“Nella tradizione scandinava gli dèi incatenano il lupo
gigante Fenrir per impedirgli di devastare il mondo; ciò infine accadrà, ma
alla fine del nostro ciclo. Allora i diversi bastioni finiranno di crollare e
le potenze infernali, uscite dal mondo inferiore (dal latino inferus, ‘che si trova di sotto’)
irromperanno nel mondo degli uomini”[1].
“Dal momento che l’uomo è nato dal suono, la sua essenza
rimarrà sempre sonora. Abbiamo visto come il canto di un tordo beffeggiatore,
seduto all’uscita della caverna degli Hopi, avesse aggiunto al suono
fondamentale di ogni individuo una melodia appropriata. Per mezzo di quella
melodia, al neonato erano state assegnate una determinata lingua e tribù. Il
canto che l’uccello attribuisce a ogni individuo è un canto di stato civile che
legalizza il posto occupato dal suo possessore nella società.
Sulla terra non ci possono essere più uomini di quanti
siano i canti o i nomi disponibili. Quando il repertorio dell’uccello (che è
l’eroe civilizzatore) si fu esaurito, nessun uomo poté più uscire dalla
caverna. Per questo i cacciatori di teste uccidono le vittime soltanto dopo
averle costrette a confessare il proprio nome. Essendosi liberato un nome con
la morte del suo possessore, essi possono darlo a uno dei loro figli, i quali,
proprio per mancanza di nome, non hanno ancora potuto ottenere un posto legale
nella società”[2].
“Nei miti, il creatore vive a nord, dove regna la morte, e
‘viaggia’ verso est.
Il suo ‘avversario’, il transformer,
risiede a sud e va verso ovest.
L’eroe civilizzatore si sposta da est a sud, mentre la
strada del dio della guerra porta da ovest verso nord. I quattro personaggi si
muovono seguendo uno svastika”[3].
“Ma anche questo [nostro] mondo materializzato trae la sua forza dal suono puro
dal qual è nato. Di conseguenza, la musica
e le sue incarnazioni strumentali
sono […] manifestazioni dello spirito.
Ai difensori accaniti dell’interpretazione sessuale, si può solo ricordare il
concorso artistico nel quale gli dèi contrapposero la loro arpa o il loro canto di luce
[…] al grido degli asini in calore. E giacché gli antenati si son nettamente
decisi a dare la corona della vittoria agli dèi, perché oggi noi vogliamo
metterla in testa all’asino?
Dopo l’ultimo post, di
riflessione più generale, veniamo
a un post – come detto – relativo a temi specifici,
salvo eventi mondiali accelerino il passo, il ritmo.
Sia consentita qui una
battuta: non sono per “uni-versi”,
ma per “pluri-versi” …
Rivedendo dopo anni – la notte del 10 del mese passato
– “La Compagnia dell’Anello”, il film di P. Jackson (del 2001) ispirato a La Compagnia dell’Anello di J. R. R. Tolkien (1954),
primo volume della trilogia Il Signore
degli Anelli (1955), sorgono
alcune considerazioni, fermo restando che preferisco il libro.
Sia detto en passant: a mio avviso, La Compagnia
dell’Anello è la migliore delle tre parti, la più pregna di un esplicito
senso symbolico, che, nelle seguenti
due parti, si metterà un po’ da canto, privilegiandosi
l’aspetto etico, aspetto etico, però,
non assente neanche nella prima parte: per esempio quel che accade alla fine a
Boromir, oppure i dilemmi etici sia di Bilbo che dello stesso Gandalf. Quest’ultimo
nome si pronuncia “Gàndalv”; il composto finale –lf si pronuncia com’è scritto solo se ha la forma: –lph, come in: alph = cigno; nome, a sua volta, per niente casuale: è la radice
preindoeuropea “alp”, sia di “Alpe” che di “alba”, che vuol dire “bianco”.
Insomma, quella tentata da Tolkien è stata una sintesi, in parte ben riuscita, fra il passato
precristiano e l’etica cristiana.
“Il Lord of the Rings […] è […]
caratterizzato da un apparato retorico (e morale) fortemente propenso allo
schematismo”[5]. Questi
“luoghi comuni”, però, “nel Lord of the
Rings son più simili agli exempla
e alle imagines della rettorica [sic] medievale”[6].
Venendo al tema di un
post precedente, in Tolkien vi è “una
critica della democrazia”[7].
Attenzione, però, che non si tratta della “commistione fra l’ auctoritas e la potestas”
tipica dei “totalitarismi” novecenteschi, che qualcuno ha letto dietro il
“dominio di Mordor” (termine,
quest’ultimo, che ha la stessa
radice dell’inglese attuale murder,
cioè “omicidio”, assassinio). “Nel
Lord of the Rings […] l’ auctoritas coesiste con la potestas secondo una sociologia di tipo
imperiale: la capacità di decisione non è scissa dalla capacità di azione, ed
entrambe le facoltà vengono legittimate dalla felicitas (che altro non è se non il successo). Si riscontrano,
però, nell’antropologia psicosociale di J. R. R. T. [Tolkien], così […]
imperiale, importanti venature repubblicane che si manifestano appunto in una
scissione tra la capacità decisionale dell’ auctoritas
e la capacità operativa, giuridica o militare, della potestas. Infatti, la potestas
di Aragorn, per quanto legittimata sia dal riconoscimento popolare del càrisma
sia dalla felicitas, dipende in
misura rilevante da un consilium che
si affianca alla figura del capo carismatico: il savio Gandalf, […] e poi un
Consiglio vero e proprio (che è in qualche modo presieduto da Elrond). La
cerimonia d’incoronazione ‘mette in scena’ lo sdoppiamento (tipicamente
repubblicano) tra auctoritas e potestas: Aragorn, accettando la corona
da Faramir, non se la pone in capo da sé tra lo stupore di molti, ma la
restituisce all’ultimo dei Soprintendenti; e sarà Frodo a prendere la corona
dalle mani di Faramir e consegnarla a Gandalf (‘perché è stato lui il fautore
di tutto ciò che è stato compiuto, e questa vittoria è sua’). Ed è davanti a
Gandalf che Aragorn s’inginocchia accettando l’investitura”[8].
Ancora: “Nulla è più
lontano da questa, non si sa quanto consapevole, utopia semi-repubblicana
illuminata dal Bene e dalla Giustizia (l’ auctoritas
è dei savi o del Senato; la potestas
è del Re che, in grazia del consilium
esterno a lui, è in qualche odo un magistrato; e in conseguenza di ciò la libertas è partecipata dal popolo
tutto), è quanto avviene nel formicolante e sordido mondo sociale mordoriano.
Qui auctoritas e potestas sono indistinguibili, avvinte in un’unica mostruosa
entità: Sauron non è già princeps
investito da un mandato, ma dominus
dei corpi deformi degli schiavi (più che sudditi) e deus delle loro nere anime. L’ auctoritas
di Sauron è priva di qualsiasi legittimità, e anche di un’origine vera e
propria: essa si fonda solo su un antico e terribile sortilegio (rotto il quale
tutta la tremenda piramide crollerà miseramente, svanendo in fumo)”[9].
Ed è questo l’Anello,
l’ Unico Anello. Dopo questo
“discorso” introduttivo, veniamo all’ “Unico” Anello.
“L’elemento più
significativo, nella storia di Sauron, che è quello stesso su cui si fonda Il Signore degli Anelli, è l’Unico
Anello.
L’ironia
basilare è che Sauron abbia legato buona parte del suo potere ad un anello che
potrebbe sfuggirgli [corsivi miei] – come difatti gli
sfuggì – e causare la sua distruzione. Però tale sconsiderata condotta è seguita da numerosi stregoni e Re dei
racconti mitici, delle fiabe e delle leggende [corsivi miei].
Alla base di questo
tema c’è la credenza in un’anima
separabile dal corpo vivente [corsivi miei]. Era diffusa credenza, e tale
rimane presso popoli tribali, che l’anima o forza
vitale [corsivi miei, è l’anima in
quanto “forza vitale”, nota mia] potesse lasciare il corpo vivente e venir
racchiusa in un oggetto esterno (al modo stesso in cui Sauron racchiuse gran
parte del suo potere nell’Anello).
Alcuni popoli tribali,
in tempi di pericolo, nascondono emblemi delle loro anime in luoghi sicuri,
ritenendo che, fintanto che le loro anime sono protette, i loro corpi
resteranno illesi. Consimile pratica è quella di portare indosso amuleti che si
ritiene contengano la propria anima. Nei racconti popolari, il tema dell’anima
esterna si esplica in genere così: un Re o uno stregone ha la propria anima
racchiusa in uno speciale oggetto che è o segreto oppure nascosto in luogo che
non può esser raggiunto con mezzi normali.
Un eroe apprende questo
segreto e viene aiutato, spesso da un animale, a ubicare l’oggetto. Trovatolo,
lo distrugge e, con esso, provoca la morte del possessore di quell’anima. La
storia dell’Unico Anello segue questo schema di fondo. L’Anello è il
ricettacolo della forza di Sauron e mantiene operante la forza coesiva dalla
quale le sue opere sono sorrette. Bilbo trova l’Anello, là dove lo ha lasciato
cadere il bestiale Gollum. I poteri dell’Anello sono segreti, e non vengono mai
scoperti per settantasette anni [cifra evidentemente
symbolica, nota mia]. Frodo porta
l’Anello nella terra di Mordor, apparentemente inespugnabile, guidato da
Gollum, e distrugge insieme l’Anello, il suo proprietario e la sua fortezza. La
mitologia classica contiene esempi di anime
esterne [corsivi miei].
In un mito greco, la
vita e il trono di Niso, Re di Megara, dipendono da una ciocca di capelli d’oro
o di porpora che gli cresce al centro del capo. Sua figlia, Scilla, recide
questa ciocca, uccidendolo, per amore del nemico di suo padre, Minosse di
Creta. In un altro mito greco, il destino dell’eroe Meleagro è legato a quello
di un tizzone che sua madre aveva trafugato dal focolare all’epoca della sua
nascita a causa di una profezia secondo la quale egli sarebbe vissuto fino a
quando quel tizzone restasse incombusto. In seguito, per vendicare l’uccisione
dei suoi fratelli, la donna restituisce il tizzone alle fiamme e suo figlio
muore fra i tormenti.
Nella fiaba russa
immortalata da Stravinski nel balletto L’uccello
di fuoco, l’anima dello stregone Koscej Senza-morte è nascosta in un uovo.
Un uccello soprannaturale aiuta un principe a procurarsi quest’uovo. Quando
l’uovo viene rotto, lo stregone e i suoi demoni periscono e una principessa, da
lui tenuta prigioniera, viene liberata. La storia dell’eroe tartaro Kök Chan
descrive gli effetti di un’anima separabile restituita al corpo in tempo di
bisogno. Per metà la forza di Kök Chan risiede in un anello d’oro che egli ha
dato a una fanciulla perché glielo conservi. Quando l’eroe si batte con un
avversario che non riesce ad uccidere, la fanciulla gli lascia cadere l’anello
in bocca, dandogli così il potere di sopraffare l’avversario.
I dettagli di questa
storia presentano strette analogie con a storia di Sauron.
In entrambe è un anello
d’oro a possedere una forza soprannaturale, sebbene entrambi i personaggi
abbiano della forza indipendentemente dagli anelli.
Se Sauron avesse
riavuto il suo anello, come Kök Chan, egli avrebbe certamente sopraffatto i
suoi nemici. E’ significativo che Tolkien si sia rifatto a un tema mitologico
tanto diffuso quanto quello dello stregone dall’anima separabile, per fornire
il tema centrale del Signore degli Anelli.
Tale tema denota immediatamente la base
mitica della sua opera [corsivi miei], e classifica la ricerca essenziale
ch’essa descrive. Alcuni negano totalmente che si tratti di una ricerca.
Sarebbe più giusto dire che è una ricerca
invertita [corsivi miei].
La ricerca classica è
volta al reperimento dell’emblema del raggiungimento del Bene. Il Signore degli Anelli è un’odissea
volta a rifiutare un emblema [corsivi
miei], ottenendo con ciò la negazione del Male [corsivi miei]. Com’è
stato dimostrato, la formula mitica mediante la quale ciò si compie è una formula essenziale ed universale [corsivi miei], tanto vitale
e fondamentale quanto la Ricerca.
Il risvolto che Tolkien
dà alla formula è rivelatore.
L’emblema malvagio, l’
‘anima dello stregone’, è, all’inizio della storia, già in mano all’eroe [corsivi miei], ignoto, ma potente. L’eroe va
alla ricerca del luogo ove distruggere l’emblema, luogo che, ironicamente, si trova all’interno della roccaforte dello stregone [corsivi
miei]. Il messaggio è chiaro: non
occorre andare alla ricerca del Male, per trovarlo; la lotta consiste nel negare il Male, il che può farsi solo quando il Male sia stato pienamente riconosciuto [corsivi miei]”[10].
Si
deve, il “Male”, poter esprimersi ed essere “maturo” pienamente. Solo e
soltanto allora si può – anzi
si deve – negarlo[11].
Il concetto di “anello”
– ricollegabile a quello di “anima separabile” cosiddetta –, a sua volta si
ricollega al tema del doppio, o,
almeno, ad uno dei significati che ha il termine “doppio” nel complesso universo del “magico”.
“‘Lo sai chi è il mio doppio?’. La stregona mi pianta gli
occhi addosso mentre mi interroga: sta armeggiando sull’altare ed io sto
occupando il posto che mi ha assegnato prima, proprio dietro all’altarino
rettangolare. ‘Intanto devi spiegarmi: cos’è per te il doppio?’ ‘E’ un’altra me stessa, che vive al d fuori della mia
persona; su di lei posso scaricare tutte le influenze malefiche che mi
raggiungono e che incanalo perfettamente su questo mezzo magico’. La stregona
rovista sempre sull’altare cercando non so cosa […]. ‘Eccolo!’ e mi mostra
quello strano pezzo di legno che prima mi faceva impressione; in effetti, visto
così da vicino, non rappresenta alcunché di particolare: è solo una striscia tondeggiante
di legno che sembra provenga da un ramo abbastanza piccolo. La stregona l’ha
reso liscio all’esterno, quasi voglia cancellare dalla mente le asperità del
suo durissimo lavoro. Non lo tocco, ma la stregona me lo tiene così vicino che
posso constatare che possiede ogni tanto alcune intagliature, che probabilmente
hanno un gran significato per lei. ‘Il doppio
è qualsiasi cosa, oggetto animato o no, un animale o fors’anche un uccello, se
vuoi anche un albero: tutto ciò che esiste sulla terra può essere scelto dallo
stregone’. Mentre la maga parla,inizio a sentire nuovamente il ritmare del tam-tam che sembra provenire dalla parte
opposta a quella di prima”[12].
Andrea A.
Ianniello
[1]
C. Levalois, Princìpi immemorabili della regalità, Il Cerchio Iniziative
Editoriali, Rimini 1991, p. 97.
Questo stesso autore, nella pagina precedente, aveva scritto: “il periodo
rivoluzionario inizia assai prima del
1789 e continua anche dopo, benché attualmente
si sia entrati in una nuova fase”, ivi, p. 96, corsivi miei. Benché altrove scrivesse: “L’inverno è
seguito dalla primavera, e non da un nuovo inverno”, ivi, p. 109, si tratta di petizione di principio che a nulla, in
concreto, impegna: tutta la sua forza, l’attenzione, le più o meno rinnovabili
energie, come quelle di tutti, senza
eccezione, i “tradizionalisti” di ogni forma ed obbedienza, sta in impossibili restaurazioni.
Si è trattato –
e, ancor oggi, si tratta – di un atteggiamento malsano,
sbagliato ed errato rispetto alla “decadenza”, atteggiamento che porta sempre a
“portar pietra”, inevitabilmente, a ciò che si vorrebbe combattere.
L’atteggiamento sano, invece, si
vedrà nel prossimo post.
[2]
M. Schneider, La musica primitiva, Adelphi Edizioni, Milano 1992, pp. 45-46. E manchiamo di nomi sufficienti, oggi …
[3]
Ivi, p. 88, corsivi in
originale.
[4]
Ivi, pp. 100-101, corsivi miei.
Parlando delle “feste carnevalesche”, Guénon scriveva: “noi viviamo, in realtà,
in un sinistro ‘carnevale perpetuo’”, R. Guénon,
Simboli della scienza sacra, Adelphi
Edizioni, Milano 1975, p. 135. Sul “dio dalla testa d’asino”, cf. ivi,
p. 130. E, in nota: “Il ruolo dell’asino nella tradizione evangelica, alla
nascita di Cristo e al suo ingresso in Gerusalemme, può sembrare in
contraddizione con il carattere malefico che gli viene altrove quasi dovunque
attribuito; e la ‘festa dell’asino’ che si celebrava nel Medioevo non sembra
sia mai stata spiegata in modo soddisfacente: ci guarderemo bene dal rischiare la minima interpretazione su
quest’argomento assai oscuro”, ibid.,
corsivi miei; una tale affermazione
(“ci guarderemo bene …”) è cosa rara,
in Guénon, che assai spesso si “arrischiava” … In effetti, la “festa
dell’asino” è il nostro presente, si
potrebbe dire oggi. Poi aggiungeva: “vogliamo trarre almeno una conclusione: al
declino di una civiltà, è il lato inferiore della sua tradizione che persiste
più a lungo, il lato ‘magico’ in particolare, che contribuisce d’altronde, con
le deviazioni alle dà luogo, a completare la sua rovina; è quanto sarebbe avvenuto,
si dice, per l’Atlantide. E’ anche al sola cosa i cui resti siano sopravvissuti
nel caso delle civiltà interamente scomparse; la constatazione è facile per
l’Egitto, per la Caldea, per il druidismo stesso; e senza dubbio il ‘feticismo’
dei popoli negri ha un’origine simile”, ivi,
pp. 130-131. Naturalmente, vi è anche l’Egitto dei Sapienti, non solo quello
del “magismo”: “Il moralista ebreo non ha mai pensato a dissimulare quanto
doveva a quello egiziano e, oltre a lui, ai moralisti egiziani in generale.
L’autore degli Atti degli Apostoli
(7, 22) non ricorda che Mosè era stato istruito in ogni ramo della scienza
degli Egiziani? In tal modo viene confermata la parola di Unamon che dice al re
di Biblo: ‘E’ dall’Egitto che viene la saggezza’”, P. Montet, Egitto eterno,
Casa editrice Il Saggiatore, Milano 1964, p. 266, corsivi in originale. Sulla
“guerra degli Impuri”, dei seguaci di Seth, cf.
ivi, p. 156. Ramses II, tra l’altro, oltre
alla sala ipostila di Karnak, “portava a termine il tempio di Seth in Abido”,
ibid. in seguito alla “guerra degli Impuri”.
[5]
M. Paggi, La spada e il labirinto. Meraviglioso e fantastico ne “Il Signore degli Anelli”, ECIG, Genova
1990, p. 33, corsivi in originale.
[6]
Ivi, p. 37, corsivi in
originale.
[7]
Ivi, p. 64, grassetto in originale. Su
questo tema della “democrazia, la cui esistenza non
può mascherare il fatto che
“la Macchina funziona da sola”, cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/07/la-spola-la-fine-della-democrazia-1994.html
(che, poi, è il post in questione cui ci si riferisce qui sopra). Essa – “la” Macchina
–, infatti, è governata da una sua logica interna ed il vero “complotto” è
quello che ha costruito la sua logica di funzionamento interna escludendo ogni
altra logica. Hic erant Dracones …
E “gli uomini sono in realtà d’accordo nel mantenere la macchina in moto. E’ ciò che chiamavamo ‘la buona volontà civilizzata’”, da La Centrale di Energia (1910) in L. Pauwels – J. Bergier, Il mattino dei maghi, Oscar Mondadori, Milano 1979 (edizione francese 1960), p. 108. E “la civiltà trionferà sempre fino al momento in cui i suoi avversari non apprenderanno da essa stessa la vera importanza della Macchina”, ivi, p. 111. Fa di seguito il caso dei “cospiratori di Ginevra” contro i Romanov, fra cui Lenin …, che ben avrebbe compreso l’importanza della “Macchina”, solo che aveva fini sbagliati. Purtroppo, dopo di lui, quest’importanza è stata sottovalutata e tutte le “rivoluzioni culturali” tentate dai “non-ufficiali” sono fallite per questo preciso punto: “la civiltà sa utilizzare le energie di cui dispone, mentre le infinite possibilità dei non-ufficiali se ne vanno in fumo”, ivi, p. 112. Intanto, alcune cose che si diceva illo tempore si sono realizzate: “Basterebbero poche modifiche minime per ridurre la Gran Bretagna al livello […] dell’Ecuador, o per dare alla Cina la chiave della ricchezza mondiale”, ivi, p. 109, corsivi miei …
E “gli uomini sono in realtà d’accordo nel mantenere la macchina in moto. E’ ciò che chiamavamo ‘la buona volontà civilizzata’”, da La Centrale di Energia (1910) in L. Pauwels – J. Bergier, Il mattino dei maghi, Oscar Mondadori, Milano 1979 (edizione francese 1960), p. 108. E “la civiltà trionferà sempre fino al momento in cui i suoi avversari non apprenderanno da essa stessa la vera importanza della Macchina”, ivi, p. 111. Fa di seguito il caso dei “cospiratori di Ginevra” contro i Romanov, fra cui Lenin …, che ben avrebbe compreso l’importanza della “Macchina”, solo che aveva fini sbagliati. Purtroppo, dopo di lui, quest’importanza è stata sottovalutata e tutte le “rivoluzioni culturali” tentate dai “non-ufficiali” sono fallite per questo preciso punto: “la civiltà sa utilizzare le energie di cui dispone, mentre le infinite possibilità dei non-ufficiali se ne vanno in fumo”, ivi, p. 112. Intanto, alcune cose che si diceva illo tempore si sono realizzate: “Basterebbero poche modifiche minime per ridurre la Gran Bretagna al livello […] dell’Ecuador, o per dare alla Cina la chiave della ricchezza mondiale”, ivi, p. 109, corsivi miei …
Venendo alla
“buona volontà civilizzata”, essa può aiutare solo in parte a spiegare quella
che gli stessi autori qui appena riportati chiamano la “criptocrazia”, parola
che, dopo, sarebbe divenuta il cosiddetto “complottismo”, reazione isterica ad un fatto reale: “Luigi XIV è un sole, ma tutti possono in ogni
momento entrare nel castello e assistere ai suoi pasti. Sempre sotto il fuoco
degli sguardi, semidei carichi d’oro e di piume, colpiscono sempre
l’attenzione, contemporaneamente ‘appartati’ e pubblici. Dalla Rivoluzione in
poi, il potere si rifà a teorie astratte e il governo si occulta. I
responsabili si dan da fare per passare per persone ‘come gli altri’ e nello
stesso tempo stabiliscono delle distanze. Sul piano delle persone, come sul
piano dei fatti, diventa difficile definire con esattezza il governo. […] Si
vedono pensatori assicurare che l’America ubbidisce unicamente ad alcuni
capitani d’industria, l’Inghilterra ai banchieri della City, la Francia ai
massoni, ecc. [dunque: queste non sono
novità, come si vede …; nota mia] […] Entra in scena una vera criptocrazia. Non abbiamo il tempo, qui,
di analizzare questo fenomeno, ma ci sarebbe da scrivere un libro
sull’avvento di ciò che chiamiamo criptocrazia”, ivi, p. 114, corsivi miei. In un libro, che presenta moti gravi
limiti “nostalgici”, e però pure molte cose giuste, si trova scritto come si è
diffusa la “criptocrazia”: “Un tempo, ricchezza significava indipendenza, non
aver bisogno di nessuno, non dover render conto a nessuno. Oggi, avviene
proprio il contrario: la ricchezza è una situazione meno indipendente della
povertà, perché la ricchezza è il credito.
Per abitudine, si dice ancor oggi, parlando di un uomo ricco che ricopra un
ruolo politico, che da parte di costui si può star sicuri: egli non farà niente
di disonesto perché avrebbe più da rimetterci che d guadagnarci [e, in Italia,
quest’argomento è stato strausato nel caso di Berlusconi, oggi negli Usa per
Trump: peste e corna a quella nazione
che si affidi ai multimilionari, si sta ponendo completamente in balia del
sistema e delle sue vicissitudini, come il “caso Italia” sta lì a dimostrare
“oltre ogni ragionevole dubbio”; nota mia]. Si
è in errore, e bisognerebbe dire il
contrario: guai al moderno Creso, se ha la sventura d’incorrere nelle ire
del capitalismo in cui affondano le sue radici: un colpo di scure è pronto, e
tutta la sua ricchezza di carta [oggi di bit] sarà buona sì e no ad accendere
un fuoco. Il multimilionario moderno è l’essere meno indipendente del mondo e, di conseguenza, il più facile a manovrarsi”,
E. Malynski, Fedeltà feudale, Edizioni di Ar, Padova 2010, p. 114, corsivi miei;
si tratta della ristampa anastatica dell’edizione del 1976. Tra l’altro, nell’Introduzione dell’epoca, di Marco Tarchi,
si facevano anche molte critiche
della “destra” dell’epoca – che potrebbero essere riprodotte oggi, però elevandole al quadrato -, la quale faceva
seguire ad analisi molto “pessimistiche” delle cure risibili: ma questo
potrebbe oggi esser riprodotto e diffuse praticamente dovunque. Non sentiamo
analisi “apocalittiche” seguite da terapie ridicole? Vi è un cancro sociale!,
si sente dire: curatelo come un raffreddore! I problemi “ecologici” sono
terribili: e mo’ questo, e mo’ quello, “dunque” un po’ di tecnologie rivista, e
tutto andrà poi a posto. Ma state scherzando? No, non stano scherzando: è che non capiscono cosa stanno dicendo, per
loro è tutto “virtuale”, ma, direi ed aggiungerei, ben poco virtuoso …
Ma torniamo a
Malynski, che aggiungeva: “Ora, le città sono e sempre sono state […] i
crogioli in cui l’uomo geloso della sua […] personalissima indipendenza, ed
imbevuto del sentimento della sua proprietà sovrana, si trasforma senza alcun
sforzo in cittadino. Quest’ultimo
rivendica soltanto la libertà di gridare, come una pecora che bela con il gregge
e la cui lana finisce in città, andando cioè a coloro che la finanziano e
l’hanno presa in appalto”, ivi, p. 115,
corsivo in originale. “In queste
condizioni, possiamo soltanto ammettere che noi, grandi e piccoli, ricchi e
poveri, uomini di città e uomini dei campi, proprietari e proletari, siamo
tutti, presi sia individualmente che corporativamente o socialmente, servi del
capitalismo. Servi travestiti da cittadini uguali nelle democrazie
parlamentari, affinché le personalità intelligenti ed eventualmente in grado di
ribellarsi al giogo siano soffocate dal cumulo delle mediocrità grigie, passive
ed incapaci di discernimento. Se lo comprendiamo, e vogliamo gridarlo per
chiarire le idee ai nostri contemporanei, la nostra voce non sarà udita, perché
tutti gli organi che la trasmettono rimangono sotto la sferza del capitalismo:
incontreremo solo dei sordi, e saremo costretti a starcene muti. […] Se, per un
caso straordinario, uno Stato potesse pagare il suo debito, ne farebbe u altro,
o presterebbe ad altri: tutto, purché non si sia nei panni di chi non ‘deve’ e
a cui non si ‘deve’. Chiunque siamo, ovunque ci troviamo, qualunque cosa
possediamo, non possiamo uscire per strada senza denaro, e neppure restare
nella nostra stanza. Senza denaro non
possiamo produrre e neppure consumare, né nascere né morire, o mangiare,
dormire, respirare – ed il peggiore dei mali è che tutto questo è finito per
sembrare affatto normale. Sì, noi siamo tutti, tanti quanti siamo […] –, i
servi del capitalismo”, ivi, p. 116,
corsivi in originale.
Le classiche
obiezioni sono che “il denaro è di ‘tutti’” e che è lo stato “a battere
moneta”: Malynski non ritiene nemmeno il caso di rispondere a tali “obiezioni”,
che si fermano solo alla superficie: si sa benissimo che anche le “Banche centrali”
sono in gran parte istituti privati
e che il debito pubblico è una creazione
del System. Uno stato non può indebitarsi con se stesso, infatti. “Ma
un’altra domanda, molto interessante, si pone a questo punto: com’è possibile
che anche i gradi capitalisti rientrino in tale ipotesi? Come possono essere i
servi del capitalismo, dato che essi ne sono la sostanza? Ne sono, in effetti,
la sostanza ed eventualmente i co-beneficiari economici, senza formare
necessariamente le cellule direttrici […]. Questi grandi capitalisti
costituiscono, per la maggior parte, soltanto le articolazioni mediante le
quali si agisce e talvolta si strangola. La loro partecipazione ai profitti
dell’organismo – il cui piano d’insieme è loro generalmente sconosciuto – è
legata all’espressa condizione di obbedienza. Il che essi non mancano di fare,
senz’alcuna particolare perfidia, grazie al loro disinteressamento
materialistico verso quel che non li tocca immediatamente. Con adeguate
epurazioni dei ranghi, si è d’altronde provveduto a dimostrare loro come, nel
caso in cui il desiderio d’indipendenza superasse certi limiti, essi
rischierebbero di essere prontamente ‘giustiziati’. Un granello di sabbia negli
ingranaggi dei loro affari, una scadenza mancata e ciò è sufficiente a
stroncare la fiducia e il prestigio su cui si basa il loro credito [ecco la
chiave, il credito; nota mia]:
spesso non c’è bisogno d’altro per abbattere questi esseri così vulnerabili che
la folla guarda come dei giganti. Ma dove si trovano allora le cellule di
comando e di unificazione? Tutta la forza del capitalismo rientra in questo
circolo cabalistico, la cui circonferenza si trova ovunque, come possiamo
osservare senza difficoltà, ma il cui centro sembra
non essere da alcuna parte.
Siamo tuttavia costretti a dedurre la sua esistenza oggettiva ed effettiva con certezza matematica. In ogni tempo e in ogni luogo ne constatiamo gli effetti molteplici e […] coordinati, con una precisione nei dettagli e una coerenza […] da escludere […] ogni ipotesi di coincidenze. Con nostro grande dispiacere, non siamo in grado di fornire a questo proposito rivelazioni inedite. Tutto quel che rientra nel nostro potere si esaurisce nella osservazione che il sistema capitalistico è, grazie a ciò, la più universale società segreta per eccellenza, la più formidabile, la più universale società segreta mai esistita. Noi tutti, infatti – compresi quanti si sforzano di segnalare il fenomeno [dunque anche l’autore citato come pure l’autore che sta scrivendo … e compresovi l’eventuale gentil lettore; nota mia] –, siamo costretti, direttamente o indirettamente [forse questa è l’unica, vera differenza; nota mia], a contribuire all’esaltazione di questa potenza che neppure conosciamo”, ivi, p. 117, corsivi in originale. L’autore citato, nelle frasi finali, è sincero, né, poi, è agevole o facile individuare tali “gangli” perché non sono meramente “economici”, ecco il punto vero. Ricordo, a tal proposito, dei “meccanismi cogenti”, la frase di un professore che spiegava certi meccanismi riguardo ad alcuni fondi europei a dei giovani aspiranti imprenditori. Diceva: “Io so perché siete qui: perché volete esser liberi. L’imprenditore non è libero. Ha il più spietato dei padroni: il mercato”. E il suo assistente alla lezione, così glossava: “Eh sì, perché forse puoi anche impietosire un padrone umano, ma non un meccanismo”. Come si vede, sono cose, a livello di percezione, molto più diffuse di quel che non si pensi usualmente il punti – vero – sta nel fare “inferenza” dall’evento e dal “fatto” che si esperisce concretamente, al piano più generale della legge di funzionamento sistemico. Ma questo è sempre stato il passo più difficile.
Siamo tuttavia costretti a dedurre la sua esistenza oggettiva ed effettiva con certezza matematica. In ogni tempo e in ogni luogo ne constatiamo gli effetti molteplici e […] coordinati, con una precisione nei dettagli e una coerenza […] da escludere […] ogni ipotesi di coincidenze. Con nostro grande dispiacere, non siamo in grado di fornire a questo proposito rivelazioni inedite. Tutto quel che rientra nel nostro potere si esaurisce nella osservazione che il sistema capitalistico è, grazie a ciò, la più universale società segreta per eccellenza, la più formidabile, la più universale società segreta mai esistita. Noi tutti, infatti – compresi quanti si sforzano di segnalare il fenomeno [dunque anche l’autore citato come pure l’autore che sta scrivendo … e compresovi l’eventuale gentil lettore; nota mia] –, siamo costretti, direttamente o indirettamente [forse questa è l’unica, vera differenza; nota mia], a contribuire all’esaltazione di questa potenza che neppure conosciamo”, ivi, p. 117, corsivi in originale. L’autore citato, nelle frasi finali, è sincero, né, poi, è agevole o facile individuare tali “gangli” perché non sono meramente “economici”, ecco il punto vero. Ricordo, a tal proposito, dei “meccanismi cogenti”, la frase di un professore che spiegava certi meccanismi riguardo ad alcuni fondi europei a dei giovani aspiranti imprenditori. Diceva: “Io so perché siete qui: perché volete esser liberi. L’imprenditore non è libero. Ha il più spietato dei padroni: il mercato”. E il suo assistente alla lezione, così glossava: “Eh sì, perché forse puoi anche impietosire un padrone umano, ma non un meccanismo”. Come si vede, sono cose, a livello di percezione, molto più diffuse di quel che non si pensi usualmente il punti – vero – sta nel fare “inferenza” dall’evento e dal “fatto” che si esperisce concretamente, al piano più generale della legge di funzionamento sistemico. Ma questo è sempre stato il passo più difficile.
[8]
M. Paggi, La spada e il labirinto, cit., p. 69, corsivi in originale. Tra
l’altro, i membri della Compagnia sono “liberi”; “Ciascuno dei ‘liberi
compagni’ mantiene […] la sua libertà di giudizio e di scelta; l’unico legame è
con se stessi: il legame della lealtà nei confronti dei compagni (che Boromir
tradirà, ma riscattandosi dando la vita per Mary [Merry] e Pipino)”, ivi, p. 66.
[9]
Ivi, pp. 70, corsivi in originale.
“La svalutazione della weberiana autorità ‘burocratica’, o ‘razionale’, assume
tinte comiche con le ridicole Regole [degne dell’italica burocrazia …, nota
mia] che dovrebbero ordinare la vita civile nella Contea, finita in mano a
Sharkey, e a cui si contrappone la forza salutare della spada sguainata, mossa
dalla virtù [ma dove trovarle, oggi:
domanda retorica; nota mia]. Materialismo e razionalismo, dello spirito e della
società, comportano dunque una vita di relazione non tra persone, ma tra
individui, atomi umani indifferenziati e vicendevolmente sostituibili che non
hanno né il desiderio né la capacità di dominare le pulsioni istintuali più
primordiali. Il mondo psichico dei soggetti si fa angusto e squallido: scomparsa
la virtù, l’uomo non sa più imporsi a se stesso o alle forze che governano il
mondo delle bestie; diviene bestia egli stesso, bestia triste che non conosce
altro che i due poli del piacere banale o del dolore volgare”, ivi, p 71.
Eh già … Piaceri banali,
dolori volgari? Ma non è il nostro presente?
[10]
R. S. Noel, La mitologia di Tolkien. I miti antichi nel mondo fantastico della
Terra-di-mezzo, Rusconi Libri, Milano 1984, pp. 146-149, corsivi in
originale, i miei corsivi aggiunti son segnalati fra parentesi quadre. En passant, va ricordata, a tal
proposito, la nota opera di Stravinkij, “Stravinsky
Conducts Firebird”: Finale,
https://www.youtube.com/watch?v=KD6OKfnB34E.
Sull’ “uccello
di fuoco”, ch’è immagine dell’ “Uccello di Tuono” – fulmine con tuono son legati, Guénon docêbat - quest’immagine è interessante,
tratta da: N. Bancroft-Hunt, Popoli dei Totem. Gli Indiani della costa
americana nordoccidentale, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1979,
immagine del retro di copertina,
legenda: “Maschera Kwakiutl dell’Uccello di Tuono”,
Questi sono i
popoli del potlatch (ivi, pp. 51-67), ovvero la
redistribuzione che fa salire sulla cala sociale, non come da noi la “carità”,
che lascia l’ordine sociale così com’è. Tant’è che questi popoli vissero una stagione
molto felice nella fase del commercio con gli europei, perché potevano
accumulare molte ricchezze, finché la troppa vicinanza li portò a scontrarsi
con la società occidentale, venendone sconfitti, anche se non del tutto. Ed è
quel che ne facevano, di tale ricchezza, la “specificità” di questi popoli,
studiati anche da Baudrillard, ma pure da tanti antropologi, come una risposta
originale al problema dell’accumulo diseguale delle ricchezze: essi la
redistribuivano, e chi la redistribuiva di più, tanto più salive nell’ordine
sociale, cosicché i più ex-poveri erano i più potenti – nell’ordine sociale,
intendo. Nella prima fase, dunque, dovevi accumulare, con logica “economica”
classica, mentre nella seconda, invece, dovevi redistribuire, sennò eri ricco
sì, ma nella società non contavi: quale
differenza con il nostro presente! Che differenza con noi, schiavi dei plutocrati!
Tra l’altro,
interessante quel che si dice in quest’ultimo testo relativo ai, da me molto
amati, “Popoli dei Totem”, a riguardo dell’ “uccello di fuoco”: “Gli spiriti
totemici. Le cui origini erano mitiche, non avevano niente a che fare con gli
spiriti soprannaturali, che erano costantemente manifesti agli uomini. […]
L’Uccello del Tuono, un uccello gigante che provocava tuoni nel muoversi e che
teneva con sé lampi dalla forma di serpenti, proprio ‘come un uomo tiene un
cane’, era ritenuto al causa soprannaturale delle tempeste e veniva avvistato
regolarmente durante gli acquazzoni e i temporali che imperversavano sulla
costa”, ivi, p. 73, corsivi miei.
L’antropologo in questione, andato fra i “Popoli dei Totem”, ha correttamente
appreso che una cosa son gli “spiriti totemici”, altra i “poteri soprannaturali
della natura”, alias: il lato “sottile” della Natura, diremmo noi, nel “nostro”
linguaggio, che non è solo nostro … Tra l’altro, “l’Uccello di Tuono” non è
solo proprio dei “Popoli dei Totem”: anche quelli delle Pianure vi erano
legati, e, nel loro sistema simbolico, era ricollegato ai Guerrieri “contrari”
e all’ovest. “Oggi la divinità più popolare tra gli ultimi Winnebago [popolo
parlante lingua sioux] che vivono nelle riserve è l’Uccello del Tuono, da loro
chiamato Wakandja, ‘colui che è
divino’. Un dio per eccellenza, quindi, le cui avventure, nei miti degli
Indiani di mezza America, sembrano assumere le immagini e il ritmo di un
decadentismo avanzato; ridotte nelle lingue occidentali, le sue avventure non
sono che il pallido riflesso di un fraseggiare a volta drammaticamente
espressivo, a volte dolce e poetico, ma pur sempre frammentario. Mai
considerato come segna della collera divina, né come manifestazione in sé di
una natura eccezionale o di un accadimento raro e insolito, ma esso stesso un
eroe culturale, l’Uccello del Tuono rappresenta senza dubbio un personaggio o
un avvenimento storico: quasi certamente si tratta dello scontro fra due
diverse civiltà e religioni. Infatti, gli uomini che condussero la guerra
vittoriosa contro gli Algonchini per aprirsi una via verso i fertili territori
del Wisconsin nord-occidentale, appartenevano al clan dell’Uccello del Tuono”,
R. Bosi, Indiani d’America. Storia, miti e leggende dei “Pellerossa”, Convivio-Nardini Editore,
Firenze 1992, p. 156, corsivo in
originale. Qui l’interpretazione è come se fosse il riflesso di una lotta
storica.
Sui “Popoli dei
Totem”, cf. “La gesta di Asdiwal”, in C. Lèvi-Strauss,
Razza e storia e altri studi di
antropologia, Einaudi editore, Torino 1967 [ben 50 anni fa …], pp. 195-243; ovviamente, il punto di vista
dell’autore citato è molto limitato,
“strutturalista”, come si dice, ma ciò non toglie l’interesse delle
informazioni.
Interessante
pure quel che ne dice – dello Oiseu de Tonerre
– M. Schneider, i già citato (molto importante) antropologo musicale: “Secondo
i Mattole (California) e i Sakai (Malacca), una coppia di gemelli divini ha
creato il mondo per mezzo d’un vento turbinante. Credenza simili si trovano
anche presso i nomadi mongoli. Ma la voce creatrice più popolare è quella del
tuono: i Cheyenne americano rappresentano nelle loro pantomime il gran Manitù
che dà origine al mondo per mezzo della voce del tuono. La natura duplice del
dio del tuono (creatore + transformer)
si manifesta soprattutto nella distinzione tra i differenti rumori che gli sono
attribuiti. A Timor, si distingue il tuono secco, chiaro e celeste da un altro
tuono la cui voce è grave, rombante e terrestre. Gli Zulu non temono il tuono
celeste, ma hanno molta paura di quello della terra. Per i Masai il tuono è
buono e nero allorché si fa sentire da lontano; è rosso e malvagio quando è vicino.
Gli Ewè (Africa) chiamano maschile il tuono violento e improvviso e femminile
il rimbombo prolungato. Tuia-futuna, il dio del tuono dei Polinesiani, gridando
si divide in due parti (Tonga). Per i Mbowamb (Nuova Guinea) il tuono è una
coppia di gemelli chiamati Ngakukl e Ngalka. Nella Cina antica, il tuono che
segnava l’inizio della vita cosmica e ogni suo rinnovo primaverile era
considerato come una risata delle nubi”, M. Schneider,
La musica primitiva, cit., pp. 26-27.
Interessante il
sottocapitolo dedicato all’ “eroe civilizzatore”: “Come tutti gli imperatori, Yü il Grande era un fabbro. Creò il tamburo a calice
(‘la porta del tuono’) e i nove paioli sonori corrispondenti alle nove parti della terra. Introdusse la fusone dei metalli e
costruì dei ‘tamburi di bronzo’. Sconfisse il drago della siccità [interessante che il drago sia il fiume,
la pioggia, ma pure la siccità; nota
mia, considerazione da farsi, appunto, soprattutto in tempi di siccità, come i
“nostri”, in tutti i sensi di siccità …] emettendo con il suo corno il suono del drago dell’acqua.
Danzava piegando una gamba, per imitare l’uccello della pioggia o il dio del tuono che danza su
un solo piede. Poiché aveva ‘una voce intonata’ corrispondente all’essenza
degli oggetti che imitava, poté diventare egli stesso il fagiano che, con il fruscio
delle ali, porta il tuono. ‘Nel primo mese dell’anno [cinese] vi sono
necessariamente dei tuoni; ma non necessariamente il tuono viene udito. Sono i fagiani a fare in modo che
necessariamente lo si oda’”, ivi, pp.
60-61, corsivi miei. Interessante il
legame fra drago e coccodrillo (Tuono
> Drago, quest’ultimo, nel Cristianesimo, essendo l’aspetto negativo del Verbum il cui lato positivo è spesso simbolizzato dal Leone), cf. ivi, p. 62, e che, a
proposito del legame drago > coccodrillo, si dica: “In seguito, lo sforzo
degli imperatori [cinesi] si rivolse alla trasformazione della musica naturale
in musica artistica e alla creazione di un buon repertorio musicale. […] Il
coccodrillo T’o (tamburo) fu incaricato di segnare il ritmo con i suoni yang […]. Ma si cercava anche di usare quella nuova musica per fini
magici. Il re Wu fece comporre alcuni canti e costruire alcuni canti e
costruire numerosi strumenti musicali il cui suono obbligava il fagiano a
regolare il suo volo sui ritmi dell’orchestra imperiale. Yü il Grande arrivò
persino a mettere la musica al servizio della propaganda. Quando ebbe
incanalato i grandi fiumi, ordinò al musicista An-yao di comporre le nove parti
dello Hsiao Yüeh, che celebra le imprese
[…] dell’imperatore”, ivi, pp. 62-63,
corsivi in originale. Questo introduce all’ultimo capitolo di quest’importante
libretto, intitolato: “Il pensiero magico
sopravvive parzialmente nelle idee estetiche” (ivi, pp. 127-135, maiuscoletto in originale), il che è verissimo
nella cultura dell’Asia orientale, ma se ne possono trovar echi anche nel cosiddetto Rinascimento, in certe
“rocce animate” di Leonardo e in certi suoi dipinti, per esempio. In realtà, il
“Rinascimento” non esiste, esso è
la “fase acuta” di passaggio tra “l’ Autunno del Medioevo”
e la “prima fase dei tempi moderni”.
Sulle “rocce animate”, cf. J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico, Adelphi editore, Milano 1973, pp. 228-238.
In questo stesso testo si parla degli “esseri del tuono”, fra cui il Lei-kung
[Leigong], il Duca-Tuono cinese, ivi,
pp. 182-185, esseri considerati negativi, responsabili del fatto che il diavolo
romanico aveva ancora le ali, mentre il diavolo gotico aveva le ali di
pipistrello, come gli esseri del tuono estremorientali, ovviamente considerati
neutri o ambivalenti, se non positivi, in Asia orientale, mentre considerati
negativamente nell’Occidente medioevale. Di nuovo, si riparla del Lei-kung in ivi,
pp. 210-211.
Per chi
s’interessi della “genesi della ‘modernità’” e di quel “qualcosa”, cui s’è
fatto cenno in altri post
precedenti, che ha presieduto a quel che ha impiantato
la “deviazione” dentro lo sviluppo
della scienza moderna, la quale dopo,
sarebbe divenuta la tecno-economia coordinata – il
System -, questo passo potrebbe risultare interessante: “Così il talismano contro il Lei-Kung ha preso, come la divinità, il cammino dell’Ovest. Servirà, infatti, a proteggere il re di Francia contro le sue devastazioni. […]
Comunque stiano le cose, il diavolo-folgore aveva il suo posto nella gerarchia
dei demoni, ed è sopravvissuto al
Medioevo. Secondo Cornelio Agrippa (1530) e il suo allievo Jean Wier
(1560), i teologi lo annettono al sesto ordine degli spiriti malvagi: ‘le
potenza aeree che si mescolano fra i tuoni, i fulmini e i lampi’. De Lancre,
che condusse nel 1609 i processi di
stregoneria nella regione di Bordeaux, lo
prende egualmente in considerazione, e il suo trattato comprende
un’informazione assai curiosa sui ‘demoni e gli Spiriti maligni che sono stati
scacciati dall’India e dal Giappone’, con la seguente precisazione ‘Si sono
trasferiti in massa nella Cristianità e, avendo qui trovato favorevoli sia i
luoghi sia le persone, ne han fatto la loro dimora
principale e a poco a poco si sono resi padroni del paese’. Viaggiatori
inglesi e scozzesi li hanno visti al tempo del loro passaggio in Francia, in
grandi truppe, sotto forma di uomini spaventosi. Senza dubbio si tratta solo di
una favola che rivaleggia per fantasia con tante altre, ma riflette ancora il ricordo
dell’epopea asiatica del Diavolo”,
ibid., corsivi miei. Vi sarebbe molto da dire …
Vuolsi costì
concluder questo momento di riflessione tornando a Schneider, dove, parlando di
Yü il Grande, diceva che imitava il fagiano il cui “fruscio delle ali” – passo
riportato qui sopra – poteva portare la pioggia = legame fra “Uccello di Fuoco”
– il fagiano n’è simbolo – e “Uccello di Tuono”, dove il tuono sta per
manifestazione del Verbum. Ebbene, lo
stesso Schneider riporta un dato interessantissimo:
“Le cosmogonie vediche, indù e persiane ci riferiscono che, già nei tempi
mitici, dèi e demoni, conoscendo la potenza del sacrificio sonoro, si batterono
con accanimento per il possesso della forza. In certe occasioni non esitarono
persino a farne cattivo uso. La offuscarono con la menzogna. Il Tândya Mâha Brâhman riferisce che, a
causa di quell’insostenibile situazione, la Parola un giorno sfuggì
parzialmente agli dèi e andò a stabilirsi nelle acque e negli alberi, nelle
cetre e nei tamburi. La Chândogya Upanishad espone gli stessi fatti in
modo più filosofico. Narra che il mondo fu generato dalla sillaba om, che costituisce l’essenza del sâman (canto) e del soffio. Elenca poi
le differenti tappe che segnano la progressiva materializzazione del mondo […].
Secondo il trattato Il fruscio delle ali
di Gabriele di Shihâboddin Yahyâ Sohrwardî, Dio possiede alcune parole
maggiori che fanno parte delle parole luminose emananti dal fulgore del suo
volto. Dall’irraggiamento di quelle parole procede tutta la creazione. L’ultima
di queste parole si manifesta nel fruscio delle ali di Gabriele: quella destra
è la luce pura e assoluta, ed è in rapporto soltanto con Dio; dall’ala
sinistra, sulla quale si stende una impronta tenebrosa, proviene il nostro
mondo di miraggi ed illusione. Il mondo non è altro che un’eco o un’ombra di
quest’ala. Secondo i Dogon (Africa), il signore della parola ha preso una parte
della propria parola e l’ha introdotta nella pietra, la materia più antica del
mondo. Ciò significa che al momento della creazione fisico una parte della
forza del sacrificio sonoro si rivestì di materia. In quello stesso momento
comincia già la parziale decadenza del mondo acustico, poiché le ‘immagini’
materiali (gli oggetti) elaborate durante questa seconda fase della creazione
non sono più che riflessi delle antiche immagini acustiche. Sebbene un gran numero di quella immagini
materializzate sino ormai prive di ogni sorta di voce, tutti gli esseri e tutti gli oggetti
rivestiti di materia continuano tuttavia a racchiudere una certa quantità delle
propria sostanza acustica originale. Tale sostanza si manifesta nella loro
voce, o nel suono che da loro si può trarre, o semplicemente nel nome che
portano. Si costituisce così, fra l’uomo e l’oggetto più inanimato e muto,
tutta una gerarchia di valori, stabiliti secondo il grado o l’intensità con la
quale ogni essere, […] ogni oggetto, è capace di realizzare la sostanza
acustica della propria materia. A seguito di quest’evoluzione provocata dal
demiurgo gli uomini persero i loro corpi sonori, luminosi e trasparenti, e
cessarono di librarsi nell’aria. Divennero pesanti e opachi e, allorché
cominciarono a mangiare i prodotti della terra,
la loro natura acustica si attutì a tal punto che rimase loro solo la voce.
[…] Per attuare questa materializzazione del mondo acustico, fu necessaria la
collaborazione di tutta una gerarchia di dèi, di demiurghi e di spiriti, i
quali si trassero di bocca in bocca e di grado in grado le loro forze sonore,
al fine di tessere il velo di mâyâ
offuscando il suono-sostanza con la materia”, M. Schneider, La musica
primitiva, cit., pp. 35-37, corsivi e maiuscoletto in originale. In questo
processo di discesa e materializzazione,
si manifesta infine il “rivale primordiale” la forza demiurgica, che Schneider
chiama “transformer”, ivi, p 37, corsivo in originale, che porta la morte nel mondo.
Sempre in
relazione al “perdurare”, in civiltà “superiori”, dell’aspetto “magistico”, vi
è un interessante passo dove Ouspensky riporta queste parole di Gurdjìeff:
“Stavamo parlando, in un’altra occasione, del Buddismo di Ceylon. Io avevo
espresso l’opinione che i buddisti devono
avere una magia, della quale non riconoscono l’esistenza e la cui stessa
possibilità è negata dal buddismo ufficiale. Senza alcun rapporto con
quest’osservazione e mentre, se ben ricordo, stavo mostrando la mi fotografia a
G. [Mister G. = Gurdjieff], gli parlai di un piccolo reliquiario che avevo
visto in una casa di amici a Colombo [capitale di Ceylon, come si chiamava in
quell’epoca l’attuale Sri Lanka], dove vi era, come di consueto, una statua del
Budda [sic] e, ai piedi di questo
Budda, un piccola ‘dagoba’ in avorio a forma di campana, ossia una piccola
riproduzione cesellata di un vero dagoba [reliquiario buddhista in forma di campana, nota mia], vuoto all’interno.
I miei ospiti lo aprirono in mia presenza e mi mostrarono qualcosa che era
considerato una reliquia: una pallina rotonda della misura di una palla di
fucile di grosso calibro, cesellata, mi pareva, in una specie di avorio o di
madreperla. G. mi ascoltava attentamente. ‘Non vi hanno spiegato il significato
di questa pallina?’ domandò. ‘Mi hanno detto che si trattava di un frammento di
ossa di uno dei discepoli di Budda; che era una reliquia sacra molto antica’.
‘Sì e no disse G. L’uomo che vi ha mostrato il frammento di osso, come voi
dite, non sapeva nulla o non voleva dirvi nulla. Infatti, non era un frammento
osseo ma una formazione ossea particolare che appare intorno al collo come una
specie di collana, in seguito a certi esercizi speciali. Avete già sentito
l’espressione “collana di Budda”?’. ‘Sì, dissi, ma il senso è tutto diverso. E’
la catena delle reincarnazioni del Budda che viene chiamata “collana di
Budda”’. ‘E’ vero, disse, questo è uno dei significati di tale espressione, ma
io parlo di un altro significato. Questa collana ossea che circonda il collo,
sotto la pelle, è direttamente legata a ciò che viene chiamato “corpo astrale”.
Il corpo astrale vi è in qualche modo collegato, o per esser più precisi,
questa “collana” collega il corpo fisico al corpo astrale. Ora, se il corpo
astrale continua a vivere dopo la morte del corpo fisico, la persona che
possiede un osso di questa “collana” potrà sempre comunicare con il corpo
astrale del morto. Questa è la loro magia. Ma non ne parlano mai apertamente.
Voi avete dunque ragione di dire che essi hanno una magia, e ne abbiamo qui un
esempio. Ciò non significa che l’osso che avete visto sia veramente un osso. Ne
troverete altri quasi in ogni casa, vi parlo soltanto della credenza che è alla
base di questa usanza’. E dovevo ammettere ancora una volta di non aver mai
incontrato una tale spiegazione. G. abbozzò per me un disegno indicando la
posizione degli ossicini sotto la pelle; essi formavano, alla base della nuca,
un semicerchio che cominciava un po’ prima delle orecchie. Questo disegno mi
ricordò immediatamente la solita rappresentazione schematica dei gangli
linfatici del collo, così come si possono vedere sulle tavole anatomiche. Ma
non riuscii a saperne di più”, P. D. Ouspensky,
Frammenti di un insegnamento sconosciuto,
Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma 1976, pp. 73-74, corsivi in originale.
[11]
Il che non potrà avvenire senza l’aiuto di forze ben superiori anche alle
religioni attuali, G. Bilancioni, Architettura esoterica. Geometria e teosofia
in Johannes Ludovicus Mattheus Lauweriks, Sellerio editore, Palermo 1991, pp.
32-40, dove si parla lungamente del Re
del Mondo e dell’ Agarthi,
citando soprattutto Guénon.
A parte la
differenza fra “Agartha” (o “Agarthi”) e Shamballah
– pur essendo due facce della stessa
medaglia, tuttavia –, va precisato che “L’ Agarttha,
si dice, non fu sempre sotterranea, né lo rimarrà per sempre […]. Prima della
sua scomparsa dal mondo visibile, il centro portava un altro nome perché, a
quell’epoca, quello di Agarttha, che
significa ‘impenetrabile’ o ‘inaccessibile’ (e anche ‘inviolabile’, poiché è il
‘soggiorno della Pace’, Salem), non
sarebbe stato adatto: Ossendowski precisa che il centro è divenuto sotterraneo
‘più di seimila anni fa’, data che corrisponde con sufficiente approssimazione
all’inizio del Kali-Yuga o ‘età
nera’, l’ ‘età del ferro’ degli antichi Occidentali, l’ultimo dei quattro
periodi nei quali si divide il Manvantara;
la sua ricomparsa deve coincidere con la fine di tale periodo”, R. Guénon, Il Re del Mondo, Adelphi Edizioni, Milano 1977, p. 79, corsivi in originale; la discussione continua nelle
pp. 80-84.
Sorvolo sulla
“localizzazione dei centri secondari”, per quanto interessantissima, storicamente
parlando, perché questa è cosa secondaria, dal punto di vista qui espresso. In
ogni caso, con la debolezza di tutti i centri spirituali “secondari” – come li
chiamava Guénon –, davvero “dove” siano e dove, dal punto di vista storico,
siano stati, è la minore delle
nostre preoccupazioni. Veniamo a come termine il libro succitato succintamente.
Prima di riportare il passo, dove Guénon, a sua volta, cita de Maistre che
usava il termine “oracolo”, proprio in relazione all’uso di de Maistre, di tal
termine, in nota Guénon precisava: “E’ quasi superfluo, per evitare ogni
apparenza di contraddizione con la
cessazione degli oracoli cui alludevamo prima, e che Plutarco aveva già osservato, far notare che la parola ‘oracolo’ è
intesa da Joseph de Maistre in senso molto ampio, come si fa spesso nel linguaggio corrente, e non nel senso proprio e preciso che aveva
nell’antichità”, ivi, p. 111, corsivi
miei.
Detto ciò,
veniamo a come termina Il Re del Mondo,
con la citazione del passo di de Maistre: “Vogliamo astenerci da tutto ciò che,
in qualche modo, possa somigliare a una ‘profezia’; veniamo a citare tuttavia,
per concludere, una frase di Joseph de Maistre, che è ancor più vera oggi che
un secolo fa: ‘Bisogna tenerci pronti per un avvenimento immenso nell’ordine
divino, verso il quale procediamo a una velocità accelerata che deve colpire
tutti gli osservatori. Temibili oracoli annunciano che i tempi sono giunti’”, ivi, pp. 111-112. Se si osserva che le
frasi di de Maistre erano di un secolo circa prima di quando Guénon scriveva –
l’edizione originale del testo di Guénon è del 1927 … – , se ne deve dedurre che “i tempi son giunti” con estrema lentezza, con grave scorno dei “tradizionalisti” à la de Maistre, per i quali, la fine
dell’ “alleanza fra trono ed altare”, era
“la fine ‘del mondo’” tout court,
cosa che non è stata. Non solo, ma neppure gli anni Venti e Trenta del secolo
scorso lo sono stati: c’era sì stata la Prima Guerra Mondiale, che, nessun dubbio al riguardo, aveva già
segnato un taglio”, una coupure netta.
E tuttavia, non aveva però ancora “segnato” che “i tempi son giunti”
irreversibilmente. La “reversibilità” c’è stata, eccome, essa è rimasta, ed è stata pure usata ed applicata.
Insomma, il “ganglio” – o “i gangli”
– è rimasto, intatto. Gli “oracoli”
del caso si riferivano a tempi molto ma molto futuri, rispetto a quando furono
detti: i tempi non erano giunti
affatto, anzi, avrebbero latitato,
e a lungo, al punto che oggi, pur
con tutto quel ch’è successo nel frattempo, e non
è poco affatto, pur con tutti i
disastri e le “catastrofi” d’ogni genere accadute nel frattempo – e davvero
c’è l’imbarazzo della scelta –, pur
tuttavia “i tempi non sono giunti”.
Per lo meno, non ancora, al punto
che quasi tutti, ormai, dubitano che possano mai venire, dimenticando, però,
che spesso è quando non ci si attende
che qualcosa possa succedere che quel qualcosa succede, obliando che la via
sulla quale s’incontra il destino è spesso
quella che si è presa per evitarlo.
Nondimeno, non si eluda il problema. Il punto è che lo “sblocco” della
situazione può avvenire solo e soltanto se quel punto centrale, intuito – ma non veramente compreso – da Malynski, le cui frasi sono state brevemente riportate qui su, non sia per
lo meno gravemente intaccato. Questo punto centrale oggi è in crisi, per lunghi
motivi che si è in parte
analizzati nel blog, ma, come s’è detto in altri post, l’analisi delle
debolezze strutturali del System è insufficiente a farlo collassare, nemmeno
nella versione “rivista” di Marx che Baudrillard sviluppò negli anni Settanta,
comunque l’unica analisi che abbia veramente sviluppato Marx, pur criticamente, Marx, per cercare di
ricostruire uno schema che ponesse il System di fronte al suo scacco (cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/05/una-frase-tratta-da-luomo-dellanno-2006.html,
nota n°4, parte finale).
Tutto quel che
scrisse Baudrillard è vero, ma insufficiente.
Ci vuole una “causa scatenante”, fin ora non
ritrovata, perché il System è una costruzione cibernetica – ha cioè dei kybernetes, dei piloti, come intuiva Malynski illo
tempore – che si autoregola e fa fuori chiunque possa uscire dal “cerchio”,
in questo applicando la tattica che avrebbe reso Sauron invincibile, ne Il
Signore degli Anelli. In questo testo, invece, Sauron attacca, ad un certo
punto attacca, quel che ha sempre in tanti decenni accuratamente evitato di fare,
nona caso. Attaccherà dunque solo e soltanto quando vi sarà costretto e cioè
quando non potrà farne a meno, ecco perché individuare il punto in cui “non ci
sono più mosse” diventa decisivo … E probabilmente siamo al termine del numero
di mosse possibili: cf.
http://www.superzeko.net/doc_incanus/IncanusSriAurobindoELaTrasformazioneDelMondo.pdf.
Tornando a de
Maistre (1753-1821), la frase citata da Guénon nelle frasi finali de Il Re del Mondo provengono dall’ Undicesima conversazione: “Più che mai,
signori, dobbiamo occuparci di queste elevate speculazioni, perché dobbiamo
tenerci pronti per un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale
marciamo a velocità accelerata che deve colpire tutti gli osservatori. Non c’è
più religione sulla terra: il genere umano non può rimanere in questo stato. Temibili
oracoli annunciano del resto che i tempi
sono arrivati”, J. de Maistre,
Le serate di San Pietroburgo, Fede
& Cultura, Verona 2014, p. 172, corsivi in originale. Infatti, che fossero
“arrivati”, s’è visto: né disastri né guerre sanguinose o crisi sociali sono,
di per se stessi, “l’” Apocalisse,
questo è il punto dirimente.
Seguiva una discussione sull’interpretazione dell’ Apocalisse di Giovanni come riferita ai
tempi moderni (della prima metà del XIX
secolo), dove de Maistre presentava questi temi in un dialogo, e
l’attenzione dell’autore citato è tutta da un’altra parte: sulla “diabolicità”
della Rivoluzione francese, siamo, cioè, in presenza di quel “tradizionalismo”
che vuol difendere un determinato
assetto della società concepito come unico
possibile, e tratta della “catena degli errori del mondo moderno”, critica in parte giustissima, ma che cade sempre sul punto essenziale: la difesa di una determinata fase storica come unica,
il che è un punto debolissimo, per cui ogni tradizionalismo, alla fin fine,
serve gli interessi dominanti di un determinato periodo né a alcun’altra
possibilità. Alla fin fine, le religioni sono tornate sulla scena sociale, il
“ritorno al ‘sacro’” è stato soprattutto il ritorno all’aspetto sociale della religione, religione e politica, di nuovo unite seppur con
delle modalità un tempo pensate come “eretiche”, ed ecco che da un lato la via
no è cambiata e, dall’altro, i famoso “i tempi son giunti” di cui de Maistre
paventava, con desiderio, il pericolo non sono potuti accadere proprio perché
quella cosa che lui vedeva, il “non c’è più religione”, non si è realizzato, per lo meno non nelle modalità che lui paventava: qualcosa non torna nel ragionamento di
de Maistre come in quello di tutti
i “tradizionalisti”. Ma perché volete quanto negate? E negate quanto volete? Volete
“la modernità” e l’influenza pubblica che ne deriva, ma la negate; non potendo
averla, paventate di “fini” che, a parole, solo a parole, volete, quando
l’attenzione se ne va, invece, in politica, alla ricerca di una politica,
peraltro sparita, che il sistema da solo ha reso polpetta o polpettone: entrate
nelle sale dei bottoni” dove, però, i bottoni non ci sono più o, se rimangono,
sono quelli per i vestiti, non le “leve” del comando. Una delle tipiche
manifestazioni, insomma, di quella “mentalità contraddittoria” che, secondo Guénon,
è una delle caratteristiche dello sviluppo moderno, che accumula “nodi” senza poterli, diceva lui, – manco volerli, aggiungerei io … – risolvere.
Non vi è alcuna
traccia, in queste frasi di de Maistre, peraltro del tutto staccate” dal
contesto dell’intero suo libro, non vi è traccia della “radicalità” di Guénon,
il quale si riferiva a cosa di tutt’altra “amplitudine” della difesa di una
fora religiosa. La spia di questa mentalità sono le frasi di de Maistre: “non
vi è più religione”, e questo ritornello di ogni conservatorismo, sentito e
risentito nel corso del Novecento e in quest’inizio del XXI secolo, niente ha
potuto contro la caduta dell’umanità in un budello strettissimo. Mi accorsi,
leggendo con attenzione questi passi sull’Isola tiberina quest’anno, quanto de
Maistre e Guénon, apparentemente simili, fossero invece differenti: essi
parlano di due cose diverse, di amplitudine assolutamente non comparabile: “l’avvenimento immenso” di de Maistre rimane
assolutamente sullo sfondo, è una brevissima pennellata in un libro che si
focalizza su tutt’altro; ben diversa
la visione di Guénon, a tal proposito. Questo “avvenimento immenso” era il “non
c’è più religione”, per quanto giustificabile all’epoca, il pericolo era il
modernismo o, al massimo, il socialismo: ormai quest’ultimo non c’è più come sistema, e il modernismo, realizzatosi,
fa parte del passato. Tutto ciò già è avvenuto, ma “la fine”, come poteva
concepirla un de Maistre – e tutto l’Ottocento “tradizionalista” con lui, e la stragrande maggioranza del Novecento tradizionalista
appresso a costoro – non è venuta.
Probabilmente, si è scambiato effetti
per cause …
Detto ciò, e cioè
che Guénon, di fatto, reinterpreta de
Maistre, noi oggi siamo nella situazione di dover reinterpretare a nostra volta Guénon, a restringerne il campo, per poi poter allargarlo, come Guénon allargò
– e di molto – il “campo visuale” di de Maistre (fondamentalmente, a Guénon non interessava difendere un
determinato stato e stop, cosa che, al contrario, era sia nel centro che a
cuore dell’interesse di de Maistre). Fermo restando che la visuale di Guénon è superiore, che tutto ridurre a “non c’è
più religione” è un grosso errore di prospettiva, rimane vero che
solo dalla risoluzione del “passaggio stretto” – del “budello storico” – in cui
siamo, sarà possibile, poi, fuoriuscire dalla storia. La cosa è paradossale,
nondimeno vera. E, perché ciò accada, le contraddizioni all’interno del
sistema, ed anche la loro esplosione, sono insufficienti.
[12]
M. Rostaing, I segreti degli uomini blu. Alla scoperta del misterioso mondo dei
Tuareg, Mondadori Editore Oscar, Milano 1992, p. 252, corsivi in originale. Tra l’altro, quest’autrice
scriveva ben venticinque anni fa,
quando i Tuareg erano meno “islamizzati” di quanto poi non lo sarebbero divenuti.
Va poi precisato che la “maga” – o strega – in questione non è una Tuareg, non è una “targhi”, ma è parte della bassa casta
dei neri che l’autrice chiama “sudanesi”, ovvero del “Niger” (storico, che non
coincide con l’attuale nazione che porta questo nome, pur essendo quest’ultima
una parte d’esso), terra dalla quale “provenivano stregoni [e stregone] tra i
più pericolosi”, secondo Guénon.
Grazie Andrea, non sto commentando spesso perché sono stato impegnato anch'io coi fuochi inferi (interiori), ma ora pare stia tornando un po' di brezza; ma ogni volta che appare un nuovo post il mio cuore vola alto come un falco.
RispondiEliminaTolkien l'ho letto un paio d'anni fa, recentemente stavo leggendo Lo Hobbit, mentre sempre un paio di mesi fa ho rivisto l'edizione integrale de La Compagnia dell'Anello. Avevo intuito una serie di cose confermate in ciò che hai scritto, e in più ne ho trovato altre veramente interessanti.
Sui tuoni, ricordo che Dumezil in "La religione romana arcaica" riporta che gli aruspici etruschi riconoscevano una settantina (se non erro) di tuoni diversi e a seconda di svariate variabili ne interpretavano il volere degli dei.
Come sempre ti ringrazio perché ormai si è instaurato da tempo un circolo virtuoso, dai tuoi stimoli sono partito "ripercorrendo le tracce" e invito a chiunque legga da "invisibile" a non limitarsi accontentandosi dei post, ma di andare a rovistare in ogni libro citato e in ogni indicazione suggerita perché pian piano emerge il centro non manifesto di questa imponente visione che ci viene qui offerta.
Grazie a te; giustissima l’idea di “ripercorrere le tracce”: in effetti, un blog questo dovrebbe essere, uno stimolo. Ricordo il libro di Dumézil.
EliminaTrattasi della “Etrusca Disciplina”, rivelata da Tagete ed era un qualcosa di complesso e variegato. Chiaramente un qualcosa di non rivivificabile “a tavolino” come rpetendono i neopagani ...
In effetti una volta capito che di rivivificabile non c'è niente, e che proprio questa è la cifra del nostro tempo, lì "si spalancano le porte del cielo" come recita una storia Zen.
EliminaEsattamente così, ma la difficoltà sta proprio nll’ammettere che “di rivivificabile non c'è niente”.
EliminaNell’ammettere che la salvezza è impossibile, **lì** è princicpio di salvezza ....
“sulla cala” qui sopra va sostiuito con: sulla scala.
RispondiEliminaSull’ “uccello di Tuono”, un’immagine del quale si vede nel post qui sopra: “Dobbiamo ora aggiungere qualche parola sull’uccello delle tempeste. In numerose mitologie è diffusa la credenza che venti e tuoni siano provocati dal battito delle ali di una gigantesca aquila di un analogo uccello rapace […]. Tra i Sumeri, troviamo il mostro Im-Dugud, in India l’aquila Garuda e nei poemi dell’ **Edda** il mostruoso Hraesvelgr. Questa credenza è diffusa anche tra i Cinesi, i Birmani, i Finni, le popolazioni delle isole Shetland, i Tlingit, gli Aztechi e gli abitanti dell’isola di Vancouver. Allo stesso modo le ‘ali del vento’ sono menzionate nella Bibbia, e precisamente nei **Sami**, 18, 11 e 104, 3”, Th. GASTER, “Le più antiche storie del mondo”, Einaudi editore, Torino **1960**, Commento di Gaster alla storia babilonese (di Adapa) intitolata “L’occasione perduta”, p. 110, corsivi in originale (indicati con **).
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