Secondo il già citato
Y. Mény[1],
vi sono solo due conclusioni alla “deriva”
impressa dal “populismo” (nato non per
caso negli Stati Uniti d’America!).
Le
Conclusioni del libro di Mény.
Dopo aver sottolineato
come i populismi, seppur non vincendo che in pochi paesi – fra cui l’Italia –
però non abbiano dato buona prova di sé, promettendo sempre molto di più di quanto poi possano effettivamente realizzare, però Mény,
che ha prima in varie occasioni criticato come il populismo sia stato, e assai
colpevolmente, sottovalutato, sottolinea come un grosso successo esso
abbia però avuto: ha influenzato il “dibattito” pubblico fino ad imporre la sua “agenda” politica, di
fatto, dominata dalle istanze populistiche.
Poi si chiede degli
esiti di quest’ondata populistica, seppur in parte frenatasi ma non per questo
ininfluente, come s’è appena detto. E scrive: “Al di là delle ricadute del
populismo sui «professionisti della politica», ci si può chiedere quale sarà il
suo impatto sulla relazione tra classi
dirigenti e cittadini o, in termini politici, tra rappresentanti e rappresentati, tra governi e individui. L’ utopia
populista del «governo del popolo da
parte del popolo», infatti, ha solo due
possibili esiti: quello dell’emergere (malgrado
la loro ostilità sul piano dei princìpi) di nuove élite fuori dalla ristretta cerchia dominante o quella dell’affermazione
di un leader che sia la personificazione della
volontà popolare [in Italia, molto
esattamente, i 5 Stelle e la Lega, rispettivamente: il che dimostra che
l’Italia viene usata come ballon d’essai
per vedere gli esiti della “vieille
vague” del populismo], fino a che sarà possibile identificare
una «volontà generale». Se il populismo portasse alla messa in discussione e
alla rigenerazione delle élite[la vedo difficile, più che altro si tenta di
cooptare certi settori populisti per
ottenere una parziale, molto parziale, modifica delle “classi dirigenti”, entro
“limiti determinati”, in anticipo],
la scossa potrebbe anche essere utile,
a condizione che i nuovi arrivati accettino i vincoli del sistema
rappresentativo [ma questo non va molto d’accordo con quale che lo stesso Mény
ha scritto in pagine precedenti, e cioè che nessun populista oggi è contro la
democrazia “formale”, ma che vogliono correggerla o in senso “diretto” (tipo 5
Stelle) o in senso presidenziale (la Lega), dove si mostra con chiarezza la
deriva “maggioritaristica” dei populismi]. Si tratterebbe d’una sorta
d’evoluzione alla Syriza, esemplare passaggio dall’utopia al duro compromesso
con la realtà. Se, al contrario, arrivasse l’uomo della provvidenza, la storia
è fin troppo ricca d’insegnamenti sulle illusioni prodotte dai salvatori politici,
di cui l’America latina ha fatto e fa ancora un grande uso [si tratta questo
del progetto della Lega in Italia, per ora fermato facendo leva
intelligentemente sull’altro “polo” del populismo, ma è solo congelato,
considerato quanto l’Italia sia sempre stata facilmente trasportata dalla sua
fissazione per “il salvatore della patria”, che di soliti fa danni, ma si sa
che le lezioni storiche non vengono mai
apprese, in particolar modo in Italia]. Non
ci sono altre opzioni [e questo è vero: vuol dire che il solo “arrocco” è
perdente, non porta da nessuna parte, ed anche questo è vero, di qui l’idea di una
separazione del fronte “sovranista” in cambio di una – relativa, però eh – “apertura” nel campo dell’establishment che
oggi può esser solo europeo, non più solo italiano, o francese o checché sia].
Nemmeno le speranze
salvifiche affidate alle nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione [i 5 Stelle] offrono alternative credibili. Esse consentono
mobilitazioni puntuali, mirate ed efficaci, che fanno riscoprire il fenomeno
dello spontaneismo politico e il ruolo delle emozioni collettive, che non
dovrebbero essere né disprezzate né sottovalutate […]. Tuttavia, in politica
[…] il controllo delle emozioni è una virtù. Esse […], se non temperate e guidate,
[…] rischiano di portare via tutto come un fiume in piena”[2].
Quel che stan tentando
in questo momento in Europa, insomma, è precisamente di cooptare una parte dei populismi, diversi fra
loro per natura, allo scopo di rinnovare almeno in
parte le asfittiche, polverose, polverulente, rapidamente degeneranti
classi dirigenti europee: questo è, nel momento in cui si scrive.
Ma è altrettanto chiaro
che questo non è in alcun modo un’ “alternativa” al populismo, ma, invece, un
accoglimento – parziale, forse troppo parziale, ma, nonostante tutto, tale –
delle istanze populistiche. Quindi: nessunissima
“alternativa”, ma soltanto un accoglimento parziale, cosa peraltro normale. Le
classi dirigenti che non sanno rinnovarsi – e lo ripete anche Mény – sono destinate
a passare, e pure a passare male.
Ma tutto ciò dà da
pensare, se si vuol davvero costruire una effettiva forma d’alternativa a ciò
che, a dire il vero, colora ormai di sé l’intero “dibattito” pubblico, come le
tematiche, di “destra”, che, ormai, dominano l’arena pubblica. Per certe
“destre”, che volevano uscir fuori dalla “nostalgia” per i fascismi e
rinnovarsi e riesercitare un ruolo nel campo pubblico, il populismo è stato un
cavallo di Troia. Non ne discende, però, che il populismo sia necessariamente
di “destra”, ma solo che le “destre” sanno aver più a che fare, essendo più
lontane da un “referente sociale”, dall’illuminismo e dalle sue illusioni, più
lontane dal dover “rappresentare” in modo preciso questo o quello, per cui
l’indeterminato “popolo” gli va molto più bene, ma non è vero il rapporto
inverso.
Sullo sfondo vi è
questo problema – in realtà si tratta del generatore del populismo, come da me
detto poco qui sopra –: “la sfida più grande non è quella che hanno davanti le democrazie nazionali, che lungo
tutta la loro tormentata storia non hanno mi smesso di affrontare crisi. La
difficoltà maggiore che oggi appare insormontabile,
e, in ogni caso, irrisolta è quella dell’armonizzazione tra il livello
nazionale e quello globale o,
perlomeno, sovranazionale.
Come si supera la maledizione westfaliana che confina la
democrazia solo entro i confini delle nazioni? Dovremo proprio rinunciare alla «democrazia
sovranazionale» accontentarci di scegliere tra democrazia nazionale e «democrazia
globale»?”[3].
A quest’ultima domanda non si può rispondere pienamente no, ma di certo non si può risponder sì.
Di fatto, vi è oggi una “scelta” più o meno secca, nel senso che la scelta rimane, ma con delle mediazioni, forme “miste”, per così dire. Ma rimane che la “democrazia ‘sovra nazionale’” – non “globale” – oggi è largamente chimerica. O, per meglio dire: essa è chimerica se e solo se si mantenga fermo il quadro delle democrazie “liberali” … capito il punto …?
Di fatto, vi è oggi una “scelta” più o meno secca, nel senso che la scelta rimane, ma con delle mediazioni, forme “miste”, per così dire. Ma rimane che la “democrazia ‘sovra nazionale’” – non “globale” – oggi è largamente chimerica. O, per meglio dire: essa è chimerica se e solo se si mantenga fermo il quadro delle democrazie “liberali” … capito il punto …?
Se la difficoltà è
“insormontabile”, come dice Mény, allora ci si deve adattare al fatto che quel
che appena dopo sostiene lo stesso autore francese, che cioè la democrazia
possa reinventarsi in altre forme – una “democrazia 3.0” (e mo’ facciamo x.0,
così non c’è fine alla serie di numeri prima dello zero, ma è chiaro ed ovvio
che tali artifici verbali non
possano risolvere proprio niente) –, non può, né potrà mai, aver luogo.
Insomma – per tornare a
noi – ci si pone la seguente questione: siamo di fronte ad una crisi sistemica
delle democrazia liberali? O solo ad un suo “passaggio interno”, verso una
forma “3.0”, per dirla con Mény? Ecco il tema di fondo che si pone, oggi.
La “maledizione westfaliana”
è consustanziale alla nascita dello stato moderno: ecco il punto. Pensare di
superarla e rimanere entro il quadro delle “democrazie liberali” – pur con tutto il “bricolage” (Mény) che pure le
caratterizza – è chimerico.
Andrea A
Ianniello
[1]
Cf.
[2]
Y. Mény, Popolo ma non troppo. il malinteso democratico, Società editrice Il
Mulino, Bologna 2019, p. 208, corsivi miei, miei commenti fra parentesi quadre.
[3]
Ivi, p. 209, corsivi miei.