domenica 22 settembre 2019

OCCASIONI DI DISCUSSIONE, 1: LE CONCLUSIONI del libro d’Y. MÉNY ….


























Secondo il già citato Y. Mény[1], vi sono solo due conclusioni alla “deriva” impressa dal “populismo” (nato non per caso negli Stati Uniti d’America!).


Le Conclusioni del libro di Mény.
Dopo aver sottolineato come i populismi, seppur non vincendo che in pochi paesi – fra cui l’Italia – però non abbiano dato buona prova di sé, promettendo sempre molto di più di quanto poi possano effettivamente realizzare, però Mény, che ha prima in varie occasioni criticato come il populismo sia stato, e assai colpevolmente, sottovalutato, sottolinea come un grosso successo esso abbia però avuto: ha influenzato il “dibattito” pubblico fino ad imporre la sua “agenda” politica, di fatto, dominata dalle istanze populistiche.
Poi si chiede degli esiti di quest’ondata populistica, seppur in parte frenatasi ma non per questo ininfluente, come s’è appena detto. E scrive: “Al di là delle ricadute del populismo sui «professionisti della politica», ci si può chiedere quale sarà il suo impatto sulla relazione tra classi dirigenti e cittadini o, in termini politici, tra rappresentanti e rappresentati, tra governi e individui. L’ utopia populista del «governo del popolo da parte del popolo», infatti, ha solo due possibili esiti: quello dell’emergere (malgrado la loro ostilità sul piano dei princìpi) di nuove élite fuori dalla ristretta cerchia dominante o quella dell’affermazione di un leader che sia la personificazione della volontà popolare [in Italia, molto esattamente, i 5 Stelle e la Lega, rispettivamente: il che dimostra che l’Italia viene usata come ballon d’essai per vedere gli esiti della “vieille vague” del populismo], fino a che sarà possibile identificare una «volontà generale». Se il populismo portasse alla messa in discussione e alla rigenerazione delle élite[la vedo difficile, più che altro si tenta di cooptare certi settori populisti per ottenere una parziale, molto parziale, modifica delle “classi dirigenti”, entro “limiti determinati”, in anticipo], la scossa potrebbe anche essere utile, a condizione che i nuovi arrivati accettino i vincoli del sistema rappresentativo [ma questo non va molto d’accordo con quale che lo stesso Mény ha scritto in pagine precedenti, e cioè che nessun populista oggi è contro la democrazia “formale”, ma che vogliono correggerla o in senso “diretto” (tipo 5 Stelle) o in senso presidenziale (la Lega), dove si mostra con chiarezza la deriva “maggioritaristica” dei populismi]. Si tratterebbe d’una sorta d’evoluzione alla Syriza, esemplare passaggio dall’utopia al duro compromesso con la realtà. Se, al contrario, arrivasse l’uomo della provvidenza, la storia è fin troppo ricca d’insegnamenti sulle illusioni prodotte dai salvatori politici, di cui l’America latina ha fatto e fa ancora un grande uso [si tratta questo del progetto della Lega in Italia, per ora fermato facendo leva intelligentemente sull’altro “polo” del populismo, ma è solo congelato, considerato quanto l’Italia sia sempre stata facilmente trasportata dalla sua fissazione per “il salvatore della patria”, che di soliti fa danni, ma si sa che le lezioni storiche non vengono mai apprese, in particolar modo in Italia]. Non ci sono altre opzioni [e questo è vero: vuol dire che il solo “arrocco” è perdente, non porta da nessuna parte, ed anche questo è vero, di qui l’idea di una separazione del fronte “sovranista” in cambio di una – relativa, però eh – “apertura” nel campo dell’establishment che oggi può esser solo europeo, non più solo italiano, o francese o checché sia].
Nemmeno le speranze salvifiche affidate alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione [i 5 Stelle] offrono alternative credibili. Esse consentono mobilitazioni puntuali, mirate ed efficaci, che fanno riscoprire il fenomeno dello spontaneismo politico e il ruolo delle emozioni collettive, che non dovrebbero essere né disprezzate né sottovalutate […]. Tuttavia, in politica […] il controllo delle emozioni è una virtù. Esse […], se non temperate e guidate, […] rischiano di portare via tutto come un fiume in piena”[2].
Quel che stan tentando in questo momento in Europa, insomma, è precisamente di cooptare una parte dei populismi, diversi fra loro per natura, allo scopo di rinnovare almeno in parte le asfittiche, polverose, polverulente, rapidamente degeneranti classi dirigenti europee: questo è, nel momento in cui si scrive.
Ma è altrettanto chiaro che questo non è in alcun modo un’ “alternativa” al populismo, ma, invece, un accoglimento – parziale, forse troppo parziale, ma, nonostante tutto, tale – delle istanze populistiche. Quindi: nessunissima “alternativa”, ma soltanto un accoglimento parziale, cosa peraltro normale. Le classi dirigenti che non sanno rinnovarsi – e lo ripete anche Mény – sono destinate a passare, e pure a passare male.
Ma tutto ciò dà da pensare, se si vuol davvero costruire una effettiva forma d’alternativa a ciò che, a dire il vero, colora ormai di sé l’intero “dibattito” pubblico, come le tematiche, di “destra”, che, ormai, dominano l’arena pubblica. Per certe “destre”, che volevano uscir fuori dalla “nostalgia” per i fascismi e rinnovarsi e riesercitare un ruolo nel campo pubblico, il populismo è stato un cavallo di Troia. Non ne discende, però, che il populismo sia necessariamente di “destra”, ma solo che le “destre” sanno aver più a che fare, essendo più lontane da un “referente sociale”, dall’illuminismo e dalle sue illusioni, più lontane dal dover “rappresentare” in modo preciso questo o quello, per cui l’indeterminato “popolo” gli va molto più bene, ma non è vero il rapporto inverso.   
Sullo sfondo vi è questo problema – in realtà si tratta del generatore del populismo, come da me detto poco qui sopra –: “la sfida più grande non è quella che hanno davanti le democrazie nazionali, che lungo tutta la loro tormentata storia non hanno mi smesso di affrontare crisi. La difficoltà maggiore che oggi appare insormontabile, e, in ogni caso, irrisolta è quella dell’armonizzazione tra il livello nazionale e quello globale o, perlomeno, sovranazionale.
Come si supera la maledizione westfaliana che confina la democrazia solo entro i confini delle nazioni? Dovremo proprio rinunciare alla «democrazia sovranazionale» accontentarci di scegliere tra democrazia nazionale e «democrazia globale»?”[3].
A quest’ultima domanda non si può rispondere pienamente no, ma di certo non si può risponder
Di fatto, vi è oggi una “scelta” più o meno secca, nel senso che la scelta rimane, ma con delle mediazioni, forme “miste”, per così dire. Ma rimane che la “democrazia ‘sovra nazionale’” – non “globale” – oggi è largamente chimerica. O, per meglio dire: essa è chimerica se e solo se si mantenga fermo il quadro delle democrazie “liberali” … capito il punto …?
Se la difficoltà è “insormontabile”, come dice Mény, allora ci si deve adattare al fatto che quel che appena dopo sostiene lo stesso autore francese, che cioè la democrazia possa reinventarsi in altre forme – una “democrazia 3.0” (e mo’ facciamo x.0, così non c’è fine alla serie di numeri prima dello zero, ma è chiaro ed ovvio che tali artifici verbali non possano risolvere proprio niente) –, non può, né potrà mai, aver luogo.
Insomma – per tornare a noi – ci si pone la seguente questione: siamo di fronte ad una crisi sistemica delle democrazia liberali? O solo ad un suo “passaggio interno”, verso una forma “3.0”, per dirla con Mény? Ecco il tema di fondo che si pone, oggi.
La “maledizione westfaliana” è consustanziale alla nascita dello stato moderno: ecco il punto. Pensare di superarla e rimanere entro il quadro delle “democrazie liberali” – pur con tutto il “bricolage” (Mény) che pure le caratterizza – è chimerico. 






Andrea A Ianniello













[2] Y. Mény, Popolo ma non troppo. il malinteso democratico, Società editrice Il Mulino, Bologna 2019, p. 208, corsivi miei, miei commenti fra parentesi quadre. 
[3] Ivi, p. 209, corsivi miei. 





giovedì 19 settembre 2019

Notato come l’ ….























Notato come l’Iràn abbia minacciato di bloccare, o frenare, il traffico sullo stretto, se attaccato?, e, se così (e così è, perché l’Iràn ha dimostrato di poterlo fare, direttamente o indirettamente poco importa, se questo è il punto), come la fai la guerra, col petrolio che sale molto e la società in dissoluzione, con populisti e “sovranisti”, ed altri ottusi del genere, al massimo del consenso? System (alias: la Grande Prostituta [di “Babylonia” cosiddetta]): hai perso il consenso delle classi medie, cioè di quelle classi che ti han sostenuto per tanto e tanto e tanto tempo, e il cui picco di consenso è la fase post Seconda Guerra Mondiale[1]. E lepoca della cosiddetta “rivoluzione conservatrice”, infatti, non è stata altro se non un simile – ma non così grave – momento storico di caduta di consenso del System fra le classi medie. 
Tanto laggente di oggi non chiede che si “risolvano” i problemi, ma solo che si strilli di più (tale, dunque, la brutta fine che la famosa “democrazia” ormai ha fatto).
Dunque una ritorsione grossa, che han dimostrato di poter fare, metterebbe a terra il System, nelle cui vene fluisce petrolio. e poi?, che si fa? Ah ah …

E non è solo questione di quantità – peggioramento della tendenza alla crescente velocità (notata già illo tempore da Guénon nel suo La Crisi del mondo moderno, ed. or. Francia 1927, mille novecento venti sette!!) – ma di qualità: di cambiamento qualitativo; che cos’è che ha impedito di “poterci far qualcosa” al riguardo di questa tendenza?, e questo che ha “impedito”, che cosa, in effetti, è? Domandine, eh, ma davvero minime, però essenziali ... Insomma: da un lato c’è un difficile successo sul regime iraniano, dall’altro c’è la crisi mondiale che esplode con un petrolio ai massimi; il buon senso direbbe che non ne vale la pena, ma con un Trump al governo è persino possibile ….




Appunto crisi sistemica delle democrazie liberali, su questo ritorneremo = ritorna Remo, non Romolo ….


Il “Nwo” ha fallito[2], per cause della riemersione della Russia e del successo economico cinese: così è, ed è cosa fatta, i continui tentativi americani e “sovranisti” e populisti di voler “tornare a prima” peggiorano solo le cose.


Crisi sistemica delle democrazie liberali[3], in un blog dedicato a Federico II (di Svevia, non di Prussia) siamo in lacrime, proprio in lacrime ... ah ah ah ah … Ma, ovviamente, si ha qui abbastanza buon senso da sapere che, se vien fuori qualcosa di peggio, mica è buona cosa eh .... Anche se i presuntosi “parvenu” non fan più festa non c’è troppo da rallegrarsi, se – come sembra il solo Guénon si chiese illo tempore (mi pare Gurdjieff pure l’ebbe chiaro, ma nasceva non da una precisa analisi della situazione, bensì dal fatto che Gurdjieff non stimasse un granché la “natura umana” …) –, poi, il processo di caduta (motus in fine velocior) non si arresta, e si va verso scenari ancor peggiori.
Bisogna saper esser realisti e non limitarsi alla proiezione dei propri “desiderata” vari.
Non è più il calcio, ma il voto l’oppio dei popoli, ecco la “nostra” – folle – realtà ….
Non sanno che pesci pigliare, letteralmente, l’ho già detto qualche anno fa: era già chiarissimo: si chiama “crisi systemica” ....







Andrea A. Ianniello










[3] Cf.
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2019/09/quella-della-nascita-dello-stato-moderno.html. Va precisato, ancora una volta, che il populismo non è altro se non la piena emersione della democrazia come dittatura della maggioranza (A. de Toqueville), perché questo è, in sostanza.   












martedì 17 settembre 2019

“Quella della nascita dello stato moderno …”


























Quella della nascita dello stato moderno è un’interrogazione **implicita** sull’ “Origine” dello stato stesso, sulla sua “legittimità” cioè, “implicita” perché mai esplicitata, ma nata dalla crisi **nel** (cioè dentro, all’interno) “mondo della tradizione” occidentale; le risposte a tale crisi sono sempre state di tipo “pratico”, vale a dire ch’esse giammai hanno reso esplicito il punto “critico” iniziale, ma, invece, si sono concentrate – le “risposte” – sul “come fare” (“know how”) per aumentare la “performatività” concreta dello stato, in luogo di rispondere al momento “critico” iniziale, invece di corrispondere al problema dell’ “origine” dello stato.
In altre parole: lo stato moderno “non ha” origine, o, almeno, si rifiuta di discutere sulla sua “origine” – dunque sulla sua legittimità – per concentrarsi sulle soluzioni “pratiche” per rafforzarsi, anche senza “origine”, o, in apparente alternativa, dandola per scontata.
Traduzione: discutere dell’origine – = “chi/cosa” ti/ci ha fatto “stato” – è **il** “tabù” fondante lo stato moderno. E’ “il” tabù **fondante** poiché discuterne è **impossibile** nell’ambito della modernità stessa. 




Di conseguenza, la modernità non può che rimanere rinchiusa nel “cerchio magico” rinserrato attorno ad essa, come – si dice, si dice (questo sarebbe secondo Gurdjieff, il quale, però, afferma di averlo visto di persona: ma, secondo altri, sarebbe “fonte sospetta”; ora, come che sia, il paragone calza bene) – che accadesse ad alcuni yezidì.
E tale cerchio magico, ed insuperabile, è: “la” democrazia (che costruisce un’unità da una pluralità), il “popolo”, il consenso, la (o le) “libertà”, che vengono stiracchiate di qua e di là senza fine, ma pure senza esito. E di qui viene il populismo – o “i” populismi – con la sua ossessione per il “popolo” e la natura escludente della sua definizione di popolo, che, però, fa parte della democrazia sin dal principio[1], di conseguenza si tratta di una contraddizione interna al (e nel) sistema che domina il mondo da circa due secoli, più o meno, da quando si è operato, per mezzo della Rivoluzione francese, e non solo (e, si badi bene, non solo …), “un sensibile cambiamento di rotta”[2]. Tal “cambiamento di rotta” ha reso “il basso” il latore della legittimità, e non più “l’Alto”, il potere “viene dal ‘popolo’” e non più da Dio o da un gruppo scelto, comunque quest’ultimo venga poi definito. La modernità, lo stato moderno, è questo. Solo che, dal punto di vista storico, a parte alcune fratture (come la Rivoluzione francese) non è affatto vero che si è passati a tal “cambiamento di rotta” per mezzo di rotture, anzi, è vero il contrario. Il nucleo fondante dello stato moderno è nato dentro la tradizione occidentale, per mezzo di un complesso movimento di fattori concordi e discordanti, non semplice a descriversi e difficile da “dire in due parole”, come suol dirsi. Questo “dentro” è inaccettabile per i vari “tradizionalisti”, che hanno un “punto cieco”, a tal proposito. In ogni caso, è nota la teoria di F. Maraini, secondo il quale tre personaggi sono gli “emissari” del mondo premoderno: il Tennò nipponico; il Dalai Lama tibetano; il Papa cattolico. Ognuno di essi detiene il potere per ragioni diverse, ma ognuno di essi afferma di derivare questo potere da un’ “autorità superiore” e non umana: Il Tennò per via di successione dinastica, il Papa per successione apostolica, il Dalai Lama per una via molto particolare di successione “reincarnata”, per così dire. Ora però, se succedesse una qualche interruzione in queste “catene”, saremmo in grado di ripristinarle? No. Non saremmo nemmeno in grado di ricrearne altre, dunque? A fortiori. Ed è questo il punto, non da oggi, ma per lo meno da due secoli. Oggi solo degli spostati mentali o degli illusi possono affermare seriamente, senza timore di non esser creduti, che “il mio potere ‘viene da Dio’”, e questo è l’effetto della modernità, che ha spostato l’asse della storia ed inaugurato la legittimazione dal basso, per mezzo del popolo cosiddetto. Ma ciò ha posto il consenso in una centralità come mai prima. Non vi è una legittimità “data”, ma essa dev’essere “guadagnata” per mezzo di ciò che si fa, o si promette di fare, e, poi, di solito, non si fa, ma non importa: Vulgus vult decìpi, diceva il cardinal nipote di Papa Carafa (o, per lo meno, a lui si attribuisce questo detto).    

Ma torniamo alla politica moderna, di cui si diceva su, basata sul consenso e sull’effettività concreta, di qui la parentela stretta fra tecnica e stato ed economia moderni. Di qui anche il fatto – su questo Severino ha ragione, anche se sbaglia a voler mettere le religioni sullo stesso piano degli altri attori (o ex attori) del teatrino “globale” – che tutte queste potenze differenti (tra loro) abbiano sviluppato la tecnica credendo di poter signoreggiarla, mentre, in realtà, è stata la potenza della tecnica che si andata espandendo per loro mezzo … ed oggi le signoreggia
Chi ha la sovranità, secondo Schmitt: colui, o quella potenza, che gestisce lo stato di eccezione. Ora, il predominio della tecnica è tutto uno “stato d’eccezione”, ma, ed ecco il punto, non sono né gli stati né l’economia né qualsiasi altra forza oggi esistente a poter gestire lo stato d’eccezione: lo è, invece, la tecnica stessa. Dopo aver provocato lo stato d’eccezione, essa stessa se ne presenta come la risoluzione … paradosso solo apparente  

Due le risposte concrete che la storia ci ha consegnato (piaccia o non), al problema centrale del consenso e dell’effettività concreta: una di “sinistra” e l’altra di “destra”; quella di “sinistra” è basata sul concetto di “estensione”, di “tutela” e/o di “diritti”, ma sempre di “estensione” trattasi: quindi aumentare la “platea” e coinvolgere, insomma. La risposta di “destra” è la “legittimità” di Talleyrand: non ci s’interroga sull’ “origine” del potere politico (perché nella modernità ciò è “tabù”), ma si dice che è “legittimo” ciò che già lo era: in tal modo, si può mantenere in epoca moderna dei poteri di origine premoderna (come i vari regni dell’epoca, sec. XIX, o il Papato o il Tennò), ma non fondarne di nuovi. Il gioco di prestigio è stato questo, ed è durato sin troppo, le “destre” d’ogni risma e forma non avendo alcuna consapevolezza del problema fondante, né potendo averne. Vi son ostacoli formidabili sul cammino, perché solo se si abbia consapevolezza dei “nodi” lasciati sul campo dallo “sviluppo” moderno, né alcun Alessandro Magno c’è in vista, che tagli – una volta per tutte – l’ inestricabile “nodo di Gordio” che la modernità è, si può pensare di rispondere a tal gigantesco nodo.
Se un diverso assetto si può instaurare, o si deve confermare quello preesistente, nella mentalità di destra si deve ricorrere al “plebiscito”, cioè, di nuovo, al “popolo”: la “sindrome plebiscitaria”, con il suo corollario di super retorica sul “popolo” e la “fixe” per i referendum, è parte costitutiva della “destra” politica moderna, che si auto presenta come “tradizionale” cosiddetta, ma, in realtà, si basa “sul basso” esattamente come tutta la politica moderna, erede di quella “frattura” di cui s’è detto su.
In tal senso, fra “populismo” e “destre” vi è similarità e differenza al tempo stesso[3], nel senso che le “destre” sono “plebiscitarie”, il “populismo”, anche se simile alle destre, però è diverso; esso ha il senso “materico” della protesta: è il “popolo” cosiddetto – definito in senso escludente – versus le “élite”, sempre cosiddette, ché vera “élite” ha un altro senso.
Le “destre” non si oppongono mai – ma dico **mai** – al cosiddetto “popolo” ed alla sua ancor più iper cosiddetta ““volontà”” – sono meri desideri di massa ed opinioni dominanti, in effetti –, ma se il “popolo” non va in una certe direzione occorre condurvelo. Senza opporcisi, ma facendo leva sulle sue emozionalità di massa, e poiché più basse le emozioni di massa, tanto più sono diffuse, ecco che la scelta delle emozioni può essere scarsa.
Al populismo quest’ultimo punto, il “condurre” il “popolo”, cioè, in pratica gli è lontano, non del tutto quando giunge a governare eh, ma il populismo cosiddetto “puro”, al contrario delle “destre” populiste, si accontenta del muro fra cosiddette “classi dirigenti” e “popolo” cosiddetto, i “poteri forti” ecc. ecc., quella retorica che oggi ben si conosce, perché ha invaso tutto e tutti: alla faccia di chi crede che siano ancora le “sinistre” a dominare il dibattito pubblico[4]. Da un bel po’ non è così più, e la tematica dei “diritti”, anche se storicamente di “sinistra”, lo è oggi sempre meno, e quindi non aiuta ad enucleare la “sinistra”, qualsiasi cosa residuale oggi sia.
Finisce lì, però, il populismo “puro”, e quando si deve passare dalla protesta e dal muro contro muro  di “popolo” contro “classi dirigenti” ad un programma positivo, hanno delle difficoltà grandissime, come la cronaca dimostra.
Però ambedue le cosiddette “soluzioni” storicamente proposte, oggi, sono **inefficaci**: quella di “sinistra” è tramontata da tempo, come s’è detto varie volte su questo blog. Mentre quella di “destra” è in crisi, in realtà, ma non vista, **non** riconosciuta: di qui le false soluzioni, in realtà **dis**-soluzioni, proposte da varie forme di “sovranismo” – sempre cosiddetto tale.
Il “popolo” – cardine della legittimità “democratica” e “liberale” assieme, ma i due volti del democratismo danno al “popolo” ruoli diversi – è sempre una nozione basata sull’ esclusione, questo Mény lo mette bene in luce. Il “popolo” è “tutti” tranne altri, si compone dei cosiddetti “tutti” ad eccezione di “tutti” gli “altri” (questi ultimi definiti come i non cittadini sin dalla Costituzione o in altre modalità di “prassi”, se una forma scritta Costituzionale non si è pienamente formata per una qualche ragione).
Per fare un esempio chiaro: i cittadini di uno “stato” moderno saranno effettivamente votanti, ovvero parte del “corpo” elettorale; altri abitanti del territorio statale saranno … senza corpo, dunque … incorporei.
In altre prole: non votanti. Il risiedere su ed in un territorio non rende di per sé cittadini, salvo norme specifiche regolanti, che vanno però aggiunte: esse non sono costitutive, costituzionali, se del caso. Questo per la semplice ragione che “popolo” è nozione basata sull’esclusione. Tant’è vero che gli Imperi, non le Repubbliche, son sempre stati quelli che “danno la cittadinanza” erga omnes, che includono. E, di nuovo, questo è storia, sgradevole per il democratismo dagli anni Novanta (del secolo scorso) imperante, democratismo che ha subito l’avanzata del liberalismo per decenni, ma è storia. Può piacere o non. Nell’antica Roma si è dovuto piegare la Repubblica per poter, poi, davvero estendere la cittadinanza.  
Questo natura escludente del “popolo” fa sì che il “populismo” non possa, in alcun modo, essere un “incidente di percorso” della democrazia, ma, invece, sia la piena e completa realizzazione della democrazia come “dittatura della maggioranza” teorizzata da Toqueville[5].
La democrazia, ogni democrazia, frenata dal liberalismo, questo sì – perché questo è ciò che è successo storicamente, e, di nuovo, Mény ripercorre correttamente queste evenienze storiche – non può che schiacciare tutto. Se ciò non è successo storicamente era solo perché si limitava il “popolo” per mezzo di vari artifici “liberali” cosiddetti; il che non vuol dire che oggi, con gli strumenti social a disposizione di tutti, con la dittatura delle “doxa” – che Platone avrebbe aborrito – imperante ovunque, noi si possa, per mezzo d’artifici legali – “liberali” e costituzionali cioè – “frenare” questa deriva. Ciò è chimera pura. Oggi, dato che il fiume è troppo impetuoso per poterlo domare, l’unica cosa seria da farsi è deviare il fiume, non arginarlo. Dunque spingerlo nella sua deriva, ma in direzione meno “maggioritaristica”, direzione che, poi, e non a caso, è il “clou”, il centro, il punto nodale di ogni “populismo” che si rispetti. Dunque si deve fare proporzionale puro, senza sbarramenti di sorta.
A questo punto, si vedrà, non a caso, che i populismi si opporranno: perché il “maggioritarismo” è il loro nocciolo fondante. Qualunque populista che valga la “cassoeula” che mangi – taleggio e “bitto” non son altrettanto “probanti”, in tal senso … – sempre penserà: La majorité c’est moi.
Questo “maggioritarismo” è la loro cifra fondante.
Molto divertente l’argomento che da costoro sarà, di certo, usato: la governabilità. Il proporzionale “puro” metterebbe in questione la governabilità. Ma come, voi che mettete in questione la governabilità, ora la tirate in ballo … ? Qualcosa mi rende scettico al riguardo … E’ come se il diavolo ti dicesse: va’ in chiesa. Qualche domandina vogliamo farcela? Anche se oggi si nota la totale insensibilità non dico alle contraddizioni, ma pure solo alle incongruenze, rimane che c’è qualcosa di stonato.  
Una simile obiezione fa capire tante cose: che per i populismi non sono le istituzioni che assicurano la governabilità, ma sarebbe “direttamente” il popolo, e cioè la piena negazione delle democrazie “liberali” che inevitabilmente “disciplinano” la cosiddetta “volontà” popolare – alias: l’umore cangiante del popolo e i suoi perduranti tabù e fissazioni –, per cui la mediazione, e dunque la rappresentanza (ché questo è, alla fin fine), non hanno alcun senso. Notiamo come anche membri del cosiddetto “establishment”, in realtà, abbiano in sostanza la stessa mentalità, seppur in forme meno estreme dei partiti “populisti ‘puri’”, per cui su questo Mény centra la questione: il vero problema è che “i” populismi hanno influenzato e colorato di sé l’intero clima pubblico delle democrazie un tempo “liberali”, modificando quel clima.
Ma la questione diventa: se così è già ora – senza uscircene con i soliti, e vieti (e soprattutto inutili) appelli al “se non faremo così, allora …”, allora niente, perché già ci siamo dentro – quali mosse rmangono. Non certo l’arroccarsi dentro le istituzioni liberali allo sfascio, anche, se non soprattutto, grazie a quella tecnica che il liberalismo diceva essere “cosa buona e giusta” e che lo ha distrutto, divertente nemesi.
Quando un fenomeno degenerativo ha preso una forza tale che non è più possibile combatterlo – senza per questo credere di poter “cavalcare la tigre”!![6] – hai due opzioni, concrete, reali, niente sogni: 1) lo lasci andare per la sua via; 2) attui la diversione, cioè, con metodo “aikidò”, puoi deviare il flusso, “girarlo” per così dire.
Oggi concretamente ciò significa proporzionale puro, ma è molto difficile che succeda. Ciò a causa di parti non piccole dell’establishment che sono influenzate da i populismi, e su questo Mény ha ragione: il populismo ha cambiato il “clima” delle democrazie dette “mature” e che io, invece, chiamo “sfatte” o democrazie in dissolvimento.  
Molto difficile che capiscano che cosa ci sia in gioco e si comportino di conseguenza: questo non solo a causa dell’influenza detta, ma pure a causa di pregiudizi ideologici; eh sì, la democrazia – il democratismo – è un’ideologia come un’altra, non è la “salvezza” dell’umanità né “il” sistema assoluto, che qualcuno avrebbe scoperto una volta per tutte[7]. Per cui è molto facile che o si vada in rincorsa della deriva “maggioritaristica” o ci si arrocchi nelle istituzioni liberali ormai svuotate. Una scelta errata in ogni caso.
Al livello di forza che questi fenomeni han preso, è futile credere di poterli “governare”, tanto più quanto meno le istituzioni abbiano forza vera, rose come sono dal capitalismo sovranazionale e, insieme, dallo sviluppo tecnico che ha corroso ed indebolito le classi medie. Occorre andare nella direzione della discesa, cercando di deviarne gli obiettivi. 
Père Ubu: Cornoventraglia!, non avremo demolito tutto se non avremo demolito anche le rovine! Per questo, non vedo altro modo che equilibrarle in begli edifici ben ordinati[8]. Insomma, l’unica via d’uscita concreta è “ubuesca”, è patafisica … Ordina le rovine, poni ordine fra di esse: sembra paradossale, e lo è.
Quel che nessuno può fare è ripassare dalle rovine alle costruzioni di prima (tranne avere un progetto di cambiamento dell’intera “città degli uomini”, ed oggi nessuno ce l’ha!!), nessuno può farlo, né populista né membro dell’establishment. Nessuno.
Si può prender atto di ciò o far finta che non sia così, chiaro che nell’epoca della simulazione tutti fan finta, ma è altrettanto chiaro che, così, la crisi non può terminare. Mai.

 

 

 

 









Andrea A. Ianniello

 

 

 

 

 





[1] A tal proposito, cf. Y. Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, Società editrice il Mulino, Bologna 2019. Al di là dei molti, giusti, rilievi di tal libro, rimane che il “bricolage” caratteristico delle democrazie, sempre dal punto di vista di Mény, non basta nel risolvere un crisi che tocca, per la prima volta, il loro nucleo fondante: la rappresentanza. Su ciò, cf.
[2] J. Robin, René Guénon. Testimone della Tradizione, Edizioni “Il Cinabro”, Catania 1993, p. 27. La stragrande maggioranza dei “tradizionalisti” è rimasta all’anti Rivoluzione francese, insomma alla stagione della “Restaurazione” post 1815, questa è la loro mentalità, poi “tradotta” e scagliata contro altri “nuovi” – o cosiddetti tali – “spaventapasseri”, uno dei più grandi dei quali è stato il famoso “comunismo”, tolto il quale – ma che goduria averli visti senza oggetto d’odio!! – ora si son riciclati sul e nel “popolo”, referente d’ogni tutto, la grande parole “di moda” oggi. Solo Guénon si chiedeva – o, almeno, personalmente conosco solo quest’autore che se lo è chiesto – che cosa dovesse succedere, una volta che la fase più “positivistica” si fosse chiusa, come poi è successo. Per costoro, per i “tradizionalisti”, era solo il “materialismo” o ancor oggi lo è lo “scientismo” che son oggetto di riprovazione. Essi si costruiscono una simia philospiae, che amano poi incendiare in quegli “auto da fé” che ne incendiano gli animi …
[3] A tal proposito, cf. Y. Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, cit., pp. 181-202, cioè l’intero cap. 7, intitolato “Radicalizzazioni: dalla protesta all’estrema destra” non a caso. Secondo Mény, la frattura crescente, negli ultimi tempi, è quella fra liberalismo e “democrazia”, che si erano uniti nella lunga stagione precedente, invece. Possiamo vedere questa lotta – fra una democrazia “illiberale” e un liberalismo poco democratico, anche se non “anti” democratico, dunque la relazione fra i due termini non è “speculare” – negli eventi recenti, o recentissimi, qua, in Italia.  
[4] A tal proposito, sempre cf. Y. Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, cit., e i molti passi dove dimostra quanto il dibattito pubblico, anche da parte dei partiti dell’ establishment, sia oggi dominato dalla retorica populista. Giustamente, tuttavia, Mény redarguisce ogni volta i membri dell’ “establishment” per la loro storica sottovalutazione dei populismi, di “destra” o “sinistra” poco conta, anche se la parentela è maggiore con le “destre”, per i motivi suddetti.  
[5] Cf. A. de Toqueville, La democrazia in America, Cappelli, Bologna 1957.
[7] “L’Europa e l’America, con le loro radici culturali gemelle che affondano nella tradizione filosofica greco-romana e giudeo-cristiana, non hanno scoperto la formula magica del buon governo valida al di là di ogni divisione culturale”, in Sol Levante, Monografia di “Internazionale” n° 133 del 7 giugno 1996, p. 52.
[8] A. Jarry, Ubu. Ubu Re. Ubu Cornuto. Ubu incatenato. Ubu sulla Collina, Adelphi Editore, Milano 1977, p. 108, maiuscoletto in originale, corsivi miei.