domenica 26 novembre 2017

Frasi sparse dal “Dopo Nietzsche”, di G. Colli







“Quando si vede che sul frontespizio di alcune edizioni cinquecentesche di Niccolò Machiavelli, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, il nome dell’autore è cancellato da mano ignota, con un frego di penna, per dispregio, di quell’autore che aveva scritto sulla ‘debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo’, viene in mente Friedrich Nietzsche, e quanto devono attendersi dalla giustizia dei posteri coloro che parlano al loro presente con vera durezza[1].

“Esser giusti verso Nietzsche significa misurarlo con quella che lui stesso ha proclamato come ‘giustizia’. La medesima spietata severità con cui egli ha guardato al suo passato e al suo presente va rivolta contro di lui. Le sue debolezze devono essere scoperte […] senza indulgenza, perché così lui ha fatto con gli altri. Quello che non è riuscito a vedere, non dobbiamo perdonarglielo, ciò significa aver imparato da lui. Molti mettono in mostra un atteggiamento opposto nei riguardi di Nietzsche, indulgenti e comprensivi, preoccupati di giustificarlo in nome dei problemi oggi di moda, desiderosi di appropriarselo per i fini più svariati. Ma la prospettiva severa afferma il contrario, che Nietzsche era troppo moderno. Esser giusti verso di lui non significa però abbaiargli contro come botoli stizzosi e imbelli”[2].

“Quanto Nietzsche sia stato commediante già in cuor suo, come aspirazione, lo si vede dai suoi quaderni”[3].

Scegliere per tempo i propri maestri (il fiuto dev’essere innato) – purché siano pochi [ecco perché oggi si produce troppo ed insieme male: troppe fonti = scarsi risultati; nota mia]. Stringerli, spremerli, sviscerarli, tormentarli, smontarli, sminuzzarli e rimetterli insieme [solo e soltanto  chi questo farà, un’opera davvero conoscerà; nota mia], senza subire la lusinga della polimatia.
Minatore fedele alla sua caverna è la faccia oscura del filosofo.
Schopenhauer ha conosciuto questa ricetta: Nietzsche no,
ma ha saputo cavare Schopenhauer[4].

“Chi vuole guardare dall’alto, non può sfuggire all’incontro con ‘i tiranni dello spirito’ [i filosofi, così spesso rampognati da Nietzsche, che, tuttavia, è divenuto, a suo modo, anch’egli un “tiranno dello spirito”; nota mia]. Bisogna soffrire la noia [che J. Cage considerava liberatoria, nota mia], e accoppiare l’astuzia a una testarda pazienza. Da quell’incontro nasce una discussione, una gara attraverso lunghi anni. Nietzsche si rifiutò, e il suo giudizio rimase oscillante, e capriccioso. Gli mancava la sicurezza, la lucidità teoretica[5].

“La scelta della coppia Apollo e Dioniso è decisiva, ma la loro contrapposizione è fuorviante[6].

“Chi guarda alla ragione greca, ne spia l’articolarsi, si spinge alle sue sorgenti, ecco che scopre nello sfondo, come una matrice, l’estasi misterica. Ma il passaggio da questa a quella rimane oscuro; apparentemente un salto qualitativo impedisce i collegamenti, offusca la comprensione. Eppure il connettivo esiste, anche se va attinto da una tradizione evanescente. Nel sesto, settimo secolo, forse prima compare, nell’ambito della visione mantica, delfica del mondo, l’ enigma. Tracce preziose della sua rilevanza, della sua temibile serietà, del rischio mortale per colui che è sottoposto alla prova, si trovano nella poesia arcaica, nella sfera dei Sette Sapienti. In breve, l’ enigma indica l’ origine della ragione[7].




“Demolire le pretese sistematiche, dogmatiche, ottimistiche della ragione, spezzare la superbia della scienza: tutto questo va bene – ed è possibile andare al di là di Nietzsche su questa strada – ma è soltanto la premessa negativa. Rimangono le domande più importanti: com’è potuto accadere tutto ciò, quale sarebbe per contro un uso sano della ragione, e quale rilievo acquista una ragione autentica  [si precisa quivi che, se il primo punto di qui sopra è (quasi) acquisito, le “domande più importanti” non han trovato sin ora davvero alcuna risposta credibile, per questo la crescente consapevolezza della debolezza della ragione sistematica e della distruttività della scienza-tecnica moderne non ha spostato di un millimetro il destino di questo mondo moderno in crisi irreversibile; nota mia]? La risposta storica non va cercata nella direzione di Nietzsche, sulle tracce di un’origine morale [e su ed in questo punto, preciso, cadon tutti, dai “critici” della modernità, ai “tradizionalisti”, ai “protestatori” d’ogni forma e fatta, ai “complott®isti”: No, Ladies and Gentlemen, non mi convincerete mai, la radice della modernità non ha niente a che spartire con la morale, con l’etica e cose del genere, per questo tutte le critiche fattele, basatesi su questo aspetto, sono fallimentari, tutte; nota mia]. E’ la genesi teoretica che va indagata [qui qualche intuizione di Guénon e di Schuon sposa bene, anche se, per Schuon, viziata da un’atmosfera di pensiero desueta e “tradizionalista”: capita spesso, infatti, che dei “minori” vedano meglio, lo notava lo stesso Colli; nota mia]: tutto ciò è stato possibile per una deviazione dell’impulso conoscitivo, intervenuta in Grecia [stessa intuizione di Guénon, da angolazioni diverse; nota mia]. Quando si prescinda da questo incidente storico, la ragione riappare come elemento cosmologico, costitutivo del mondo, come una sua estrema configurazione plastica, come rispecchiamento astratto, più avanzato, della ragione della vita, e anello finale della vita stessa. I Greci più antichi erano giunti a un gran risultato, alla scoperta del logos [corsivo in originale] autentico. Perciò le ciarle contro la ragione, da parte di chi non ne ha divinato il nascimento, di chi non l’ha seguita nei suoi tortuosi sentieri, non ha scoperto che da essa viene modellata la labile corposità e viene annodato l’ordine apparente del mondo sensibile che ci circonda, vanno respinte. Queste ciance dimostrano una esplorazione insufficiente della vita, e spesso rammentano il discorso di quella volpe che non poteva raggiungere l’uva”[8].

“Una fantasia mediocre può già afferrare quanto sconfinato, inesauribile sia il pulsare della vita intorno a noi, quanto esiguo, ristretto […] sia lo spessore reale di cui un singolo è in grado di appropriarsi, di partecipare, quanto poco, di questa vita, gli sia possibile portare dentro di sé, sgomitolare di fronte a sé, manifestare a sé e agli altri. C’è uno scompenso incolmabile tra la veemenza del vivere, che l’uomo equivoca come possesso del mondo, tra l’ ansia di totalità, che si accompagna ad ogni tumultuoso intreccio d’esperienza, e la circoscritta trama dell’esistere in cui alla fine egli si ritrova invischiato. A testimoniare quell’ illusione di possesso, tuttavia, l’uomo lascia dietro di sé, fuori di sé, delle tracce, delle espressioni permanenti. Ogni espressione è ricerca di totalità[9].

“Non c’è sguardo di letizia sull’esistenza sinché si ritiene ce la morte sia qualcosa di reale, di metafisico addirittura (o si considera il male come oggetto in sé). L’esperienza contemporanea contrappone il principio della via al principio della morte. Ma per la sapienza antica la morte è soltanto l’ombra lunga e vacillante proiettata dalla vita, esprime la finitezza che sta nel cuore dell’immediato. Ciò significa l’allusione di Eraclito, che Dioniso e Ade sono lo stesso dio”[10].

“Il corso dell’astrazione si configura come un impulso inarrestabile e cosmico, che non riguarda soltanto il rimuginare interiore e mentale, ma forma gli oggetti intorno a noi e forma noi come oggetti. L’ accumularsi, l’estendersi, il ramificarsi degli enti e dei nessi astratti è qualcosa d’ irreversibile, che grava sulle generazioni umane, le estenua. La rete dell’astrazione invischia tutto, costituisce tutto, obnubilando, infiochendo, offuscando, non c’è modo di liberarsene. Siamo nel paese dei Cimmerii, dove non giunge il sole, accanto alla terra dei morti [secondo alcune vedute mitologiche “classiche”, infatti, la “terra dei Cimmeri” sarebbe vicino all’Averno, identificato, non casualmente, con delle zone dell’attuale Campania; nota mia]. Avvolti nella tenebra [artificiale], rammemoriamo soltanto e crediamo che un esangue, mediato ricordo sia vita [con la tecnica che riproduce le immagini, dove la riproduzione ormai ha preso il posto della cosa; nota mia]. Si chiama reale, esistente, qualcosa che in sé è apparenza: tal è l’uomo [aspetto “ontologico” che oggi ha un effetto sociale, storico, tuttavia; nota mia]. Noi, ultimi uomini, i più recenti, i più astratti, ormai non esistiamo neppure, siamo fantasmi. Si guardino a confronto gli uomini del Rinascimento, sui quali era più fluttuante il tessuto dell’astrazione”[11]. E poiché il “capitalismo” è un sistema di equivalenze astratte – sta qui l’intuizione di Marx che il suo cocciuto materialismo gl’impedì sempre di afferrar davvero –, esso è un sistema d’astrazioni, un reticolo che fiacca ed estenua, ecco perché tutti oggi son senza energie. Tu non compri merci – l’ho detto altrove –, tu compri relazioni, portati astratti resi concreti dalla tecnica che, a sua volta, è il portato maligno della ragione – distruttiva per natura, come dimostrò Colli illo tempore –, reso concreto, apparentemente costruttore, ma, in realtà, distruttore per natura. Ma distruttore in modo “mediato”, mediante le parole, a distanza, secondo la natura di Apollo, che è lo stesso dell’ Apollyon nome citato nell’ Apocalisse di Giovanni, guarda caso …: ed ecco che cos’è la “Grande Prostituta” di Babylonia, quel System che è il “distillato” di tutto ciò; e noi dentro questo mare. E così, che l’applicazione massiva della tecnica moderna distrugga la natura non ha cause “morali”, ma è strutturalmente connaturato alla sua natura profonda. Questo pensiero è di enorme radicalità sostanziale. Ed ha conseguenze gigantesche, che qui non si ha proprio alcun tempo di “tirare” – con l’arco, l’arco di Apollo: “Nella lingua greca l’attributo di Apollo, ‘arco’, ha lo stesso suono di ‘vita’. La violenza è la vita: l’annientamento è il risultato. Ma Apollo è la violenza che appare come bellezza. E’ ciò cui accenna un altro enigma di Eraclito. ‘Armonia contrastante come dell’arco e della lira’: son i due segni di Apollo!”[12] – quell’etrusco “rosso Apollo impetuoso e gagliardo che nella sala cristallina del museo scintillante, misterioso e impenetrabile seguita tuttora a sorridere[13]. Quel sorriso, davvero bellissimo, è il sorriso di chi guarda chi crede di costruire, ma in realtà distrugge, gli uomini-lupo di oggi: “Il lupo simboleggia, in ultima istanza, l’uomo. Come lui può essere luce o tenebre, artefice o distruttore, […] un santo, un eroe o un essere demoniaco [si pensi, tra l’altro, alla passione di Hitler per quest’animale, nota mia], presenta infatti queste due facce opposte. Da tutto ciò proviene, forse, questo fascino ed anche codesto rifiuto mortale dell’uomo moderno che, ipocrita, ha eliminato, o relegato ai margini, il lupo, testimone ed immagine imbarazzante, meglio compromettente. Questo non impedisce però che i lupi delle tenebre si moltiplichino, anzi, al contrario. Il mondo è contrassegnato dal simbolo del lupo, con le sue qualità e le sue cadute, con la sua grandezza e le sue bassezze. Sono gli uomini-lupo, oggi, a lacerare il mondo [letteralmente, da due o tre decenni; nota mia], poiché essi non sanno donare ma arraffano con violenza [letteralmente così, è cronaca, politica e non: nota mia], poiché essi non sanno servire ma si servono [idem]. Intanto un altro lupo, questa volta gigantesco, si sta preparando. Si approssima la sua ora [Hôra] all’orologio del mondo. Costui trasformerà l’oscurità in profonde tenebre e la favilla della luce in sole. E’ morto e vive, con tutto il vigore possibile di questa forza misteriosa, condanna e liberazione, crepuscolo ed aurora, fine ed inizio[14].
E in quel sorriso – di Apollo –, come ho già detto altrove, crolla il mondo, si ferma il mondo. Apollo “lycio”, ovvero Apollo (Apollyon) lupo
Il lupo, animale di Seth? Sì.
Seth rosso come l’Apollo etrusco? Sì. Ed altri “Sì”, che “Si” lascia alla sagacia eventuale dell’eventuale lettor … Sempre sia interessato e lo voglia … Cercate di riflettere, se potete, ché, se non potete, non posso farci proprio nulla.



Ma torniamo a Nietzsche, sulle cui debolezze s’è detto, e, con Colli, con lui occorre l’esser severi, proprio perché lui si voleva contro la modernità, proprio perché la sua grana di fondo era buona, ma troppo spesso, troppe volte intaccata da quelle illusioni che, pur in modo altalenante, comunque condannava.
Infatti: “Un modello aristocratico dello sguardo e del pensiero è stato proposto da Nietzsche. Per molti rispetti lui stesso non si regge a quell’altezza. Anzitutto per i suoi vizi moderni (mentre il modello allude a qualcosa di antico), come la smoderatezza, il pathos personale, l’acquiescenza saltuaria ai miti della storia, dell’azione, della scienza, ma in modo particolare per due caratteri rivelatori, che sconfessano la sua pretesa aristocratica, e lui non sembra avvedersene. Nietzsche si mette a nudo senza ritegno né vergogna di fronte a un pubblico indifferenziato, usa lo strumento letterario senza cautela, non ne avverte la volgarità. Non sente l’esigenza di essere ambiguo, di parlare in modo indiretto, con distacco. E in secondo luogo, troppo spesso prevalgono in lui istinti demolitori – anche nell’amicizia – o addirittura nichilistici”[15]. Si sa dell’interpretazione di Nietzsche come di un nichilista, ma questa, per Colli, è solo una fase, per di più saltuaria: dall’esame “filologicamente corretto” dell’opera di Nietzsche, Colli traeva l’idea della mutevolezza del suo giudizio, di Nietzsche, “su” ed “in” troppe cose o temi. Si veda la sua lunga polemica contro il Cristianesimo, che poi lui vedeva come la “negazione della vita” e quindi accomunava cose del tutto contrarie al Cristianesimo in questo capitolo della “negazione della vita”, questa ed altre polemiche lo rivelano, ed anche qui Colli vide giusto, come un “ingenuo credente nella ragione”[16], nonostante tutto. Nondimeno, se molte polemiche, ormai, hanno lasciato il tempo che han trovato, nel vedere la vita ferita come il “segnacolo” che identifica la modernità, Nietzsche vide – e vede – giusto.
“L’uomo moderno è spezzato, frammentario. Una vita integra gli è preclusa, qualunque sia il paese in cui vive, l’educazione che ha ricevuto, la classe sociale cui appartiene. Egli avverte come una fatalità [proprio così] questa frattura, irrimediabile, sin dal principio, se ha la capacità di avvertirla. L’individuo e la collettività si son allontanati con il trascorrere dei secoli, lungo cammini divergenti, e continuano perciò ad allontanarsi. Ciò che la collettività si attende dall’individuo, presuppone in lui, è sempre diverso da quello che egli scopre in se stesso come autentico, sorgivo. E chi è qualcosa di più di una formica, chi vuol lasciare dietro di sé una traccia durevole tra le apparenze, il suo strascico, di cometa o di lumaca, viene frantumato dal mondo umano, non dalla sua ostilità, ma semplicemente dalla sua estraneità, dalle sue regole, dai suoi comportamenti, dalle sue consuetudini. Nella collettività l’espressione dell’individuo non riecheggia, non rifulge più, è perduta l’armonia del mondo antico. Negli ultimi due secoli [e nel secolo XXI le cose son anche peggio, nota mia] l’apparizione d’una grande personalità si accompagna al quadro di un’esistenza tragica, quando non intervenga un temperamento accomodante [come nel caso di Goethe, criticato da Colli; nota mia] o vile a preservare l’individuo. […] Nietzsche è un esempio clamoroso, emblematico, di questo destino. Ed eccezionale è […] la lotta temeraria, disperata, di chi si sente destinato a soccombere, eppure tenta di mascherare la sua sorte. Nietzsche vuole una vita integra […]. In questo è ‘antico’: giudica degradante rivelare, esibire la vita spezzata come tale, e non permette a nessuno di pensare che l’esistenza di chi parla al mondo, come fa lui, nasconda un fallimento. Quando la dilacerazione nondimeno erompe, Nietzsche sa presentare l’effusione, la rottura degli argini, come menzogna poetica. Ma questa maschera della fermezza, la commedia dell’integrità, insostenibile, favorisce il compimento di ciò che vuole celare, la dissoluzione della persona. Cosa importa d’altronde se quell’integrità che lui proclamava non si è realizzata nell’uomo Nietzsche? E’ certo la curiosità pettegola dei nostri contemporanei, che si è gettata avidamente sulla disgregazione dell’uomo, non è riuscita a sminuire per nulla l’espressione di quest’individuo, ciò che lui mise fuori di sé, sopra di sé. Poiché, in un mondo che stritola l’individuo, Nietzsche è stato capace di farci vedere l’individuo non piegato dal mondo [e non è una cosa da poco, questo rimane ancor vivo e valido; nota mia]. Questo risultato lo raggiunse in un’epoca che si è compiaciuta – e il compiacimento oggi è anche più forte – di mostrare la vita spezzata, l’individuo fallito [se, negli anni Settanta del secolo scorso, era forte, nel secolo XXI è qualcosa di orribile, di spaventoso, il compiacimento nel mostrare la vita ferita, zoppa, dove carnefici compiono atti disumani e le vittime senza nome soffrono martirî senza salvezza, nell’amaro mare salato o in bare d’acciaio in metropoli spersonalizzanti; ma come si fa a non vedere che qui c’è qualcosa che odia l’uomo?, ma come si fa a non vedere che qui c’è “qualcuno” che è felice solo se umilia e disfa l’anima umana?; nota mia]. Se la persona di Nietzsche è stata infranta [nessun dubbio al riguardo], ciò non dimostra nulla contro di lui. In cambio egli ci ha lasciato un’immagine diversa dell’uomo, ed è con questa che dobbiamo misurarci noi”[17].
Appunto “è con questa che dobbiamo misurarci noi”, oggi; ed è questo punto che porta alla domanda vera oggi: questo sistema del mondo vi consente una vita integra? Perché, se ve lo permette, va bene così, ma se non ve lo consente? Allora, non merita di sussistere. Salvo si sia una formica.  



Andrea A. Ianniello






[1] G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi Edizioni, Milano 1979 (edizione originale del 1974!!), p. 17, corsivi miei.
[2] Ivi, pp. 196-197, corsivi miei.
[3] Ivi, p. 24. “Lo stile filosofico di Nietzsche è antitetico a quello di Kant. Il primo è il risultato di una faticosa elaborazione, come si può verificare dai quaderni di lavoro di Nietzsche. Lui parte spesso da schemi, esangui astrazioni: a questi cadaveri lo scrittore dà vita, con la magia della parola, attraverso ripetuti, pervicaci tentativi di rianimazione. Alla fine emerge l’espressione, come di primo getto, polita e ristretta. Kant invece traduce in carta il travagliante procedere stesso dell’intelletto”, ivi, p. 33.
[4] Ivi, p. 26, corsivi miei. “Il filosofo moderno è simile a un giocatore di scacchi che giochi una partita da solo, muovendo i pezzi dell’avversario in modo che sia utile (ma la cosa non deve trasparire) allo svolgimento del proprio gioco”, ivi, p. 137, corsivi miei.
[5] Ivi, p. 32, corsivi miei.
[6] Ivi, p. 39, corsivi miei.
[7] Ivi, p. 44, corsivi miei.
[8] Ivi, p. 31, corsivi miei, corsivo in originale indicato fra parentesi quadre.  
[9] Ivi, p. 50, corsivi miei.  
[10] Ivi, p. 51.  
[11] Ivi, pp. 56-57, corsivi miei.  
[12] Ivi, p. 45.  
[13] G. Lensi Orlandi, Il segreto degli etruschi, Gruppo Editoriale Brancato, Catania 2012, p. 189, corsivi miei.  
[14] C. Levalois, Il simbolismo del lupo, Arktos Giovanni Oggero Editore, Carmagnola (TO) 1989, p. 75, corsivi miei. “Il mondo che muore è stato condannato dalle sue stesse colpe: è lui stesso a generare il lupo che lo deve divorare. La sua decadenza provoca la sua perdita, e siccome il lupo raffigura l’onda d’urto, questo decadimento porta comunque con sé l’esigenza d’un mondo nuovo […] Nel sud della Germania l’antico nome di dicembre è wolfsmond, vale a dire ‘mese-del-lupo’. Nella Grecia antica il lupo era associato al segno zodiacale del Capricorno, che domina il primo terzo dell’inverno,”, ivi, p. 22, corsivi miei e grassetto in originale. dal 1989 non abbiamo fatto che invocare il “lupo”, con notevoli risultati davvero.
[15] G. Colli, Dopo Nietzsche, cit., pp. 191-192, corsivo in originale.
Probabilmente, tra le cause di questi suoi atteggiamenti, vi era quella dell’illusione di Nietzsche di esercitare una “grande” azione: “Nietzsche ha perseguito un’azione macroscopica, e in genere ha posto al vertice più l’agire che il pesare. Tal punto di vista, anche se allettante, è da rifiutare, perché proprio l’azione è una sfera che il pensatore lascia dietro di sé. E anche ammesso che l’azione sia desiderabile da un filosofo, perché un’azione macroscopica? Se è macroscopica sarà indiretta, mentre il filosofo, per meglio dire il sapiente, non si preoccupa dell’effetto mediato. Inoltre è […] banale la prospettiva secondo cui l’azione acquista valore quando si estende a molti uomini. Per un pensatore quello che conta, eventualmente, è agire su certi uomini”, ivi, p. 192, corsivi miei.
[16] Cf. ivi, p. 85.
[17] Ivi, pp. 199-201, corsivi miei.
Sulla maschera: “La maschera sorge come bisogno della comunicazione esoterica, quando questa si allarga, tenta un pubblico più vasto ed è trascinata verso l’essoterico. In tal caso, la maschera pone una barriera, il sogno dell’ambiguità, per far un cenno alla natura di buon metallo e tener distante quella volgare. In un senso più blando tutta l’arte, nel suo aspetto espressivo, è qualcosa d’intermedio, di sensibile, tra l’interiorità incomunicabile e lo spettatore indifferenziato che sta attorno”, ivi, pp. 172-173. “Togliamo dal mondo la catena della necessità: con essa l’abbiamo avvinto, quindi possiamo allontanarla. Questo fa l’arte, senza saperlo. Cosa rimarrà di quello che vediamo intorno a noi? Nessun corpo, nessuna cosa, nessuna figura delimitata, perché tutto ciò ha una fissità, una permanenza, e ogni permanente appare come qualcosa che non può esse diverso da se stesso, ossia è uno stato costituito dalla necessità. Cos’è un mondo senza oggetti persistenti? Quando usciamo dall’infanzia abbandoniamo un universo dove nessun filo della necessità ci guida. E questo filo, questa catena si muove sempre nella stessa direzione in una sola, nella direzione del tempo, perché tempo e necessità sono affini nel profondo”, ivi, pp. 116-117. 


sabato 25 novembre 2017

Commemorazione ad anni “C” = 100 ‘Jahren’






Si è svolta, organizzata dall’Associazione “Liberalibri”, e dal suo Presidente (o “Coordinatore”), Enzo De Rosa, il ricordo del centenario della Rivoluzione d’Ottobre (di novembre, in effetti), nella data del 7 novembre (appunto), la data, cioè, corretta (secondo il Calendario Gregoriano), al bar “Chimera” – nomen omen … -, di Caserta, ricordo nel corso del quale si sono avuti vari interventi, fra i quali anche quello di P. Broccoli. Dato che del tema ci si è già occupati[1], e in più manca tempo, qui si possono far solo delle osservazioni sull’incontro stesso.
Se Lenin e Marx divergano, e in che senso la Rivoluzione d’Ottobre abbia segnato il secolo, sembra essere stato al centro della serata, del ricordo, anche se, poi, come suol dirsi, si è “messa troppa carne al fuoco”, arrivando, così, a dei temi più generali, legittimi, senza dubbio, e però dispersivi.
Le mie osservazioni – durante questo evento – si sono concentrate sul fatto che, politicamente, il “comunismo” ha avuto successo dove si è stabilito per ragioni interne (Russia, Cina, Vietnam, Cuba) e non dov’è stato imposto da delle armate esterne, in Europa dell’est, o certi paesi africani. Né Russia né Cina – oggi – potrebbero sfidare l’Impero americano in decadenza ormai, ricordiamocene, senza quegli eventi[2] (per chi volesse approfondire qualche tematica “liminale”, può leggere la nota finale[i]). E, pur avendo fallito, il “comunismo”, come sistema economico alternativo, ciò non si può dire altrettanto dal punto di vista politico. Senza “comunismo” Russia e Cina sarebbero potenti oggi??
Domanda retorica[3]
La “questione contadina” è stata, poi, la mia seconda osservazione. La recente storiografia ha dimostrato come, in effetti, la Rivoluzione russa sia stata una delle più grandi “jacquerie” della storia; le “jacquerie” sono delle insurrezioni, spontanee, soprattutto contadine, rivolte contro l’immediato proprietario, e cioè a prendersi le terre dei proprietari terrieri: in pratica, questo sono state. Lenin è stato un tattico geniale, ma un pessimo stratega, in quanto si attendeva l’impossibile – ma lui seguiva Marx -, e cioè la “rivoluzione mondiale”. Fu tattico geniale perché capì che quello era il momento, unico ed irripetibile[4]: dovette convincere, ci si ricordi bene, anche lo stesso Trotskij, pur essendo, senza dubbio, quest’ultimo l’autore della preparazione strettamente militare dell’Ottobre[5], e solo in questa, non nella scelta del tempo opportuno, Trotskij fu decisivo; ora, la scelta del momento giusto = i 9/10 della Rivoluzione, come avrebbe ammesso lo stesso Trotskij. In tal senso, specifico, sbagliano dunque quelli che sostengono che quello dell’Ottobre del ’17 fosse solo un “colpo di mano”, privo di consenso: ebbe il consenso. Punto. Solo che il consenso era mutevole, persa quella “finestra d’opportunità”, come suol dirsi nel gergo militare americano, non ci sarebbe più stata opportunità di alcun genere. Il problema nacque, semmai, dopo, quando i bolscevichi vollero rendere industriale un paese sostanzialmente agricolo, tranne la zona di Pietroburgo: la “classe operaia” era solo l’ élite della Rivoluzione.
Come ben si sa, fu un fallimento, il processo fallì, e solo una dittatura spietata, come lo sarebbe stata quella di Stalin, avrebbe potuto rendere industriale, a forza, in pratica, una nazione sostanzialmente agricola.
Altra osservazione, da me fatta, è che, a questo punto, Mao Zedong non stupisce più: la differenza con Lenin è stata nel fatto che Mao era meno attaccato ai “dogmi marxisti”, e, di conseguenza, si rendeva ben conto che una rivoluzione su base operaia era semplicemente impossibile in Cina, quand’anche la “classe operaia” fosse stata solo, e soltanto, una mera avanguardia: la rivoluzione, in Cina, o era contadina, o non era. Poi però, preso il potere, tentò – fallendo – di “stalinizzare” = industrializzare la Cina, cioè passare all’industrialismo per mezzo di ukaz confessionali di Partito: ed ecco il famoso “Gran Balzo in Avanti”, che portò una delle peggiori carestie della storia.
Il suo potere fu, di conseguenza, rimesso in questione; e lui reagì con la cosiddetta “rivoluzione” culturale: la parte sconfitta attese che morisse, e prese il potere, inaugurando la lunga stagione dell’industrializzazione per mezzo dell’intervento del capitale straniero = la Cina entrò, definitivamente, nel sistema capitalistico, e siamo così giunti all’oggi, pur con tutti i problemi – strutturali – che ha l’economia cinese. Ma la Cina è potuta entrare (nel sistema capitalistico) mantenendo l’ unità di comando, e solo una rivoluzione “comunista” avrebbe potuto consentirgli di avere, nelle concretenon astratte – condizioni politiche del XX secolo. In alternativa, sempre nel concreto di quel momento storico, ci sarebbe stato solo il sistema democratico à l’americaine = nessun successo nel processo d’industrializzazione, per un paese delle dimensioni della Cina.

Si è, poi, passati a Marx, di cui si riparlerà, forse, in altro incontro, futuro. Qui, davvero in breve, la mia posizione è stata che, in sostanza, l’errore di analisi del capitalismo è in Marx; Lenin segue Marx, pur essendo senza dubbio anche un politico pragmatico: il successo di Lenin non nacque dal seguire lo schema di Marx, ma proprio dalle sue eccezionali capacità pragmatiche, politiche, senza dimenticare la sua cultura militare (ricordiamoci che era studioso di von Clausewitz), cosa non secondaria. Ecco perché il comunismo “storico” (non quello “utopico”) avrebbe avuto questa sorta d’ “imprinting” militare: questo sì che nasce dal solo Lenin, e Marx non vi ha praticamente avuto alcun peso reale.
Quanto al problema di fondo, di base, il comunismo è stato un gran fallimento, ma il sistema presente continua nel macinar successi che si traducono in diseguaglianze gigantesche, nel disastro verso il mondo naturale, nel sequestrare il destino umano deviandolo sulla produzione materiale, insomma una crisi pressoché totale del destino del genere umano, ridotto ad una congerie di “barbari vitali” (Aurobindo) – ma proprio al meglio al peggio: non loquar -, e tutto ciò con il consenso sostanzialmente unanime in e su tutto il globo terracqueo.
Una cosa simile non ha precedenti nella storia, e per davvero stavolta, e non certo come declamazioneprogressivista”, o para progressivista”, ottocentesca.
E non ha “vie d’uscita” politiche, la politica essendo funzionale al detto System, ciò sia detto fuori da ogni polemica e fuori da ogni eufemismo. La politica, com’è oggi please (niente sogni, per favore), fa parte integrante, come usciere o buttafuori al massimo, come personale di mero servizio, insomma, di detto System. Punto. Non vi è altro da dire.  
“La domanda posta dal ‘comunismo’ rimane, pur se la risposta comunista è del tutto fallita”, ha concluso Paolo Broccoli. Aggiungerei, però, questo, e non è una cosa da poco: a tale domanda, come s’è appena detto, non si può più rispondere “politicamente”, ma solo con qualcosa che vada oltre la politica, “meta” politicamente, appunto. Ecco perché tornare a Hegel non ha più alcun senso. Hegel è sulla via che ci ha portato qui. Non ce ne può – è una impossibilità sostanziale – far venir fuori.
Si deve uscire dalle “coordinatemoderne, nella cui decadenza senza fine, nelle cui fangose spire senza speranze, stiamo affogando, lentamente, ma non certo lietamente. “La crisi del mondo moderno” (Guénon) è un qualcosa di estremamente lento, inoltre, soprattutto, di estremamente noioso.

Ora però, per tornare alle consuete considerazioni storiche “particolari”, o da fonti poco “elucidate” o accettate, sia “ivi quivi” permesso riportar dei passi, sempre relativi alla Rivoluzione russa, ma da fonte particolare.
“Nel 1917 in Russia scoppiò la Rivoluzione. L’aspetto del mondo stava per cambiare. Vorrei qui resistere alla tentazione di collegare un avvenimento tanto importante per la storia del mondo con il brusco cambiamento di atteggiamento da parte di Gurdjieff, ma noi non sappiamo ancora nulla dell’attività delle società segrete alla vigilia della rivoluzione bolscevica, ed è probabile che non ne sapremo mai niente, perché basta pensare alle congiure del silenzio e alle falsificazioni che hanno impedito di portare alla luce le opere consacrate ad una spiegazione esoterica della Rivoluzione Francese. In ogni caso, Gurdjieff cambiò faccia. Dopo il 1917, ci troviamo, a quanto sembra, di fronte alla caricatura di Gurdjieff. Non spetta a me fornire le ragioni di quel cambiamento, e neppure descriverlo. Una dozzina di uomini hanno sentito compiersi questa trasformazione; ne hanno sofferto, e non sono mai riusciti a comprenderne chiaramente la natura. Avvenne tutto come se, all’improvviso, Gurdjieff si occultasse, in un certo senso, in mezzo al chiasso, al denaro, alle dimostrazioni pubbliche, alle ‘scuole’ [e questo Gurdjieff avrebbe fatto sin quasi alla fine, quando tornò ad uno stile di vita più “privato”; nota mia]. Quei dodici uomini son morti, e l’unico che abbia parlato è Ouspensky, il quale, peraltro, ha usato parole velate.
Naturalmente, il Gurdjieff numero due rappresenta ancora una forza straordinaria [corsivi miei], e la sua influenza sui contemporanei sarà mille volte superiore a quella del Gurdjieff numero uno. Esattamente come il bolscevismo [corsivi miei], che si fa caricatura dello spirito rivoluzionario […], trionfa e, nella stessa misura in cui mostra i suoi tratti caricaturali, potenzia la propria presa sul mondo moderno. Talvolta mi viene in mente che il Caucaso ci ha dato due grandi figure di uomini che, con perfetta conoscenza di causa, hanno preferito mostrare al mondo soltanto la faccia caricaturale del potere di cui erano investiti [in nota: “Studiarono, nella stessa epoca, nello stesso seminario”], non dico altro: son fermamente convinto che non sia opportuno sollevare il coperchio del gran calderone caucasico. Come ripeto, è del Gurdjieff numero due che dobbiamo occuparci, poiché il mio scopo non è quello di valutare l’uomo nella sua verità, ma di tracciare un quadro il più possibile esatto della sua influenza tra gli intellettuali d’Europa in questi ultimi anni. […] Avremo, ancora una volta, una testimonianza della straordinaria opacità del mondo moderno [corsivi miei]. Ma ripeto ancora che, per quanto avesse deciso di presentarsi a noi nel suo aspetto caricaturale, Gurdjieff rappresenta comunque, nella mediocrità generale [corsivi miei], una delle pochissime figure che meritano di essere prese in considerazione”[6].
Lo stesso Ouspensky scriveva (in Frammenti di un insegnamento sconosciuto, a suo modo una pietra miliare) del soggiorno ad Essentuki, nel Caucaso, Caucaso che era patria dello stesso Gurdjieff (sì, come Stalin, che lui conobbe da giovane, forse quando Stalin era in Roma come seminarista, e sì, lo stesso Gurdjieff è stato a Roma, ma è molto difficile ricostruirne la cronologia[7]), e di come Gurdjieff spiegasse tante cose lì, ad Essentuki.
E poi, d’ improvviso, tutto cambiò, e fra Ouspensky [Uspenskij] e lo stesso Gurdjieff si giunse, così, alla rottura, prima parziale, ché si riconciliarono, ma infine definitiva in quanto Ouspensky prese le distanze dallo stesso Gurdjieff.
“Poi, come se fosse stato preso dalla furia di muoversi, Gurdjieff abbandona Tiflis [la capitale della Georgia], si stabilisce a Costantinopoli, abbandona anche quel nuovo Istituto dopo qualche mese, tenta di aprirne un altro a Berlino, rinuncia, arriva a Londra, dove Ouspensky [riconciliatosi, come s’è detto] tiene numerose conferenze, incontra gli allievi del suo ex-compagno [Ouspensky], deve lasciare l’Inghilterra per i motivi che ho spiegato nella prima parte di questo libro e, in seguito ad uno strano intervento di Raymond Poincaré, ottiene l’autorizzazione di stabilirsi in Francia. Ed è allora, nell’autunno del 1922, dopo cinque anni di preparazione, che incomincia il grande gioco”[8].


Andrea A. Ianniello




[1] Cf. http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/11/ottobrata-ex.html, ed
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/07/ricordando-le-giornate-di-luglio-della.html. Lenin lo possiamo descrivere come un tattico geniale, ma uno scarso stratega: la sua strategia di rivoluzione mondiale fallì – ma l’errore risale allo stesso Marx -, mentre capiva benissimo i tempi, e capì che la situazione era matura in quel momento specifico, e non in altri, dunque, la “Rivoluzione d’ottobre” solo in ottobre-novembre poteva avvenire – non in luglio.
[2] “L’ho detto tante volte e non smetterò di ridirlo; senza Lenin non vi sarebbe stata l’insurrezione d’ottobre, e la rivoluzione russa, dopo essersi impantanata nell’acquitrino del ‘putschismo’ anarcoide, si sarebbe mummificata sotto forma d’una zoppa repubblica parlamentare, vivacchiante a spese del capitalismo anglo-americano”, G. Walter, La Rivoluzione russa. Quadro generale, in La Rivoluzione russa, testi scelti a cura di G. Walter, Istituto Geografico de Agostini, Novara 1990, pp. 96-97, corsivi miei. Si osservi la data di pubblicazione di detto libro, non tutti erano degli ottusi cantori del “democratismo” che ora si risvegliano di fronte al, prevedibilissimo, ritorno della potenza russa sotto la costellazione di un nazionalismo che si appropria di tutto quel ch’è russo, Rivoluzione compresa, non cero dal punto di vista ideologico, per carità, ma perché comunque ha dato inizio all’industrializzazione del paese, conditio sine qua non, dopo, per poter vincere, sotto Stalin, la “grande guerra patriottica”, come i russi chiamano quel che, per noi, si chiama la Seconda Guerra Mondiale. Tra l’altro, crescentemente si tende a vedere, da parte dell’ultima storiografia, la Prima e la Seconda Guerra Mondiali come un’ unica guerra, in due fasi, un’ unica stagione in due momenti fra loro collegati. Certo che, l’ “arte dell’insurrezione” (Trotskij) ha dei momenti particolari, come quando, in pratica, pochissimi uomini diedero inizio ad un cambiamento che nemmeno loro ben comprendevano cosa fosse, ma, davvero, una decisione “fatale” presa da pochi, ed in segreto, ecco un punto interessante, certamente col consenso, ricordiamolo, ma in segreto … E non furono affatto i famosi “dieci giorni” di J. Reed: “Dieci giorni? Sembrano un po’ troppi. Guardiamo procedere il tempo: il 6 novembre, verso le ventuno, venendo dai sobborghi di Pietrogrado, s’avviano degli autocarri carichi di operai armati; l’8, alle tre del mattino, il Palazzo d’Inverno è preso e il governo provvisorio viene arrestato. In tutto trenta ore. Punto e basta. Si potrebbe quindi, senza che questo nuoccia nulla al bel libro di Reed, intitolare l’opera Trenta ore che sconvolsero il mondo. Ma […] ciò che conta è il fatto che questo sconvolgimento […] fu l’opera di una sola e unica volontà umana, quella di Lenin”, ivi, p. 96, corsivi in originale. “Lenin aveva bensì cercato di prendere contatto col comitato militare rivoluzionario. I suoi dirigenti si erano mostrati reticenti: secondo loro le unità della guarnigione sarebbero state ben disposte, ma non bisognava contare sul loro intervento immediato. Si era giunti al 24 ottobre (6 novembre). Il congresso dei Soviet doveva riunirsi il giorno dopo, quindi tutto doveva esser compiuto entro quella medesima notte [il consenso, in tal caso, sarebbe stato anche “legalmente”, non solo “politicamente” valido; nota mia]. Il pomeriggio Lenin fa telefonate all’Istituto Smolny, ov’è in seduta il Comitato centrale, per annunziare che vi si recherà senza indugio per concentrarsi in merito all’azione che dev’essere fatta scattare. Alcuni istanti dopo si sente all’altro capo del filo una voce: ‘La presenza del compagno Lenin all’Istituto Smolny non è giudicata auspicabile al momento attuale’. Cade la sera; la nebbia s’infittisce e, attraverso la pioggia fine, invade la città. Lenin s’infila la parrucca che gli serve da copricapo dal suo ritorno a Pietrogrado, calza le soprascarpe di gomma (gli preme di non avere i piedi bagnati [che attenzione ai più minimi particolari, la rivoluzione si fa in buona salute; nota mia]) e si mette in cammino, a piedi, lungo gli interminabili viali del sobborgo di Vyborg, attraversa il ponte Liteiny e, seguendo i lungoneva, interminabili anch’essi, arriva all’Istituto Smolny che scintilla di tutte le sue luci. Rimasto nell’atrio, irriconoscibile in mezzo alla folla brulicante, fa chiamare Stalin. Questi arriva, recando un libretto a madre e figlia e un sigillo. I due uomini si rinchiudono in uno studio appartato. Da lì partiranno, portati da motociclisti, ‘ordini di missione’ che mettono in moto le forze insurrezionali. Ora rimane soltanto da guardare l’orologio della storia intento a segnare le ore che stano per scrollare il mondo”, ivi, pp. 102-103, corsivi miei. Walter di seguito critica le ricostruzioni, di parte, sovietiche posteriori, ma non si può dire un “anticomunista sfegatato” della World Anti Communist League (WACL), citata in A. Giannuli, Le internazionali anticomuniste, vol. II Una strana vittoria, Nuove Iniziative Editoriali, Roma 2005: dunque la sua ricostruzione è fededegna ed affidabile.
[4] Cf. G. Walter, La Rivoluzione russa, cit., pp. 97-98.   
[5] C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Adelphi Edizioni, Milano 2011. Una recensione di questo testo la si può leggere al link:
http://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/wp-content/uploads/2013/04/Recensione-Bernardini-n-1-2012.pdf.
E, come si sa, il limite di Malaparte non sta nella “tecnica” del colpo di stato – che è corretta -, men che meno nella, molto giusta, dichiarazione della fragilità, sostanziale, delle democrazie, ma nel non tener conto del fattore tempo: non è che si possano fare “colpi di stato” in ogni momento, non è affatto così: occorre il consenso. Questo l’insegna proprio la Rivoluzione d’Ottobre, e fu proprio Trotskij a tener conto di quest’insegnamento al massimo grado, cf. L. Trotskij, Le lezioni d’Ottobre, in La Rivoluzione russa, cit., pp. 297-352.   
[6] L. Pauwels, Monsieur Gurdjieff, Edizioni Mediterranee, Roma 1972, pp. 130-131, corsivi in originale, i corsivi miei son denotati nelle parentesi quadre. Trattasi di libro che riflette un ethos ed un “clima” culturale ormai non passati, anzi trapassati, ma interessantissimo leggersi questo passo, ad anni di distanza: la distanza. Ma, come si dice, “la distanza fa più cara l’amicizia”, cf. “‘Il mio nome è nessuno’..final”,
https://www.youtube.com/watch?v=tmRnmsOXSrs.
[7] In un precedente post vi ho accennato. Gurdjieff era legato con le società segrete armene: in un libro che, in effetti, nasce da delle conferenze, sono riportate delle domande, cui Bennett rispondeva. Alla domanda su qualche società segreta armena, Bennett rispondeva all’interlocutore citandogli al Dashnak. Chi faceva la domanda gli obiettava che si trattava di un partito d’ispirazione marxista. Così rispondeva Bennett: “Divenne unicamente partito politico in un’epoca molto posteriore a quella di cui sto parlando. Nel 1920 era ancora una società segreta. Io posso solo parlare di persone che ho conosciuto personalmente a Istanbul nel 1919 e nel 1920. A quell’epoca questi membri del movimento Dashnak non etano certamente dei marxisti, ve lo posso assicurare nel modo più categorico. Fine dichiarato di questo movimento era quello di raggiungere l’indipendenza dell’Armenia. Era un movimento nazionalista armeno, non era politico nel senso che non era né marxista né anti-marxista, almeno a quell’epoca. Sono assolutamente sicuro che se si risale agli ultimi anni del secolo scorso [ = il XIX], quando già tali società esistevano, si scopre che intendevano semplicemente difendere le tradizioni armene. Naturalmente è assolutamente vero che esse erano una spina nel fianco per i governi zaristi russi dell’epoca. Ma perché? Perché lottavano per l’indipendenza dell’Armenia; e per la stessa ragione costituivano una spina nel fianco dei governi turchi. Ma questo è solo un aspetto della questione. Quello che so, viene da quanto lo stesso Gurdjieff disse a riguardo, e questo almeno è verificabile, e cioè che la possibilità di viaggiare per quella che oggi è l’Armenia e per tutto il Kurdistan gli venne proprio grazie al contatto con l’una o l’altra di queste società segrete”, J. G. Bennett, L’enigma Gurdjieff, Ubaldini Editore, Roma 1983 , pp. 49-50. Bennett era, in quel tempo, un agente del servizio segreto inglese, dunque parla per cognizione di causa.
Il passo su Gurdjieff a Roma è ricordato da lui stesso: “Sempre seguendo il mio scopo, un giorno arrivai a Roma; siccome il mio denaro stava finendo, segui il consiglio di due giovani aissori di cui avevo fatto la conoscenza, e col loro aiuto mi installai sul marciapiede come lustrascarpe. All’inizio, bisogna dirlo, i miei affari non furono brillanti. Perciò, per aumentare le mie entrate, decisi di dare a questo mestiere un tocco nuovo, per niente banale. Ordinai una poltrona speciale, sotto la quale sistemai un fonografo Edison, invisibile ai passanti. Di fuori, si vedeva soltanto un tubo di gomma munito di diffusori disposti in odo tale che quando una persona si sedeva sulla poltrona, questi erano a portata elle sue orecchie. Non avevo che da avviare discretamente la macchina. In questo modo, mentre io gli lustravo le scarpe, il mio cliente poteva sentire La Marsigliese o la maestosa aria di un’opera. Inoltre, fissai al braccio destro della poltrona una specie di vassoio sul quale posavo un bicchiere, una caraffa d’acqua, del vermouth e dei giornali illustrati. Grazie a questi accorgimenti, i miei affari andarono a gonfie vele: questa volta cominciarono a piovere delle lire, e non più i centesimi. I turisti giovai e ricchi erano particolarmente generosi. Introno a me c’era sempre una quantità di sfaccendati”, G. I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, Adelphi Edizioni, Milano 1977, pp. 173-174, corsivi in originale.
[8] Ivi, p. 134. Sull’intervento di Poincaré vi sarebbe di che riflettere … però andremmo troppo lontano.   





[i] Siamo e viviamo in un oceano di conformismo ottuso, il consenso vien dato a prescindere, senza filtri: mutazione antropologica, pur troppo anche da parte di chi pensa di esse “diverso” e vuole solo altri conformismi. “Puoi scoprire ciò che più teme il tuo nemico osservando i mezzi di cui si serve per spaventarti.” Eric Hofer (http://it.wikiquote.org/wiki/Eric_Hoffer). Ma questo dominio, quasi totale, dell’ignoranza ha radici profonde, pur non essendo affatto un effetto casuale della democrazia stessa, ed anche se raramente si raggiungono certi livelli, come in Italia. Tra le cause, occorre ricordasi di questo punto preciso: “il parere della maggioranza non può essere che l’espressione dell’incompetenza, sia che derivi dalla mancanza di intelligenza o dall’ignoranza pura e semplice; e a questo proposito si potrebbero far intervenire certe osservazioni di «psicologia collettiva», ricordando in particolare il fatto assai conosciuto che, in una folla, l’insieme delle reazioni mentali che si producono fra gli individui che la compongono, sfocia nella formazione di una sorta di risultante che non è neanche al livello della media, ma al livello degli elementi più bassi”, dal link:
https://scienzasacra.blogspot.it/2014/03/rene-guenon-la-crisi-del-mondo-moderno_8.html.
Una parola è assolutamente necessaria quando si citano dei link o delle frasi come quella qui sopra appena riportata: Guénon auspicava il ritorno dell’Occidente alla sua tradizione, in mancanza del quale doveva in qualche modo accettare almeno in parte delle tradizioni orientali, la cosa è complessa, ma, semplificando, le cose stanno così. Ora però, non è accaduta nessuna delle due cose! In tal caso, Guénon sosteneva che era meglio che “le cose fossero definitivamente chiarite”, ma, in ogni caso, vi era un limite, un limes. Per Evola, il discorso è diverso: come dico nel mio contributo in A. A. Ianniello – F. Franci: Evola dadaista.Dadà non significa nulla”, Giuseppe Vozza editore, Caserta-Casolla 2011, in sostanza Evola ha oscillato, e tuttavia, anche in lui, soprattutto nell’ultimissimo periodo, si trova l’idea che vi sia un limes. Ora, com’è che tutti questi che riportano scritti di Guénon questo suo aspetto non lo considerino nemmeno, tutto concentrandosi su aspetti “dottrinali”, e però avulsi dalla realtà che pure vivono?’ Domanda retorica … la risposta è molto semplice: portare al centro questi aspetti di Guénon vuol dire mettere in questione molte “idee”, o pseudo tali, sostanzialmente attaccare l’idea – o illusione – cui si aggrappano, e cioè che sia possibile un ritorno alla traditio nei termini comprensibili per chi abbia conosciuto le gradi religioni, come si dice. Ma questo è precisamente quel che l’ultimo Guénon non accettava più! Per lui, la via d’uscita sarebbe stata solo “apocalittica”, cosa “intravista” ne La crisi del mondo moderno, però affermata esplicitamente ne Il Regno della Quantità. Ora, ovviamente si può esser del tutto contrari a quest’idea, avversarla in ogni modo, ma occorre dire, a chiare lettere, che Guénon la pensava in tal modo, piaccia o non. La critica della democrazia, che incontestabilmente c’è – eccome!! – in Guénon, era, per lui, un fatto “accessorio”, il centro dell’attenzione vi era spostato altrove. Si può certamente citare quel che si vuole, senza chiedere il permesso a nessuno, come pure chi scrive ha fatto, anzi, di più, sottolineando la critica alla democrazia, e cioè un aspetto fondamentalmente secondario per Guénon, e ben sapendo che, per lui, era tale, attenzione, e dicendo chiaramente che, per Guénon, tutto ciò era secondario, per quanto interessante potesse apparire al momento: era un mezzo, era un’ “applicazione di un Principio”, come diceva lui. Guénon aveva un’ottima base di cultura scolastica, intendo S. Tommaso d’Aquino, il ragionamento deduttivo per lui era decisivo, non quello induttivo. Ma ognuno si deve prendere le proprie responsabilità: per Guénon la critica della democrazia era importante sì, ma fino ad un certo punto; per me che scrivo, invece, ha un ruolo molto più centrale, e quando cito Guénon so perfettamente come stiano le cose. Ora, com’è che tutti questi “abbreviatori”, avrebbe detto Leonardo da Vinci, non pongono al centro quel che è l’ esito dell’opera di Guénon?? Molto strano. Per esempio, vi è chi afferma, e cita Guénon, che l’ “invasione orientale” sarebbe stata l’esito della “crisi del mondo moderno”. Ora, è vero che ne La crisi del mondo moderno, il libro, vi è questo passo, ma con un senso ben diverso da chi lo cita, a sproposito, e questo è il punto vero, per cui, alla fine, chi riporta e basta fa meglio. Per Guénon in primis, è l’Occidente che ha messo in moto quei popoli e quei paesi ed è dunque interamente – interamente – dell’Occidente la colpa di una tale situazione. In secundis, Guénon detestava i “difensori dell’Occidente”, come li chiamava, e cioè quelli che poi, nel corso delle varie mutazioni storiche son apparentati alla stragrande maggioranza delle “destre ‘estreme’”, come le chiamano oggi, ed a buona parte del cosiddetto “populismo”, categoria molto ma molto ambigua. Ora, perché Guénon li detestava, ecco il punto. Un po’ come Marx detestava i socialisti cosiddetti utopici: ecco le “domande chiave”, che fan capire, per davvero, un autore. Si capisce quel che dice un autore; dopo, solo dopo, ci sta come uno la pensa: e mica è costretto ad esser d’accordo! Ci mancherebbe! Non è questo il punto vero, è che occorre esser ben consapevoli della differenza fra quel che afferma un determinato autore e quel che sostiene un qualsiasi interpreta: è davvero l’ABC. Dunque, Guénon non era favorevole ai “difensori dell’Occidente”, comunque denotati. Non solo questo, ma poi, se ne La crisi del mondo moderno, “l’invasione orientale” non è vista male – ci pensino, lor signori per Guénon è un male minore a fronte della “deviazione occidentale”!! -, ne Il Regno della Quantità scopriamo che, per Guénon, neanche questo sarebbe avvenuto o, anche avvenendo, sarebbe stato sufficiente: figuriamoci cosa sosteneva … Guénon è davvero estremamente radicale, questo tanti non riescono a comprender davvero, estremamente radicale. Quindi non solo non diceva quel che gli si attribuiva, ma quasi l’ opposto, ma, per lui, manco sarebbe stato sufficiente al fuoriuscire dal “mondo moderno”, e sviluppa tutta una teoria le cui basi richiedono non solo una buona conoscenza della Scolastica medioevale e dell’Aquinate, ma pure del magismo, dico qui medioevale perché, come, peraltro giustamente, affermava lo stesso Guénon, col Medioevo la civiltà moderna, comunque, ha un rapporto di filiazione, seppur per rigetto, e dunque risulta più facile relazionarsi con le forme espressive di quell’epoca, quanto all’universo cosiddetto del “magismo”, universo che occorre almeno in parte conoscere, dal punto di vista solo teorico, ovviamente, mancando tutt’e due questi aspetti, difficilissimo capir davvero cosa voglia dire l’ultimo Guénon. Quindi, in parte questo giustifica tante incomprensioni, e però occorre sempre cercar di capire un autore cosa “veramente” abbia detto. E prendersi la responsabilità delle proprie posizioni quand’anche si cita questo o quell’autore specifico.
Per fare un esempio, interessante di per sé, quando chi scrive ha citato Marx, in realtà so benissimo che Marx dice tante altre cose, che non condivido. Se uso una colonna presa da un altro edificio, oggi in rovina, e la uso per un altro edificio, sto comunque costruendo un altro edificio. Di quest’ultimo edificio è responsabile chi scrive, e chi scrive deve pur sapere che la colonna presa da un altro edificio, fa parte di un altro edificio. Come ho parlato della “merce” ha delle basi in Marx, ma poi è un altro discorso, che noi sappiamo Marx non avrebbe potuto fare; ma, di nuovo, questo è un altro discorso. Giusto per esser chiari … Che Marx intuisse, come ho avuto modo di affermare, ma mai davvero capisse la natura “illusoria” del sistema capitalistico, è dovuto al fatto che era materialista: sì, vi è una parte materialista in Marx ed una “dialettica”, ma quella materialista la vince: di qui gli errori di visione generale.
In ogni caso, questa confusione tra “conservativismo” ed effettiva “tradizione” l’ho criticata già tre anni fa, cf.
http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/01/andrea-ianniello-la-fine-del-mondo.html.