venerdì 20 maggio 2016

“Appunti per ‘Nietzsche’”, da G. Colli, “La ragione errabonda”





“Nietzsche non doveva parlare della sua ‘persona’. Questo è un segno di malattia. Esso prende inizio con il 2° periodo. Importanza, anche per questo, del 1° periodo. 
Nietzsche ha scritto troppo. Mancanza di misura e dominio di sé. Mancanza di disciplina filosofica. Forse addirittura scarsa attitudine filosofica. 
Il voler essere filosofo è la ricerca di ciò che non aveva. Nietzsche non ha affrontato il problema della razionalità. In genere, non ha affrontato i princìpi. Non ha approfondito silenziosamente i massimi problemi. 
Unica disciplina di studio è stata la filologia: poi il successo esteriore gli ha nuociuto all’approfondimento. 
Danno di Wagner da questo punto di vista. Più tardi egli era già un autore e non poteva più fare tirocinio. 
Problemi della malattia di Nietzsche. Non credo che sia sifilide. Tutti credono di aver capito Nietzsche. Ma poco importa il ‘capire’. Il vero ‘capire’ è ‘fare’ qualcosa nella sua direzione. Problemi nietzschiani non abbastanza approfonditi da lui: scienza-donna. 
Nietzsche è la rappresentazione tragica - la concentrazione in una sola persona - della grandezza del mondo moderno e del suo fatale fallimento.
[…]
Dobbiamo inaugurare una tendenza opposta a quella seguita da Nietzsche. Tener nascosta ai molti la verità. Raccogliere i pochi con quest’astuzia: di dirci tra noi la verità, gli artifici per soggiogare i molti. Non mettere tutto in piazza come Nietzsche. Non sollevare i sospetti e le persecuzioni” (*).

“La filosofia occidentale non dispone, nel suo nascere, di un’opera paragonabile alle Upanishad indiane. Le prime espressioni filosofiche dei Greci son troppo fortemente dominate dalle personalità dei loro creatori, e si differenziano tra loro per vivacità. La tradizione, poi, non ha rispettato la preminenza dei fondatori; e se si vuole trovare un blocco dottrinale - tramandato compiutamente - che sia alla base, bisogna discendere nel tempo sino a Platone. Ma Platone si accompagna ad Aristotele, e i due filosofi accennano ad una frattura originaria del nostro pensiero. Non così in India, dove le Upanishad si presentano all’inizio come un insegnamento compiuto, che impone il rispetto della tradizione. 
In una visione non agonistica della vita non interessa la persona del maestro, ma la sua parola. La verità cancella il suo scopritore. E attraverso la ricchezza seminale delle membra di quest’organismo si afferma sempre l’unità dell’insegnamento supremo. Da questo corpo splendido prende inizio la filosofia indiana, e lo sviluppo posteriore dei grandi sistemi, delle deviazioni religiose, sino al moltiplicarsi prodigioso egli epigoni mistici, razionalistici ed eruditi, rimarrà sempre, in una civiltà contemplativamente statica, l’elaborazione di un germe dal tesoro delle Upanishad.
L’arbitrio della conoscenza interiore annullato dalla collettività.
In Occidente la ragione è il tribunale oggettivo cui si appella l’individuo inventivo.
Eccesso di vita.
Felicità vedica. Morte è vita. Il saggio vuole il riposo - la felicità calma.
L’Occidente cerca         il caldo
l’Oriente cerca              il freddo
Il logos greco è inventato per imporre qualcosa che non ha superiorità di natura, ma solo identità (valido per tutti) di forma” (**).

“Quando si dà meno importanza al valore militare, c’è da sospettare un indebolimento dell’istinto politico. Gli uomini non hanno ancora inventato uno strumento migliore delle armi per servire all’istinto politico.
[…]
Dopo le grandi guerre della prima metà di questo secolo, il mondo umano ha messo in mostra le sue carte, ha scoperto le sue intenzioni, offre tutto e invita a una scelta. La frenetica attività economica copre un’indolenza di fondo, dove le grandi passioni si sono spente: il mondo sonnecchia, medita sulla fatica del suo passato, soppesa le possibilità avvenire senza convinzione e per il momento lascia correre” (***).
Il “lasciar correre” è divenuto lassismo.
E “l’indolenza di fondo” è divenuta, col tempo, cristallizzazione ventennale.
Poi, alla fine, è iniziata la dissolutio



NOTE

(*) G. Colli, La ragione errabonda. Quaderni postumi, Adelphi Edizioni, Milano 1982, pp. 83-84, corsivi miei.

(**) Ivi, p. 116, corsivi aggiunti miei. Sulla questione dell’India: ecco spiegate le posizioni di Guénon ma come semplice osservazione di un fatto innegabile, senza il “filo-orientalismo” dello studioso di Blois.

(***) Ivi, p. 134, corsivi in originale.







6 commenti:

  1. Ora capisco questa tua “prudenza” con cui distilli lentamente le chiavi di comprensione nei tuoi scritti, è il modus operandi suggerito da Colli.
    Ricordavo come sui social network (che Colli non poteva immaginare) qualsiasi cosa venga scritta, dal più grande principio metafisico alla più banale “sparata” nonsense, una volta pubblicata perde la sua qualità intrinseca e appare allo stesso livello di tutte le altre: una specie di tocco di re Mida inverso!

    A proposito di dissolutio: ho letto un paio di giorni fa Finis Gloriae Mundi di Fulcanelli. In particolare aggiunge qualcosa alla visione di Guénon dei quattro Yuga intendendo la loro apparizione come conseguenza di un processo “andato male” nell’Opera. Mi pare interessante perché mi sembrerebbe che approfondendo questo aspetto si possa arrivare a comprendere un po’ meglio come si sia arrivati proprio alla dissolutio. Dove potrei trovare dei riferimenti per approfondire in merito?

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  2. Ed è così, sui “social” (o “asocial”) tutto vien falsato. A quelli che parlano di tutto stoltamente facendo un gigantesco ed indigesto “pot pourri”, va ricordato come manchi loro tutta la fase “critica” del mondo moderno (il che, a sua volta, dimostra, “beyond any reasonable doubt”, come dicono i film americani, come tal fase “critica sia **necessaria**). Occorre sempre ricordar loro che “medium is message” (M. McLuhan). In altre parole: il “mezzo” che tu stai usando per portare avanti il tuo “messaggio” inevitabilmente influenza il messaggio stesso!! Detto in altro modo: non puoi separare mezzo e messaggio.

    Ora i “social” sono l’epitome (il “compendio”) della deriva nota come “narcisismo moderno”. Tu, sui social network, non fai che mettere quel che piace a te, le tue “passioni”: in una parola, è rispecchiamento del piccolo ego. Quel che non entra in un tal mondo è tolto dal quadro, vien espulso senza nessunissimo problema.
    In una parola: la realtà non esiste. La realtà è “simulazione” di realtà. Tanto più la simulazione della realtà (il **simulacro** “à la” Baudrillard) copia la realtà, tanto più “sembra” la realtà. Si arriva così ad un punto in cui la simulazione della realtà è così simile alla realtà stessa che quest’ultima, di fatto, sparisce. Questa è l’epoca dei social. Questa è la “nostra” epoca. E dunque parlare di metafisica nel posto più anti-metafisico fa specie, fa soprattutto fa riflettere che si usino questi mezzi senza nessun “filtro” critico, e soprattutto da parte di chi si atteggia a “critico ‘par excellence’”. Il che fa riflettere, e non poco.

    Non dico non si possa parlarne, ma parlarne senza capire il “mezzo” che usi, è sbagliato nel profondo.

    Veniamo a “Finis Gloriae Mundi”, **attribuito** a Fulcanelli, ma ben difficilmente di sua propria mano - “lui même” -; probabilmente, di “scuola” fulcanelliana, sarebbe più corretto dire. Qui occorre dire che la teoria secondo cui l’ “iter” **discendente** degli “Yugas” e che, in altre parole, il “Gardenia Edèn” sarebbe comunque rimasto tale, rivela dell’idea della “caduta”, ma in ambito indù non è così supportata. Lo pseudo-Fulcanelli, dunque rilegge codeste dottrine d’Est per mezzo di un “filtro” interpretativo gnostico-cristiano, parrebbe di potersi leggere (“fra le rughe”, e senz’abusare del termine “gnostico”, che ormai significa non si capisce più bene cosa, sembrerebbe quanto non accettato dalla religione “positiva” sia “gnostico”, ma è una forzatura brutta e cattiva). Le fonti del fatto che quest’ “iter” sia solo possibile, e **non** necessitato, sono alchemiche: Nicolà Flamel ma pure Basilio Valentino, “Les Douze Clef”. Ma in queste fonti **non è detto** certo “Non ci sono i Quattro ‘Yugas’”, che non conoscevano certo in questa formulazione in quell’epoca nei luoghi di nascita degli auttori citati, ma quel che trovi scritto è la parte positiva di quel che afferma lo pseudo-Fulcanelli: e cioè che la “Grande Prostituta” (“La Grande Prostituée”) è frutto di un “errore nella pratica dell’ ‘Opus’”. Ed è così. Nascce quando tu sbagli il “regime del fuoco” e rinsecchi troppo la materia “prima”.
    CHE POI È QUANTO È SUCCESSO, E NOI SIAMO NELL’EPOCA DELLE **FINE** DEL SYSTEMA DELLA “GRANDE PROSTITUTA”, di “Babylon” ovviamente.

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  3. P.S. (al punto di qui sopra). Sul fatto che il papa e Lutero, o anche all’interno dello stesso Cattolicesimo medio e vale, occorre sottolineare come l’accusa di esse “La Grande Prostituta” si sia rimbalzata nel corso dei secoli; a tal proposito, scherzosamente, cfr. “San Colombino e i due papi”, https://www.youtube.com/watch?v=z82yiek84x0, “Mala tembora. Lo soffio dell’Averno have fugato da lo monno timor Dio et fratellantia”, lo qual potese dicere de lo momendo attuale al istesso modo, et sanza tema lo potese dicere, sanza tema sed non sanza panza.

    Per chiudere sui social.
    I “social” son “a-social”. Te costrui (perché “costruisci”??, costrùi), te costrui una sozza fasulla de lo mondo immago senz’esserne però il mago, e col magone ti getti nell’agone, nel lagone ti getti senza retta imbarcazion, e quale azione, infin, ne verrà fora … Retorica “interrogatio” …

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  4. Con ciò, non voglio dire che “Finis Gloriae Mundi” sia un libro privo d’interesse. **Tutt’altro**, ma è chiaro che vi è un intento polemico verso Guénon, che ha “divulgato” la tematica del “Kali-Yuga”, ovviamente **senza** esserne **in alcun modo** “l’inventore”. I libro sa molto dell’ambiente di Jacques Bergier e Canseliet (J. Bergier è la “francesizzazione” di Jakov Michàilovich Berger (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Jacques_Bergier), nato ad Odessa.
    Ripeto comunque, che è un libro **molto importante**, in ordine a molte cose che qui possonsi soltanto a cenar: la tematica dell’influenza sulle masse, e dunque della tivvù (in altra epoca) e dei social (oggi); la tematica dell’alterazione dei codici genetici, attualissima; la tematica del fatto che molte cose vadan dette oggi, pure **verissimo**, solo apparentemente contraddittoria con quanto detto a riguardo del parlare “a pezzi”, “distillando”, per il semplice fatto che qui si parla di **modalità espressive** e **non** più di “temi” da evitare. Nessun tema è da evitare, ma tutti i temi van trattati “cum grano salis”, “**multum** cum grano salis”, per le ragioni dette suso. Ma quivi si po’ solo accennare a tali tematiche.

    “Mi pare interessante perché mi sembrerebbe che approfondendo questo aspetto si possa arrivare a comprendere un po’ meglio come si sia arrivati proprio alla dissolutio”. Lo “foco”, lo reggime de lo foco fue erato. Et lo perché de tutto cio sarrìa longo et multum difficile da explicarsi quivi ivi. Nondimen et etiandio sì est.

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  5. Lo suo favellar est multo delitioso et claro, gratie et congratulationes!

    Mi rendo conto che quivi ivi sarrìa longo, non c'è un altro "ivi" laddove si puote?

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  6. E dde che. Intendi lo favellar, un altro “ivi” là ove si favella, senza faville, si spera ....



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