domenica 22 settembre 2019

OCCASIONI DI DISCUSSIONE, 1: LE CONCLUSIONI del libro d’Y. MÉNY ….


























Secondo il già citato Y. Mény[1], vi sono solo due conclusioni alla “deriva” impressa dal “populismo” (nato non per caso negli Stati Uniti d’America!).


Le Conclusioni del libro di Mény.
Dopo aver sottolineato come i populismi, seppur non vincendo che in pochi paesi – fra cui l’Italia – però non abbiano dato buona prova di sé, promettendo sempre molto di più di quanto poi possano effettivamente realizzare, però Mény, che ha prima in varie occasioni criticato come il populismo sia stato, e assai colpevolmente, sottovalutato, sottolinea come un grosso successo esso abbia però avuto: ha influenzato il “dibattito” pubblico fino ad imporre la sua “agenda” politica, di fatto, dominata dalle istanze populistiche.
Poi si chiede degli esiti di quest’ondata populistica, seppur in parte frenatasi ma non per questo ininfluente, come s’è appena detto. E scrive: “Al di là delle ricadute del populismo sui «professionisti della politica», ci si può chiedere quale sarà il suo impatto sulla relazione tra classi dirigenti e cittadini o, in termini politici, tra rappresentanti e rappresentati, tra governi e individui. L’ utopia populista del «governo del popolo da parte del popolo», infatti, ha solo due possibili esiti: quello dell’emergere (malgrado la loro ostilità sul piano dei princìpi) di nuove élite fuori dalla ristretta cerchia dominante o quella dell’affermazione di un leader che sia la personificazione della volontà popolare [in Italia, molto esattamente, i 5 Stelle e la Lega, rispettivamente: il che dimostra che l’Italia viene usata come ballon d’essai per vedere gli esiti della “vieille vague” del populismo], fino a che sarà possibile identificare una «volontà generale». Se il populismo portasse alla messa in discussione e alla rigenerazione delle élite[la vedo difficile, più che altro si tenta di cooptare certi settori populisti per ottenere una parziale, molto parziale, modifica delle “classi dirigenti”, entro “limiti determinati”, in anticipo], la scossa potrebbe anche essere utile, a condizione che i nuovi arrivati accettino i vincoli del sistema rappresentativo [ma questo non va molto d’accordo con quale che lo stesso Mény ha scritto in pagine precedenti, e cioè che nessun populista oggi è contro la democrazia “formale”, ma che vogliono correggerla o in senso “diretto” (tipo 5 Stelle) o in senso presidenziale (la Lega), dove si mostra con chiarezza la deriva “maggioritaristica” dei populismi]. Si tratterebbe d’una sorta d’evoluzione alla Syriza, esemplare passaggio dall’utopia al duro compromesso con la realtà. Se, al contrario, arrivasse l’uomo della provvidenza, la storia è fin troppo ricca d’insegnamenti sulle illusioni prodotte dai salvatori politici, di cui l’America latina ha fatto e fa ancora un grande uso [si tratta questo del progetto della Lega in Italia, per ora fermato facendo leva intelligentemente sull’altro “polo” del populismo, ma è solo congelato, considerato quanto l’Italia sia sempre stata facilmente trasportata dalla sua fissazione per “il salvatore della patria”, che di soliti fa danni, ma si sa che le lezioni storiche non vengono mai apprese, in particolar modo in Italia]. Non ci sono altre opzioni [e questo è vero: vuol dire che il solo “arrocco” è perdente, non porta da nessuna parte, ed anche questo è vero, di qui l’idea di una separazione del fronte “sovranista” in cambio di una – relativa, però eh – “apertura” nel campo dell’establishment che oggi può esser solo europeo, non più solo italiano, o francese o checché sia].
Nemmeno le speranze salvifiche affidate alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione [i 5 Stelle] offrono alternative credibili. Esse consentono mobilitazioni puntuali, mirate ed efficaci, che fanno riscoprire il fenomeno dello spontaneismo politico e il ruolo delle emozioni collettive, che non dovrebbero essere né disprezzate né sottovalutate […]. Tuttavia, in politica […] il controllo delle emozioni è una virtù. Esse […], se non temperate e guidate, […] rischiano di portare via tutto come un fiume in piena”[2].
Quel che stan tentando in questo momento in Europa, insomma, è precisamente di cooptare una parte dei populismi, diversi fra loro per natura, allo scopo di rinnovare almeno in parte le asfittiche, polverose, polverulente, rapidamente degeneranti classi dirigenti europee: questo è, nel momento in cui si scrive.
Ma è altrettanto chiaro che questo non è in alcun modo un’ “alternativa” al populismo, ma, invece, un accoglimento – parziale, forse troppo parziale, ma, nonostante tutto, tale – delle istanze populistiche. Quindi: nessunissima “alternativa”, ma soltanto un accoglimento parziale, cosa peraltro normale. Le classi dirigenti che non sanno rinnovarsi – e lo ripete anche Mény – sono destinate a passare, e pure a passare male.
Ma tutto ciò dà da pensare, se si vuol davvero costruire una effettiva forma d’alternativa a ciò che, a dire il vero, colora ormai di sé l’intero “dibattito” pubblico, come le tematiche, di “destra”, che, ormai, dominano l’arena pubblica. Per certe “destre”, che volevano uscir fuori dalla “nostalgia” per i fascismi e rinnovarsi e riesercitare un ruolo nel campo pubblico, il populismo è stato un cavallo di Troia. Non ne discende, però, che il populismo sia necessariamente di “destra”, ma solo che le “destre” sanno aver più a che fare, essendo più lontane da un “referente sociale”, dall’illuminismo e dalle sue illusioni, più lontane dal dover “rappresentare” in modo preciso questo o quello, per cui l’indeterminato “popolo” gli va molto più bene, ma non è vero il rapporto inverso.   
Sullo sfondo vi è questo problema – in realtà si tratta del generatore del populismo, come da me detto poco qui sopra –: “la sfida più grande non è quella che hanno davanti le democrazie nazionali, che lungo tutta la loro tormentata storia non hanno mi smesso di affrontare crisi. La difficoltà maggiore che oggi appare insormontabile, e, in ogni caso, irrisolta è quella dell’armonizzazione tra il livello nazionale e quello globale o, perlomeno, sovranazionale.
Come si supera la maledizione westfaliana che confina la democrazia solo entro i confini delle nazioni? Dovremo proprio rinunciare alla «democrazia sovranazionale» accontentarci di scegliere tra democrazia nazionale e «democrazia globale»?”[3].
A quest’ultima domanda non si può rispondere pienamente no, ma di certo non si può risponder
Di fatto, vi è oggi una “scelta” più o meno secca, nel senso che la scelta rimane, ma con delle mediazioni, forme “miste”, per così dire. Ma rimane che la “democrazia ‘sovra nazionale’” – non “globale” – oggi è largamente chimerica. O, per meglio dire: essa è chimerica se e solo se si mantenga fermo il quadro delle democrazie “liberali” … capito il punto …?
Se la difficoltà è “insormontabile”, come dice Mény, allora ci si deve adattare al fatto che quel che appena dopo sostiene lo stesso autore francese, che cioè la democrazia possa reinventarsi in altre forme – una “democrazia 3.0” (e mo’ facciamo x.0, così non c’è fine alla serie di numeri prima dello zero, ma è chiaro ed ovvio che tali artifici verbali non possano risolvere proprio niente) –, non può, né potrà mai, aver luogo.
Insomma – per tornare a noi – ci si pone la seguente questione: siamo di fronte ad una crisi sistemica delle democrazia liberali? O solo ad un suo “passaggio interno”, verso una forma “3.0”, per dirla con Mény? Ecco il tema di fondo che si pone, oggi.
La “maledizione westfaliana” è consustanziale alla nascita dello stato moderno: ecco il punto. Pensare di superarla e rimanere entro il quadro delle “democrazie liberali” – pur con tutto il “bricolage” (Mény) che pure le caratterizza – è chimerico. 






Andrea A Ianniello













[2] Y. Mény, Popolo ma non troppo. il malinteso democratico, Società editrice Il Mulino, Bologna 2019, p. 208, corsivi miei, miei commenti fra parentesi quadre. 
[3] Ivi, p. 209, corsivi miei. 





3 commenti:

  1. Quel che chiamano “popolo”, in realtà va chiamato per ciò che è: “massa”, in altre parole. Che tale “massa” – “peso” – sia composta in larga parte da membri, impoveriti, delle “classi medie” non n cambia la natura.
    Essendo massa, è “maggioritaristica” per definizione. E qui, dunque, si svela il volto della democrazia, della sua natura profonda di “dittatura della maggioranza”; questo essa – democrazia – lo è **sempre** stata e **sempre** lo sarà, semplicemente in altri momenti storici questa sua natura non si mostrava così apertamente come nell’attuale periodo storico. Ecco tutto.




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  2. Qualcuno ha paragonato Draghi e De Gaulle: paragone sbagliato **nella sostanza**, ma perché? Perché De Gaulle era contrario ad un’Europa **sdraiata** verso gli americani, cosa che Draghi al contrario rappresenta; quindi fra i due non vi è alcun paragone possibile.







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