Corbin spesse volte
vede giusto, posto che si faccia una bella precisazione iniziale: lo Sciismo
“duodecimano” non è affatto “contro la legge rivelata (sharì’ah)”; e né che questo sia esatto per tutto l’Ismailismo, ma solo per il cosiddetto “Ismailismo
riformato”, insomma quello di ‘Alamùt, per intenderci.
Stabilito e precisato
questo punto, non certo di secondaria importanza però, dove Corbin proietta in
ambito islamico delle cose che non vi fanno parte (sì, vi è l’antinomismo anche
in terra islamica, però ha un’importanza ed un senso diversi dall’analogo giudeocristiano), vi son tanti passi davvero
utili. Son quei passi dove Corbin, stavolta, senza dubbio ha ragione.
Se ne trasceglie ivi
due, sempre nell’ambito delle nostre spigolature, spero di spigole molli, non
dure. Che, come l’omonimo pesce, cuociasi ben e facile.
Il primo sulle eclissi.
“Quanto alla forma
tenebrosa dei negatori malefici, essa s’innalza, al momento del loro exitus, verso la regione designata in
astrologia come ‘la testa e la coda del Drago’ (i punti in cui l’orbita della
Luna interseca quella del Sole), regione di tenebre, nella quale si aggira la massa perditionis di tutti i demoni dell’umanità,
massa di pensieri e di progetti malefici che cospirano al fine di produrre le
catastrofi che lacerano il mondo degli uomini.”[1].
Il secondo su Averroè. Ibn
‘Arabì, il famoso “Shaykh al-Akbar”, conosceva il filosofo che voleva riconciliare fede islamica e filosofia
di Aristotele.
“Abbiamo sopra
accennato alla presenza di Ibn ‘Arabî alla traslazione delle ceneri di Averroè
a Cordova. Egli ne conservò un ricordo straziante. Da una parte della
cavalcatura avevano caricato il feretro, dall’altra i libri di Averroè, ‘Un
pacco di libri che bilancia un cadavere!’. Per intendere il senso della vita
speculativa e scientifica dell’Oriente islamico tradizionale, bisogna aver
presente allo spirito quest’immagine come simbolo inverso della sua ricerca e
della sua scelta: ‘una scienza divina’ che trionfa della morte”[2].
Indubbiamente toccanti le parole di Ibn ‘Arabì per Averroè, che fan capire che
cos’era l’esser “dotti” in altra epoca ed altro contesto. Ma qui Corbin si
sbaglia, e di grosso, come tanti, ad accollare ad Averroè il seguente sviluppo del
mondo moderno, che sarebbe nato dal Rinascimento[3],
e dall’accoglimento, voluto dalla Scolastica, di Aristotele in Occidente, dove
mondo islamico e coeva, simile, società medioevale cristiana avrebbero preso
due vie opposte[4]. Come spesso
accade, le tesi di Corbin si dimostrano superficiali. Ed è certo vero che, sì,
l’accoglimento di Aristotele avrebbe “orientato” – od “occidentato” – l’Occidente
(giuoco di parole) in senso diverso, ma fare di Aristotele il responsabile della
modernità si conta fra le innumerevoli
illusioni (perché questo sono) alle
quali tanto le varie forme di “tradizionalismo” che le varie “critiche al mondo
moderno” ci hanno, ahinoi, abituato: queste risibili semplificazioni. E qui
torniamo alla citazione di Guénon, più volte fatta su ed in questo blog, dalla
quella si evince che, se fosse stato questo, sarebbe stato semplice “riaggiustare”
le cose. Invece, non è stato affatto così, anzi! Tra l’altro, anche Evola,
soprattutto l’ultimo Evola, quando aveva un “attacco di lucidità” – come li
chiamo –, si rendeva ben conto che “ben altro” era in ballo, e che un ritorno “filosofico”
non sarebbe servito, posto fosse stato anche possibile. E noi sappiamo, oggi,
“al di là di ogni ragionevole dubbio”, che anche una cosa così – alla fin fine –
“innocua” è impossibile, quando in atto, da molto tempo, vi è un “contagio”
multiforme …
Di fronte a tutto ciò,
anche un valido attaccamento alle forme
tradizionali, non risolve niente, è impotente.
E non è un caso, ma
risponde a delle ragioni precise. Non solo dovute alla forza dell’ “Avversario”
perenne.
Andrea A.
Ianniello
[1]
H. Corbin, Storia della filosofia islamica, del phi Edizioni, Milano 1973 (e cioè prima della Rivoluzione iraniana del 1979), p. 102, corsivi in originale. Questa citata qui è la
posizione dell’Ismailismo fatimida, non
di quello “riformato”, insomma dell’Ismailismo occidentale – che ebbe anche
qualche propaggine in Sicilia, anche all’epoca di Federico II, o comunque vi
esercitò (su di lui) una qualche influenza – e non di quello orientale, di ‘Alamùt,
per intenderci (nato da una scissione
interna a quello fatimida, che pure stava attraversando un periodo di decadenza).
Conviene precisare ancora una volta che le forme antinomistiche son proprie più
all’Ismailismo di ‘Alamùt che a quello fatimida, dove però, comunque, si
assiste ad una generale svalutazione
del ruolo della legge rivelata e del profeta, a favore del ruolo dell’ Imàm; e tuttavia, non al livello che avrebbe preso, in seguito, ad ‘Alamùt, laddove l’
Imàm tende a sostituire il profeta,
proprio come figura in se stessa, come funzione.
[2]
Ivi, pp. 251-252.
[3]
Ivi, p. 250.
[4]
Ibidem.
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