mercoledì 20 febbraio 2019

Copertina 2: un sigillo di FEDERICO II, e una miniatura (parziale)











Da Ciro Raia, La Campania, Mursia, Milano 1985, p. 44.
Collana di Monografie Storiche Regionali.






  
Miniatura raffigurante un Cavaliere angoino
Firenze, Biblioteca Nazionale, 
in ivi, p. 47. 










Copertina 1: le “MADRI” di “CAPVA”




Copertina di: 
Matres Matutae. Dal Museo di Capua. 25 secoli di cultura. 
Perché il Sud non abbandoni Milano alla materia, Angelicum - Mondo X, s.d.
Patrocinio Assessorato Tursmo e Spettacolo
Regione Campania - 
Patrocinio Comun di Milano  




 







martedì 19 febbraio 2019

“Père Ubu”, un’immagine









In relazione al precedente post, ecco un’immagine di Père Ubu, il personaggio di A. Jarry, fondatore della “patafisica”[1].








Fonte dell’immagine: Il Patapart n°14,
interessante rivista patafisica napoletana.








[1] La “paraféésgeca è la ssénsa delle siolusciooni imazenaarie”, la “patafisica è la scienza della soluzioni immaginarie”. Se le soluzioni reali sono immaginarie, quelle immaginarie, al contrario, sono reali






domenica 17 febbraio 2019

Una breve recensione della Prefazione alla recente riedizione del breve, ma FONDAMENTALE, “All’ombra delle maggioranze silenziose”, di J. BAUDRILLARD










Padre Ubu. Cornoventraglia! non avremo demolito tutto
se non demoliremo anche le rovine!  Ora, per questo,
non vedo altro modo che equilibrarle
in begli edifici ben ordinati[1].


“Continuate pure, miei cari, umanità … […]
Continuate pure, miei cari, umanità, bravi borghesi
e giornalisti vergini … Io son contro
tutti i sistemi, l’unico sistema accettabile è
quello di non seguirne, sistematicamente ⁂ […]
Io chiamo menefreghismo un modo di vita
seguendo il quale ciascuno resta quel
che è, pur sapendo rispettare la personalità
altrui […] L’arte è una cosa privata,
l’artista lo fa per se stesso; un’opera accessibile
è un prodotto giornalistico”.
Manifesto Dadà 1918 (101 anni fa)[2]


“… se si va al fondo delle cose, […] testimonia che il disordine
ha fatto irruzione nell’intero corso dell’esistenza e si è a tal
punto generalizzato da far sì che noi viviamo in realtà,
si potrebbe dire, in un sinistro carnevale perpetuo’”[3].










Dunque ho acquistato la ripubblicazione di J. Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose o la fine del sociale, Mimesis Edizioni, Milano 2019. Come ho detto in un precedente post (cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.com/2018/12/step-3-40-anni-fa-di-nuovo-allombra.html), ho riacquistato da qualcuno, fra i pochissimi che l’aveva disponibile, la vecchia edizione, la cui fine non so quale sia stata, e il post qui sopra citato è la breve recensione-ricordo della vecchia edizione del lontano 1978, dunque 40 anni dopo!! La presente ripubblicazione avviene 40+1 anni dopo, e, come detto l’anno scorso, e com’è doveroso, è accompagnata da una Introduzione, della quale qui tratterò.
Per il libro di Baudrillard, non posso che consigliare di leggerlo, anche per la sua natura di pamphlet, agile, ma si potrebbe sottostimarne l’importanza rilevante[4].
Ma qui, però – come già detto –, si tratterà solo della Introduzione presente nell’attuale ripubblicazione.
Per il resto, rimando al post qui su citato.
Una sola frase dall’originale voglio qui citare, quella presente, in grassetto – che qui manterrò – sul retro della copertina: “Il vuoto sociale è attraversato da oggetti interstiziali e ammassi cristallini che vorticano e si aggregano in un chiaroscuro cerebrale. Questa è la massa, assemblaggio sottovuoto di particelle individuali, di rifiuti del sociale e d’impulsi mediatici: nebulosa opaca la cui densità crescente assorbe tutte le energie e i fasci luminosi circostanti, per sprofondare definitivamente sotto il proprio peso. Buco nero dove il sociale s’inabissa[5].
Qui vi è la prosa, densa e sentita, di Baudrillard, che “si accende”, rimuovendo il suo andamento ironico e “patafisico”[6], solo quando si parla di una dimensione “opaca” e auto referenziale, quando dà, senza dubbio, il meglio di sé (probabilmente questo è il più bel libro di Baudrillard, forse assieme ad America, che ha delle scene – quest’ultimo libro – che ricordano “Paris, Texas”, il film, con la musica di Ry Cooder[7], dietro la quale musica c’è tutta la lezione del blues, ma rivisitata, espansa e dilatata[8]). Difficile trovare frasi che “centrino” la dimensione “di massa” più di queste di qui sopra, la metropoli tentacolare, vorticosa ed opaca. Probabilmente, solo L’uomo della folla di E. A. Poe, in letteratura però, non parliamo di saggistica, riesce a fornire questo senso della massa, della perdita, della dissoluzione.
Con la grossa differenza che la pagina di Poe è greve, dietro di essa vi è la Londra piena di torme di ubriachi sciamanti dopo essere stati sfruttati a dovere, tra nebbie, fumi e prostitute, un compendio di degradazione umana alle soglie della bella città borghese, i bassifondi di Londra attraversati, e ben conosciuti, da Holmes – a distanza – e dal dottor Jekyll (ben dentro, invece), o da Dorian Gray. Siamo al geroglifico, nodo scorsoio, che signat la nascita del mondo moderno nel suo senso pieno, e, dietro tutto ciò, ben poco visto, un “magismo” deviato (per chi vuole approfondire, in nota finale[i], per chi non è interessato: il resto del post rimane valido lo stesso).
Dietro Baudrillard, invece, questo fondo oscuro manca: fondo che, al contrario, è ben visibile, per esempio, in altri autori: ne parlò apertamente lo stesso Jünger[9].  
In Baudrillard la pagina è lucida, in tutti i sensi, asciutta, ironica, saltellante, vivida: l’autore è al pieno della sua forma: egli descrive le geometrie del caos. Le guarda a distanza, sorride, irride le vecchie analisi “umanistiche”, ma non per questo partecipa di ed a quel mondo, ma tenta di capirlo, come un antropologo tra i “selvaggi”, cosiddetti. E questa sensazione di estraniamento – sì, forse il termine più esatto è questo: estraniamento – che la pagina di Baudrillard impone, pur venendo dentro le cose, è più devastante di mille, dotte analisi delle scienze sociali, verso le quali si mostra del tutto impietoso e gelido. Le irride, in poche parole.
La modernità si vede nel suo sogno, fallito, che ha portato, sulla scorta dello “scatenamento”, all’emersione di una dimensione oscura e passiva. Atto di accusa – definitivo – per ogni possibile tipo di modernità, anche di “destra”, parole che vengono molto ma molto a proposito nella “nostra” temperie storica.
Ma veniamo al punto. “A poco più di dieci anni dalla scomparsa di Jean Baudrillard, si ripresenta al pubblico italiano uno dei suoi lavori più belli: All’ombra delle maggioranze silenziose, ovvero la fine del sociale. Il testo apparve nel 1978 come Cahier Quatre per i tipi delle Éditions Utopie, una breve esperienza editoriale cui diedero vita alcuni dei più animati e acuti partecipanti alla storia rivista ‘Utopie. Revue de sociologie de l’urbain’. Pubblicata dal 1967 al 1978, fondata e diretta da Henri Lefebvre, vivace figura di studioso, sociologo e teorico dell’urbanismo su cui in anni recenti è tornata una forte attenzione [ricordiamo con piacere questo studioso], la rivista ‘Utopie’ proponeva una lettura critica delle tendenze sociali e politiche del tempo, richiamandosi fortemente all’esperienza delle avanguardie storiche, a quella surrealista e dei situazionisti. Fra gli elementi che la caratterizzarono, assieme a una prospettiva militante e impegnata politicamente, vi era la volontà di condurre un dibattito aperto alle contraddizioni e all’approccio polemico anche fra i suoi partecipanti. Sulle pagine di ‘Utopie’ Baudrillard mosse i primi, decisi passi del suo percorso intellettuale mettendo alla prova una serie di temi che avrebbero trovato sviluppo nelle monografie più note. La critica alla sociologia e alle scienze umane e sociali, al marxismo, al femminismo, alla ‘sinistra’ ufficiale e a quella di ‘movimento’, così come all’ideologia dei consumi, al sistema dei mass-media, alle tendenze dell’arte contemporanea e all’urbanistica, per non citare che alcuni temi, trovarono sulla rivista ‘Utopie’ una prima occasione di formulazione verifica, esplicitazione. […] E’ in tale preciso milieu che va inserito questo breve, ma non semplice testo: un pamphlet pubblicato alla fine dei turbolenti anni Settanta, mentre iniziava la risacca conservatrice che chiudeva definitivamente gli anni rivoluzionari e contestatori iniziati con il Maggio 1968, che di quel periodo e di quelle esperienze è anche preziosa testimonianza. In Italia la precedente edizione per la casa editrice Cappelli di Bologna, con la traduzione di Maria Grazia Camici, nella collana Indiscipline del cui comitato di redazione faceva parte lo stesso Baudrillard, apparve nel 1978 in contemporanea con l’edizione francese, per poi scomparire [non solo dal punto di vista editoriale …!!] dai cataloghi editoriali [la temperie anni ’80 e seguire gli era contraria, per ovvie ragioni]: si tratta pertanto di un libro caduto nell’oblio [non per chi scrive], nella pur continua e costante attenzione nei confronti del sociologo e filosofo francese nel nostro Paese, che ritrova la luce della pubblicazione, a quarant’anni dalla prima edizione”[10].
A mio avviso, ciò è accaduto perché trattasi di un testo molto radicale.
In ogni caso, è interessante la ricostruzione, breve, di Altobelli, nell’Introduzione, di quel quadro culturale. Una scena culturale viva e vivida, niente a che spartire con la morta, defunta, scena dell’oggi. Ecco cosa manca, e nel profondo, nella scena di oggi: la “volontà di condurre un dibattito aperto”, perché i dibattiti son solo chiusi, “a prescindere” avrebbe detto Totò.
Qual è la relazione fra i due temi presenti nel titolo, si chiede l’autore dell’Introduzione (Altobelli) per prima cosa. “La relazione tra queste due ambigue, misteriose proposizioni è indagata nel testo facendo ricorso a uno stile colloquiale, che non esita a ricorre al sarcasmo e ai toni della polemica e della provocazione. E’, in tal senso, un Baudrillard in grande forma quello che ritroviamo in queste pagine: un pensatore che offre ai suoi lettori un testo magmatico, ‘attraversato da correnti e flussi’ come lo strano oggetto di cui si occupa.
Innanzi tutto, cos’è la ‘maggioranza silenziosa’? Già presente nel linguaggio politico anglosassone almeno dall’Ottocento, l’espressione silent majority è stata resa popolare dall’impiego che ne fece Richard Nixon in un discorso del 1969.
Il Presidente sostenne in quell’occasione che la maggioranza silenziosa’ degli americani, che non protestava, che non si esprimeva platealmente, era a favore della guerra nel Vietnam. Estendendone e generalizzandone il significato, nell’interpretazione di Baudrillard le maggioranze silenziose diventano le masse che popolano i moderni stati-nazione. E’ ‘all’ombra’ di questa maggioranza silenziosa che si siede Baudrillard tessendo la trama di una riflessione avvincente, serrata, intensa che conduce il lettore a una conclusione densa di conseguenze misurabili su molteplici piani: la fine del sociale. Senza darne una definizione precisa, il termine ‘sociale’ è impiegato da Baudrillard come l’attributo che connota, forte della sua tautologica realtà, la società stessa. Che cos’è il sociale, infatti, cui ci si riferisce in espressioni come lo ‘stato sociale’ [che negli anni di scrittura del libro iniziava a venir preso d’assalto e messo in crisi], ‘assistenza sociale’, ‘politiche sociali’ e via dicendo se non il ‘senso’ [che in realtà, poi argomenterà Baudrillard, non c’è] che la società offre di sé stessa in questioni particolari”[11].
In sostanza, le “maggioranze silenziose” sono le “masse”, e il sociale è la rappresentazione che la società offre di sé stessa, rappresentazione che dovrebbe aver “senso”, ma, in realtà, non ne ha: le ragioni per le quali ci sono (stati) lo “stato sociale”, c’è ancora (in parte) l’assistenza “sociale” ed altri fenomeni “sociali”, sono autoreferenziali. La società stessa si definisce in modo tautologico: la società c’è perché c’è il “sociale”, quest’ultimo c’è perché c’è la società. In pratica, non vi è alcun senso in tutto ciò.
La ragione – profonda – è la fine del mondo detto “tradizionale” – da distinguersi attentamente dal “tradizionalismo”, il vago desiderio di “ritorno” a quella situazione senza conoscerla, men che meno comprenderla –, mondo dove la società non esisteva “per sé stessa”, dandosi così essa, in tal caso, ed inevitabilmente, una definizione tautologica; ma invece, la società esisteva per “Altro”, nel bene come nel male, in ricchezza e povertà, con fasti e nefasti, in periodi di “avvicinamento” fra l’Altro e la società, seguiti da periodi di maggiore o minor “allontanamento” fra i due poli della relazione. Con la modernità, è nata una società che c’è “per sé stessa”, una società “tautologicamente” fondata, cioè non fondata.

“L’elemento che completa il quadro e determina le forme delle relazioni fra massa e sociale, fino a condurlo alla sua fine, è rappresentato dai mass-media. Il motivo di questo continuo e imponente ‘investimento’ di senso, di linguaggio, di denaro, di tecnologia, etc. deriva dal fatto che il silenzio delle masse preoccupa, che la loro inerzia infastidisce: lungi dall’essere ciò che le caratterizza in modo neutrale, la non-partecipazione è un rumore che disturba la sinfonia del sistema. Le masse non possono essere silenziose, soprattutto non devono esserlo a modo loro: farle parlare, farle manifestare, farle muovere, farle partecipare. I mass-media servono esattamente a questo: a dar loro la parola, a metterle al centro della scena, a far esprimere la loro opinione, a mostrarle a sé stesse come espressione convinta della modernità trionfante.
I risultati, però, son diversi da quelli attesi. Sempre con immagini tratte dalla fisica è possibile sostenere che ‘invece di trasformare la massa in energia, l’informazione produce sempre più massa [ed ecco il punto]. Invece d’informare come dice, invece di dare forma e struttura, essa neutralizza sempre di più il campo sociale, crea sempre più massa inerte e impermeabile alle istituzioni classiche del sociale, e ai contenuti stessi dell’informazione’”[12]. Questo è un punto d’importanza decisiva, nel corso dell’analisi di Baudrillard. Le masse “devono” essere mosse, “occorre” farle “parlare”. Questo è una necessità del System per autosecurizzarsi”, mascherando la sua vuotezza di senso. Per mascherare la sua assenza di senso. Ma i risultati non son mai quelli previsti: l’espressione “convinta” della “modernità trionfante” (anzi: “Modernità”) non ci sta, latita. Quel che si ha è un’espressione poco convinta, e del tutto passiva, della modernità “trionfante”, il cui trionfo ne vien così sminuito, col risultato di non poter mascherare più bene la vuotezza di senso che la tautologia definitrice della modernità costituisce, definisce, statuisce ed esprime. Insomma, il vuoto di senso appare comunque … che guaio! … Ed allora giù a voler farle parlare, a forza; fino ai social. Ma il risultato è, di nuovo, che il senso che dovrebbe balenare, s’inabissa ancor più, sempre di più.
Un fenomeno tautologico (A>B>A …) non smette d’esser tale perché lo si diffonde … rimane tale!
Segue poi la ricostruzione del caso del 1977, del quale ho parlato nel mio post per i 40 anni di questo testo[13]. E qui lo scandalo da parte di vari intellettuali, anche su noti quotidiani, e non fra i minori della scena francese dell’epoca: M. Foucault, F. Guattari, G. Deleuze, J.-P. Sartre. Vediamo cosa ne dice l’autore dell’Introduzione. “A parere del sociologo [Baudrillard], però, non c’è affatto da scandalizzarsi perché quel che si è osservato in quell’occasione è un semplice effetto di ‘fissione’ e ‘neutralizzazione’ derivante dall’eccesso d’informazione che si è fatta transitare a forza nelle masse e che si è tradotta infine in un risultato opposto a quello sperato: un’indifferenza e un rifiuto generali ai richiami della ‘partecipazione’. Riportando quest’osservazione ai nostri giorni, è possibile comprendere perché quando l’opinione pubblica, vivamente sollecitata con sondaggi e votazioni elettorali, con trasmissioni televisive e dibattiti, non è quella auspicata da una parte dei centri del potere e della finanza – si pensi all’ondata d’indignazione e stupore sui temi della Brexit, Trump, politiche migratorie, moneta unica europea, guerre umanitarie etc. – il sistema imploda letteralmente su sé stesso, giri a vuoto, ne ricerchi senza posa il motivo [questo si può vedere nei cosiddetti “talk-show” o trasmissioni “d’informazione”, dove si gira e rigira, tante interpretazioni fornite, nessuna che centri o c’entri, perché dovrebbero rimettere in questione il modello fondante, “a monte”]. Su questo grande problema che anima la discussione contemporanea, e in cui si rivendica un’aria di novità introducendovi il tema ‘fake news’ che, a ben vedere, non ha niente di nuovo ed è invece, nella logica culturale e simbolica, molto più vecchio e nient’affatto peculiare dei nostri tempi, Baudrillard aveva già detto quasi tutto e si era spinto molto più in là di molte interpretazioni recenti.
‘Si è sempre creduto – è l’ideologia stessa dei mass-media – che sono i media a irretire le masse. Si è cercato il segreto della manipolazione nella semiologia accanita dei mass-media. Ma si è dimenticato, in questa logica naïve della comunicazione, che le masse sono un medium più forte di tutti quanti i media, che sono esse che li irretiscono  li assorbono – o che almeno non c’è alcuna prevalenza dell’uno sull’altro. Un solo processo è quello dei media. Mass(age) is message”[14].
Quest’ultima osservazione di Altobelli, dove Baudrillard, nel 1978, si spingeva ben più avanti delle interpretazioni correnti oggi, nel 2019, la dice lunga: ed è questa, a mio avviso, la “cifra” vera dell’agile ma sapido libretto. Infatti, Baudrillard va oltre: mette in causa le scienze sociali tout court, ecco un punto importantissimo[15].
Altra osservazione davvero fondamentale dell’autore della Introduzione è quella sulla carica “utopistica” di Baudrillard, ed è vero.
Personalmente direi che tale carica si va perdendo e stemperando pian piano nell’opera dell’autore francese, probabilmente anche per vicende personali, dove tutti gli spunti “all’azione” – fondamentalmente patafisica, situazionista e dadaista lato sensu intesa – che comunque Baudrillard ha fatto, si son persi, per mancanza di interlocutori, sostanzialmente.
Il conservatorismo, lurida, putrida, puzzolente, immonda, schifosa, oscena risacca conservatrice, ha trascinato tutto seco (si sa che le risacche sono le più potenti), “sinistra” ivi compresa, per non dire in primis. Ingenui credenti nella modernità, li denota Baudrillard, in sostanza: verissimo. Nessuno ha introiettato la simulazione che il “sociale”, in sostanza, è, più delle cosiddette “sinistre”.
Non che le destre abbiano capito mai niente, per carità, ma in loro il pragmatismo stempera la credenza, che pure ci sta: ed ecco il “popolo”, la “nazione”, tutti simulacri[16]; non così le “sinistre”, i “sinistrati” mentali, come li chiamo. Ecco che il lato utopico di Baudrillard è andato sempre più da canto, ma esso è vivissimo soprattutto all’inizio – ed ora è chiaro il perché, essendo stato collaboratore della rivista “Utopie” – e cioè in questo testo come nell’altro, da me citato in qualche altro passato post, intendo il testo su Foucault.
Qualcosa c’è, di tal aspetto, anche ne La Sinistra divina, degli anni Ottanta del secolo scorso, anch’esso notevole, anche se non raggiunge i fasti di questo libro (All’ombra); e, vi aggiungerei, almeno di alcuni passi del su ricordato Dimenticare Foucault, pure tra i suoi migliori.
Poi senza dubbio lo studio dei mass-media metterà sempre più “in sordina” quest’aspetto.
Ma vediamo cosa ne dice Altobelli. “La riflessione di Baudrillard raggiunge in questo libro un punto d’equilibrio – sul filo d’una riflessione sospesa sull’abisso del non-senso, ma anche sui crinali dell’ironia – tra la più alta concettualizzazione e la scrittura accademica e l’espressione […] per frammenti dei suoi libri successivi […]. Si ritrova in questo testo ogni ingrediente del miglior Baudrillard: l’originale capacità di analisi […], la sarcastica critica all’esistente, l’attacco tagliente contro i quadri scientifico-disciplinari e politico-culturali dominanti. Ma c’è qui, anche, il Baudrillard nascosto, il meno apparente, l’ utopista. Sebbene quest’aspetto della sua personalità e del suo pensiero sia stato largamente trascurato o ignorato negli studi”[17].
Per quel che mi riguarda, invece, tal aspetto mi è sempre stato ben presente, per quanto col tempo trascolora e sbiadisce sempre di più, ma non sparisce mai: è la carica nel voler “andar oltre” l’esistente, e l’ho sempre visto com’evidente, ma è anche vero che Altobelli ha ragione sul fatto che è stato trascurato. Ripeto, a mio avviso, ciò è dovuto alla mancanza d’interlocutori, sostanzialmente. Tu le proposte le puoi fare, una, due, tre, quattro, anche dieci volte; poi ti stanchi, è una fatica improba proprio.
Tornando a Baudrillard ed a questo suo lato “nascosto”, direi anzi che è stato l’unico pensiero “rivoluzionario” della fine del secolo scorso, poi anch’esso “rientrato” nei ranghi (ma mai del tutto …) e, d’allora in poi, non s’è visto più nulla.
E quel che oggi spacciano per pensiero ““rivoluzionario”” fra tante virgolette, e cioè il “torniamo al XIX secolo”, non è per niente tale. Non è rivoluzionario in alcun senso, men che meno creativo, ma una spenta eco d’eco. Questa gente non ha la più pallida idea di cosa sia “rivoluzionario”, manca loro – e del tutto – la lezione delle avanguardie novecentesche, ben viva in Baudrillard, l’ultimo, in tal senso, come, in parte, J. Cage è stato l’ultimo dei “provocatori” nello stile delle avanguardie novecentesche. Si veda il famoso concerto a Milano – in pieno Medioevo fa (e Medioevo non è una categoria negativa, in questo blog) – dove, a fronte dei “giovani” attardatisi dentro prospettive ottocentesche, “schiacciate” nel Novecento, lui “provocò” la scena con style dadaista.
Il canto del cigno. Quel concerto fu il canto del cigno, in parte lo è anche questo breve saggio, ma con un elemento di vitalità in più. Infatti, è ancor più grave di quest’oblio, comunque colpevole, il fatto che oggi spaccino come cose “rivoluzionarie” cose che non lo sono affatto. Più grave che non abbiano la benché minima idea della lezione delle avanguardie novecentesche, del “dadà” in particolare. E si considerino anche degli “alternativi” … E’ una lezione “che manca proprio all’appello”, ed a “sinistra” ancor più che a “destra”, e quindi siamo al fantastico (programma televisivo) …  
Ma torniamo al tema di base.
La critica – di fondo – è all’ingenuità “sociale”, oltre che “socialista”, dei “progressisti” d’ogni fatta e tipo: “Mettere in discussione il ‘valore d’uso’, nel suo supposto significato ‘naturale’, vuol dire mettere in crisi una parte considerevole del sistema e denunciare le profonde ingenuità dei progressisti e dei socialisti: ‘La vera ingenuità è quella dei socialisti e degli umanisti di qualsiasi tipo che vogliono che tutta la ricchezza sia redistribuita, che non ci siano spese inutili, etc. Il socialismo, campione del valore d’uso del sociale, rivela una totale incomprensione del sociale. Crede che il sociale possa divenire la gestione collettiva ottimale del valore d’uso degli uomini e delle cose’.
Nell’insieme del libro come nei suoi passi più belli e vibranti, Baudrillard svela l’insensatezza del nostro sistema sociale [l’ insensatezza, proprio questo rivela, ed è “rivoluzionario”]: la vuota, disturbante assenza di un ‘senso’ – parola molto usata nel testo – al fondo del sistema sociale così come esso è nel mondo e nel tempo lungo del capitalismo [il “tempo lungo”, categoria storiografica]. Torna alla mente un brano molto noto di Max Weber [con certezza noto a Baudrillard e che si percepisce “tra le righe”] che non cessa di colpire la nostra sensibilità: ‘L’odierno ordinamento capitalistico è un enorme cosmo, in cui il singolo viene immerso nascendo, e che è a lui dato, per lo meno in quanto singolo, come un ambiente praticamente non mutabile, nel quale è costretto a vivere. Esso impone a ciascuno, in quanto è costretto dalla connessione del mercato, le norme della sua azione economica’ [da L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, un libro che i presunti “alternativi” dovrebbero leggersi e rileggersi; per certi aspetti, il libro di Baudrillard è una “glossa critica” del libro di Weber].
La causalità storica del venire al mondo – in questo mondo e non in un altro come de Martino diceva, con fine sensibilità antropologica, riferendosi allo ‘scandalo iniziale dell’incontro etnografico’ capace di mostrare noi stessi nello specchio dell’Altro […] – è precisamente calata da Baudrillard nella realtà storico-culturale del capitalismo occidentale e della Modernità che n’è stata il frutto più maturo: ai suoi occhi, un frutto ormai marcio [ed è così, leggendo il testo di Baudrillard si ha la netta impressione che lo considerasse marcio, stramarcioquarant’anni fa!!, ed oggi?? si rifletta su questo punto, ben preciso]”[18].
Terminiamo con le parole finali di Altobelli: “Interrogarsi sulla validità attuale delle sue analisi, oggi, cercando di non tradirne lo spirito patafisico che le animava e la forte istanza contestatrice e anticonformista, è senza dubbio il modo migliore per ricordare uno dei più importanti pensatori del nostro tempo. Così inattuale da essere il nostro contemporaneo più perfetto: il testimone”[19].


Non posso che raccomandare – ma vivamente, anzi: vivissimamente – questo breve, agile, sapido, rapido, succulento testo, non posso che raccomandarlo in particolare – ma proprio in super particolar modo – ai cosiddetti “alternativi” di oggi, che sognano d’ impossibili “ritorni” ed “insorgenze”, di neo nazionalismi (nazionalismo col neo, ma senza neon, lampade al fluoro o, meglio, led, fastidiosissimi fari la notte guidando, della serie accechiamo tutti, diamo troppo così non vi sarà mai resistenza: questa la tattica del presente: abboffare da un lato, e cure dimagranti al tempo stesso, dall’altro …). Questi vorrebbero “ricostruire” il “legame sociale”, sotto i crismi delle “destre redivive”, con di fronte gli zombie delle “sinistre iper borghesi”, che non san dire altro se non che “l’Europa c’ha dato la pace”, ma bastasse questo!, a fronte del patto “sociale” – mo ce vo’ – che è saltato!
Il patto sociale non c’è più, a che serve dire queste cose … Mah! Solo che, in questa decadenza – prevista quarantun anni fa da Baudrillard! – non si deve vedere l’ “inefficacia” della “socializzazione”, ma il suo destino ineluttabile. O, almeno, questa è la lezione che Baudrillard ci ha lasciato, ed è ancora ben viva, per lo meno in alcuni.
Per lo meno in me, o da parte “di chi scrive”, se vogliamo usare qualche più sfumata espressione.
Per tornare alla carica “utopica” che aveva quest’autore, nonostante tutto, quel che diceva era: fa’ saltare il gioco, confondi le acque, usa l’ottica “situazionista”, scopri la falsità del “sociale”, non star lì a difendere il “sociale”, in modo inevitabilmente perdente (La sinistra divina, anni Ottanta!!). Ma non c’è stato da far niente: in lunghi quarant’anni non l’han mai capito, né oggi lo capiscono.
Ignoranza invincibile …
Non per questo le cose cambiano o gli è riservato altro destino, come ognuno può vedere oggi; e qualunque cosa facciano – qualunque, ma proprio qualunque – perdono sempre. Non ne vengono fuori. Questa considerazione, per altra cosa evidentissima, non li smuove.
E dall’altra canto, Neues Europa? Nuova Europa?
Ma quale Neues? “Nuova”?
Ma quale “Nuova”?
Altes. Vecchia Europa. Vecchissima. 
A quando la resa, mi chiedo altrove[20].
Non si rendono conto d’essere accerchiati, a sud, e ad est, ed ora pure ad ovest. Rimane il nord, ma vi sono i ghiacci, molto più sciolti d’un tempo, anche recente, anche rispetto agli anni Settanta del libro di Baudrillard, ma sufficientemente ancora ghiacciati da poter bloccare.


Tornando a Baudrillard, è stato, senza dubbio, un illustre patafisico, ma pure l’ ultimo dadaista – assieme, in parte, con Cage – del secolo scorso.












Andrea A. Ianniello

















[1] A. Jarry, Ubu. Ubu Re • Ubu Cornuto • Ubu incatenato • Ubu sulla Collina, Adelphi Edizioni, Milano 1977, p. 108, maiuscoletto in originale, corsivi miei.
[2] In T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie, a cura di G. Posani, Einaudi editore, Torino 1975, pp. 11-12.
[3] R. Guénon, Simboli della scienza sacra, Adelphi Edizioni, Milano 1975, p. 135, corsivi miei. L’articolo, fra quelli poi “assemblati” per fare il libro appena citato, è quello “Sul significato delle feste ‘carnevalesche’”, dove si dice – giustamente – che tali feste, pur “laide”, avevano come scopo quello di far sì che il disordine fosse “canalizzato” e, dunque, rientrasse nell’ordine. Vi era, per esempio, la “festa dell’asino” nel Medioevo, dove i carnevali medioevali erano direttamente gli eredi degli antichi Saturnalia romani. La devozione medioevale era ben diversa da quella, “castigata” e “disciplinata” – resa borghese, insomma – che si sviluppa sempre di più con l’inizio dei tempi moderni. Questa “canalizzazione” del disordine, argomentava Guénon è sempre più difficile con la seconda parte dei tempi moderni, di conseguenza si entrava, con gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, nel “sinistro carnevale perpetuo”, diceva, che oggi è conclamato.
Tra l’altro, il carnevale è una festa lunare, dunque mobile, ma sempre posta fra l’Acquario e i Pesci, ed è indicativo, anche se, nella successione delle “ere zodiacali”, si deve computare all’inverso: stiam passando dai Pesci all’Acquario, in moto inverso. Altra cosa le “ere astrologiche” di 200 anni, relative alle Magnae Conjunctiones di Giove e Saturno segnalate da Albumasar (Abù Ma‘shar, 10 agosto 787 – 9 marzo 886, 171 – 272 dell’ègira), dove qui, in tal caso, quel che conta non sono tante le congiunzioni fra Saturno e Giove che si ripetono ogni venti anni, ma il cambio dell’elemento (gli elementa: Terra, Aqua, Aër, Ignis) in cui, in successione, avvengono le congiunzioni, le Grandi congiunzioni.
Ed è significativo come avvenga il cambiamento: per fare un esempio, esaminiamo quella che ci riguarda da presso. Nel 2020, cioè l’anno prossimo, vi sarà la grande congiunzione in Capricorno: con essa termina l’era astrologica di 200 anni delle Magnae Conjunctiones nei segni di Terra. E, per altri 200 anni, non ve ne saranno più, cosa importante da sottolinearsi. Nella “grande congiunzione” finale in segno di terra si deve vedere la fine del capitalismo, ma seguito dalla breve effervescenza del suo succedaneo parzialmente “occultizzato” (il discorso sarebbe lungo, rimando al post dell’anno scorso). Tra l’altro, è interessante notare come lo stesso Marx, del quale l’anno scorso è stato il duecentenario dalla nascita (passato relativamente “in sordina”, tranne in Cina e Germania), sia nato nel segno del Toro, estremamente di “terra”. Marx voleva la conoscenza del capitalismo come quella che un meccanico ha di un motore. Diciamo, comunque, che l’anno scorso è stato “il canto del cigno” del System. Anche se i trigoni fra Saturno e Plutone ci parlano sicuramente di un esisto di “passaggio”, e non di mero stop. I due “Systems”, l’attuale ed il futuro prossimissimo, trascoloreranno l’uno nell’altro, probabilmente per mezzo delle monete e delle transazioni virtuali che intendono porre un rimedio al “tallone d’Achille” che genera tutte le crisi nel capitalismo: la crisi di liquidità, non di “capitale”, di liquidità, importante punto. Perché non possa funzionare è rilevante, ma è altro discorso, in questa sede.
Lo stesso anno – sempre il 2020 – si ha, nella sua fine stavolta, la prima “grande congiunzione” nei segni di Aria, Saturno e Giove congiunti in Acquario; ed ho detto in un commento ad un altro post, dell’anno scorso, che cosa “annuncia” – solo annuncia, la realizzazione (rimando allo stesso post) è per dopo, in relazione ai moti di altri astri – questa tale “grande” congiunzione. Bene, tutto sembra semplice, ma non lo è, perché venti anni prima del 2000, della penultima congiunzione (in Toro quest’ultima del 2000) in segno di Terra, vi era stata un’altra “grande congiunzione”, ma in segno d’Aria, come una prefigurazione: e cioè la grande congiunzione in Libra (Bilancia) del 1980, la prefigurazione, che proprio così fu. Quindi la transizione fra due ere astrologiche avviene con lo stop-and-go, cioè si prefigura, poi si torna indietro, ed infine definitivamente si va. Ed è importante rilevare questo punto, a scanso d’equivoci, perché può spiegare molte cose. Qui si recensirà l’Introduzione di un libro che prefigurava la “grande congiunzione” del 1980, a sua volta prefigurazione (come clima, come “clima mentale”) di ciò che ci attende.
Come dicono “lè fransé” – e speriamo non ne venga fuori qualche polemica, qualche ruggito del topino del nazionalismo italico – tout se tient
Sulla Cina, dove quest’anno si celebra il settantesimo anno dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese (la Cina è Toro, ma la RPC è sotto il segno della Libra, segno d’aria), cf.
[4] Sia detto, en passant, che spesso i francesi son maestri nell’arte del pamphlet, che in Italia, invece, si disperde, con l’ottica dispersiva, eccessiva, tipicamente italiana, dove si vuol “dar tutto a tutti” troppo presto: non si può fare, si devono fare delle scelte, venendo al punto centrale. Quel che rende “sapido” il pamphlet è sia la sinteticità sia il tono, ironico, rapido, agile.
[5] J. Baudrillard, All’ombra della maggioranze silenziose ovvero la fine del sociale, Introduzione di D. Altobelli, Mimesis Edizioni, Milano 2019, retro di copertina, grassetto in originale. Si noti il termine: definitivo, perché è quello decisivo
Tra l’altro, in relazione al primo commento al post precedente (cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.com/2019/02/tra-laltro.html), il libro di Baudrillard venne in preparazione della Conjunctio del 1980, in segno d’Aria, prefigurazione di quella del 2020 che segnerà il cambio di “era astrologica”, cambi di era astrologica che avvengono sempre prima con l’anticipo, poi si ritorna all’elemento che è stato dominante per duecento anni, ed infine si arriva al passaggio definitivo, l’anno prossimo, nel nostro caso. Ricordiamoci che nel 1979 ci fu anche la rivoluzione in Iran, altro evento preparatorio, ed “acquariano”, lato sensu inteso. Stavolta le cose andranno diversamente, ma c’è un filo ch lega non gli eventi nella loro letteralità, bensì nel loro significato, si badi bene a questa differenza, non secondaria. Andremo verso “l’ultimo capitolo nella storia del mondo”, cf.
[6] Sulla “patafisica” (la “scienza delle soluzioni immaginarie”), cf. A. Jarry, Scritti patafisica. La macchina, il tempo e altri epifenomeni, :duepunti edizioni, Palermo 2009, dieci anni fa, ormai.
[7] Cf. https://www.youtube.com/watch?v=X6ymVaq3Fqk.
[8] Porrei fra i migliori libri di Baudrillard – anche per “verve” polemica – pure La sinistra divina, recensita, in breve, qui, cf.
[9] “Questo errare e girovagare di masse ubriache attraverso quartieri vasti e sinistri, come li descrivono anche de Quincey e Jack London nelle loro memorie, è angosciante. Ad ogni angolo di strada, un’osteria a buon mercato fa un cenno di richiamo; si beve in piedi, e le bevande forti hanno un effetto violento sui corpi indeboliti. Sciami di donne di piacere, e con loro bambini, donne ubriache fradice, mendicanti scorrono con loro in questo fiume. Lì in mezzo si appostano quelli che fanno affari con gli ubriachi e i deboli: protettori, compari, borsaioli e imbroglioni d’ogni genere. Qui non si beve per ricordare o per accostarsi a se stessi; si beve per fuggire, per dimenticare, e il risveglio è duro. Il demone è presente: un uomo ineguagliabile per perspicacia, Dostojevskij, lo ha avvertito quasi fisicamente. Le sue descrizioni di viaggi sono in realtà delle demonologie, sono le peregrinazioni di un visionario attraverso il mondo. Con la stessa sicurezza di Toqueville riguardo alle strutture politiche, egli coglie il loro sconfinato retroscena […]. A Parigi, Dostojevskij trovò la ‘bonaccia dell’ordine – una conformità alle regole colossale, interiore, spirituale, nata dall’anima. Potrebbe essere una enorme Heidelberg’. Londra gli appariva come il negativo titanico di questa umanità che, malgrado l’agitazione, trova riposo in se stessa. Una paura di ‘qualche cosa’ comincia  a prenderlo quando va in giro per questa città […]. Egli descrive […] il passaggio attraverso uno splendete inferno di piacere. In Léon Bloy si trova una simile avversione, che si esprime in termini eccessivi […]. Tutto questo è osservato da un altro punto di vista, quello del cattolico di stampo spagnolo nei confronti del protestantesimo, e quindi in un rapporto che assomiglia a quello del cane col gatto., il protestantesimo, senza il quale il nuovo mondo con la sua tecnica non sarebbe immaginabile, poté penetrare più difficilmente nelle terre del vino che in quelle nordiche. Le periferie producono spesso dei fenomeni inattesi. […] Lo sguardo di Dostojevskij […] non si è fatto turbare neanche dal flusso tumultuoso d’immagini che a Londra lo avevano spaventato e reso inquieto. Avrebbe forse potuto intitolare il capitolo in cui descrive queste impressioni ‘Splendore e miseria del mondo della macchina’. Tuttavia egli scelse un altro titolo, ‘Baal’. Evidentemente vi ha visto ancora qualcosa di più: una forza troneggiante al centro di quel brulichio di gente”, E. Jünger, Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza, Multhipla Edizioni, Milano 1982, pp. 105-106. E il titolo giusto era proprio “Baal”, il che dimostra l’eccezionale perspicacia dell’autore russo. Ecco, la città dove la “Grande Prostituta” si è costruita – Londra, la tentacolare Londra di Holmes – è la città di “Baal”. Uno deve capire queste cose, sennò non capirà mai il System della “Grande Prostituta”; e “Baal” è la forza “pagana” che trionfa, ma non è ancora la “bestia”, anzi, è vero l’opposto: la “bestia” odia Baal. E ne vuole la fine. Perché, per come: ci vorrebbe un lungo trattato per spiegarlo, ma tutto si gioca su questi pochi punti qui. Dirlo più chiaramente è, oggi, davvero difficile. Ma torniamo a noi. Sull’ebbrezza e le droghe, vi è un post in questo blog, una recensione per l’esattezza, cf.
Droga fa rima, spesso, con debolezza. “La debolezza ha zone di luce e zone d’ombra; ci rende sensibili al bene e al male. Quando siamo deboli si gettano su di noi uomini ed animali, germi e malattie, e anche le tentazioni. La debolezza è una condizione preliminare del vizio, e una malattia spesso la liberazione da esso”, E. Jünger, Avvicinamenti, cit., p. 207. Dietro tutto ciò, vi è il tempo. E il suo fluire: “Come sono stati mossi i contadini, i visir, i re e le regine? Nella foresta di Teutoburgo noi eravamo dalla parte di Arminio, sulla Beresina col maresciallo Ney. Tutto questo risale alla zona più profonda della trama dei motivi celtico-germanici, rinforzati da fili romani. Da dove proviene l’accentuata sensazione di aver già visto ciò che vediamo nelle tombe etrusche, di esser già passato sulle mura delle fortificazioni celtiche quando le percorriamo in un visita notturna? Raramente si vede il popolo sotto la trama sempre più fine dei partiti, degli interessi, della rappresentazione tecnica. […] Bisognerebbe almeno spogliarsi dell’effimero. L’intelletto dice: perché mi fa soffrire di più la scomparsa della cicogna dal nostro paesaggio che non quella dei dinosauri, prefigurazione di passaggi di un ordine di grandezza completamente diverso? Perché mi è più difficile accettare il destino dell’impero di Bismarck che non il tramonto della casa sveva o la partizione dell’eredità carolingia, eventi questi che furono ben più fatali? L’intelletto risponde che la vicinanza temporale e il coinvolgimento personale falsano le dimensioni alla maniera di un’illusione ottica, e consiglia: devi compensare questo disturbo ottico raggiungendo una distanza spirituale per mezzo di un superamento filosofico o artistico. Ma in questo modo non ci si libera neanche di un mal di denti. Dobbiamo pagare un tributo al tempo. Del resto, tra noi ci sono ancora persone che soffrono in modo immediato ed insanabile per l’assassinio di Corradino”, ivi, pp. 208-209, corsivi miei. In un blog dedicato a Federico II, com’eponimo, queste ultime frasi hanno la loro importanza. In ogni caso, è verissimo: “dobbiamo pagare un tributo al tempo”; spesse volte, però un tributo eccessivo. Come All’ombra della maggioranze silenziose, di Baudrillard, assieme forse ad America, è il miglior Baudrillard, in tutt’altra atmosfera il miglior Jünger è quello di Avvicinamenti e dei Diari della Seconda Guerra Mondiale. Sentiamo che l’autore tratta il lettore da amico, e gli parla con franchezza. La stessa franchezza che Jünger ha quando discorre con sé stesso. La cosa che mi piace di Jünger è che affronta davvero i problemi, magari non li risolve, ma se li pone sul serio di fronte, e questo è importante.  
Vi è comunque un’altra, più recente, edizione di Avvicinamenti, della Guanda, del 2006, ma l’edizione “storica” è quella citata qui sopra. Quel che conta è che il testo, in quest’ultima versione della Guanda, sia oggi reperibile, l’altra versione è, ormai, da collezione.
[10] J. Baudrillard, All’ombra della maggioranze silenziose ovvero la fine del sociale, cit., pp. 7-9, corsivi in originale, grassetto mio, miei commenti fra parentesi quadre. Se qualcuno mi chiedesse, oggi, qual potrebbe essere il titolo di una rivista che venga al centro delle tematiche attuali pur tuttavia partendo da un angolo specifico di visuale, proporrei questo titolo: “Città Senza Città. (sottotitolo) La Città nel processo della sua crisi”, e non è una rivista d’architetture, ciò va detto con chiarezza, ma il fenomeno “città” – ovvero civiltà – nel processo della sua crisi, a tutto tondo in ogni campo. Forse il titolo in latino è più chiaro: Sine Civitate Urbes. Ed ovviamente, la “prospettiva militante, e impegnata politicamente” oggi non ci può essere. Su questo si deve esser ben chiari. Il che non toglie si possa, però, avere una prospettiva di analisi, realistica e – spero – spietata, sul presente. I cronisti di Roma che cade, per così dire. Questo per dare una frase “ad effetto” e rendere l’idea: ci sarebbe molto di più, ovvio. Chiaro che, come prima cosa, è come dissi, e poi scrissi, nel mio breve intervento per l’anniversario dei cento anni dell’inizio del Futurismo, cf. “Sul ‘Manifesto’ del Futurismo” in Sulle orme del Futurismo, Giuseppe Vozza editore, Casolla-Caserta 2009, pp. 17-21, esattamente dieci anni fa, quando fu ricordata la nascita di quel movimento in un Bar che la crisi avrebbe sottoposto a qualche vicissitudine. All’epoca dissi, perché c’era un precedente intervento a parole, che il cambiamento non nasce mai dall’accumulo di critiche, ma da una decisione: la decisione di guadare il fiume. La penso ancora così: il problema – di fondo – è che tutti giungono sulla riva del fiume, e criticano, ma non lo passano mai. di fatto, si è sempre sulla riva del vecchio fiume moderno, in pienissima crisi, in decadenza irrimediabile, ma sempre lì siamo. Quindi una rivista del genere, necessiterebbe – prima – un bel “taglio”, una decisione di muoversi oltre il moderno. Una decisione del genere non può esistere in buone relazione con il “torniamo al XIX secolo”, il messaggio pseudo “mantrico” che, oggi, sta imperando, e che si spaccia per chissà quale novità grande. Ricordo che il mio intervento fu il più polemico.
[11] J. Baudrillard, All’ombra della maggioranze silenziose ovvero la fine del sociale, cit., pp. 10-12, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre.
[12] Ivi, pp. 13-14, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre.
[14] J. Baudrillard, All’ombra della maggioranze silenziose ovvero la fine del sociale, cit., pp. 15-16, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre. In nota parla del fatto che le cosiddette “fake news” non sono affatto delle novità odierne, tranne il nome, e rimanda a vari studi tra l’Ottocento e il Novecento su tali temi, citandone esplicitamente uno: Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, in M. Bloch, Storici e storia, Einaudi editore, Torino 1997. Va però aggiunto che l’originale scritto di Bloch apparve in una rivista francese del 1921 …!! Dunque tutt’altro che una novità. Io citerei pure i vari studi di G. Le Bon, tra gli altri, varie intuizioni di Ortega y Gasset, ecc. ecc.
[15] Cf. ivi, pp. 16-18.
[16] Un libro di qualche tempo fa giustamente prevedeva questo: “Per il momento, l’economia è ancora sufficientemente stabile non soltanto per assorbire la maggior parte delle critiche, ma anche per sfruttarle a fini commerciali. Tuttavia, a partire dal nazionalsocialismo, la spaccatura del mondo in razionale e irrazionale non solo non è stata superata, ma si è addirittura acuita. Nulla può escludere una nuova esplosione dell’irrazionalismo rimosso. Infatti, gli ‘spiriti vitali dell’inconscio’ sono ancora ‘banditi dalla casa della modernità’, e potrebbero ritornare in periodi di crisi, precisamente ‘dalla porta di servizio […]’”, R. Freund, La magia e la svastica. Occultismo, New Age e nazionalsocialismo, Lindau, Torino 2006, p. 169. Come noi sappiamo, la “Grande Crisi”, dal 2008, ha dato la stura a tutto ciò. In realtà, tra l’altro, detto libro, pubblicato in Italia nel 2006, è, nell’edizione austriaca originale, del 1995, questo per dire come certe cose ci sono da tempo. Sulla deriva “identitaria” e di destra, sia detto en passant, vi è un interessante passo, a proposito del fatato che i nazisti furono tra i più gradi scatena tori della tecnica ed insieme “mettevano in guardi” contro la “modernità”: “Da una parte si presentarono [i nazisti] come un giovane partito moderno, votato all’idea di progresso, in contrapposizione al vecchio sistema di partiti: a ciò corrispondono le attività economiche nella grande industria, nella costruzione di autostrade, nella progettazione di città, nella tecnologia degli armamenti. Dall’altra parte, si cercò nel contempo di comportarsi come ammonitori contro il modernismo e come protettori di valori eterni, e in questo è riscontrabile anche il forte parallelo con i nuovi partiti della destra attuale: ‘Allora come oggi, i radicali di destra sono però anche moderni in una seconda accezione, assai più basilare. Essi sono la risposta reazionaria alle crisi della modernizzazione industriale condotta con i mezzi della modernità, di questo paradosso vive ancor oggi il radicalismo di destra. Esso trae profitto dalla crisi dell’industrializzazione e contribuisce allo stesso tempo a spingerla all’estremo”, ivi, p. 159, corsivi miei, mie osservazioni fra parentesi quadre. E non è affatto un “paradosso”, ma il semplice, necessario effetto di un grave, grosso errore d’analisi a monte.
[17] Ivi, pp. 18-19, corsivi in originale.
[18] Ivi, pp. 21-22, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre.
[19] Ivi, pp. 21-22, corsivi in originale.


[i] Il discorso sarebbe lungo, ma qui di seguito un passo da un libro, interessante da riportarsi, può fornire qualche utile spunto. “Il Magus, o il Celeste Investigatore, Sistema Completo di Filosofia Occulta, è un grosso volume, molto ben illustrato, apparso a Londra nel 1801. Più ampio nei suoi interessi di quanto non siano di solito i ‘Libri Neri’, si presenta come una vera enciclopedia delle dottrine magiche, divise in diverse branche. Francis Barrett, che raccolse e preparò per la stampa il materiale, viene considerato il vero successore nel diciannovesimo secolo dei maghi di un tempo; suo scopo dichiarato era quello di restituire allo studio dell’occultismo quella dignità che la filosofia ‘illuminista’ del suo tempo gli aveva negato. Barrett fu il primo fra gli studiosi di queste discipline che si preoccupò di raccogliere e presentare in modo sistematico le opere degli occultisti dei secoli precedenti. Fu accusato per questo di essersi limitato a copiare il Quarto Libro De Occulta Philosophia, l’ Heptameron, il Lemegeton ed altri manuali del genere, senza contribuire in nulla di originale. Questo è vero solo in parte. Il fatto stesso di aver riunito in un uico volume, di facile consultazione, degli insegnamenti in precedenza dispersi e praticamente irreperibili, è merito tutt’altro che trascurabile. In questo, fra l’altro, anticipò l’impegno d’illustri studiosi delle scienze occulte, primo fra tutti Eliphas Levi, cui venne fatto leggere il Magus durante il suo soggiorno in Inghilterra, e ne rimase fortemente influenzato”, J. Sabellicus, Magia pratica, vol. II, Edizioni Mediterranee, Roma 1984, p. 153, corsivi in originale.
Interessante questo commento su il Magus, di Barrett: “Nel Magus di Francis Barrett, nella sezione dedicata al cerimoniale magico, vi è una pagina che è importante in questo contesto. Questo libro, pubblicato circa il 1800, è un miscuglio di sciocchezze superstiziose e di alcune fondamentali informazioni magiche, quasi nelle stesse proporzioni [vale a dire: Barrett non comprendeva ciò che raccoglieva]. Adesso vi sono nuove edizioni di tale libro e lo studioso serio non farebbe del tutto male a procurarsene una copia, se sa separare il grano dal loglio [cosa non facile, senza delle “chiavi” di lettura], che è [il loglio] abbondantemente presente. Alcuni passi portano molta luce su molti degli apparentemente strani nomi – quasi ebrei – che appaiono in alcune antiche invocazioni. L’ebraico, in questo testo, è orribile. […] I nomi son copiato da studiosi che conoscevano poco o nulla di ebraico,così che, dopo che l’originale fu passato attraverso una dozzina di mani insipienti […], il prodotto finale assomigliò assai poco a quello che era all’inizio”, I. Regardie, Teoria e pratica della magia. Tecniche cabalistiche, magiche e meditative, Edizioni Mediterranee, Roma 1983, p. 147, mie osservazioni fra parentesi quadre.
Regardie di seguito corregge le inesattezze in ebraico di Barrett, e sa di cosa parla: “Nel Libro dell’Esodo vi è un peana di gioia marziale a Jehovah dopo la traversata del Mar Rosso, che si è aperto al passaggio dei figli d’Israele e poi si è chiuso sugli Egiziani e i loro carri, distruggendoli. Qui Egli è chiamato Eesh milcomah, Guerriero: ‘Jehovah è un potente guerriero; Jehovah è il suo nome!’. Ricordo nettamente questo passo della Torah, che veniva cantato quando, da fanciullo, attendevo alla sinagoga. Tutta la melodia e lo stile del canto cambiavano  trionfalmente quando il cantore intonava: ‘Io canterò Jehovah perché ha trionfato gloriosamente! … La tua mano destra, o Jehovah, è divenuta gloriosa nel potere; la tua mano destra, o Signore, ha fatto a pezzi il nemico; … Chi è uguale a te fra gli dèi, o Jehovah?’. (Le iniziali ebraiche di quest’ultima frase vennero usate secoli dopo per formare il neologismo ‘Macabi’ [donde Maccabei]). Nessun ascoltatore poteva fare a meno di sentirsi gelare il sangue nelle vene. Geburah, in una parola, è l’aspetto della creatività come energia. Tutti i suoi simboli, da qualsiasi fonte provengano, mitologici o altro, si riferiscono esclusivamente a questa nozione. Poiché è la quinta nel nostro schema, tutte le figure a cinque punte, simboli, idee, eccetera, sono riferite ad essa”, ivi, pp. 88-89, corsivi in originale, miei osservazioni fra parentesi quadre. La prospettiva di Regardie – che rientra nella cosiddetta “riscoperta” del “magismo” della prima metà del XX secolo (in realtà erede del XIX sec., come le prima due citazioni, di qui su, suffragano) – è in parte giusta, in parte sbagliata. La parte giusta è dove lui parla della magia come scienza “sperimentale” (e qui Guénon avrebbe approvato); la parte sbagliata è dove in pratica equipara la “luce astrale” e “l’inconscio collettivo” di Jung (cf. ivi, p. 62, ma lo accetta con più riserva, invece, a p. 69), quando le due cose solo in parte coincidono, son due insiemi con una parte in comune, ma non son affatto lo stesso insieme. Quest’errore va sottolineato, qui soltanto sottolineato, perché discuterne ci porterebbe troppo lontano. Un’interessante osservazione, che qui c’interessa (come blog) “a prescindere” (avrebbe detto Totò), la trae Regardie da un rituale della “Golden Dawn”: “Vi sono molte rappresentazioni simboliche nella parola ebraica pardes, che significa paradiso ed anche giardino. Alcuni dei primi cabalisti riferirono le sue lettere, Peh, Resh, Daleth, Samech, ai quattro fiumi che […] son detti fluire dal Giardino dell’Eden. Per esempio, nella Golden Dawn, uno dei primi rituali  conteneva i seguenti riferimenti: ‘[…] Phrath (Eufrate): Terra, che scorre in Malkuth … Il Fiume che esce dall’Eden è il Fiume dell’Apocalisse, le Acque della Vita, chiare come cristallo, che procedono dal Trono ai due lati dell’Albero della Vita, portando ogni sorta di frutti”, ivi, p. 146, corsivi in originale. Al di là del senso, anche positivo, che ha l’Eufrate, nell’ Apocalisse di Giovanni simbolizzano quelle potenze che vogliono “il dominio di Malkuth”, che vuol dire il Regno, insomma: la Terra tutta. Il dominio della Terra, non nel senso di “elemento”, ma nel senso di globo, insomma.
Regardie ha fatto parte della “Golden Dawn”, l’ “Alba Dorata” ritornata in auge recentemente, sull’onda delle “mitologizzazione” della politica, sulla quale metteva in guardia, già illo tempore, R. Freund, citato nella nota 16 (cf. ivi, pp. 135-137).
Sia detto “a chiare lettere”, seppur en passant, che il magismo è sempre stato pericoloso, ma mai come oggi, per molti motivi; ed è come giocare in Borsa: la cosa migliore è non farlo affatto. Se c’hai giocato e t’è andata bene, ringrazia Dio, e tieniti da parte … Comunque, 1800, il numero 18 che torna, la lama XVIII dei Tarocchi, intitolata la Luna, la “luce astrale” cioè, tra l’altro quella Luna dalla quale, secondo Gurdjieff, ci dovremmo liberare …