simulatio et simulacra – di cose passate, la cui esistenza fantasmatica viene prolungata in modo artificiale (peraltro in antico, i “simulacri” erano le immagini degli dèi, sotto forma di statue).

Sono immagini che si agitano e si riferiscono ad altre immagini, l’ “origine” non c’è più, peraltro in perfetta conclusione della modernità, che nasce dal rifiuto dell’ origine del potere, del potere politico, attenzione: la modernità nasce dalla politica, come crisi del modello medioevale, solo dopo, pian piano, si estende ad altri àmbiti, soprattutto con l’emergere della borghesie, sempre più forti.

Ma la borghesia non sarebbe potuta emergere se non vi fosse stato uno spazio: senza spazio – “liberatosi”[1] – non avrebbe potuto occuparlo.

In una parola: le cose sono andate all’opposto di come la pensano le interpretazioni più note.

La “realtà” moderna, essendo virtuale, perdura solo come simulacro. Un tal esito non è casuale, in realtà. Non solo, un esito siffatto – della vicenda moderna – porta, fatalmente, alla “Grande Parodia”, perché il “falso” (essenziale, non accidentale) fa parte in maniera strutturale del sistema di oggi. Quest’ultimo, poi, essendo instabile, deve portare ad altro, sennò collassa.

Non conosco persona che, vedendo un’immagine sul suo cellulare, si renda conto che è una simulazione – un’immagine, costruita “artatamente” (ad “arte”, ma in greco antico “tecnica”[2] ed “arte” nel senso di artigianato, erano designati con la stessa parola: “tèchne”) –, non un’immagine “vera” (fermo restando che un’immagine, secondo alcuni, è già una realtà staccata dall’oggetto che “rappresenta”, vero: ma è ancora “referentesi” all’oggetto, quando diventa la simulazione della rappresentazione la cosa prende una svolta notevole; non solo, ma la simulazione della rappresentazione simula se stessa virtualmente in un numero indefinito di copie, che non chiamerei più riproduzione bensì “replicazioni”, eh sì, come i virus …).

 

 

 

 

Ci sarebbe molto altro da dire, ma ci si ferma qui, lo scopo essendo soltanto quello di chiarire che il fatto che i simulacri siano “falsi” non vuol dire ch’essi “non hanno effetto”; i simulacri non son “falsi” in tal senso: sono falsi in tutt’altro senso, dunque. Un sistema “falso”, in tal senso, si diffonde come “vero”, ma il punto si è che tal sistema non è in grado di poter distinguere un comportamento simulato da uno “vero”, come s’è detto: reagisce sempre allo stesso modo …[3]

 

 

 

 

 

 

Andrea A. Ianniello

 

 

 




[1] In realtà, fu collasso interno ai modelli medioevali. Perché, per come, sarebbe interessantissimo dibatterlo, in particolare in questo blog, ma ci porterebbe troppo lontano.

[2] Potenza della tecnica? O grande impotenza, pur nella potenza? Certo, la tecnica applicata alla medicina può produrti un vaccino in un anno solo, può combattere il virus – il Sars-Cov2 che produce il Covid-19 – ma non può arrestarne la circolazione, né controllarlo, cosa che puoi fare con dei mezzi “medioevali” (quarantena eccetera) con tutt’al più mezzi moderni, la mascherina della fine del XIX e dell’inizio del XX.

Può dunque combattere il virus, ma non arrestarne la circolazione. Non è un segno fra i più preclari?? Domanda retorica …

Quindi grande potenza, sì, il vaccino funziona, punto, non c’è dubbio, ma potenza nell’ **impotenza**, una potenza – quella della tecnica – che non aiuta le società, ed anche questo è molto interessante da notarsi, ma sa solo aiutare se stessa nel replicarsi. Il problema della tecnica sono i suoi fini, la sua natura, la sua sostanza, ciò ch’essa **è**, non i suoi mezzi. 

[3] Di tal tema s’è detto in un post precedente, cf.

https://associazione-federicoii.blogspot.com/2021/01/il-digitale-in-realta-e-lo-scacco-alla.html, 

la citazione di cui alla nota n°1 a pie’ pag., che vuol dire che la citazione sta nel corpo del post e la sua “origine” – la sua fonte – sta nella nota n°1 a pie’ pag.

Come mai la modernità è ossessionata dalla “fonte” quando rifiuta l’origine? Perché non conosce la sua “origine” – ch’è una negazione – ed dunque deve “compensare” nel senso della “supercompensazione” … Di qui la “fixe” della “fonte”, come se potesse davvero esistere il “documentochetuttospiega” … La fonte non è l’origine, l’origine non è mai in un appoggio meramente “materiale”, mi scuso per l’uso di tale parole, ormai al limite dell’osceno. Dunque la fonte vorrebbe compensare il fatto che si rifiuta l’origine, l’interrogativo su di essa, molto ingombrante, fastidioso e che lascia poche opportunità di soluzione. Ma, purtroppo, l’esistenza, anche certissima, di una fonte non compensa l’assenza d’origine. Questo è quanto.