Quella della nascita
dello stato moderno è un’interrogazione **implicita**
sull’ “Origine” dello stato
stesso, sulla sua “legittimità” cioè, “implicita” perché mai esplicitata, ma nata
dalla crisi **nel** (cioè dentro,
all’interno) “mondo della tradizione” occidentale; le risposte a tale crisi
sono sempre state di tipo “pratico”, vale a dire ch’esse giammai hanno reso esplicito il punto “critico” iniziale,
ma, invece, si sono concentrate – le “risposte” – sul “come fare” (“know how”)
per aumentare la “performatività” concreta dello stato, in luogo di
rispondere al momento “critico” iniziale, invece di corrispondere al problema
dell’ “origine” dello stato.
In altre parole: lo
stato moderno “non ha” origine, o,
almeno, si rifiuta di discutere sulla sua “origine” – dunque sulla sua legittimità – per concentrarsi sulle
soluzioni “pratiche” per
rafforzarsi, anche senza “origine”,
o, in apparente alternativa,
dandola per scontata.
Traduzione: discutere
dell’origine – = “chi/cosa” ti/ci ha fatto “stato” – è **il** “tabù”
fondante lo stato moderno. E’ “il” tabù **fondante** poiché discuterne è **impossibile** nell’ambito della modernità stessa.
Di conseguenza, la
modernità non può che rimanere rinchiusa nel “cerchio magico” rinserrato
attorno ad essa, come – si dice, si dice
(questo sarebbe secondo Gurdjieff, il quale, però, afferma di averlo visto di persona:
ma, secondo altri, sarebbe “fonte sospetta”; ora, come che sia, il paragone
calza bene) – che accadesse ad alcuni yezidì.
E tale cerchio magico,
ed insuperabile, è: “la” democrazia (che costruisce un’unità da una pluralità),
il “popolo”, il consenso, la (o le)
“libertà”, che vengono stiracchiate di qua e di là senza fine, ma pure senza
esito. E di qui viene il populismo – o “i”
populismi – con la sua ossessione per il “popolo” e la natura escludente della
sua definizione di popolo, che, però, fa parte della democrazia sin dal
principio[1],
di conseguenza si tratta di una contraddizione interna
al (e nel) sistema che domina il
mondo da circa due secoli, più o meno, da quando si è operato, per mezzo della
Rivoluzione francese, e non solo
(e, si badi bene, non solo …), “un
sensibile cambiamento di rotta”[2].
Tal “cambiamento di rotta” ha reso “il basso” il latore della legittimità, e
non più “l’Alto”, il potere “viene dal ‘popolo’” e non più da Dio o da un
gruppo scelto, comunque quest’ultimo venga poi definito. La modernità, lo stato
moderno, è questo. Solo che, dal punto di vista storico, a parte alcune
fratture (come la Rivoluzione francese) non è affatto vero che si è passati a
tal “cambiamento di rotta” per mezzo di rotture, anzi, è vero il contrario. Il
nucleo fondante dello stato moderno è nato dentro
la tradizione occidentale, per mezzo di un complesso
movimento di fattori concordi e discordanti, non semplice a descriversi e
difficile da “dire in due parole”, come suol dirsi. Questo “dentro” è inaccettabile per i vari “tradizionalisti”, che hanno un “punto
cieco”, a tal proposito. In ogni caso, è nota la teoria di F. Maraini, secondo
il quale tre personaggi sono gli “emissari” del mondo premoderno: il Tennò
nipponico; il Dalai Lama tibetano; il Papa cattolico. Ognuno di essi detiene il
potere per ragioni diverse, ma ognuno di essi afferma di derivare questo potere
da un’ “autorità superiore” e non umana: Il Tennò per via di successione
dinastica, il Papa per successione apostolica, il Dalai Lama per una via molto
particolare di successione “reincarnata”, per così dire. Ora però, se
succedesse una qualche interruzione in queste “catene”, saremmo in grado di ripristinarle?
No. Non saremmo nemmeno in grado di ricrearne altre, dunque? A fortiori. Ed è questo il punto, non da
oggi, ma per lo meno da due secoli. Oggi solo degli spostati mentali o degli
illusi possono affermare seriamente, senza timore di non esser creduti, che “il
mio potere ‘viene da Dio’”, e questo è l’effetto della modernità, che ha
spostato l’asse della storia ed inaugurato la legittimazione dal basso, per
mezzo del popolo cosiddetto. Ma ciò ha posto il consenso in una centralità come
mai prima. Non vi è una legittimità “data”,
ma essa dev’essere “guadagnata” per mezzo di ciò che si fa, o si promette di fare,
e, poi, di solito, non si fa, ma non importa: Vulgus vult decìpi, diceva il cardinal nipote di Papa Carafa (o,
per lo meno, a lui si attribuisce questo detto).
Ma torniamo alla
politica moderna, di cui si diceva su, basata sul consenso e sull’effettività
concreta, di qui la parentela stretta fra tecnica e stato ed economia moderni.
Di qui anche il fatto – su questo Severino ha ragione, anche se sbaglia a voler
mettere le religioni sullo stesso piano degli altri attori (o ex attori) del teatrino “globale” – che
tutte queste potenze differenti (tra loro) abbiano sviluppato la tecnica credendo di poter signoreggiarla,
mentre, in realtà, è stata la potenza
della tecnica che si andata espandendo per
loro mezzo … ed oggi le signoreggia …
Chi ha la sovranità,
secondo Schmitt: colui, o quella potenza, che gestisce lo stato di eccezione. Ora, il predominio della tecnica è
tutto uno “stato d’eccezione”, ma, ed ecco il punto, non sono né gli stati né
l’economia né qualsiasi altra forza oggi esistente a poter gestire lo stato
d’eccezione: lo è, invece, la tecnica stessa. Dopo aver provocato lo stato
d’eccezione, essa stessa se ne presenta come la risoluzione … paradosso solo apparente …
Due le risposte concrete
che la storia ci ha consegnato (piaccia o non), al problema centrale del
consenso e dell’effettività concreta: una di “sinistra” e l’altra di “destra”; quella
di “sinistra” è basata sul concetto di “estensione”, di “tutela” e/o di “diritti”,
ma sempre di “estensione” trattasi: quindi aumentare la “platea” e coinvolgere,
insomma. La risposta di “destra” è la “legittimità” di Talleyrand: non ci
s’interroga sull’ “origine” del
potere politico (perché nella modernità ciò è “tabù”),
ma si dice che è “legittimo” ciò che già
lo era: in tal modo, si può mantenere in epoca moderna dei poteri di origine
premoderna (come i vari regni dell’epoca, sec. XIX, o il Papato o il Tennò), ma
non fondarne di nuovi. Il gioco di
prestigio è stato questo, ed è durato sin troppo, le “destre” d’ogni risma e
forma non avendo alcuna consapevolezza del problema fondante, né potendo
averne. Vi son ostacoli formidabili sul cammino, perché solo se si abbia consapevolezza
dei “nodi” lasciati sul campo dallo “sviluppo” moderno, né alcun Alessandro Magno
c’è in vista, che tagli – una volta per tutte – l’ inestricabile “nodo di Gordio” che la modernità è, si può pensare di rispondere a tal gigantesco nodo.
Se un diverso assetto
si può instaurare, o si deve
confermare quello preesistente, nella mentalità di destra si deve ricorrere al “plebiscito”, cioè, di
nuovo, al “popolo”: la “sindrome plebiscitaria”, con il suo corollario di super
retorica sul “popolo” e la “fixe” per i referendum, è parte costitutiva della
“destra” politica moderna, che si auto
presenta come “tradizionale” cosiddetta, ma, in realtà, si basa “sul basso” esattamente
come tutta la politica moderna, erede di quella “frattura” di cui s’è detto su.
In tal senso, fra
“populismo” e “destre” vi è similarità e differenza al tempo stesso[3],
nel senso che le “destre” sono “plebiscitarie”, il “populismo”, anche se simile alle destre, però è diverso;
esso ha il senso “materico” della protesta: è il “popolo” cosiddetto – definito
in senso escludente – versus le
“élite”, sempre cosiddette, ché vera “élite” ha un altro senso.
Le “destre” non si
oppongono mai – ma dico **mai** –
al cosiddetto “popolo” ed alla sua ancor più iper
cosiddetta ““volontà”” – sono meri desideri di massa ed opinioni dominanti, in effetti –, ma se il
“popolo” non va in una certe direzione occorre condurvelo. Senza opporcisi, ma
facendo leva sulle sue emozionalità di massa, e poiché più basse le emozioni di
massa, tanto più sono diffuse, ecco che la scelta delle emozioni può essere
scarsa.
Al populismo quest’ultimo
punto, il “condurre” il “popolo”, cioè, in pratica gli è lontano, non del tutto
quando giunge a governare eh, ma il populismo cosiddetto “puro”, al contrario
delle “destre” populiste, si accontenta del muro fra cosiddette “classi
dirigenti” e “popolo” cosiddetto, i “poteri forti” ecc. ecc., quella retorica
che oggi ben si conosce, perché ha invaso tutto e tutti: alla faccia di chi
crede che siano ancora le “sinistre” a dominare il dibattito pubblico[4].
Da un bel po’ non è così più, e la tematica dei “diritti”, anche se
storicamente di “sinistra”, lo è oggi sempre meno, e quindi non aiuta ad
enucleare la “sinistra”, qualsiasi cosa residuale
oggi sia.
Finisce lì, però, il
populismo “puro”, e quando si deve passare dalla protesta e dal muro contro
muro di “popolo” contro “classi
dirigenti” ad un programma positivo, hanno delle difficoltà grandissime, come la cronaca dimostra.
Però ambedue le
cosiddette “soluzioni” storicamente proposte, oggi,
sono **inefficaci**: quella di
“sinistra” è tramontata da tempo, come s’è detto varie volte su questo blog.
Mentre quella di “destra” è in crisi, in realtà, ma non vista, **non** riconosciuta: di qui le false
soluzioni, in realtà **dis**-soluzioni,
proposte da varie forme di “sovranismo” – sempre cosiddetto tale.
Il “popolo” – cardine della
legittimità “democratica” e “liberale” assieme, ma i due volti del democratismo
danno al “popolo” ruoli diversi – è sempre
una nozione basata sull’ esclusione,
questo Mény lo mette bene in luce. Il “popolo” è “tutti” tranne altri, si compone dei cosiddetti “tutti”
ad eccezione di “tutti” gli “altri”
(questi ultimi definiti come i non cittadini sin dalla Costituzione o in altre modalità di “prassi”,
se una forma scritta Costituzionale non si è pienamente formata per una qualche
ragione).
Per fare un esempio
chiaro: i cittadini di uno “stato” moderno saranno effettivamente votanti,
ovvero parte del “corpo” elettorale; altri abitanti del territorio statale
saranno … senza corpo, dunque … incorporei.
In altre prole: non votanti.
Il risiedere su ed in un territorio non rende di per sé cittadini, salvo norme specifiche regolanti,
che vanno però aggiunte: esse non sono costitutive, costituzionali, se del caso.
Questo per la semplice ragione che “popolo” è nozione basata sull’esclusione. Tant’è
vero che gli Imperi, non le
Repubbliche, son sempre stati quelli che “danno la cittadinanza” erga omnes, che includono. E, di nuovo,
questo è storia, sgradevole per il democratismo dagli anni Novanta (del secolo
scorso) imperante, democratismo che ha subito l’avanzata del liberalismo per
decenni, ma è storia. Può piacere o non. Nell’antica Roma si è dovuto piegare
la Repubblica per poter, poi, davvero estendere la cittadinanza.
Questo natura
escludente del “popolo” fa sì che il “populismo” non possa, in alcun modo,
essere un “incidente di percorso” della democrazia, ma, invece, sia la piena e completa
realizzazione della democrazia come “dittatura della maggioranza” teorizzata da
Toqueville[5].
La democrazia, ogni
democrazia, frenata dal liberalismo, questo sì – perché questo è ciò che è
successo storicamente, e, di nuovo, Mény ripercorre correttamente queste evenienze
storiche – non può che schiacciare tutto. Se ciò non è successo storicamente
era solo perché si limitava il “popolo” per mezzo di vari artifici “liberali”
cosiddetti; il che non vuol dire che oggi, con gli strumenti social a
disposizione di tutti, con la dittatura delle “doxa” – che Platone avrebbe aborrito – imperante ovunque, noi si
possa, per mezzo d’artifici legali – “liberali” e costituzionali cioè – “frenare”
questa deriva. Ciò è chimera pura. Oggi, dato che il fiume è troppo impetuoso
per poterlo domare, l’unica cosa seria da farsi è deviare il fiume, non
arginarlo. Dunque spingerlo nella sua deriva, ma in direzione meno “maggioritaristica”,
direzione che, poi, e non a caso, è il “clou”, il centro, il punto nodale di
ogni “populismo” che si rispetti. Dunque si deve fare proporzionale puro, senza sbarramenti di sorta.
A questo punto, si
vedrà, non a caso, che i populismi si opporranno: perché il “maggioritarismo” è
il loro nocciolo fondante. Qualunque populista che valga la “cassoeula” che
mangi – taleggio e “bitto” non son altrettanto “probanti”, in tal senso … – sempre
penserà: La majorité c’est moi.
Questo “maggioritarismo”
è la loro cifra fondante.
Molto divertente l’argomento
che da costoro sarà, di certo, usato:
la governabilità. Il proporzionale “puro” metterebbe in questione la
governabilità. Ma come, voi che mettete in questione la governabilità, ora la
tirate in ballo … ? Qualcosa mi rende scettico al riguardo … E’ come se il
diavolo ti dicesse: va’ in chiesa. Qualche domandina vogliamo farcela? Anche se
oggi si nota la totale insensibilità non dico alle contraddizioni, ma pure solo
alle incongruenze, rimane che c’è qualcosa di stonato.
Una simile obiezione fa
capire tante cose: che per i populismi non sono le istituzioni che assicurano la
governabilità, ma sarebbe “direttamente” il popolo, e cioè la piena negazione
delle democrazie “liberali” che inevitabilmente “disciplinano” la cosiddetta “volontà”
popolare – alias: l’umore cangiante del popolo e i suoi perduranti tabù e fissazioni –, per cui la
mediazione, e dunque la rappresentanza (ché questo è, alla fin fine), non hanno alcun senso. Notiamo come anche membri
del cosiddetto “establishment”, in realtà, abbiano in sostanza la stessa mentalità,
seppur in forme meno estreme dei partiti “populisti ‘puri’”, per cui su questo
Mény centra la questione: il vero problema è che “i” populismi hanno
influenzato e colorato di sé l’intero clima pubblico delle democrazie un tempo “liberali”,
modificando quel clima.
Ma la questione
diventa: se così è già ora – senza
uscircene con i soliti, e vieti (e soprattutto inutili) appelli al “se non faremo così, allora …”, allora niente,
perché già ci siamo dentro – quali
mosse rmangono. Non certo l’arroccarsi dentro le istituzioni liberali allo
sfascio, anche, se non soprattutto, grazie a quella tecnica che il liberalismo
diceva essere “cosa buona e giusta” e che lo ha distrutto, divertente nemesi.
Quando un fenomeno
degenerativo ha preso una forza tale che non è più possibile combatterlo –
senza per questo credere di poter “cavalcare la tigre”!![6]
– hai due opzioni, concrete, reali, niente sogni: 1) lo lasci andare per la
sua via; 2) attui la diversione, cioè, con metodo “aikidò”, puoi deviare il
flusso, “girarlo” per così dire.
Oggi concretamente ciò
significa proporzionale puro, ma è molto difficile che succeda. Ciò a causa di
parti non piccole dell’establishment che sono influenzate da “i” populismi, e su
questo Mény ha ragione: il populismo ha cambiato il “clima” delle democrazie
dette “mature” e che io, invece, chiamo “sfatte” o democrazie in dissolvimento.
Molto difficile che capiscano
che cosa ci sia in gioco e si comportino di conseguenza: questo non solo a
causa dell’influenza detta, ma pure a causa di pregiudizi ideologici; eh sì, la democrazia – il democratismo – è un’ideologia
come un’altra, non è la “salvezza” dell’umanità né “il” sistema assoluto, che
qualcuno avrebbe scoperto una volta per tutte[7].
Per cui è molto facile che o si vada in rincorsa della deriva “maggioritaristica”
o ci si arrocchi nelle istituzioni liberali ormai svuotate. Una scelta errata
in ogni caso.
Al livello di forza che
questi fenomeni han preso, è futile credere di poterli “governare”, tanto più quanto
meno le istituzioni abbiano forza vera, rose come sono dal capitalismo
sovranazionale e, insieme, dallo sviluppo tecnico che ha corroso ed indebolito
le classi medie. Occorre andare nella direzione della discesa, cercando di
deviarne gli obiettivi.
“Père Ubu: Cornoventraglia!, non avremo demolito tutto se non avremo demolito anche le rovine! Per questo, non vedo altro modo che equilibrarle in begli edifici ben ordinati”[8]. Insomma, l’unica via d’uscita concreta è “ubuesca”, è patafisica … Ordina le rovine, poni ordine fra di esse: sembra paradossale, e lo è.
“Père Ubu: Cornoventraglia!, non avremo demolito tutto se non avremo demolito anche le rovine! Per questo, non vedo altro modo che equilibrarle in begli edifici ben ordinati”[8]. Insomma, l’unica via d’uscita concreta è “ubuesca”, è patafisica … Ordina le rovine, poni ordine fra di esse: sembra paradossale, e lo è.
Quel che nessuno può
fare è ripassare dalle rovine alle costruzioni di prima (tranne avere un
progetto di cambiamento dell’intera “città degli uomini”, ed oggi nessuno ce l’ha!!),
nessuno può farlo, né populista né membro dell’establishment. Nessuno.
Si può prender atto di
ciò o far finta che non sia così, chiaro che nell’epoca della simulazione tutti
fan finta, ma è altrettanto chiaro che, così, la crisi non può terminare. Mai.
Andrea A.
Ianniello
[1]
A tal proposito, cf. Y. Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, Società editrice il
Mulino, Bologna 2019. Al di là dei
molti, giusti, rilievi di tal libro,
rimane che il “bricolage” caratteristico delle democrazie, sempre dal punto di
vista di Mény, non basta nel risolvere un crisi che tocca, per la prima volta,
il loro nucleo fondante: la
rappresentanza. Su ciò, cf.
[2]
J. Robin, René Guénon. Testimone della Tradizione, Edizioni “Il Cinabro”,
Catania 1993, p. 27. La stragrande maggioranza dei
“tradizionalisti” è rimasta all’anti Rivoluzione francese, insomma alla
stagione della “Restaurazione” post 1815, questa è la loro mentalità, poi
“tradotta” e scagliata contro altri “nuovi” – o cosiddetti tali –
“spaventapasseri”, uno dei più grandi dei quali è stato il famoso “comunismo”,
tolto il quale – ma che goduria
averli visti senza oggetto d’odio!! – ora si son riciclati sul e nel
“popolo”, referente d’ogni tutto, la grande parole “di moda” oggi. Solo Guénon
si chiedeva – o, almeno, personalmente conosco solo quest’autore che se lo è
chiesto – che cosa dovesse succedere, una volta che la fase più “positivistica”
si fosse chiusa, come poi è successo. Per costoro, per i “tradizionalisti”, era
solo il “materialismo” o ancor oggi lo è lo “scientismo” che son oggetto di
riprovazione. Essi si costruiscono una simia
philospiae, che amano poi incendiare in quegli “auto da fé” che ne
incendiano gli animi …
[3]
A tal proposito, cf. Y. Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, cit., pp. 181-202,
cioè l’intero cap. 7, intitolato “Radicalizzazioni: dalla protesta all’estrema
destra” non a caso. Secondo Mény, la frattura crescente, negli ultimi tempi, è quella
fra liberalismo e “democrazia”, che si erano uniti nella lunga stagione
precedente, invece. Possiamo vedere questa lotta – fra una democrazia “illiberale”
e un liberalismo poco democratico, anche se non “anti” democratico, dunque la relazione fra i due termini non è “speculare” – negli eventi recenti,
o recentissimi, qua, in Italia.
[4]
A tal proposito, sempre cf. Y. Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, cit., e i molti passi dove dimostra quanto il
dibattito pubblico, anche da parte dei partiti dell’ establishment, sia oggi dominato dalla retorica populista.
Giustamente, tuttavia, Mény redarguisce ogni volta i membri dell’
“establishment” per la loro storica sottovalutazione dei populismi, di “destra”
o “sinistra” poco conta, anche se la parentela è maggiore con le “destre”, per
i motivi suddetti.
[5]
Cf. A. de Toqueville, La
democrazia in America, Cappelli, Bologna 1957.
[6]
Cf.
[7]
“L’Europa e l’America, con le loro radici culturali gemelle che affondano nella
tradizione filosofica greco-romana e giudeo-cristiana, non hanno scoperto la
formula magica del buon governo valida al di là di ogni divisione culturale”,
in Sol Levante, Monografia di “Internazionale”
n° 133 del 7 giugno 1996, p. 52.
[8] A. Jarry,
Ubu. Ubu Re. Ubu Cornuto. Ubu incatenato.
Ubu sulla Collina, Adelphi Editore, Milano 1977, p. 108, maiuscoletto in
originale, corsivi miei.
E mica lo fanno (a quanto pare) il proporzionale cosiddetto “puro”, vi eran pochi dubbi al riguardo … La “governabilità” colpisce ancora … La deriva “maggioristaristica” continuerà dunque, anche se il “clima” sta cambiando. Con la congiunzione fra Saturno e Giove in Acquario, appena dopo quella – ultima in segni di Terra – fra Saturno e Giove in Capricorno, si acuirà la tendenza che si è mostrata con gli “scioperi sul clima” cosiddetti. Naturalmente i soliti “tradizionalisti” – questi ottusi senza speranza, che combattono sempre la battaglia dl giorno prima – si “oppongono” e fanno polemiche inutili: manco gli passa per la testa che è proprio la loro resistenza che manifesta, che aiuta a manifestare quello cui – a parole – essi stessi si oppongono, ma che, in realtà, come s’è detto, aiutano a manifestare ….
RispondiEliminaSu questo cambiamento **venturo** del **clima mentale**, cf.
Eliminahttps://associazione-federicoii.blogspot.com/2019/05/secondo-me.html
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