giovedì 29 febbraio 2024

Vecchio link

 

 

 

 

 

Una settimana dopo a Kathmandu entro nell’Ospedale Missionario tedesco (per un mese) con l’epatite. Un piccolo prezzo per tutta quella conoscenza – il fegato d’un colonnello in pensione di una storia di Kipling! – ma la conosco, conosco Kali. Sì, è assolutamente l’archetipo di tutto l’orrore, eppure per quelli che sanno diviene la madre generosa. Più tardi in una caverna della giunga di Rishkish [località che si è già, non per caso, incontrata in un vecchio post], meditai su Tara per diversi giorni […] e ritornai alla serenità di Darjeeling, alle sue benevole visioni. La sua èra [il Kali Yuga, per l’appunto] deve contener orrori, poiché la maggior parte di noi non può capirla o arrivare oltre la collana di teschi, alla ghirlanda di gelsomini, capendo in qual senso sono la stessa cosa. Andare attraverso il CAOS, cavalcarlo come una tigre [questo, nell’anno dove si ricorda la morte di Evola, viene a proposito!], […] assorbire parte del suo shakti, della sua Linfa – questo è il sentiero di Kali Yuga [precisamente quel che sosteneva l’ ultimo Evola, che ha sostenuto varie cose, ma nell’ultimo periodo questo sosteneva, venendo all’ essenziale]. Nichilismo creativo [idem]. A coloro che lo seguono, promette illuminazione e anche ricchezza, una parte del suo potere temporale. La sessualità e la violenza servono come metafore in un poema che agisce direttamente sulla coscienza attraverso l’immagine-inazione – oppure, nelle corrette circostanze possono essere […] dispiegate […], imbevute di un senso della  santità di ogni cosa, dal vino all’estasi alla spazzatura e ai cadaveri [cosa in realtà molto pericolosa, si sa: e chi ha tentato di seguir questo cammino spessissimo c’ha “lasciato le penne”, non solo metaforicamente]. Coloro che la ignorano o la vedono al di fuori di se stessi, rischiano la distruzione [qui ha, invece, ragione: le “radici di Kali” sono DENTRO gli uomini, NON “fuori”]. Quelli che l’adorano come ishta-devata, o divino sé, assaporano la sua Età del Ferro [altresì detta, per l’appunto, “Kali Yuga”, è lo stesso] come se fosse oro, conoscendo l’alchimia della sua presenza”.

HAKIM BEY, T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome, ShaKe Edizioni, Milano 2008, pp. 123-124, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre [1]

 

 

Ci alziamo all’alba con l’acqua ancora nelle ossa; ma appena fuori, una delle visioni più gloriose ch’io abbia mai ammirato ci salutava: di fronte a noi splendente in taciturna bellezza cavalcava sotto la prima luce del giorno tutta la catena dall’Himalaya; pochi fiocchi di nubi restavano sospesi nel cielo come fantasmi argentei che non avessero fatto in tempo a fuggire con la notte; sotto, nella valle, luccicava la Likhu khola su cui precipitava d’ambo i lati il verde impenetrabile di foreste immense. […] La discesa da Kakani a Tikuri bazar è un capitombolo: non è una strada, è il solco capriccioso d’un torrente con salti improvvisi, una superficie cretosa così levigata ed umida per la pioggia che non ci si regge in piedi. Incontriamo carovane che salgono lente: i corpi sudati e scuri sembrano statue di bronzo che si muovano per miracolo d’incantesimo. Tutto a spalla: […] s’avvicina la Dussera, la festa di Durgā e le campagna per l’occasione riforniscono la città. Arriviamo al ponte di Likhu […] che si congiunge con la Tadi khola e poi sotto il Nawakot con la Trisuli, e questo nome resta perché i tre fiumi disegnano una figura a forma del tridente (trišula), simbolo ed arma di Sciva, sommo protettore del Nepal”.

G. TUCCI, Tra giungle e pagode, Fratelli Melina Editori, 1982, pp. 50-51, corsivo in originale (ristampa dell’edizione Newton Compton del 1979; si riferisce ad un bel viaggio – molto interessante, così come le foto d’epoca – di Tucci in Nepal, e Mustang, del lontanissimo 1952). Il viaggio avviene durante il monsone, quando tutto è inzuppato d’acqua: una dissolutio MOLTO ma MOLTO “nelle corde” di Kalì! [2]

 

 

 

 

 

 

 

Un vecchio link, su di un libro di trent’anni fa, ormai! La “crisi della democrazia” infatti ha radici antiche … Ah, è irreversibile. Il link è di un post cancellato, del 2017, sette anni fa ormai … Nel frattempo, alcune cose sono assai peggiorate … Appunto: malattia mortale, coma irreversibile.

 

Cf.

https://associazionefederigoiisvevia.files.wordpress.com/2021/08/la-fine-della-democrazia-cancellato-del-2017.pdf

 

 

 

 

 

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[1] Hakìm Bey, pseudonimo di Peter Lamborn Wilson (1945-2022). Una sua vecchia frase viene molto a proposito, oserei dir quasi … “a fagiolo”, come suol dirsi: “Il grottesco junk-food semplicemente rappresenta l’altro lato dello spettrale ‘cibo sano’: sa tutto di segatura o additivi – è tutto o noioso o cancerogeno – o tutti e due – ed è tutto incredibilmente stupido. Il cibo, crudo o cotto, non può sfuggire dal simbolismo [MOLTO giusto]. Esso è e simultaneamente rappresenta quello che è. Ogni cibo è cibo per l’anima; trattarlo altrimenti è corteggiare l’indigestione, sia cronica sia metafisica. Ma nelle tombe senz’aria della nostra civiltà, dove quasi ogni esperienza è mediata, ove la realtà viene passata al setaccio letale della percezione-consenso [sì], per diamo il contatto con il cibo come nutrimento; iniziamo a costruirci personaggi basati su ciò che consumiamo, trattando prodotti come proiezioni del nostro desiderio d’autentico [sempre frustrato, chiaro, perché il desiderio d’autentico non può NÉ sostanziarsi NÉ nutrirsi – mo’ ce vo’ – per mezzo di “proiezioni”]”, ivi, p. 98, corsivo in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre. In realtà, però, sono parole scritte da Wilson nella seconda parte degli anni … Ottanta …! Era già tutto chiaro, solo che gli occhi non c’erano (NÉ ci sono, per la verità …) … In ogni caso, sia chi ha tentato di “cavalcare la tigre” (fra cui gli “evolomani”) son finiti molto male: al massimo son borghesotti al servizio di quelle forze che **credevano** di star “combattendo”, e ciò nel migliore dei casi (poi c’è stato chi si è proprio perso); ma pure chi “fa finta” che “Kalì non ci sia” finisce sotto il suo dominio: la stolta negazione nemmeno ha mai aiutato. Attento a voler “cavalcare la tigre”! Non è né un cavallo né un gattino … Attento però a negare la tigre, perché la tigre, alla fine, ti mangia … Tutti quelli: “entriamo” così, “dall’interno”, … dall’interno proprio niente! Sogni. La questione rimane spinosa, molto a molto ma moltissimo spinosa! Il “retto cammino” è “affilato coma la lama d’una spada”. Facilissimo abboccarsi di qua o di là: non ci vuol nulla.

 

[2] “Sullo spiazzo è tutto un barbaglio di luci, il sole rimbalza sugli ori e accende i variopinti costumi dei visitatori o carezza i fiori moribondi ai piedi delle immagini. Tutta d’intorno, come emersa dal suolo, irregolare e capricciosa, una selva di statue e di stūpa [reliquiario buddhista] protende nei secoli la pietà dei fedeli. Il tempietto della dea del vaiolo ha chiesto ospitalità al Buddha e l’ha ottenuta. L’universalità del Buddhismo si rivela nella fraterna e sorridente convivialità dei pellegrini sopraggiunti da ogni parte dell’Asia, nepalesi, indiani, tibetani, mongoli, cinesi. Chi placa la terribile dea, chi gira intorno al monumento buddhistico, chi prega raccolto, chi contempla  dio dispiegato invisibile nella gloria del cielo”, ivi, p. 149, mie osservazioni fra parentesi quadre. Peraltro, Tucci, anche se parla di varie cose, si legge che rimane fondamentalmente “europeo” nei suo giudizi. Ma è un libro a tratti davvero poetico, anche perché – lo dice apertamente lo stesso autore, nonostante alcuni aspetti molto malinconici, si era trovato molto bene in Nepal e in Mustang: “Anche quassù il vecchio mondo s’incrina [ricordiamoci che il viaggio risale al 1952!]: i suoi depositari cominciano a dubitare; do fronte all’evidenza della scienza molte fantasie cadono [e tuttavia, lo stesso Tucci, proprio in tal testo, era stato testimone di una guarigione del medico della spedizione per mano d’uno “stregone”]. Ma resta la boria. E i bramani ne son pieni: come i discendenti impoveriti d’una ricca famiglia non si raccapezzano in tanto mutare d’idee [Kali!], non sanno adattarsi […]. Con la sera scendeva la calma: quei tramonti tranquilli e caldi che anche le piante immote, per il cessar del vento, sembrava stessero pensose ad ammirare. A poco a poco la notte spegneva il fuoco delle ultime luci che bruciava sui colli boscosi lontano e la luna restava sola a godersi il silenzio. Poi dal villaggio cominciarono a giungere suoni dolcissimi: una melodia velata di tristezza e accompagnata dai sommessi accordi d’una fisarmonica. Era come un invito: mi mossi. Guttuso [il medico della spedizione] m’accompagnò. Stavano seduti nell’atrio d’una casa e cantavano il Bhāvanīstotra, l’inno a Bhāvanī che una tradizione dubbia attribuisce ad uno dei massimi pensatori dell’India, Śankara. Mi sedetti in mezzo a loro [com’è giusto: uomo fra uomini, venuto da chissà dove, che andrà chissà dove; nessuna domanda, nessuna risposta, salvo quei versi cantati] e così fui trascinato dalla melodia dolce che quasi senz’accorgermi mi misi a battere il tempo insieme con loro. Bhāvanī, la Grande Madre, l’inafferrabile Potenza [cioè: Shakti] che tutto fa nascere e tutto fa morire, alimenta come una madre ed uccide come un predone in agguato per poter lei, immutata, inesausta, in terno giocare con quest’inutile mondo”, ivi, p. 69, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre. Seguiva il canto con i versi. Ma è l’atmosfera spirituale il punto interessante. Scena d’altri tempi davvero. Come altre che si è ricordato qui, i qualche vecchio post, evocandole con pochi, accennati, colpi di pennello di colore molto tenue. Certe cose non richiamano colori sgargianti né frasi altisonanti: il nascosto bisbiglio può esser più potente di roboanti discorsi.

Naturalmente parlava dei due grandi stūpa buddhisti, fra cui quello di Boudhanath, detto in tibetano: Jarunkhasor. Il “Grande Stupa” della profezia.