lunedì 21 maggio 2018

“… NON ancora ‘NATO ALLO SPIRITO’ …”










Gesù disse: ‘Io sono la luce, quella che sta sopra tutti.
Io sono il Tutto, e il Tutto uscito da me e Tutto è ritornato a me.
Fendi il legno: io sono lì: solleva la pietra e là mi troverai [1].




Non tutto si può dire[2]. Ma, pur nel non detto, rimane come una sorta di “area” implicita coperta, che va oltre quel che vien detto in modo esplicito, per cui si può intuire (= “intus ire”), si può anche intravedere, a volte.
Per cui: a buon intenditor ….




Andrea A. Ianniello
















[1] Logion attribuito a Gesù, in Il Vangelo secondo Tommaso, a cura di J. Doresse, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 98, corsivi miei.
[2] “Se avete scoperto una verità, se avete corretto un errore dentro di voi, se avete fatto un progresso e ne parlate solo scrivete a qualcuno che non sia il vostro Guru, rischiate subito di perdere questa verità e questo progresso”, Mère, Colloqui sullo Yoga integrale. Risposte e aforismi 1930-1938, Edizioni Mediterranee, Roma 1980, p. 139. Per questo amo dire: non salir subito sul cavallo detto da … chi ha evidentemente questa tendenza: quel che più sai insegnare è quel che più hai da imparare. Ed è sempre così.
Anche diceva: “La sincerità è la chiave delle porte divine”, ivi, p. 25, corsivi miei, e: “Il nostro miglior amico è colui che ci ama per quello che esiste di meglio in noi, eppure non ci chiede di essere diversi da come siamo”, p. 146. Dunque, in definitiva, uno solo è il miglior Amico e il miglior Maestro (Guru) dell’uomo: il Divino e cioè l’ Uno. Il resto, son ricettacoli umani di Quello. Dunque temporanei ricettacoli, anche se non falsi, ma comunque temporanei “vicari”, il vicario è colui che sta perUn Altro”.
Ed anche, diceva: “Entra profondamente nel tempio e là mi troverai”, ivi, p. 147, corsivi miei.















Già molti anni fa – 2004-2005 – SIGNIFICATIVO ricordarsene ORA … !!









domenica, aprile 25, 2004


CITTADINANZA GLOBALE.


Sun-tzu dice:
La suprema raffinatezza dell’arte
 della guerra
 è combattere
i piani
del nemico
”.


Ci fu – nel lontano (non quantitativamente parlando) 1997 – un libro di I. Wallerstein e T. K. Hopkins: L’era della transizione. Le traiettorie del sistema-mondo 1945-2025. Ora, tale libro […] descriveva, insieme a tante altre cose, il destino di tutto il sistema-mondo nato nel secolo XVI d.C., e il suo culmine come l’inizio della sua crisi sistemica. Una “crisi sistemica” è una crisi tale per la quale l’intero sistema non può più perdurare com’è, e deve modificarsi in un altro sistema. Il sistema precedente finisce, cioè.
Secondo i due autori, il culmine di tutto il sistema-mondo moderno sono stati gli anni dal secondo dopoguerra al 1974; con lo shock petrolifero e la fine del Gold Exchange Standard (la parità dollaro-oro, sempre del 1974: inizia la fluttuazione della moneta di riferimento, che continua a esser tale, il dollaro, la cui fluttuazione consente agli USA di scaricarsi dei debiti, come sta facendo sull’Europa oggi, oppure di attrarre capitali e dunque ri-finanziarsi).
Con quell’epoca comincia a terminare il sempre crescente ruolo degli Stati (dall’inizio della “modernità”) nel monopolio dell’uso della forza. Si tratta di un punto sul quale i due autori insistono parecchio. Fino al XVI secolo il monopolio della forza non era del solo Stato, ed è storia; così è rimasto per lungo tempo in molte parti del mondo: il segno del nuovo corso del Giappone della metà del secolo XIX fu il proibire l’uso delle armi ai samurai che ne avevano il monopolio, e non erano, in quanto tali, “lo Stato” in senso moderno. Con il secondo dopoguerra fino alla prima metà degli anni Settanta del secolo scorso (il XX) si assiste al sempre maggior predominio in questo campo da parte degli Stati, finché la tendenza comincia ad indebolirsi, ed oggi siamo al punto che vi sono delle vere e proprie bande di briganti, delle bande armate, però sulla scena globale, ed il più potente Stato moderno del mondo non riesce a garantire la sicurezza che fino a poco tempo fa era la norma cui eravamo semplicemente abituati, commettendo l’errore di credere che fosse la norma, mentre era l’eccezione nella storia (l’epoca della massima potenza degli Imperi, Romano, Cinese, Persiano, indù-buddhista avevano questa caratteristica, e la loro fine si è sempre annunciata con la fine del monopolio nell’uso della forza).
Il loro studio portava avanti delle argomentazioni ed individuava il “punto di non ritorno”: quando, ad una nuova fase di espansione economica sistemica – la fine degli anni Novanta del secolo scorso –, non fosse corrisposta la fine di una delle tendenze di lungo periodo (dal secolo XVI) che avevano cominciato ad invertirsi con la seconda metà degli anni Settanta (la “cerniera della modernità”) del secolo scorso. Con la fine degli anni Novanta si è visto questo: il sistema-mondo, tutto, entra in una fase di crisi profonda, sistemica, e non più locale. La risposta dei decisori della fine del secolo XX fu questa: diminuire lo stato sociale e accentrare le decisioni, cosicché il consenso fosse facilmente ottenibile. Senza dubbio, un keynesismo intelligente può fornire delle utili contro-armi (e per tale termine intendo: aumentare gli stipendi o – in alternativa – distribuire i fondi per l’investimento in buoni per il consumo: si vedrà che tutti i centri direttivi del potere mondiale si opporranno a tali misure, per il semplice fatto che sono con i debiti alla gola e necessitano dei fondi statali, europei e quant’altro: necessità vitale).
Ma è l’intero sistema che si sta inceppando.
Perché? Perché siamo al punto in cui i tagli non rimettono in moto la crescita, anzi peggiorano le cose, tant’è che la parte riformista delle classi decisionali attuali dice: – Ma qualcosa la si deve pur dare... – Si oppongono, però, ad un forte trasferimento di ricchezza, l’unico mezzo per rivitalizzare la crescita, per sfuggire alla trappola del 1929, che si sta ripresentando [lo scrivevo nel 2004 …!!]: si produce tantissimo, ma chi compra?
I consumi sono scesi molto.
Ma, anche se si riuscisse a rivitalizzare i consumi, sarebbe cura temporanea: è l’intero sistema-mondo che va in uno stato “caotico”. Si è raggiunto il “punto di ebollizione” (titolo di un film di Takeshi Kitano).
Secondo i due autori citati, sarebbero stati gli anni 2000-2025, quelli del pieno della crisi. E così è stato.
Ci sarebbero state delle risposte sostanzialmente a favore dell’ulteriore accrescimento del potere da parte dell’aristocrazia del denaro che domina il mondo (ed ecco la politica Bush [che dire di Trump …!!]) e delle risposte a favore di una maggior condivisione, finora mancate [manco queste cose blande ci sono state, i governi cosiddetti “populisti” è questo che vogliono fare, cosa, più che giusta, peraltro].
Queste ultime [le risposte dette su], però, sarebbero state temporanee, perché il sistema tutto necessita di un nuovo assetto. Ricordiamoci che la ‘barbarie’ è una possibilità di nuovo assetto, che la crisi irreversibile, di nuovo, è una possibilità di nuovo equilibrio, e particolarmente stabile: un legno bruciato non può essere bruciato di nuovo.
Nell’ambito di tali considerazioni sulla crisi del sistema-mondo e la fine del monopolio dell’uso della forza, è interessante notare come la guerra, soprattutto la guerra, stia divenendo un fatto “privato”. E’ una significativa, molto importante, conferma della crisi degli stati. Gli USA, oltre ad essersi ficcati in un pasticcio (ed anche l’Italia, indirettamente, nazione i cui principali nemici sono sempre stati gli alleati più forti coi quali usa mettersi e dai quali non sa difendersi non riuscendo ad esprimere mai una posizione forte con gli alleati più forti: è una tara molto vecchia...), di fatto, han costruito una nuova Somalia, “donando” agli integralisti una nazione come l’Iraq, ma, soprattutto, dimostrando di non sapervi porre ordine, dimostrando la debolezza, il tallone d’Achille della “nazione più forte del mondo” [e tutto ciò, si sa, è già successo].
Tutto ciò dimostra che il punto di caduta del mondo tardo-moderno è l’eclissi del possesso del monopolio dell’uso della forza, da un lato “rubato” dai nemici di ogni ordinamento statale (e qui non è proprio il caso di farsi illusioni: questi gruppi apparentemente anti-statalisti sono degli utili sistemi di termoregolazione cibernetica del sistema, quindi guai a chi se ne facesse sedurre, sono cunicoli senza sbocco), dall’altro “appaltato” ai privati, dimostrazione [del]l’incapacità di esercitare il monopolio dell’uso della forza, monopolio che ha contraddistinto l’epoca moderna in senso pieno, epoca dalla quale siamo usciti, epoca terminata.
C’è un interessante vecchio libro del 1982, di Paul Virilio: Velocità e Politica. Saggio di Dromologia.
In esso si sostenevano più cose. Da un lato, come il predominio dell’Occidente sulla scena del mondo sia nato dal predominio della velocità e del movimento, soprattutto per mezzo del mare. In secondo luogo, come tutti i moti rivoluzionari si siano di fatto accompagnati al dominio delle strade e alla discesa e all’impossessamento da parte delle masse delle strade stesse [il consenso globale post fine anni Settanta – inizio anni Ottanta, com’è stato costruito??, guarda caso, togliendo le masse dalle strade, salvo manifestazioni specifiche – minime peraltro].
Di come il rapporto tra velocità e politica fosse decisivo, ma sempre più difficile da dominarsi, a causa della sempre maggior riduzione dello spazio di tempo, essenziale per poter operare delle decisioni.
Per Virilio, tutto ciò terminava in ciò che lui chiamava – all’epoca, si badi bene, ed è stato “profetico – “La fine del proletariato”, “Una sicurezza consumata” (l’eclisse della sicurezza nell’ossessione della sicurezza globale), ed infine, last but not least, “Lo stato d’emergenza”.
Lui lo intravedeva soltanto, ma oggi siamo in grado di usare il termine giusto: stato d’emergenza globale.
Ripeto: era il lontano 1982!
Tutta la Terra, oggi, vive in uno stato d’emergenza...
Rispetto a tutto ciò, è necessario riconsiderare molte cose, soprattutto non ci si può più contentare di un ruolo di ”protesta”, ma occorre proporre. Per proporre, occorre di nuovo focalizzarsi sulle contraddizioni che muovono il mondo, questa volta concentrandosi non su quelle fra stati, ma su quelle sistemiche.
In altre parole: c’è una contraddizione centrale, basilare, all’interno del sistema attuale, oltre le diseguaglianze, un fatto strutturale?
Se sì, qual è?
Contraddizione strutturale di base.
Ecco: è possibile trasferire i capitali da un qualsiasi punto della Terra ad un qualsiasi altro punto della Terra, nel rispetto di alcune convenzioni di base, ma in sostanza senza vincoli? .
E’ altrettanto possibile trasferire gli individui allo stesso modo, con gli stessi vincoli? No, affatto. C’è dunque una contraddizione sostanziale, strutturale.
Il sistema attuale, sebbene capace di aver instaurato la circolazione “libera” dei capitali, mantiene ferma la distinzione fra circolazione di capitali e di uomini.
Ben diversamente, dunque, dall’Impero Romano, esso risulta incapace di proporre una cittadinanza globale, estesa a tutta la Terra (a “tutto sotto il Cielo”, come dicono i Cinesi), ad ogni essere umano. Ciò per motivi strutturali: terminerebbe quello scambio ineguale che è la base del sistema-mondo. Ecco, […] la sfida sarebbe questa: la cittadinanza globale di tutto sotto il Cielo (Cittadinanza Celeste, Celestial Citizenship, “Civitas Cælestis” [concetto ispirato al Mencio]), l’unica vera soluzione allo scambio ineguale, e l’unica vera risposta al problema della cosiddetta “immigrazione”. Se c’è una cittadinanza globale, allora non c’è più differenza tra i “migranti” ed i “cittadini”.
[…]
Tutto ciò mette il dito sulla piaga, sulla contraddizione sostanziale del tardo sistema-mondo dell’economia capitalistica, iniziato precisamente con l’apertura dei mari nel XVI secolo e la scoperta che tutti i mari sono in realtà uno solo, pertanto si può raggiungere qualsiasi punto della Terra, per l’appunto per mezzo del mare, che la costeggia tutta. L’Occidente moderno ha battuto gli ordinamenti tradizionali nel mondo rivendicando il Diritto al Mare; e, all’interno dell’Occidente, le potenze marine hanno battuto quelle terrestri. Finché la minoranza egoista al governo di tutto ciò, sita nel centro del sistema dello scambio ineguale, non avesse raggiunto il dominio globale totale: la famosa “globalizzazione”. Ottenuto questo, ecco rinascere il particolarismo, ecco la stessa minoranza egoista dividere il mondo in “in” e “out”, “immigrati” e “cittadini”, con mille problemi, […] insolubili […].
Questo ci fa giungere al centro del problema.
[…] [Se è insolubile, perché, dunque, se ne parlava, e qui di seguito la risposta]
Qual è, allora, il senso di tali idee? Porre in luce il punto debole del mondo attuale, che sì è un Impero, ma, ben diversamente da quello Romano, è incapace di proporre una cittadinanza globale, vale a dire una vera Unità del mondo. Ciò perché è dominato il mondo dalle minoranze egoiste.
Tale situazione è quella reale, e né estensioni dei diritti – in grave crisi come concetto nato dalla modernità –, né il perdurare della situazione attuale riusciranno a sciogliere il nodo. Il nodo del dominio delle minoranze egoiste è quello decisivo. Finché il Nodo di Gordio (inverso) non sarà stato tagliato, non ci può essere soluzione al nodo scorsoio e fiammeggiante del mondo globalizzato.
Tale mondo è in crisi mortale proprio a causa della globalizzazione stessa e del suo successo.
Tale successo è distruttivo perché costitutivamente incapace di proporre una vera Unità, un concetto realmente unificante […]. […] La globalizzazione, in se stessa, ha portato, e sta portando, il mondo alla nuova barbarie, perché è una privatizzazione totale. Si ritorna, quindi, allo stato “patrimoniale”, ma senza né imperatore né papa, senza un limite ideale a porre freni, senza un’ autorità spirituale a porre delle limitazioni. Molto peggio, dunque. Difatti, se ci si legge Adam Smith, il teorico del liberalismo (in La Ricchezza delle Nazioni, 1776), si nota subito che, per Smith, c’erano delle cose che non si dovevano privatizzare, proprio quelle che il neoliberismo invece privatizza, allo scopo di formare ciò che chiamo Stato Patrimoniale globale (SPG), cioè il succedaneo, peggiore, dello stato patrimoniale pre-moderno, cioè precedente all’epoca dell’apertura delle rotte libere sui mari di tutto il mondo.
L’apertura dei mari ha portato al dominio mondiale di una minoranza egoista.
[…] Moto globale dei capitali e cittadinanze limitate sono una contraddizione esiziale per il sistema-mondo.
P.S. Se siamo di fronte ad un nuovo “shock petrolifero”, trent’anni dopo il primo (1974), e se – seguendo Wallerstein – consideriamo il 1974 la fine della fase culmine del sistema-mondo nato dall’epoca delle Grandi Scoperte geografiche, se ne deve dedurre quel che segue: siamo entrati in una nuova fase sistemica, di crisi accelerata. [Era il 2004 …!!]




Andrea A. Ianniello
















giovedì 10 maggio 2018

Finalmente tradotto il “Diario” di MIRCEA ELIADE, frasi 1.









Finalmente (con gran ritardo) è stato tradotto, anche in italiano, il Diario di M. Eliade, del quale avevo letto dei brani solo in francese.
Di seguito – e a seguire – qualche passo che ho trovato, forse, o chissà, interessante o degno di riflessione.

“Gurdjieff sperava che non si sarebbe più parlato del suo enseignement, né scritto niente in proposito. Tuttavia, negli ultimi dieci anni sono apparsi diversi suoi libri, senza contare le opere altrui sul suo enseignement.
Il fenomeno non è isolato.
Si pubblica un sempre maggior numero di testi esoterici, appartenenti alle tradizioni iniziatiche segrete (quali il tantrismo, l’ermetismo, ecc.). entriamo in un’epoca che oserei definire ‘panica’[1]: vengono mostrati testi, idee, metodi, riti, ecc. che ‘in tempi normali’ son tenuti nascosti, e il cui accesso è riservato solo agli iniziati. […] E, cosa appassionate quanto paradossale, le dottrine e i metodi segreti (ossia esoterici) vengono diffusi e messi alla portata di tutti perché non c’è più il rischio che vengano compresi. O meglio, essi non possono che venire mal compresi o mal interpretati dai non iniziati”[2].
Lo “yoga” preso per “benessere” (= buona salute) è solo un minimo esempio di tutto ciò, fermo restando che cercar di stare in buona salute è più che legittimo eh, solo che non era lo scopo di tante pratiche. 
Secondo lo stesso Gurdjieff, tra l’altro, citato qui sopra – come riportato da Ouspensky – questa divulgazione attestava la pericolosità e terribilità dei nostri tempi, la rottura delle “linee iniziatiche” dunque il tentativo di perpetuarsi “divulgando”, sapendo dell’incomprensione – un po’ come il Cristianesimo delle origini, secondo Guénon – ma questo sarebbe (è …) l’ unico mezzo per poter perpetuarsi poi. E cioè, far parte del gran calderone.
Tutto vero, ma il principio d’ordine – nel gran calderone – non può venire dal calderone stesso e dal suo “Chaos primordiale”, e né può venire dalle forme iniziatiche, visto che tante han scelto questo cammino (checché ne pensasse Guénon illo tempore, o anche il miglior Evola), ma può venir solo dal Centro stesso, o da Dio direttamente.
Questo è un punto dirimente, ma sensibile.
O “controverso”, come dicesi oggi.




Andrea A. Ianniello





[1] Interessante qui un tal aggettivo, molto amato da Jodorowski, per esempio.  
[2] M. Eliade, Diario 1970-1985, Editoriale Jaca Book, Milano 2018, p. 104, corsivi in originale.
Questo stesso passo, tranne la parte iniziale, riferita a Gurdjieff, viene citata in A. de Dánann, Mémoire du sang,contre-initiation, culte des ancêtres, sang, os, cenare, palingénesie, Archè, Milano 1990, p. 167, e la fonte di quest’autore è il Diario in francese, ma solo quello degli anni dal 1970 al 1978, pubblicato, a sua volta, in Francia nel lontano 1982.
Il nome di “Alexandre de Dánann” è il nome de plume di due ricercatori italiani, cf. http://www.alexandrededanann.net/.





domenica 6 maggio 2018

“Una riflessione su Marx” – duecento anni dopo –










a. Una riflessione su Marx dopo 200 anni
Qui di seguito si svolgerà, in breve, ma le questioni sono di una certa importanza – direi –, una riflessione su Marx, a 200 anni di distanza, sulla scorta di un recente articolo di M. Cacciari[1], e di una riflessione relativa all’ultimo libro di M. Tronti[2].
Come prima cosa, non condivido, affatto – come peraltro mi accade spesso –, quel che dice Cacciari all’inizio del suo articolo (citato alla nota n°1, qui sopra), e cioè che sociologi ed economisti dovrebbero tacere su Marx, a causa del fatto – cosa verissima, però – che il discorso di Marx ha una sua sostanza teologica e filosofica: non solo filosofica, ma teologica tout court. Ed è verissimo, è assolutamente verissimo che Marx abbia questo lato, non ci può esser alcun dubbio, al riguardo. Ma, ed ecco il limite, grosso, è che Marx – come peraltro tipico della sua epoca – collega i due livelli: la sua concezione, anche – anche – teologica, si esprime per mezzo dei crismi “positivisti” della sua epoca. Quindi, è impossibile che sociologi ed economisti tacciano di Marx. Forse vogliamo dire che, seppur si parli di questo livello, non possiamo sottacere il lato filosofico e teologico di Marx: in tal caso, son d’accordo invece. Può piacere o non, ma in Marx i due livelli son collegati. 
Ma ritorniamo al punto, all’articolo.
Secondo Cacciari, non è tanto l’apparato economico di critica dell’economia (politica) il punto centrale in Marx, ma, invece, l’aver fatto dell’ “Economico” la categoria fondante il punto vero. Per Marx, l’ “Economico” è come la tecnica per Heidegger, continua Cacciari.
La dimensione dell’Economico è ciò che deve dominare ogni cosa: questo è il capitalismo, per Marx, e quando Cacciari ricorda questo, ha ragione. 
Ma il limite di Marx, ed è decisivo, è che, per lui, l’Economico è la produzione. 
Dunque il lavoro produttivo diventa centrale, ed esso deve esser liberato dal profitto esercitatoci “su” da una certa minoranza. Il lavoro produttivo è frutto del cervello, ma un cervello collettivo, dice Cacciari, e di tale frutto non si deve fare necessariamente scambio, come invece obbliga il sistema capitalistico.   
Il punto è un altro, invece: che se tu, stando a dormire, accumulassi profitto (= che il capitale iniziale si accresca) avrebbe lo stesso valore, nel capitalismo, che se tu, per ottenere lo stesso profitto, te ne stessi a lavorare – tanto ma tanto “produttivamente” – dalla mattina alla sera.
Non è il modo che conta. Conta che il capitale si accresca.
Certo, nella storia ha contato ed ancora conta, che la modalità produttiva sia non solo esente, ma dominante, in se stesso, non è il punto decisivo. E infatti, i cosiddetti “servizi” oggi, di fatto, consentono un accumulo del capitale molto prima e molto più facilmente che con le vecchie modalità industriali.
Ecco perché la cosiddetta “finanziarizzazione” è, in realtà, un destino, non un accidente di percorso, e che tornare alla “buona” produzione non ha proprio alcun senso, quando, invece, tutte le “sinistre” ancora rispettabili – non parlo di quelli che sono servi del sistema – come massimo ideale hanno appunto quello di “tornare” alla “buona” epoca dei canteri di Liverpool, delle navi che solcavano i mari, all’epoca “eroica” del capitalismo, quando la classe operaia gli era ancor molto necessaria. I cantieri che erano indaffarati, gli oceani le cui rotte si aprivano, l’intera società come attraversata da una voglia di fare, produrre, costruire, scambiare: l’epoca eroica, che, senza dubbio, ha segnato l’Occidente in una parte della sua epoca (e però solo in alcune parti “geografiche” dell’Occidente stesso: ricordiamoci che il “Sud” non ne era parte se non marginale); e però, da un certo momento, tutto ciò si è inceppato, e non perché si sia fermato. Oh no: ma perché ha preso tale una velocità, da essere ingovernabile, ed è questa la causa strutturale della fine della politica.
Giusto invece che Cacciari osservi che proprio la natura contraddittoria del capitalismo è la sua forza, il fatto, cioè, che, per stare in equilibrio, deve dynàmei (per usare un termine di Marx) ricercare il punto d’equilibrio, in se stesso, però, introvabile.
Di conseguenza, la crisi fa parte del capitalismo in modo sostanziale, ed esso, continua Cacciari, procede per salti: è così. Ma i suoi “salti” hanno uno scopo ben preciso: ridurre la contraddizione, senza però potervi riuscire mai.
Attenzione però a non darlo per spacciato, a causa della sua contraddizione fondante: proprio il fatto che non riesce a risolverla, tale contraddizione, gli dà uno spazio di continua espansione e di continua resilienza, che è il modificarsi mantenendo i propri scopi.
Il capitalismo, sì, opera per il suo superamento, senza però mai potervi riuscire. Questo perché non è in grado di poter risolvere la sua contraddizione fondante, pur tentandoci, anzi essendo costretto a tentarvi, sempre. Quel che accade è che esso “riduce” la contraddizione, senza poterla eliminare. Poi, questi mezzi, sin allora utili, diventano sempre meno validi: si ha una crisi, con successivo sforzo di riduzione della contraddizione.
Per Marx la contraddizione sta nel fatto che la lotta è intrinseca nel capitalismo, anche fra i capitalisti, non solo fra classe operaia e capitalisti, lo stesso Wallerstein mantiene questa natura del capitalismo. Ma proprio questa lotta interna non poco ne ha mantenuto la forza.
Il contrario, dunque. La lotta mantiene il sistema.
E il voler eliminarne la contraddizione per mezzo della lotta non poteva che fallire.
In tal senso, che un conflitto – come lotta con un fine – sia molto meno del conflitto caotico, e cioè il nostro presente, si deve contare tra i segni positivi, ma è insufficiente.
Questo perché, come si è detto, il sistema non ha la capacità di risolvere la sua contraddizione fondante, anzi è una contraddizione ambulante, la sua natura profonda è contraddizione.
Se ne deve dunque dedurre che “qualcos’altro” debba intervenire, a tagliare “il nodo di Gordio”.        


b. Il “camaleonte” capitalismo
L’articolo di Cacciari porta – nella versione cartacea[3] – una sorta di riassunto, che recita così: “Il capitalismo è produzione continua di merci e di consumi. La forza-lavoro, cosciente della sua funzione, si fa autonoma. E scoppia la lotta di classe”, grassetto in originale.
Eh ma qui è un punto decisivo, del quale si parla nella conversazione fra Cacciari e Tronti, il cui link è nella seconda nota a pie’ pagina. Quanto era “cosciente” della sua funzione, cioè della “classe operaria”, la quale, come detto giustamente sia da Cacciari che da Tronti, non va intesa – come l’ “operaismo” volgare” – come un insieme di operai, ma come il “cervello sociale” della società (usa queste precise parole Cacciari).
E un tal gruppo era minoranza già nel periodo di massima sua espansione: era un gruppo scelto ed attivo (élite), anzi un’ “aristocrazia”, ovvero i migliori di una società, gli àristoi. Quindi mai sarebbe potuta essere una maggioranza, né la classe operaia è “democratica”, in tal senso. Si dà poi per certo che, poiché la classe operaia è dentro il sistema capitalistico, è nella migliore posizione di opporcisi. Questo, però, è stato vero solo fino ad un certo momento: e il capitalismo non è terminato dopo che la classe operaia aveva esaurito la sua funzione. Quindi, vi è dell’altro; e in quest’altro vi è il decisivo, se la vittoria decisiva il capitalismo l’ha ottenuta dopo aver fatto fuori la classe operaia, non gli operai singoli, come si è detto, senza modificare i suoi fini (la resilienza).
E tuttavia, il sistema si appresta, però, a far fuori anche questi ultimi, gli operai singoli, il più possibile, e nella misura del possibile, se fosse possibile.
In teoria, il capitalismo può star senza operai: li sostituisce con macchine. Non è altrettanto vero, però, l’opposto: un operaio senza capitale non può esistere, farebbe parte di una serie di “vecchi” legami sociali, secondo i marxisti (per quel che mi riguarda, farebbe parte di “altri” legami sociali, non di “vecchi”: lo storicismo ha impestato Marx, anche Tronti lo critica su questo punto); in altre parole, in teoria, un capitalismo senza operai, può esistere.
Anzi è lo scopo.
Tornando alla classe operaia, è chiaro il riferimento anche all’ Operaio di Jünger, e Cacciari lo dice in modo chiaro, seppur tra le righe, in quanto afferma che, per chi aveva questa concezione della classe operaia, l’interlocutore non era per niente il “progressista”, men che meno lo era il “democratico”, ma il “grande” conservatore, come Weber, o i fautori della rivoluzione conservatrice, come Jünger, per l’appunto. 
Non è casuale tutto ciò, ma nasceva invece da precise premesse teoriche.    


c. “Dove ‘Si’è sbagliato.
Se non è vero che il capitalismo ha altrettanto bisogno dell’operaio quanto l’operaio del capitalismo, dunque si può, pian piano, ma in modo crescente, fare a meno degli operai, una volta che siano stati resi dei singoli, e non più una “classe” che ha coscienza del suo ruolo. Infatti l’idea capitalistica, al limite, sta tutta nel fare a meno del lavoratore: le macchine da sole produrranno sempre di più. Ma cos’è questa “produzione”, a questo punto, ci si potrebbe chiedere: è una emulsione perenne, che non ha finalità = fine della politica = fine del contrasto, della lotta come produzione.
La produzione è, a sua volta, un mezzo, per il profitto.
Potenzialmente il profitto è solo un differenziale che si accumula. Ancor più in profondità, è il mezzo per accrescere il capitale iniziale. Il capitale non può non accrescersi: deve accrescersi. Sempre.  


d. L’ “autonomia” del “politico”.
Si fa riferimento ad un vecchio scritto (del 1978) di Cacciari[4], a dimostrazione non solo della lunga natura di questi problemi – cosiddetti “di lungo periodo” – ma pure di quel che dice Tronti nel suo intervento (citato su), cioè che gli eventi della fine del secolo scorso non sono stati, non dico metabolizzati, ma nemmeno affrontati per davvero. 
Ora però, già in quello scritto il problema, in apparenza, era quello dell’ “impolitico” – nietzscheano – sì, però anche quello dello “stato universale” del quale illo tempore già Hegel parlava.
Che “stato universale” han già, in parte, costruito?
E può esserci ordine sotto il capitalismo, nel senso di un qualcosa che, da un puto di vista più alto (politico …), dia una forma alle cose?
Non può esserci. 
Quel che può esserci è una riduzione del conflitto perturbante a favore dell’esplosione di migliaia di conflitti non produttivi: questo può esserci. 
Ma, è chiaro, che non può esistere alcuno spazio “politico”, in un “ordine” del genere.


e. Ilconflitto” e le sue ex magnifiche sorti: fine della modernità.
Il conflitto è alla base della genesi dello stato moderno, con Machiavelli, ricordato dallo stesso Tronti. 
Fa parte della teologia politica – secolarizzata – della modernità l’esaltazione del conflitto che produrrebbe, si sostiene, “avanzamento” sociale, ed anche conoscenza.
Questo è finito[5]. Finito, e le “sinistre” non se ne sono nemmeno accorte, attente com’erano ad avvicinarsi ai “nuovi” padroni, per finire come utili, ancora per poco, servitori.
Il conflitto non solo è del tutto incapace di “produrre” dissenso, ma è incapace di produrre ordine: l’ “ordine” sociale è assicurato da delle modalità non conflittuali, radicalmente non conflittuali.
Punto e non si torna indietro.
Ora ciò non significa – proprio per niente – che non vi siano conflitti: è il contrario. Di conflitti ce ne son molti, i conflitti sovrabbondano, ce n’è per tutti i gusti, ma, ed ecco il punto vero, non sono produttivi, non sono produttivi di alcunché. Ti fanno rimanere là dov’eri.
I conflitti non producono ordine.
I conflitti confermano il disordine.
In una parola, il conflitto non produce, tout court.
Il conflitto non produce più. Il conflitto è stato necessario, ma, da un certo punto in poi, non lo è stato più. Non lo è stato più da quando, come diceva tanto tempo fa Baudrillard, il modello del lavoro non è stato più quello del lavoro produttivo, ma il lavoro servizio, e cioè a prestazione. Le “sinistre” sono state fatte fuori da questo.
E qui torniamo al punto già ripetuto: la fine del lavoro produttivo come modello per il sistema capitalistico, lo si è già detto, ma, qui, si ricollega con la fine del conflitto come produzione. Oggi, per avere la produzione, non hai più bisogno del conflitto. E questo è forse una conseguenza “perversa” del capitalismo?
O è, invece, la conseguenza precisa delle sue premesse?



Andrea A. Ianniello









[1] Cf.
http://espresso.repubblica.it/visioni/2018/04/30/news/un-dio-chiamato-capitale-1.321182.
[2] “Mario Tronti e Massimo Cacciari: IL DEMONE DELLA POLITICA”, cf.
https://www.youtube.com/watch?v=lHAdRK__hDY.
Questa conversazione è molto interessante, contiene degli spunti veri.
Per esempio, l’andar oltre i limiti della ricerca marxista, in cerca della “totalità”, come una cifra di quella stagione, sempre in cerca di un “soggetto” rivoluzionario, da molto tempo introvabile però; o la cecità – il non voler vedere – la ristrutturazione in atto sin dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso da parte delle strutture politiche o sindacali del movimento operaio dell’epoca. O la giusta idea della necessità, da parte del capitalismo industriale, di liberarsi della classe operaia – che ne intaccava il consenso, la cosa essenziale cioè – modificando la sua stessa natura industriale: vero, verissimo. Ma proprio il marxismo, salvo poche eccezioni, non riuscì a vedere il cambiamento, rimanendo legato, a doppio filo, al capitalismo industriale, che è stato solo una stagione del sistema. Ovvio che anche l’attuale sistema non ha cambiato le finalità di base, sostanziali, del sistema stesso, quindi è un cambio di pelle, come una serpe, ma le basi quelle sono rimaste. Altra osservazione decisiva è la fine della società, tout court, e a livello mondiale, “globale”, ed è così.   Tra l’altro, vi è un detto di Tronti, riportato da Wikiquote, cf.
https://it.wikiquote.org/wiki/Mario_Tronti
Ed è questa: “Quando è crollato il muro di Berlino, quando si sono ammainate quelle bandiere rosse dai pennoni del Cremlino e tutti erano a ballare e a cantare nelle strade, non ci si rendeva conto che lì si concludeva una storia, che non era soltanto la storia del movimento operaio, ma era la grande storia della modernità, cioè la storia del tentativo di un soggetto razionale umano di intervenire sul proprio destino e cambiarlo. Lì finiva anche la vicenda di quella secolarizzazione dell’idea di progresso che era tipica tanto del movimento operaio quanto del capitalismo”. No, qui occorre correggere: idea di “progresso” che infaustamente il movimento operaio ha fatto propria, ed è calato con essa, ma questa crisi del cosiddetto “progresso” non ha colpito allo stesso modo il capitalismo, piccola differenza, ma decisiva. Il fatto è che a tale idea il movimento operaio dava un significato (che non fosse solo “materiale”) che non è il significato che gli dà il capitalismo: continuo miglioramento dei mezzi, dei prodotti – anche non materiali … – e delle merci.
E il capitalismo ha continuato a fornirne di queste cose … Quindi, non è la stessa cosa. Certo la modernità si è inceppata, ma il capitalismo, come sistema, è divenuto post moderno, semplice.
[3] Cf. M. Cacciari, “Un dio chiamato Capitale”, L’Espresso del 29 aprile 2018, p. 78, nel box a pie’ di pagina.
http://espresso.repubblica.it/visioni/2018/04/30/news/un-dio-chiamato-capitale-1.321182.
[4] Cf. M. Cacciari, Dialettica e critica del Politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli, Milano 1978, cit. in D. Gentili, “Una crisi italiana. Alla radice della teoria dell'autonomia del politico”, cf.
http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/27/una-crisi-italiana-alla-radice-della-teoria-dellautonomia-del-politico/.