giovedì 24 agosto 2017

Da “Il Fuoco greco”, di L. Malerba, “ET ALIUM”











“Il ‘fuoco greco’ era l’arma segreta dell’Impero Bizantino. Molto prima dell’invenzione della polvere da sparo, il ‘fuoco greco’ permetteva alle navi bizantine di lanciare per mezzo di lunghi tubi a sifone delle micidiali palle infuocate contro le navi nemiche. Questi proiettili di fuoco non si spegnevano a contatto con l’acqua e perciò vennero usati quasi esclusivamente nelle battaglie di mare. Il ‘fuoco greco’, inventato nel 672 dopo Cristo da un ingegnere siriaco di nome Callimaco, permise alla flotta bizantina di conquistare e conservare il dominio del Mediterraneo per più di cinque secoli, dal 673 quando venne usato per la prima volta dall’Imperatore Costantino  Pogonato contro la flotta araba, fino al 1221 quando i Mussulmani riuscirono a impossessarsi del segreto di fabbricazione e lo usarono a loro volta contro le navi dei Cristiani. Per cinque secoli si scatenarono intorno a questo segreto le spie dei popoli nemici di Bisanzio, ma anche quelle degli alleati. La formula venne custodita gelosamente, protetta da disposizioni severissime, per cui anche i cronisti di quei secoli, ad eccezione di Anna Comnena nella Alessiade, fanno solo rari e brevi cenni a quest’arma micidiale. Forse mai nella storia un segreto militare venne conservato così a lungo come quello del ‘fuoco greco’ la cui composizione, nota allora solo all’Imperatore e alle poche persone addette alla fabbricazione, non è stata tramandata ai posteri”[1].


“Il nuovo Imperatore sposò Teodora, figlia di Costantino VII e zia dei giovani Basilio e Costantino Porfirogeniti, di cui divenne il tutore. Uno dei primi gesti di Zimisce Imperatore, in cambio della solenne incoronazione nella Cattedrale di Santa Sofia, fu la revoca delle leggi che limitavano le proprietà monastiche. Zimisce concluse alcune campagne di guerra vittoriose. Combatté e sconfisse l’esercito bulgaro di Svyatoslav in sanguinose battaglie di terra e lo annientò definitivamente sulle rive del fiume Danubio usando, come aveva visto fare da Niceforo Foca, i micidiali proiettili del fuoco greco.
Combatté vittoriosamente anche in Siria e Terrasanta vincendo i Saraceni e stabilendo in vaste regioni la sovranità dei Bizantini. Nonostante le frequenti aggressioni dei barbari riuscì a conservare, e in qualche regione a estendere, i confini dell’Impero senza ricorrere a nuove imposte, ma piuttosto cercando di favorire i commerci e l’alleanza con Veneziani e Genovesi. Ristabilì buoni rapporti con l’Occidente concedendo come sposa a Ottone II [Sassonia 955 ca. – Roma 953] una propria cugina, bionda di capelli e con gli occhi eri come i suoi. Fu insomma, dopo essere salito al Trono con la frode e la violenza, un forte e abile Imperatore”[2]. La qual cosa – questa “duplicità” – non era per nulla infrequente nella storia bizantina.


“Di Zimisce Imperatore ci sono state tramandate le vittoriose imprese militari, le leggi contro le dogane commerciali e gli atti diplomatici che sancivano la pacificazione con l’Occidente, ma solo poche parole sono rimaste di lui nella memoria dei posteri.
A chi gli proponeva di ripristinare i banchetti filosofici rispose che non basta pensare, bisogna anche respirare.
E aggiunse che sono pericolosi i pensatori che nella vita non hanno respirato abbastanza.
Il suo primo e forse unico discorso Zimisce volle tenerlo, qualche settimana dopo l’incoronazione, nella Sala del Triclinio di fronte a tutte le Alte Gerarchie dell’Impero. Il Preposto dei Sacri Palazzi avrebbe preferito che la cerimonia avvenisse secondo la tradizione nella Sala del Trono, ma aveva accolto senza scomporsi la scelta di Zimisce e con ogni cura aveva predisposto tutto l’apparato inaugurale nella Sala del Triclinio.
Gli invitati parteciparono all’evento con l’emozione che unisce i sopravvissuti a una bufera. Nella Sala erano convenute, insieme alle Autorità della Corte, anche le Dame del Gineceo che avevano approfittato di questa occasione per sfoggiare le loro sete, i loro gioielli, le loro fantastiche acconciature. I rappresentanti di tutti gli Ordini avevano occupato i seggi assegnati dal Preposto secondo un rigoroso ordine gerarchico e i Domestici, in funzione di Guardia d’Onore, si erano schierati dotto il palco dal quale Zimisce avrebbe tenuto il discorso che inaugurava ufficialmente il suo Governo.
Finalmente il suono fragoroso della simandra aveva annunciato l’arrivo dell’Imperatore e i Silenziari avevano agitato le loro verghe d’oro per imporre il silenzio nella Sala. Sennonché una mano ignota aveva strappato i sottili fili di seta che ne avevano corretto l’acustica al tempo di Costantino VII. Zimisce pronunciò il suo discorso senza dar segni di turbamento nonostante la confusione delle parole che rimbalzavano contro le colonne e le pareti di marmo e si diffondevano nella Sala trasformate in suoni disumani. Accompagnò anzi con qualche gesto vigoroso del braccio i momenti culminanti di quel vano eloquio corrotto dagli echi e dalle risonanze. Gli uomini della Corte e le Dame del Gineceo, dopo qualche momento di sconcerto, seguirono il discorso con viva attenzione e in reverente silenzio, ma senza capire nulla”[3].


Andrea A. Ianniello






[1] L. Malerba, Il Fuoco greco, Mondadori Editore, Milano 1990, p. 3, corsivo in originale. Si vede come questo libro appena citato è di molti anni fa: usa troppo spesso le maiuscole … Di seguito, scrive “senonché” invece di “sennonché”, con due “n”, come si fa oggi …
[2] Ivi, pp. 251-252.
[3] Ivi, pp. 252-253, corsivi miei. Il potere – un tempo – era anche silenzio, l’aura di “sacertà”che ammantava la “sovranità”. Sul potere, cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/05/shi-il-poterecircostanze-dallintro-di.html. Sulla sovranità “occidentale”, cf. E. H. Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi editore, Torino 2012; e J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi Edizioni, Milano 1997 (comprata usata pochi giorni fa, con tanto di sottolineature …). Tra l’altro, vi è un passo su Lenin: “Esiste un libro di Hugo Fischer, nato come monografia su Lenin, che nel Biedermeier [movimento romantico della prima metà del XIX secolo, poi, di seguito, inteso in senso deteriore, come un romanticismo delle svenevolezze, di sentimentalismi ed idilli, un’estetica piccolo borghese insomma; nota mia] del secondo dopoguerra ha preso il titolo di Wer sind die Herren der Welt [Chi sono i signori del mondo?]”, ivi, p. 154, corsivi in originale. Due libro diversissimi, convergenti, però, sul tema della sovranità, che sta al centro di un dialogo su questo blog, cf.
Il primo autore, Kantorowicz, interessa direttamente questo blog, in quanto fu autore di una celebrata, ma talvolta mal intesa, famosa biografia di Federico II, cf. E. H. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Garzanti Editore, Milano 1981.
Il discorso su Taubes ci porterebbe lontano, basti dire, però, che, se alcune sue osservazioni son giuste (per es., quando comprende bene che Paolo si opponeva a Mosè o come interpreta il Napoleone di Hegel), altre del tutto errate o cose ben note (come il fatto che Paolo si opponesse al culto imperiale, non però all’ “imperatore” ed aver pensato quest’errore porta Taubes a commettere altri). Quel che conta – spazio per approfondimenti eventuali ce lo lasciamo avanti, se del caso – è che la sua posizione si poneva “dialetticamente” di fronte a quella di C. Schmitt e, dunque, della teologia politica”. Di quest’ultima, Taubes accettava l’idea che l’uomo “La posizione di Schmitt […], legata anzitutto al concetto di teologia politica, corrisponde al tipo della ‘rappresentazione’. A suo giudizio non vi è alcuna categoria ‘immanente’ [la democrazia, la “volontà” popolare, il “partito”, ecc., ecc.; nota mia] in grado di legittimare un qualsiasi ordinamento politico. Su questo Schmitt e Taubes (nonché il Paolo presentatoci da Tubes) sembrano d’accordo. Ma mentre Taubes (e Paolo) giungono alla conclusione che non vi è alcun ordinamento politico rappresentativo legittimo (solo legale) – ecco il punto di vista della ‘teologia politica negativa’ [quella di Paolo, secondo Taubes; nota mia] –, Schmitt non abbandona il postulato di un ordinamento politico rappresentativo legittimato dalla sovranità di Dio che esso rende visibile. Solo la verità, rivelatasi come volontà di Dio, è in grado di fondare che pretende di essere rispettata [e il cristiano Imperium questo è, nota mia]. E’ dunque possibile identificare il concetto di teologia politica con il postulato di questa rappresentazione, come ha fatto Eric Peterson nel famoso saggio”, Postfazione di W.-D. Hartwich, A. e J. Assmann in J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit. p. 229, corsivi miei. Il discorso sarebbe davvero lungo, e, al momento, non vedo alcuna istituzione sulla Terra – oggi, realisticamente – che possa consentire una discussione, vera, su questi tempi, peraltro decisivi. E spieghiamo perché siano decisivi: quel che Taubes non può spiegare è Costantino, e cioè che cosa cambia – e può farlo perché già presente in nuce in Paolo – dalla “teologia politica negativa” a quella “positiva” esplicitata da Schmitt. Questo è rilevante, perché oggi, venendo da una lunga fase di “secolarizzazione” di quella teologia politica – della quale Federico II è stato un grande rappresentante, ed ecco spiegato perché ho citato il libro di Kantorowicz, non certo per caso –, noi siamo giunti allo smembramento della sovranità nell’attuale crisi esiziale della rappresentanza, anche nella sua versione “secolarizzata”. Non stupisce, dunque, che questi temi oggi non abbiano alcuna cittadinanza – mo’ ce vo’ ‘sta parola … – in alcuna istituzione sulla faccia della Terra, oggi: se mai segno dell’ “esizialità” della crisi attuale si volesse cercare, questo sarebbe il più grande. Questo perché attesta quella che chiamo crisi “al buio”, senza visione, cioè totale: acido sulla carne viva, senza mediazioni di sorta. Ma pure senza consapevolezza, però.
Per fare solo un’ultima osservazione finale, su temi che ci porterebbero molto lontano, troppo lontano, non è nemmeno un caso che Schmitt sia stato nazista, e cioè un tentativo – del tutto distorto, è vero –  di “rivendicare” la sovranità, in un mondo in cui essa stava lentamente svanendo (era molto tempo fa, oggi essa sovranità è quasi svanita, in eclissi come l’ultima eclissi di pochi giorni fa, significativamente negli usa). Ora però, in relazione al nazismo, Canetti, nell’ultimo libro di quest’anno – citato in un post precedente – non riesce a comprendere la differenza tra i massacri indiscriminati dell’inizio della campagna all’est e quelli “scientifici”dell’Olocausto: questi ultimi non si spiegano con la sua teoria del “cacciatore” e del “sopravvissuto” (in Massa e potere, teoria cui accenna nel suo ultimo libro di citazioni e commenti). Significativo, a tal proposito, che il nome Hitler, pur presente in almeno un passo, cf. E, Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi Edizioni, Milano 2017, p. 299, se vai a vedere nell’Indice dei nomi per le lettera “H”, non lo trovi, cf. ivi, p. 399. Esempio classico di “rimozione”, ma pure d’ incomprensione dell’Olocausto “atto sacrificale diabolico” e non mero “rilascio” della “libidine di uccidere” contro cui tanto si scaglia Canetti, e che, senza dubbio, esiste per davvero nell’uomo, ma che non può spiegare l’Olocausto. Ma in tale incomprensione Canetti non è affatto solo, anzi, è in grandissima compagnia, e non da ieri, già nell’epoca della Seconda Guerra Mondiale. Sia detto en passant, uno solo capì davvero chi fosse Hitler: Churchill, e poté farlo perché aveva accesso ad informazioni “classificate” o particolari, parte delle quali è stata resa pubblica in seguito. Forse Canetti avrebbe fatto meglio a studiarsi Taubes, autore non presente fra quelli da lui citati nel libro appena riportato, o anche Schmitt, che però avrebbe probabilmente odiato …
Tornando a noi, il “nodo” della sovranità e della sua eclissi rimane intoccato nel mondo contemporaneo, e questo è grave, perché non ci consente di entrare in medias res, e ci fa continuamente girare in tondo, in pazzi giri inconcludenti. Ma tant’è, questa è la scena contemporanea. 







martedì 22 agosto 2017

Per chi volesse comprendere le differenze, consiglierei …







A chi volesse davvero comprendere le differenze fra Evola e Guénon, consiglio: R. Guénon, Lettere a Julius Evola (1930-1950), SeaR Edizioni, Borzano (RE) 1996. Il discorso di commento su queste differenze, ci porterebbe troppo lontano.

Stupefacente l’incomprensione di R. del Ponte, curatore ed autore dell’Introduzione, la cui ironia spesso è davvero fuori luogo …

Sono quel genere di critiche che provengono da una “destra” old style che non ha più ragion d’essere, per quanti successi esteriori possa essa oggi mietere.






Andrea A. Ianniello











Federico II – il “De Arte Venandi cum Avibus” –, appunti sparsi









“Il quarto [angelo] versò la sua patera sul sole: gli fu dato di ustionare gli uomini con vampa di fuoco.
Gli uomini ne furono terribilmente ustionati e infamarono il nome di Dio che ha il potere su queste piaghe, e non si ravvidero per dargli gloria”.
Ap., 16, 8-9[1].


Ecco pena dogliosa
che nel cor mi abbonda,
e sparge per li membri
sì che a ciascun ne vien soverchia parte:

Non ho giorno di posa
come nel mare l’onda.
Core, che non ti smembri?
Esci di pena e dal corpo ti sparte.
Enzio di Hohenstaufen[2].









“In effetti, Federico – pur nel corso dell’aspra lotta che, dopo la scomunica del 1239, privato ormai della preziosa assistenza d’Ermanno di Salza (morto in quell’anno), dovette condurre contro il papato (nel quale, a Gregorio IX. Morto nel 1241, era succeduto nel 1243 Innocenzo IV, dal 1244 per cinque anni arroccato fuori d’Italia, a Lione) e contro le città lombarde […] – non trascurò mai la passione per la caccia, né venne mai meno al gusto per gli svaghi di tono orientaleggiante. Continuava a girare con la sua carovana d’animali esotici: segnalata nel 1235 in Germania, nel 1236 a Parma, nel 1238 a Padova, nel 1245 a Cremona […]. Aveva un falconiere arabo, Moamin, e un ciambellano musulmano, Giovanni Mauro. Continuava a servirsi dei soldati arabi forniti da Lucera, e aveva al suo seguito un corpo di ballo (altri lo definisce un harem) di danzatrici e musicanti saracene, che si produssero, secondo l’ammirata testimonianza del cronista inglese Matteo di Parigi, nella festa organizzata al palazzo di Foggia nel 1241, in occasione della visita di Riccardo di Cornovaglia (fratello del re Enrico III d’Inghilterra e dell’imperatrice Isabella, terza moglie di Federico […]). Al Concilio di Lione (1245) sarà accusato, fra l’altro, di vita sensuale e corrotta, alla maniera degl’infedeli; e si sussurrava che il figlio naturale Federico d’Antiochia (vicario imperiale in Toscana nel 1246) fosse nato da una sua relazione amorosa con la sorella di al-Kâmil […]. Ma soprattutto non trascurava, anzi intensificava, quello ch’è forse l’aspetto più insolito per un sovrano medievale e il più qualificante della sua personalità: l’interesse per la ricerca scientifica, cui furono chiamati a collaborare dotti arabi ed ebrei. Nel 1231 era arrivato alla sua corte, per coadiuvare come segretario e traduttore Michele Scoto, l’ebreo provenzale Jacob ben Anatoli.
Nel 1234 il sultano di Damasco gl’inviò, graditissimo dono, un planetario d’argento. Nel 1235 morì Michele Scoto, il cui posto fu preso l’anno dopo da maestro Teodoro d’Antiochia, un greco di Siria,  arrivato forse dall’Egitto o da Baghdâd, il quale, oltre a curare la corrispondenza araba  dell’imperatore, compilò per lui un trattato d’igiene, desunto dallo pseudoaristotelico Secretum secretorum, e tradusse in latino, durante l’assedio di Faenza, un trattato di falconeria redatto in arabo da Moamin (Liber magistri Moamin falconerii). Suo collaboratore fu un maestro Domenico, venuto forse dalla Spagna, citato come matematico da Leonardo Fibonacci. Da questi interessi scaturisce quella serie di quesiti (le cosiddette Quaestiones Sicilianae), che Federico sottopose, fra il 1237 e il 1242, a diversi dotti del mondo arabo. Ne scaturisce altresì, ed è il frutto più personale, quel trattato De arte venandi cum avibus cui egli attese a lungo (utilizzando il precedente scritto di Moamin e altre fonti pazientemente raccolte, ma soprattutto la sua diretta esperienza, contrapposta persino all’autorità d’Aristotele). L’originale dell’opera, preziosamente illustrato, andò perduto nel 1248, quando una sortita dei Parmigiani, mentre Federico era a caccia, distrusse il campo degli assedianti. La più efficace sintesi dello spirito autenticamente scientifico da cui Federico era animato è la dichiarazione da lui inserita nel prologo di questo trattato: ‘Intentio vero nostra est manifestare in hoc libro … ea quae sunt, sicut sunt’”[3].


Nella Biblioteca Nazionale di Napoli vi si ritrova una copia del De Arte, si tratta di una vecchia editio, pubblicata in Firenze, con foto d’epoca.
Alcuni brevi passi son forse interessanti da riportarsi:
“Sebbene il falco segua i suoi istinti, imparerà presto ad accorrere al richiamo del padrone”[4]. “Come già si è detto, il falconiere deve addestrare i suoi falchi a cacciare soltanto gli uccelli che vuole lui e nel modo che a lui piace. Questo non è un compito facile poiché è in netto contrasto con l’inclinazione naturale del rapace”[5].






Andrea A. Ianniello

















[1] In Apocalisse di Giovanni, a cura di D. Tripaldi, Carocci editore, Roma 2012, p. 75. Dopo questi versetti, poco dopo, si ha il “passaggio dell’Eufrate” da parte dei “re dell’Oriente”: “Il sesto angelo versò la sua patera sul gran fiume Eufrate: il suo corso si seccò, di modo che fosse libera la via per i re che vengono dall’Oriente”, Ap., 16, 12, in ivi, p. 77.
[2] E. Horst, Federico II di Svevia, Rizzoli Editore, Milano 1981, p. 5, corsivi e maiuscoletto in originale, riportata nel bel suo italiano medioevale. La poesia tratta della nostalgia per la terra natia da cui si è lontani, non è poesia d’amore dunque.
“Al novero dei poeti di corte appartenevano tre membri della famiglia comitale degli Aquino, con la quale Federico era imparentato, e che contava tra i suoi più fedeli seguaci”, ivi, p. 207, corsivi miei. Interessante.
[3] A. Roncaglia, Le corti medievali in Letteratura italiana vol. 1 Il letterato e le istituzioni, Einaudi editore, Torino 1982, pp. 146-147. In nota la traduzione: “La nostra intenzione è di illustrare in questo libro … le cose come sono, così come sono”, ibidem.
[4] Federico II, Arte della falconeria, Olimpia, Firenze 1968, p. 455. “Il volo dei falchi è molto vario”, ivi, p. 458.
[5] Ivi, p. 13. Qui terminiamo, in questa nota finale, con un passo di Horst: “Oltre all’apporto naturalistico e alla stupefacente quantità di dati originali, il trattato di Federico contiene anche alcune personali opinioni sull’uomo e sul suo rapporto col mondo della natura [ed ecco perché c’interessa qui, nota mia]. Il falconiere ideale corrisponde ‘al ritratto dell’uomo completo, quale l’Imperatore lo immaginava’: un uomo dedito solo all’arte venatoria, alla quale subordina la fame, la sete, persino il sonno. Tralasciando le indispensabili cognizioni pratiche, si esigeva che possedesse una perfetta padronanza di sé, solida intelligenza, acuta memoria, coraggio e tenacia, tutte qualità capace di farne un elemento adatto anche a superiori servizi di Stato e lo dimostra appunto il fatto che molti grandi funzionari imperiali si esercitarono in gioventù al duro tirocini della falconeria. Per il falconiere – scrive Federico – ‘ogni cosa deve nascere dall’amore che egli porterà alla sua arte’. Un’arte, così spesso egli la definisce, intendendo con ciò la necessità e la forza di domare, con la sola superiorità dello spirito, gli uccelli rapaci, gli animali più liberi e mobili del creato. E’ appunto questo presupposto che rende l’arte di cacciare con gli uccelli ‘nobilior et dignior’, più nobile e degna di altri metodi di caccia. Non con la forza, ma solo con la sensibilità e l’ingegno l’uomo può ammaestrare i rapace al punto di falco volare libero in cerca di preda per poi liberamente tornare a posarsi sulla sua mano. […] E’ dunque un trionfo dello spirito dell’uomo riuscire a trasformare la inclinazione naturale del rapace conferendogliene una nuova; ed è questa la ragione per la quale la caccia col falco acquista un significato che, secondo Federico, trascende il divertimento e la maestria venatoria, per assurgere ad altezza d’arte”, E. Horst, Federico II di Svevia, cit., pp. 200-201, corsivi miei. Insomma per Federico II il falconiere è un modello possibile (per lui necessario) del funzionario di alto livello e dello statista. Questa parola non può, al giorno d’oggi, essere applicata ad alcun politico vivente. Vi sono certo dei “politici” o, più spesso e senz’alcun dubbio, dei meri “politicanti”, mai però degli statisti. Lo statista, come il falconiere, sottopone la sua fame, la sua sete, i suoi interessi, insomma, al dovere della costruzione dello stato e al suo buon funzionamento. Ora, se guardiamo i nostri contemporanei, è impossibile non farsi “panze” di risate a tal proposito …