venerdì 21 settembre 2018

Meyrink, 4















Nella nostra fase di “spigolature”, in questo momento “attendista” (come, d’altro canto, ce ne son stati tanti, anzi tantissimi), torniamo quindi alla relazione fra Meyrink e cabalismo (alla cui forma “deviata”, secondo Guénon, lo stesso Meyrink era legato[1]).
“Valga la presente testimonianza di Gershom Scholem, riportata dallo storico delle religioni Mircea Eliade il 20 agosto 1950: ‘Ho conosciuto il professor Scholem dell’università di Gerusalemme, illustre specialista della Cabala […]. Gli ho chiesto notizie di Gustav Meyrink. L’ha conosciuto da giovane e l’ha anche portato dal grande scrittore ermetista R. Eisler […]. Una volta Meyrink gli chiese se sapeva dove abitasse Dio. Scholem non lo sapeva, e Meyrink esclamò: “Alla base della colonna vertebrale”. Aveva letto Il potere del serpente di Avalon ed era convinto di ciò: Dio era Kundalini, e Kundalini si trovava, arrotolato, alla base della colonna vertebrale’ (Mircea Eliade, Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 94)”[2].
Ed ecco ciò che lo stesso Eliade penserà di Meyrink, in un appunto dell’ottobre del 1974: “Raffreddato, sono costretto a restarmene a casa. Cerco di leggere la prosa fantastico-occultista di Yeats, ma senza successo, tanto è insopportabile la banalità del suo ‘messaggio esoterico’ (com’è, del resto, anche in Gustav Meyrink, ma che però leggo o rileggo con piacere per il suo talento di ‘narratore’, e non certo per il presunto contenuto ‘esoterico’ dei suoi libri)”[3]. E qui, caro Eliade, lei si è sbagliato, il suo – tipico – punto di vista iper critico ed accademico le ha velato lo sguardo. Vero si è che il contenuto cosiddetto “esoterico” – termine scorretto, occulto è il termine più giusto – in Meyrink non porti chissà dove, si tratta di quelle “fonti” cui alludeva Guénon, e tuttavia vi è qualcosa oltre la mera “narrazione” e non è mera “paccottiglia” para esoterica, criticando la quale Eliade non errava, vi poneva pure Meyrink, e qui ho da eccepire. A mio avviso, a tal proposito (di Meyrink, intendo), vedeva giusto Guénon.
Senza contare quando Meyrink citava solo delle fonti accreditate, come per esempio Paracelso, al riguardo della spiegazione dei phenomena spiritistici[4].






Andrea A. Ianniello









[2] G. Meyrink, Alle frontiere dell’occulto. Scritti esoterici (1907-1952), a cura di G. de Turris e A. Scarabelli, Edizioni Arktos, Carmagnola (TO) 2018, pp. 143-144, nota dei curatori, corsivi in originale.  
[3] M. Eliade, Diario 1970-1985, a cura di C. Fatecchi e R. Scagno, Jaca Book, Milano 2018, p. 162.  
[4] Cf. G. Meyrink, Alle frontiere dell’occulto. Scritti esoterici (1907-1952), cit., pp. 95-104.  













sabato 15 settembre 2018

“UN TALE …” …















“Un tale, noto per la sua abilità nel sugoroku, interrogato sul segreto del suo successo, disse: ‘Non bisogna mai giocare per vincere, ma in modo tale da non esser vinti: si individui dunque la mossa che può portare rapidamente alla sconfitta, la si eviti e si faccia quella che la ritarderà, sia pur di un solo quadrato’. Ecco l’insegnamento di uno che conosceva bene la propria arte, ma che vale anche per il controllo della propria condotta e per il governo di un paese”[1].







Andrea A. Ianniello















[1]  Kenkô, Ore d’ozio, SE, Milano 1995, p. 72, corsivo in originale. Per degli altri brevi passi dallo stesso testo, cf.










venerdì 14 settembre 2018

“Frammenti di Lenzerheide” (Nietzsche), li qual vegnon “siccome lo caseo su li maccaruni”



















Il quadro che fa Nietzsche, in soldoni, è questo: la morale aveva le sue basi nella religione; quando quest’ultima, sotto la critica moderna, inizia a prender colpi, si corrode anche la morale. Questo provoca conseguenze nella società, di cui tutti sanno, ed è anche la classica critica conservatrice (“non c’è più religione” et similia).
In tutt’altri contesti, però, la cosa può essere diversa. Un giapponese, osservava F. Maraini, può “perdere la fede”, la credenza – non l’oggetto … – in una base religiosa per l’etica sociale, non per questo necessariamente perde la sua etica sociale. Il discorso sarebbe lungo, ma occorre sempre ricordarsi di queste particolarità, non secondarie.
Ma torniamo a Nietzsche. La morale cristiana offriva dei vantaggi sicuri e reali. Quando la spinta alla “veridicità”, essa stessa contenuta nella “morale cristiana”, venne rivolta contro quest’ultima, se ne scoprì la natura “teleologica”, orientata ad un fine, dice Nietzsche. Sorge allora il nichilismo: “Il nichilismo appare ora non perché il disgusto per l’esistenza sia maggiore di prima, ma perché si è diventati riluttanti a vedere un ‘senso’ nel male e nell’esistenza stessa. Una interpretazione è tramontata; ma poiché vigeva come la interpretazione, sembra che l’esistenza non abbia alcun senso, che tutto sia invano[1].
“La morale ha dunque protetto la vita dalla disperazione e dal salto nel nulla presso quegli uomini e quelle classi che sono stati violentati ed oppressi da altri uomini: giacché è l’impotenza nei confronti degli uomini, e non l’impotenza nei confronti della natura, che genera la più disperata amarezza nei riguardi dell’esistenza [ed è proprio così]. La morale ha trattato come nemici coloro che detenevano il potere, i violenti, i ‘signori’ in genere, dai quali l’uomo comune doveva essere protetto, cioè anzitutto incoraggiato, rafforzato. La morale ha quindi insegnato a odiar e a disprezzare nel modo più profondo quello che è caratteristica fondamentale dei dominatori: la loro volontà di potenza. […] Se il sofferente, l’oppresso perdesse la fede nell’avere il diritto di disprezzare la volontà di potenza, entrerebbe nello stadio della più nera disperazione [e cioè, lo stadio in cui siamo entrati da tempo, con la fase del nichilismo maturo]. […] La morale ha preservato dal nichilismo i disgraziati attribuendo a ciascuno un valore infinito, un valore metafisico, e inserendolo in un ordinamento che non concorda con quello della potenza e gerarchia terrene: ha insegnato la rassegnazione, l’umiltà ecc. Una volta che perisse la fede in questa morale, i disgraziati perderebbero la loro consolazione – e perirebbero. Il perire si presenta come un autodistruggersi [la contemporaneità, giusto?, non ne offre mille esempi, ben più pregnanti e diffusi che al tempo di Nietzsche?]. […]
Il nichilismo come sintomo del fatto che i disgraziati non hanno più nessuna consolazione; che distruggono per essere distrutti [e non ce la fanno, come Baudrillard illo tempore]; che, svincolati dalla morale, non hanno più nessuna ragione per ‘rassegnarsi’ – che si pongono sul piano del principio opposto, e, a loro volta, vogliono la potenza [la “ribellione delle masse” è, in parte, stata questo], costringendo i potenti ad essere i loro carnefici [e qui, come detto, riuscendoci in parte solo, nei paesi “occidentali” eh]. E’ la forma europea del buddhismo, il far no [diffusissimo eh, il “no” a prescindere: ha la sua ragione, dunque], dopo che ogni esistenza ha perduto il suo ‘senso’ [che, poi, è il problema principale, che il nostro caro mondo moderno alla fine della corsa non sa può risolvere, per principio].
La ‘miseria’ non è certo divenuta più grande: al contrario! ‘Dio, morale, rassegnazione’ sono stati rimedi a livelli di miseria terribilmente profondi; il nichilismo attivo fa la sua comparsa in condizioni relativamente molto più favorevoli. Già il fatto che la morale venga considerata come superata presuppone un notevole grado di cultura […] e quest’ultima  […] un relativo benessere. Una certa stanchezza intellettuale, che la lunga lotta delle opinioni filosofiche ha condotto fino al disperato scetticismo nei confronti della filosofia, contrassegna parimenti la condizione sociale tutt’altro che bassa di questi nichilisti. Si pensi alla situazione in cui apparve il Buddha. La teoria  del’eterno ritorno avrebbe presupposti dotti[2].

Tutto questo spiega tanti fenomeni che abbiamo sotto i nostri occhi.

Ma vediamo come, per Nietzsche, si può avere una reazione meno negativa, quale “specie d’uomo” possa meglio resistere a quest’onda venefica.
“Quali uomini si riveleranno allora i più forti? I più moderati, quelli che non hanno bisogno di articoli di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che hanno pensato all’uomo con una notevole riduzione del suo valore, senza per questo diventare piccoli e deboli”[3].








Andrea A. Ianniello






[1] F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammenti di Lenzerheide, Adelphi edizioni, Milano 2006, p. 13, corsivi in originale.  
[2] Ivi, pp. 15-18, corsivi in originale, mie osservazioni tra parentesi quadre.  
[3] Ivi, p. 19, corsivi in originale.  














domenica 9 settembre 2018

Meyrink, 2
















“Le visioni alle quali mi riferisco non sono soggette al nostro arbitrio, ma appaiono al cenno di un volere che non possiamo produrre, quantunque sa certo il nostro e non la manifestazione di una forza estranea, si chiami come si voglia. Questo potere della visione fu proprio la causa prima che mi fece diventare scrittore; gl’inciampi esterni, ricordati prima, vennero superati man mano […]. Nel 1915, me ne apparve una straordinaria [di visione], cui si connette una circostanza che, sebbene non sia delle più singolari […], delinea prospettive di specie inaudita. Mentre mi stilavo il cervello per cercar d’indovinare quale potesse essere stata la causa della spaventosa Guerra mondiale [la Prima, ovviamente], come mi avveniva tutte le volte che pensavo o vedevo qualche cosa fuori dal comune. Subito dopo mi apparve un uomo  di razza a me sconosciuta, assai alto e magro, che ho descritto nel modo seguente, nel racconto Il gioco dei grilli, pubblicato poi  dal ‘Simplicissimus’ e nel mio volume di racconti Pipistrelli: ‘Alto sei piedi[1], straordinariamente magro, imberbe, aveva il viso di color verde oliva cangiante, gli occhi obliqui smisuratamente divergenti. Le labbra e la pelle del viso erano affatto levigate e senza pieghe, come se fossero di porcellana, le prima rosso vivo e taglienti come lame di coltello, specie agli angoli della bocca, che avevano un colorito ancor più acceso, e sembravano pronte ad un ghigno rigido e spietato. Portava sul capo uno strano berretto rosso’. Prima dell’apparizione mi ero intimamente chiesto quale fosse stata la causa remota della guerra, e la visione mi sembrò una risposta simbolica. Gi studiosi asiatici ammettono l’esistenza di una setta tibetano-cinese, la ‘Dugpas’[2], che deve considerarsi strumento del potere diabolico distruttore, in tutto l’universo. Mi posi, allora, a tavolino e scrissi il racconto Il gioco dei grilli, in cui descrivevo la causa occulta della guerra. Le circostanze sceniche accessorie furono da me attinte alle visioni che seguirono a quella dell’uomo apparsomi, mentre la cornice mi fu suggerita dalla libera fantasia”[3].
Tale “risposta simbolica” (interpretata in tal modo da Meyrink), in altra temperie mentale, verrebbe identificata con un “Ufo”, oppure con qualche forma, se non di “grigi”, ma di “controllori dei ‘grigi’”, noti per la loro altezza.












Andrea A. Ianniello
















[1] E cioè un metro e ottanta, non poi così alto. Se, però, ricolleghiamo questo fatto con le visioni del “piccolo popolo” cosiddetto, ergo che fosse altissimo, in tal caso …   
[2] In nota si precisa che non si tratta di “Drugpa” – o “berretti rossi” – bensì di “Dugpa”, che è altra cosa, una svista di Mayrink: “Dug pa, setta praticante, a tutti gli effetti, la magia nera”, G. Meyrink, Alle frontiere dell’occulto. Scritti esoterici (1907-1952), a cura di G. de Turris e A. Scarabelli, Edizioni Arktos, Carmagnola (TO) 2018, p. 259, nota n°12, corsivo in originale. Sull’origine della confusione: secondo i curatori è “dovuta, molto probabilmente, all’influenza di Helena Petrovna Blavatskij”, ibidem. La cosa è davvero molto probabile.  
[3] Ivi, pp. 255-256, corsivi in originale, mie note fra parentesi quadre.