sabato 1 settembre 2018

Corbin stavolta …


















Corbin spesse volte vede giusto, posto che si faccia una bella precisazione iniziale: lo Sciismo “duodecimano” non è affatto “contro la legge rivelata (sharì’ah)”; e né che questo sia esatto per tutto l’Ismailismo, ma solo per il cosiddetto “Ismailismo riformato”, insomma quello di ‘Alamùt, per intenderci.

Stabilito e precisato questo punto, non certo di secondaria importanza però, dove Corbin proietta in ambito islamico delle cose che non vi fanno parte (sì, vi è l’antinomismo anche in terra islamica, però ha un’importanza ed un senso diversi dall’analogo giudeocristiano), vi son tanti passi davvero utili. Son quei passi dove Corbin, stavolta, senza dubbio ha ragione.
Se ne trasceglie ivi due, sempre nell’ambito delle nostre spigolature, spero di spigole molli, non dure. Che, come l’omonimo pesce, cuociasi ben e facile.
Il primo sulle eclissi.
“Quanto alla forma tenebrosa dei negatori malefici, essa s’innalza, al momento del loro exitus, verso la regione designata in astrologia come ‘la testa e la coda del Drago’ (i punti in cui l’orbita della Luna interseca quella del Sole), regione di tenebre, nella quale si aggira la massa perditionis di tutti i demoni dell’umanità, massa di pensieri e di progetti malefici che cospirano al fine di produrre le catastrofi che lacerano il mondo degli uomini.”[1].

Il secondo su Averroè. Ibn ‘Arabì, il famoso “Shaykh al-Akbar”, conosceva il filosofo che voleva riconciliare fede islamica e filosofia di Aristotele.
“Abbiamo sopra accennato alla presenza di Ibn ‘Arabî alla traslazione delle ceneri di Averroè a Cordova. Egli ne conservò un ricordo straziante. Da una parte della cavalcatura avevano caricato il feretro, dall’altra i libri di Averroè, ‘Un pacco di libri che bilancia un cadavere!’. Per intendere il senso della vita speculativa e scientifica dell’Oriente islamico tradizionale, bisogna aver presente allo spirito quest’immagine come simbolo inverso della sua ricerca e della sua scelta: ‘una scienza divina’ che trionfa della morte”[2]. Indubbiamente toccanti le parole di Ibn ‘Arabì per Averroè, che fan capire che cos’era l’esser “dotti” in altra epoca ed altro contesto. Ma qui Corbin si sbaglia, e di grosso, come tanti, ad accollare ad Averroè il seguente sviluppo del mondo moderno, che sarebbe nato dal Rinascimento[3], e dall’accoglimento, voluto dalla Scolastica, di Aristotele in Occidente, dove mondo islamico e coeva, simile, società medioevale cristiana avrebbero preso due vie opposte[4]. Come spesso accade, le tesi di Corbin si dimostrano superficiali. Ed è certo vero che, sì, l’accoglimento di Aristotele avrebbe “orientato” – od “occidentato” – l’Occidente (giuoco di parole) in senso diverso, ma fare di Aristotele il responsabile della modernità si conta fra le innumerevoli illusioni (perché questo sono) alle quali tanto le varie forme di “tradizionalismo” che le varie “critiche al mondo moderno” ci hanno, ahinoi, abituato: queste risibili semplificazioni. E qui torniamo alla citazione di Guénon, più volte fatta su ed in questo blog, dalla quella si evince che, se fosse stato questo, sarebbe stato semplice “riaggiustare” le cose. Invece, non è stato affatto così, anzi! Tra l’altro, anche Evola, soprattutto l’ultimo Evola, quando aveva un “attacco di lucidità” – come li chiamo –, si rendeva ben conto che “ben altro” era in ballo, e che un ritorno “filosofico” non sarebbe servito, posto fosse stato anche possibile. E noi sappiamo, oggi, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che anche una cosa così – alla fin fine – “innocua” è impossibile, quando in atto, da molto tempo, vi è un “contagio” multiforme …
Di fronte a tutto ciò, anche un valido attaccamento alle forme tradizionali, non risolve niente, è impotente.
E non è un caso, ma risponde a delle ragioni precise. Non solo dovute alla forza dell’ “Avversario” perenne.










Andrea A. Ianniello






[1] H. Corbin, Storia della filosofia islamica, del phi Edizioni, Milano 1973 (e cioè prima della Rivoluzione iraniana del 1979), p. 102, corsivi in originale. Questa citata qui è la posizione dell’Ismailismo fatimida, non di quello “riformato”, insomma dell’Ismailismo occidentale – che ebbe anche qualche propaggine in Sicilia, anche all’epoca di Federico II, o comunque vi esercitò (su di lui) una qualche influenza – e non di  quello orientale, di ‘Alamùt, per intenderci (nato da una scissione interna a quello fatimida, che pure stava attraversando un periodo di decadenza). Conviene precisare ancora una volta che le forme antinomistiche son proprie più all’Ismailismo di ‘Alamùt che a quello fatimida, dove però, comunque, si assiste ad una generale svalutazione del ruolo della legge rivelata e del profeta, a favore del ruolo dell’ Imàm; e tuttavia, non al livello che avrebbe preso, in seguito, ad ‘Alamùt, laddove l’ Imàm tende a sostituire il profeta, proprio come figura in se stessa, come funzione.
[2] Ivi, pp. 251-252.  
[3] Ivi, p. 250.  
[4] Ibidem.  



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