LA NATURA COME SPAZIO SACRO,
Salvaguardia del creato,
Buddhismo e
Scintoismo.
Introduzione. La salvaguardia del creato
Capitolo 1. La natura come “spazio
sacro”
Capitolo 2. Scintoismo e Zen
Capitolo 3. Il concetto di “kami”
Conclusioni
Bibliografia
***
Introduzione. La Salvaguardia del
Creato
Il richiamo alla salvaguardia
del creato è stato affermato con forza sia da Giovanni Paolo II, sia da
Benedetto XVI. D’altra parte, sono sotto gli occhi di tutti gli effetti di un
rapporto fra umanità e creato che ormai è fuori controllo. Recentemente il
problema delle perdite di petrolio in Louisiana – un disastro senza eguali – ha
riportato al centro una tematica che, però, non è mai davvero
sparita.
Una riflessione su questo
tema, dal punto di vista religioso, s’impone come ineludibile. La presente,
breve, riflessione si concentrerà sul mondo orientale, in particolare
giapponese, nell’ottica del dialogo religioso, che fa appello a ciò che vi è di
umanamente comune alla differenti religioni.
Un’altra precisazione è
necessaria. Parlando della Lettera dell’ottobre
del 2007, inviata a Benedetto XVI da un gruppo di sapienti musulmani, promossa
da Hassan di Giordania, è stato giustamente osservato che essa “non prende in
considerazione come base d’intesa né il decalogo né la legge naturale, elementi
che Benedetto XVI ha cercato continuamente di riprendere per il dialogo
interreligioso in quanto sono dati che varrebbero per gli uomini di tutte le
fedi ed anche per i non credenti”1.
Un’altra, importante,
osservazione sulla già citata Lettera, è questa: “La
lettera non ha un orizzonte universale: si ferma a ciò che è comune nella Bibbia
e nel Corano, come se bastasse l’accordo tra cristiani e
musulmani”2.
Si osserva, en passant, che questo difetto di “universalità” è una
delle caratteristiche proprie all’Islamismo, e, distinguendo in ogni religione
una dimensione di “appartenenza”, ripiegata su di sé, ed una di “universalità”,
aperta verso l’Altro, si potrebbe dire – inevitabilmente semplificando – che nel
mondo islamico la dimensione di “appartenenza” prevalga, e di molto, e di
troppo, sull’altra. Certo, queste due dimensioni variano secondo la storia, in
altra epoca l’Islamismo era più aperto ed il Cristianesimo meno. Per esempio, se
non vi fosse stato il Concilio Vaticano II anche il tema della natura e della
salvaguardia del creato non sarebbe stato così centrale, nel Cristianesimo, come
poi di fatto è divenuto3.
Un’altra osservazione, sempre
en passant, sul mondo islamico è che tanti problemi che si
hanno sia al suo interno, sia nelle relazione tra islamici e membri di altre
religioni, dipendono dal fatto che vi manca il concetto di “mediazione”, in
molti, troppi campi. Ma torniamo a noi.
Quanto detto appena qui sopra
è importante: troppo spesso, per il discorso del dialogo religioso, si guarda
solo al campo monoteistico, mentre, in questo breve scritto, si cercherà di
guardare oltre.
Un’ultima precisazione
introduttiva, di tipo metodologico. Non si può vedere una religione con gli
occhi di un’altra, ciò sarebbe metodologicamente scorretto. Bisogna prima
chiedere ai suoi aderenti come stanno le cose, il giudizio viene dopo. In altre
parole, nella scontata constatazione
che non siamo buddhisti, non possiamo semplice assumere quella religione nelle
nostre categorie. Certo, si rimane ben distanti, però lo scopo del dialogo non è
quello di confermare le distanze, quanto piuttosto quello di mettere in luce i
punti in comune su taluni assi portanti. Il problema della salvaguardia del
Creato è uno di questi, e non il minore.
Capitolo 1. La natura come “spazio
sacro”
Possiamo, semplificando,
distinguere due grandi tronconi di forme religiose, quelle che riconoscono il
concetto di creazione – “ex
nihilo” – da quelle che non lo
riconoscono. Tanto l’Induismo quanto il Buddhismo non riconoscono tale concetto,
anche se, per l’Induismo, si dovrebbero fare delle precisazioni, essendo il
mondo induista molto complesso. Si sceglie questa distinzione piuttosto che
quella relativa al Monoteismo perché quest’ultima parola introduce al problema
del “teismo”, cioè della credenza in un Divino “persona”, o personale che dir si
voglia. E qui occorre precisare una cosa: il Buddhismo non è “ateo”, che è un
assurdo, se detto di una forma religiosa, ma è piuttosto “non-teista”, cioè, pur
riconoscendo “dèi”, riconosce la forma più alta del Divino nell’Assoluto
impersonale. Il personale è soggetto all’impersonale, nel Buddhismo, nelle
religione “della creazione” il concetto è speculare. L’Induismo,
paradossalmente, riconosce ambedue le forme, teista e non-teista.
Metodologicamente, dunque, non è tanto importante come il Buddhismo sia visto
dal punto di vista cristiano, o islamico od altri, ma da quello buddhista. E che
poi questo punto di vista non coincida con quello cristiano, non sia, dal punto
di vista cristiano, accettabile, è certamente vero, ma, senza rinunciare a se
stressi, vedere l’altro è fondamentale dal punto di vista scientifico.
La presenza, o non, del
concetto di creazione riveste un’importanza decisiva, così che non si può
parlare di “salvaguardia” del “Creato” in un mondo che non conosce una rigida
divisione creazione/Creatore, ed è interessante il confronto con queste
religioni della non-creazione. Lo Scintoismo giapponese è stato profondamente
influenzato dal Buddhismo, e, quindi, appartiene al lato buddhista di questa
divisione religiosa fondamentale. Tuttavia, ripeto: per quanto profondamente
influenzato dal Buddhismo, lo Scintoismo prolunga, nel mondo moderno, le
religioni “etniche”; si tratta di una forma specificamente nipponica, infatti.
Lo Scintoismo è stato capace di ottenere questo proprio perché ha accettato l’
“ibridazione”, chiamiamola così – l’influenza è il termine più corretto – del
Buddhismo. In caso contrario, avrebbe fatto la fine delle antiche religioni
precristiane europee, greco-romana in primis, o delle
antiche religioni etniche, come quella dei Babilonesi, giusto per fare un
esempio.
Lo Scintoismo è una religione
soprattutto della natura. La visione
della natura, in Giappone, storicamente “è una visione
esistenzialista”4. L’incontro con la natura è decisivo, in questo perpetua un
atteggiamento davvero “primordiale” nell’uomo, la natura “come realtà fascinosa,
maiestatica e tremenda”5, ma lo trasforma in estetica, soprattutto
su influsso buddhista. Quest’“incontro” con questa realtà “numinosa”, per dirla
con Rudolf Otto, “fa sorgere una sottomissione reverenziale che si traduce in un
ricorso a queste forze straordinarie per conseguire una finalità in relazione
alla vita”6, e questo è un punto davvero importante. Taluno ha parlato di “vitalismo
Shinto” (F. Maraini)7, nel senso che la natura è un insieme di forze vive: questo senso della “vita” è assolutamente presente nella mentalità di
quella religione, per quanto, come s’è detto, molto modificata dalla profonda
influenza buddhista.
Nondimeno, nonostante quel
che molti pensano, il concetto di vita nella Creazione vi è originario, fa parte
del sostrato più antico del concetto stesso, come si presenta nel Giudaismo:
l’interdipendenza di fenomeni vivi. “L’abbondanza dei fenomeni naturali, ossia
creati, venne sperimentata da Israele come un insieme di forme provenienti dalle
mani di Dio, che pur nella loro
molteplicità formano un tutto unitario”8. Indubbiamente, questo senso di coordinazione
delle parti è stato il senso del termine “Creazione” che più, storicamente, si è
perso. Dal punto di vista scintoista, la natura è qualcosa come uno “spazio
sacro”, vivente, dotato di una sua specificità da rispettare,
senza manomettere. Il confronto con quel contesto ci ricorda che la Creazione
non può essere un insieme di meccaniche forze fisiche, concetto che, troppo
spesso, nella storia, ha influenzato il Cristianesimo e che solo negli ultimi
tempi si è cominciato a rivedere. Occorre riscoprire il “senso originario” della
Creazione, nella sua pienezza, e non monco, riduttivo.
Capitolo 2. Scintoismo e
Zen
In ogni caso, si diceva, lo
Scintoismo oggi non può esser concepito separato dal Buddhismo, e, nel Buddhismo
giapponese, l’importanza dello Zen è stata, storicamente, decisiva. “Il termine
zen, za-zen, è la
trascrizione giapponese dal cinese ch’an, (…) a sua volta
corrispondente al sanscrito dhyāna, cioè
‘concentrazione’, ‘meditazione assisa’. Esso arriva in Giappone dopo una storia
già millenaria, e con origini ancora del tutto oscure; presenta caratteri
squisitamente cinesi (…) e invece esso divenne una delle componenti essenziali
della spiritualità giapponese” (Scintoismo, p. 48).
“In molte sintesi tentate
circa lo Zen, ci si sforza d’individuare i significati ricorrendo a paralleli
accettabili da altre logiche, come quelle occidentali; oppure si tenta
l’ancoraggio ad una ricerca storica che stabilisca l’origine dell’uno o
dell’altro motivo da fonti ora taoiste, ora indiano-brahmaniche, ora
buddistiche. Ma, in ogni caso, si tratta di diversioni dallo scopo diretto d’una
dottrina, il cui nucleo resta in sé inafferrabile, conoscitivamente conturbante
e, secondo il termine che più vi si adatta, non-comprensibile. Invero lo Zen non
è una religione, non è una filosofia, tanto meno è un sistema di pensiero, né
una disciplina. Esso, presentandosi (…) come tutte tali cose, resta
fondamentalmente un’esperienza personale ed esistenziale” (pp. 31.32).
Semplificando, lo Zen, pur essendo Buddhismo a tutti gli effetti, accetta anche
di non esserlo, e pone una domanda che è valida per ogni uomo, buddhista,
cristiano, persino islamico, che sia occidentale od orientale, settentrionale o
meridionale. Esso non mette in questione in cosa tu credi, ma ti chiede: Tu lo
credi? Davvero? Solo guardando dentro di te, nella tua esistenza, lo saprai. E questo è un messaggio
rivoluzionario, sempre presente o possibile in ogni contesto. Ed il credere
“davvero” è profondamente “esistenziale”, non si sostanzia di “quantità” di
pratiche, ma parla alla coscienza di ognuno, lo interroga. Zen e sonno non vanno
d’accordo…
Ora, l’assimilazione che lo
Scintoismo ha fatto dello Zen è dovuta, sostanzialmente, a due fattori:
l’importanza, si è visto, che lo Zen dà alla dimensione esistenziale; il fatto
che lo Zen conosceva già la natura come
spazio sacro, dove però lo statuto di “sacertà” è ben diverso tra i due mondi
religiosi: raffinato ed estetizzante quello Zen, mitologico ed arcaico quello
scintoista. Tuttavia sta di fatto che questo terreno comune ha consentito ai due
mondi d’ibridarsi, almeno parzialmente. L’importanza data dallo Zen alla
dimensione esistenziale spiega la sua facile applicazione alle arti, compresa
l’arte militare. Il guerriero ha un pressante problema esistenziale, non ha il
tempo per discussioni filosofiche che non siano focalizzate all’essenziale. Ciò
non significa che lo Zen fosse l’unica religione tra i samurai: “Per quanto
riguarda Amida, il Buddha misericordioso che salva gli uomini nonostante i loro
peccati (…), molti guerrieri (…) si rivolgevano a lui (…). E’ assai probabile
che l’amidismo abbia continuato ad esistere come fede subalterna di molti
samurai, soprattutto dopo che Hōnen (1133-1212) aveva predicato la sua dottrina
secondo la quale bastava pronunciare con fede il nembutsu (Namu Amida Butsu)
perché anche il peggiore dei peccatori fosse salvato (…). C’era poi la primitiva
religione nipponica naturalistico-nazionalista, nota in seguito come shintoismo
(la Via degli dei) (…) che continuò a mettere in campo i kami per supplicare la vittoria e per esprimere un certo modo di sentire
giapponese scarsamente articolato. Ma lo zen fu di gran lunga la religione
prevalente tra i samurai, quella che si rivolse al guerriero più direttamente e
con più vigore di qualsiasi altra fede o pratica religiosa”9.
A questo punto è necessaria
una precisazione. Il culto dell’immediatezza e dell’azione spontanea – che
non significa impulsiva! -, elemento caratteristico
dello Zen, è stato molto mal divulgato in Occidente. Se, come s’è visto,
l’attenzione all’esistenziale è caratteristica di questa scuola buddhista, e
questo è vero, non lo è altrettanto l’idea che lo Zen favorisca l’impulsività,
anzi è falso. L’azione spontanea viene solo dopo una lunga
disciplina e non è mai impulsiva; si
dovrebbe dire piuttosto che è intuitiva. Lo Zen, come si è detto, ha senso nel
contesto samurai che l’ha plasmato così a lungo. Si trattava di un mondo – ed in
parte qualcosa è oggi rimasto – nel quale l’aspetto etico era ferreo,
sostanzialmente di tipo confuciano, dove la lealtà, il rispetto dei superiori,
la diligenza erano (ed in parte ancora sono) praticamente qualcosa di assoluto
ed irrinunciabile. Per la casta militare dei samurai questo era vero
al quadrato. Per i samurai il “dovere” – “giri”, obbligo alla lettera – era una cosa irrinunciabile, ineludibile. Un
samurai doveva obbedire al suo superiore per quanto, in privato, lo
disprezzasse. Era un mondo che lasciava pochissimi spazi all’individuo e, in
questo mondo, lo Zen agì come liberatore da un concetto di dovere che era quasi
totalizzante ed onnipervadente. Così si capiscono tanti aspetti apparentemente
incomprensibili, che, però, non si possono portare meramente in Occidente, in un
contesto diverso, dove prendono un diverso significato, ed inevitabilmente si
falsano.
Tornando a noi, proprio
questo lato dello Zen che dà importanza all’immediatezza e si applica facilmente
alle arti spiega il successo dello Zen tra i samurai. Il samurai spesso si
ritirava per dei periodi nei monasteri Zen, indipendentemente se lui
personalmente fosse buddhista zen, amidista o si limitasse a seguire i culti
ancestrali dello Scintoismo. “Di certo lo scopo principale che i suoi superiori
speravano di ottenere inviandolo in un monastero zen ad addestrarsi non era
quello di farne venir fuori un santo buddhista, ma di aumentarne al massimo
l’efficienza di combattente”10. In effetti, era così. Nel periodo delle lotte per il dominio del
Giappone (XVI-XVII secc.) vi fu un momento nel quale il Giappone fu sul punto di
divenire cristiano: fra i grandi feudatari che si disputavano il dominio di
quella nazione Oda Nobunaga era cristiano, e tuttavia Nobunaga era comunque
interessato alle capacità che lo Zen aiutava a sviluppare. Il che ci riporta al
punto secondo cui lo Zen, pur essendo una religione, non è solo tale. “In ultima
analisi, sembra improbabile che la media dei samurai abbia sperimentato una
sostanziale trasformazione spirituale, che siano diventati cioè ‘buddhisti
devoti’ nel senso comune del termine, o che abbiano raggiunto l’illuminazione
grazie alla pratica dello zen, anche se l’atmosfera e l’ambiente buddhista
esercitarono indubbiamente una certa influenza su di loro”11.
Un altro elemento che aiutò
l’assimilazione dei due mondi fu il concetto di ki. “Sono state fatte così tante asserzioni strampalate riguardo al
misterioso ‘potere del ki’, che a volte si è
arrivati a rasentare il ridicolo. (…) In realtà il ki non è altro che la forza vitale presente in ogni essere
vivente”12. Inoltre: “Il ki, come un campo magnetico, può avere vari gradi d’intensità. Un essere
umano possiede più ki di un filo d’erba,
e una persona sana ha più ki di una persona
malata. Il livello del ki in qualunque essere
dipende da due fattori: il grado di complessità dell’essere vivente ed il suo
livello d’organizzazione. Il ki è la forza vitale.
(…) Mentre non c’è nulla che possiamo fare per aumentare la complessità del
nostro organismo, possiamo migliorarne l’organizzazione. Organizzare qualcosa
significa dargli una forma armoniosa, significa coordinarlo. Quando c’è
coordinazione nel nostro corpo, significa che tutte le sue parti operano assieme
in sintonia, verso un obiettivo comune. Questa condizione è molto rara nelle
persone comuni; in quasi tutti c’è almeno una parte del corpo che è in lotta con
le altre”13.
Coordinazione, armonia ed
obiettivo comune, ecco gli altri elementi della natura come spazio sacro, almeno
come storicamente concepiti nel mondo religioso che si sta esaminando
brevemente. Questo concetto si unisce a quello di vitalità, per cui la natura è
un insieme vitale e coordinato. Ci
vogliono ambedue le cose, mentre in Occidente, ed anche nel Cristianesimo, si
tende ad enfatizzare solo il secondo punto e lo si scambia per leggi esprimibili
matematicamente, quando la matematica è solo descrittiva e non ci può far vedere
il quadro
d’insieme, dal quale viene la
visione della coordinazione delle parti. Paradossalmente, questo confronto con
un mondo “altro” può aiutare a riscoprire il mistero della Creazione, che è conditio sine qua non della salvaguardia del Creato. Se il Creato è un
mero insieme di leggi e regole, difficilmente sarà salvaguardato, perché non si
comprenderà che esso non è un oggetto di proprietà da salvaguardare, ma è una
figurazione dell’Altro: infatti noi non siamo in grado di costruirne la
coordinazione né di dargli la vitalità. Ciò che gli uomini possono fare, e
fanno, è usare taluni procedimenti naturali, ma per dei loro fini
utilitaristici. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, uno squilibrio
enorme sia tra natura ed umanità, sia, a livello sociale, tra i paesi più ricchi
e quelli più poveri, e, all’interno della varie società particolari, tra i più
ricchi ed i più poveri, perché la forbice si va allargando da tempo anche
all’interno delle società più ricche.
Dunque coordinazione-armonia
e vitalità-immediatezza. Su quest’ultimo punto si può dare un breve accenno. Il
termine giapponese “waza”, “tecnica”, è
mal tradotto. Da noi una tecnica può essere anche un procedimento matematico di
analisi, o chimico, il “waza” è una forma
ripetuta così tante volte da essere assolutamente irriflessa. Questo fatto già
di per sé fa capire la differenza profonda dei due contesti culturali,
differenza che non va sottostimata14.
Capitolo 3. Il concetto di
“kami”
Il contesto nipponico,
dunque, si declina tra la raffinata metafisica intuitiva dello Zen e la
percezione “arcaizzante” del divino nella natura, tipica dello Scintoismo.
Difatti è un grosso errore tradurre il termine giapponese, intraducibile, di
“kami” con “dio”, “god”, “deus” o theòs” che dir si
voglia. Sempre in questi termini si dà per scontato che il “dio” in questione
sia “personalizzato”, quando invece il “kami” è piuttosto una
presenza, molto affine al latino “numen”, con qualcosa
in più rispetto al “mana”, perché il
mana è informe, mentre il numen è sempre localizzato in un luogo naturale, il che ci riporta al concetto
di natura come spazio sacro. Potremmo
chiamarli la “presenza numinosa” di un luogo. “Il kami è considerato l’abitante del luogo, che si trovi permanentemente in un
santuario o nella sua effimera manifestazione durante le feste, comunicando con
gli uomini; ma molto spesso non ha forma. (…) Questa non-figurazione non deriva
né da un’incapacità tecnica (…), né da una particolare proibizione – di certi
kami si finirà per tracciarne
figure”15. Il parallelo con talune religioni precristiane,
anche, se non soprattutto, quella greco-romana, è calzante.16
Chiaro che l’uomo moderno non
può certo tornare all’adorazione delle forze naturali, ma è altrettanto chiaro
che il ridurre il Creato ad un mero insieme di meccanismi da usare in modo
utilitaristico – spesso da parte di minoranza egoiste! – ha aperto la Porta ad
una situazione di dissoluzione su piano mondiale.
Conclusioni
Questo breve sguardo ad un
mondo “altro” ci fa sorgere la domanda: non sarà che la “figurazione dell’Altro”
possa essere, anche, la Creazione? Per noi di solito l’Altro è solo nell’uomo e
questo potrebbe un limite profondo. In tal senso, i peccati contro la Creazione
sono peccati a tutti gli effetti e non mancanze secondarie, lievi, poiché: “Il
peccato è il rifiuto dell’altro e quindi respinge Dio”17. Ancora: “Io credo che l’uomo moderno abbia l’urgenza di recuperare il
primato di Dio e di riconoscere la sua gloria”18, anche nella Creazione, tant’è che un tempo si pensava che, partendo
dalla gloria della Creazione, si potesse poi più facilmente giungere a Dio.
Questa via oggi è quasi completamente dimenticata, viviamo in un mondo tecnico
solo umano, peraltro ingiusto anche socialmente, come s’è già detto. Non sarebbe
impossibile che i due temi, guardando più profondamente, divisioni e scismi
sociali e cattivo rapporto con il mondo naturale, siano molto più profondamente
correlati di quel che si pensi comunemente.
***
BIBLIOGRAFIA
Bhikku Satori Bhante,
Lo Shintoismo, Rizzoli Milano 1984
Dizionario delle religioni
monoteistiche, Piemme Casale Monferrato 1991
E. J.
Harrison, Lo spirito
guerriero del Giappone, Edizioni La Comune Milano
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Winston L.
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della spada. La formazione psicologica del samurai, Ubaldini Roma
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Frederick J.
Lovret, La via della
Strategia. I segreti dei guerrieri giapponesi, Mediterranee Roma
2009
François
Macé, Lo shintō: i
kami, in Atlante delle religioni, Utet Torino
1996
B. Naaman – E.
Scognamiglio, Islâm Îmân. Verso
una comprensione, Edizioni Messaggero Padova
2009
Raffaele
Nogaro, Tutti cercano di
toccarlo. Un profilo d’esistenza Cristiana, Tipografia
Depigraf 2002
G. Parrinder,
Storia universale delle religioni, Arnoldo Mondadori
editore Milano 1984
O. Ratti - A.
Westbrook, I Segreti dei
Samurai, Mediterranee Roma 2007
NOTE
1 B. Naaman – E.
Scognamiglio, Islâm Îmân. Verso una comprensione, Edizioni
Messaggero Padova 2009, p. 54.
2 Ibid.
3 E’ senza dubbio giusta l’osservazione secondo cui il Concilio e le sue
decisioni sono rimasta, nella grandissima parte dei casi, solo sulla carta, per
molte responsabilità concordi, che han condotto all’attuale crisi. Anche il tema
della salvaguardia del Creato è rimasto “cartaceo”, in sostanza. Davvero ognuno
di noi “salvaguardia” il Creato? Davvero ognuno di noi sceglie il bene
dell’insieme rispetto al suo solo
bene? Il tema della salvaguardia del Creato, piaccia o non, investe tutta la
nostra vita, i nostri comportamenti, troppo spesso caratterizzati da
un’inavvedutezza davvero profanatrice, si manomettono i terreni senza tener
contro della fatica e del lavoro, davvero amorevole, della sollecitudine che ha
presieduto alla loro elaborazione. Oggi si sa che lo stesso terreno agricolo è
una complessa elaborazione dovuta anche alla sostanza vivente che agisce in
essi, senza la quale la Terra tornerebbe al deserto in poco tempo. Troppo uomini
vivono come se loro fosse tutto dovuto, e, senza dubbio, la Terra fornisce a
tutti qualcosa. Ma ci sono dei limiti…
4 Bhikku Satori
Bhante, Lo
Shintoismo, Rizzoli Milano 1984, p. 46.
5 Id., p. 48.
6 Ibidem.
7 In effetti, lo Scintoismo è la ricerca del divino nella natura, e, in tal senso, è l’
unica delle fedi “pagane”, salvo
popoli veramente minimi, che sia perdurata sino ad oggi, proprio perché capace
d’ “ibridarsi” con il molto più complesso e colto Buddismo, ma è stata tale
ibridazione a salvare lo Scintoismo dall’estinzione che è sempre avvenuta quando
una religione “nazionale” e culto degli spiriti locali ha incontrato una
religione “superiore”, ovvero ben strutturata e materialmente, come strutture
istituzionali, e teologicamente. In sostanza, lo Scintoismo è “il culto dei
kami”: “I kami sono gli spiriti locali, distinti dalle
creature celesti del buddismo; nelle traduzioni spesso diventano ‘dèi’, ma in
realtà possono essere considerati più ampiamente, come esseri superiori o
straordinari. Un letterato scintoista del XVIII secolo, Motoori, ha scritto che
‘qualsiasi cosa meriti di essere temuta e venerata per i suoi poteri
straordinari e superiori è detta kami’” (G. Parrinder, Storia universale delle
religioni, Arnoldo Mondadori editore Milano 1984, p.
205).
Quanto a Maraini, egli parla chiaramente, a proposito dello Scintoismo,
del suo “fondamentale vitalismo. Lo shintō, infatti, è in primo luogo una
religione che santifica ogni aspetto della vita di questo mondo, (…)
immergendosi nel ‘fervido presente’ (naka-ima) di cui l’energia vitale è suprema
realtà e meraviglia. (…) In tale ottica vitalistica, massimo scandalo è
ovviamente la morte. Accettata sì, (…) ma intesa come momento sommamente
negativo e impuro. Lo horror mortis impose per secoli lunghe pratiche purificatorie (…). D’altra parte,
proprio lo horror mortis, con
tutto ciò che ne consegue, ci offre una delle ragioni che spiegano in modo assai
soddisfacente il connubio millenario tra shintō e buddismo. Se per il vitalismo
shintō la morte è scacco e paradosso, impurità e bruttura, nell’ottica della
spiritualità buddhista essa è invece liberazione e possibile trapasso a felicità
sperate, per lo meno a nuovi gradini d’ascesa verso il nirvāna” (F.
Maraini, Lo shintō, in: AA.VV., a cura di G. Filoramo, Storia delle
religioni, 4. Religioni dell’India e dell’estremo Oriente, Laterza editori
Roma-Bari, pp. 615-617). Vi è dunque anche un lato “oscuro” che ricorda molto la
religione pre-cristiana specificamente romano-etrusca, con la grande differenza
che in Occidente il Cristianesimo ha sostituito, con la sua speranza
ultraterrena, il mondo vitale, ma pure con venature cupe, tipico della
“paganitas”, mentre in Giappone
le due religioni si sono, in certa misura, integrate. Si son integrate,
tuttavia, mai in modo completo e definitivo, diciamo una “simbiosi” fra
estranei, ma mai una mescolanza fra i due contesti, dunque non vi è stato quello
che in Occidente si chiamerebbe “sincretismo”, ovvero confusa mescolanza tra
culti differenti. Ognuno è rimasto a casa sua, ma ci si è influenzati a vicenda,
il Buddismo prendendo da esso una grande sensibilità verso la natura, lo
Scintoismo prendendo dal Buddismo la struttura e venendo costretto ad elaborare
almeno una base di teologia. Difatti, lo Scintoismo è privo di un testo sacri, o
di testi sacri, in questo, di nuovo, molto vicino alle religioni occidentali
precristiane. Lo Scintoismo ha due testi di riferimento, il Kojiki – in giapponese antico – e il
Nihongi, in cinese antico. In
realtà, tuttavia, si tratta di raccolte di leggende, di miti, non di una
Rivelazione di una Via o di qualcosa di nuovo, che prima non esisteva.
8 «Creazione», in Dizionario delle religioni monoteistiche,
Piemme Casale Monferrato 1991, p. 166.
9 Winston L.
King, Lo Zen e la Via della
spada. La formazione psicologica del samurai, Ubaldini
Roma 2000, pp. 173-174.
10 Id., p. 194.
11 Id., p. 193.
12 Frederick J.
Lovret, La via della
Strategia. I segreti dei guerrieri giapponesi,
Mediterranee Roma 2009. p. 49.
13 Id., p. 50.
14 Ed ecco le “tecniche” d’estrazione immediata, per esempio della spada.
Il confronto era sempre rapidissimo. “Uno dei primi osservatori occidentali del
Giappone feudale, il gesuita Alessandro malignano (1539-1606), si meravigliava
della rapidità con cui uno spadaccino poteva uccidere il suo avversario ‘al
primo o al secondo colpo’ di spada” (O. Ratti - A.
Westbrook, I Segreti dei
Samurai, Mediterranee Roma 2007, p. 133). La pratica
fondamentale era – ed è – la “centralizzazione”, lo haragei: “il haragei veniva anche considerato responsabile
dell’impassibilità di fronte alla morte (per fuoco o per ferro) dimostrata da
tanti monaci davanti ai guerrieri di Nobunaga e Hideyoshi” (ibid., p. 407), i
quali due condottieri, Oda Nobunaga e Hideyoshi, attaccarono vari monasteri
buddisti nipponici nelle dure lotte che portarono all’unificazione del Giappone,
nel XVI secolo. Nel libro da cui si sono appena tratti due passi, si cita un
vecchio scritto di Harrison del 1911 che, fortunatamente, è stato recentemente
pubblicato (finalmente!) in Italia da un piccola e benemerita casa editrice. A
parte lo spaccato di un Giappone che non esiste più, vi è tutto il capitolo
dedicato all’ “Esoterismo del ju-jutsu” che è interessante per questi temi. A tal proposito, particolarmente
interessanti son queste pagine: cfr. E.
J. Harrison, Lo spirito
guerriero del Giappone, Edizioni La Comune Milano 2009,
pp. 45-45 e pp. 129 e sgg.
15 François
Macé, Lo shintō: i
kami, in Atlante delle
religioni, Utet Torino 1996, p. 227.
16 Nondimeno, “la maggior parte di questi dèi non è sopravvissuta al
declino del pensiero mitico, avvenuto per effetto dell’influenza del Buddhismo e
del pensiero cinese. Le grandi divinità che li hanno sostituiti hanno quasi
tutte smesso di partecipare all’antica visione del mondo e finito per integrarsi
alle concezioni sincretistiche del Buddhismo. Fatto significativo, i racconti
che le riguardano non narrano più l’origine del mondo, ma quella del loro
santuario” (Id., pp. 228-229). Il culto della natura ha contribuito molto
all’assimilazione. Tuttavia, per quel che riguarda la sovranità, è avvenuto
l’inverso, perché, pur avendo il Buddhismo spesso interferito sulla vita
politica giapponese, esso non era la fonte della legittimità del sovrano
giapponese. Questo portò alla divinizzazione della figura del sovrano dal 1867
al 1945.
17 Raffaele
Nogaro, Tutti cercano di
toccarlo. Un profilo d’esistenza Cristiana, Tipografia
Depigraf 2002, p. 17.
18 Id., p. 75.
[Andrea A. Ianniello]
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