domenica 4 agosto 2019

CONVERSAZIONE CON Paolo BROCCOLI, su DUE temi: sulla SOVRANITÀ, e sulla “RAPPRESENTANZA”









                              








Il silenzio sulla paura. Nel xvi secolo non è facile entrare di notte ad Augusta. Montaigne, che visita la città nel 1580, rimane stupito di fronte alla ‘porta segreta’ che, per opera di due custodi, filtra i viaggiatori che arrivano dopo il calar del sole[1].


Le supernove, dicono gli astronomi, sono stelle che, partendo da uno stato stazionario, per incubazione nel loro interno di un processo divergente, raggiungono rapidamente un’altissima luminosità, conseguenza di un processo esplosivo su larga scala, che porta alla disseminazione di materiale stellare nello spazio. Il loro splendore intrinseco può raggiungere un miliardo di volte quello del Sole e son visibili ad occhio nudo anche di giorno. Si tratta di un evento così raro, che nella nostra galassia se ne ricordano a memoria d’uomo solo 7, l’ultimo dei quali risale al 1604. L’analogia con la storia recente dell’Europa occidentale […] mi è sembrato […] suggestivo. Poiché l’Europa occidentale, nel suo recente passato, grazie allo sviluppo della cultura e dell’industrializzazione, accentuatasi nel corso del secolo xix, apparve anche ai contemporanei, come appare oggi [no, oggi non più, l’Europa occidentale è un continente morto, dal 1978 al 2018, in quarant’anni “topo”, vissuti come un topo, l’Europa è morta], un crogiuolo gonfio d’inventiva, di scoperte, di poesia, d’ingegno e di violenza compressa. La fine dell’Ottocento rappresenta l’acme di questo processo di travaglio evolutivo, che sembrava dovesse durare in eterno. La prima guerra mondiale (ancor più della seconda) apparve un evento distruttore di natura irreversibile, una vera esplosione, che sconvolse i precedenti equilibri […]. Da allora […] l’Europa occidentale cominciò a declinare sul piano materiale e sul piano morale [dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, solo il primo declino fu fermato e invertito, fino ad avere difficoltà anche nel far questo]. La caduta dell’Europa occidentale è un evento grandioso [e così andrebbe esaminato, questo libro è tra i pochissimi che cerca di darne una visione sintetica, come processo complessivo], che ha due soli precedenti negli ultimi millenni: il crollo dell’Impero romano e il declino della potenza islamica [il libro è del 1978, l’anno successivo, il 1979, vi sarebbe stata la Rivoluzione iraniana, su base islamista, scossa al modo islamico perché risorgesse, con scarso successo però: le “copie” non bastano]. Perciò è necessario narrarla con una visione sintetica fortemente dinamica. Non si tratta infatti di una serie d’eventi poco discosti da una generica posizione d’equilibrio, ma di una vera disgregazione, di cui è possibile tracciare un bilancio provvisorio, perché l’evento è già lontano nel tempo”.
(M. Silvestri, La decadenza dell’Europa occidentale, Einaudi editore, Torino 1978, pp. v-vi, corsivi miei, mie osservazioni fra parentesi quadre: appunto, processo esplosivo, che è il copione che oggi tanti attribuiscono all’Europa e al mondo, quando invece noi veniamo dopo l’esplosione, e quel che vediamo oggi son processi d’ implosione, cioè qualitativamente differenti)













La modernità è nata dalla paura, e, nella paura, sta “in Fine” affondando.

“Il silenzio sulla paura” e sulla sua centralità nella modernità è un classico; diciamolo chiaro: la paura è la molla fondante la modernità. Non è dunque vero che modernità sia la nemica della paura, la fuoriuscita dalla “minorità”, con le sue paure, quanto invece la maschera posta sulla paura, perché non la si veda, senza però mai poterla cancellare. Ed ecco che essa rispunta fuori, ogni volta, rievocata dal blackout anglosassone dove la si ripone, e dov’essa raggiunge il massimo della sua potenza, finché, incontenibile, sembra esplodere dal “nulla”: ma no, non è dal preteso “nulla” ch’essa riesplode, quanto invece dal fondo stesso della pretesa “razionalità” delle relazioni sociali, “razionalità” che ha fatto parte solo e soltanto della mentalità di un’esigua minoranza. Quest’ultima ha, poi, preteso di poter “dominare” le masse, ma, Baudrillard docet, le masse stesse si son assorbito il preteso dominio. Di qui la massima coazione al controllo nel momento stesso in cui tutto crescentemente sfugge. Per esser ancor più chiaro: la modernità ha evocato il fantasma della paura, ma non è in grado di dominarlo, perché nulla è più potente della potenza dell’illusione!
Ma veniamo all’ Introduzione, precisando che le note a pie’ pagina sono note bibliografiche e di commento, mentre quelle finali sono di approfondimento, per chi vorrà farlo. La materia trattata di seguito è incandescente ma nello stesso tempo evanescente: di qui uno stile necessariamente complesso. Ringrazio sin d’ora chi vorrà ponderare questa conversazione.
  




Introduzione

Primo punto. Non è un “dialogo”, ma una “conversazione aperta”, poi rielaborata da me, col consenso dell’altro conversatore. In tal senso, quella di quest’anno (2019) è diversa dal precedente dialogo (del 2017), strutturato in domande e risposte, cf.
La scelta della forma della conversazione è voluta. E’ molto diffuso un certo “dialogismo” ad oltranza, come se il “dialogo” fosse di per sé stesso garanzia di comprensione, come se il dialogo fosse di per sé la soluzione dei problemi. Nessuno di questi due assunti resiste ad una critica un minimo serrata. Anzi, G. Colli ha dimostrato come il “dialogo” ellenico fosse un mezzo di predominio agonistico! Altro che “ricerca della verità”!
Con le belle storielle sul “dialogo” l’Occidente ha dominato il mondo, ma non sé stesso, fino al punto di creder davvero che il dialogo fosse un mezzo di “comprensione”, fino al punto di credere di aver trovato “il” metodo (che sarebbe quello democratico[2]) per avere una cosiddetta “unità”, ma quel che ha ottenuto è non solo aver diviso il mondo, ma di aver diviso anche sé stesso da sé stesso. E il risultato è stato il generare un Oriente che, avendo studiato alla scuola dell’Occidente, sta presentando il conto. Ah, Guénon considerava tutto ciò inevitabile, nel senso del “male necessario”[i]. Qui dovremmo aprire una parentesi sul tentativo di Evola di “tradizionalizzare” il fascismo[3], punto dove fra lui e Guénon si aprì uno iato che non si risolse più, nonostante, appunto, i tentativi di “evolizzare” il “libro fondamentale” di Guénon, non a caso intitolato: La Crisi del mondo moderno. La posta in gioco era, per l’appunto, l’uscita – o non uscita – dalla “crisi del mondo moderno” che si era ormai definitivamente aperta dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, che funge da spartiacque definitivo. Lo Stato visto come “gerarchia” sembra l’unica cosa che interessasse ad Evola, ma è il punto decisivo che non va: la profonda sottovalutazione della radicalità della modernità e della frattura che essa ha generato, da parte di chi pur se ne diceva critico “radicale”, ma quello che, come tutte le destre cosiddette “estreme”, non han mai compreso, oppure hanno largamente sottovalutato, è stata proprio tale “radicalità”. Se fosse bastato mettere un po’ di “gerarchia” e un po’ di “popolo” nella modernità, facile sarebbe stata l’opera. Ma non è affatto così. La “malattia “popolo’” è la “cifra” dell’illusone fondante le “destre”[4], non meno illuse,  non meno moderne della “sinistra”.

Secondo punto. La borghesia non ha “politica”, politica e borghesia son un ossimoro: “La storia delle città occidentale […] fu variegata e complessa, poiché c’era la Chiesa e c’erano i signori. Organizzare le città, assicurarle alcuni diritti e difenderla fu […] spesso una questione difficile. Si dovette inventare parecchio a tutti i livelli (amministrazione, esercito, diritto). La lunga storia delle città è disseminata di compromessi, di negoziati, di rivolte. […] Accanto alle città-Stato ci fu anche una Confederazione di città mercantili, come la lega anseatica, che riuscì ad estendere il proprio raggio d’azione fino a Stoccolma, Riga e Novgorod. Nello stesso periodo genovesi e veneziani colonizzavano il Mediterraneo. In Francia la monarchia si costituì appoggiandosi alle città (e lo Stato moderno è nato evidentemente nelle città). In breve, dall’XI al XIII secolo l’Europa visse un gran fermento del quale il borghese fu l’attivatore. E’ bene precisare con Groten  che ‘non tutti gli abitanti di una città erano “borghesi” in senso stretto’. Gli autentici borghesi erano gli abitanti ‘che godevano di tutti i diritti previsti dalle usanze della città e che in genere erano proprietari di una casa e di un terreno’. ‘Il gruppo dei borghesi comprendeva solo una piccola porzione della popolazione urbana, ma cionondimeno ne divenne il gruppo sociale dominante’. Durante la sua lunga storia la borghesia ha condotto un’azione che è stata solitamente definita politica. Una definizione in un certo senso giustificata, dal momento che questa parola designava presso i greci ‘l’arte di governare la città’. Tale denominazione, però, può essere ingannevole, se si ammette che una vera politica deve avere come fine l’interesse generale. Fare politica, nel senso nobile, significa lavorare alla realizzazione di un progetto sociale e culturale; significa dunque far riferimento a una determinata concezione dell’uomo. Ora, il borghese strettamente inteso faceva politica? Il nostro gruppo di ricerca ha preferito dare una risposta negativa. La sola passione profonda del borghese […] fu quella d’organizzare il suo universo sociale in funzione delle esigenze del commercio. I suoi ideali si chiamavano profitto e rendimento. Tutto ciò che egli poteva concepire come strettamente ‘politico’ era un insieme di pratiche di gestione, o, se si vuole, l’arte di far funzionare dei mercati nel modo più lucrativo possibile. Produrre, vendere, investire, consumare: ecco a che cosa si riducevano le sue competenze e le sue aspirazioni. Il borghese, fin dalle origini, ha concepito l’organizzazione sociale e giuridica della sua città con uno spirito essenzialmente utilitario […]: i padri fondatori dell’Occidente moderno hanno, fin dall’inizio, subordinato le iniziative cosiddette ‘politiche’ a considerazioni economiche”[5].
Venendo ad un vecchio libro di Cacciari – uno dei suoi migliori – si può continuare la discussione sulla borghesia e sullo stato borghese. Si parte da Hobbes, ed è chiarissimo il riferimento a C. Schmitt: “Il soggetto, in Hobbes, produce il suo stesso assoggettamento. Nel fondare l’inviolabile convenzione dell’assoluta Sovranità, il soggetto si realizza come assoggettamento.
Questa dialettica garantisce la libertà soltanto come determinazione del diritto privato [decisivo questo punto], come libertà di possesso [idem] – la quale, dunque, non può darsi che grazie alla costituzione del Rappresentante assolutamente sovrano [stiamo capendo che siamo qui al centro della questione della “rappresentanza”??, non credo proprio, vista la stoltezza dominante]. E’ rispetto a queste determinazioni [che sono la “prima fase della modernità” (Guénon), cioè quella fondativa, quella non percepita] che Hegel compie una ‘profonda lacerazione’ [frase di N. Bobbio] nel tessuto del sistema giuridico. […] Il potere va inteso come potere della libertà, realizzazione della libertà nel soggetto […] La prima lacerazione che Hegel opera del tessuto del sistema giuridico riguarda la sua caratterizzazione della società civile in quanto società borghese. […] Quando si scopre che lo Stato hegeliano è lo Stato della società borghese non scatta alcun meccanismo immediatamente sintetico, ma, anzi, soltanto a questo punto, comincia a chiarirsi la struttura aporetica specifica dei rapporti sociali e istituzionali moderni”[6].
Quest’accenno alla sovranità c’introduce ai temi della presente conversazione. Si noti – e sottolineo – come Cacciari parlasse di “inviolabile convenzione”, cioè che alla radice della sovranità moderna vi è una convenzione supposta inviolabile (che il “pensiero negativo”, che Cacciari avrebbe studiato di seguito, avrebbe invece rimesso in questione). A questo punto Cacciari faceva riferimento, a riguardo del concetto di produzione, a Dimenticare Foucault di Baudrillard, da me citato in un precedente post, un libretto tanto piccolo di dimensione quanto “pesante” come riferimenti e significato[7].  
Lo stato borghese moderno è, dunque, uno stato che non può esser “totalità”: esso è di parte, ma fonda la “libertà” di “tutti”, che è un’aporia tanto clamorosa quanto non vista, caratteristica di tutta la modernità, modernità destinata “ad accumulare contraddizioni senza poterle vedere”[8]. Al riguardo del “Nodo di Gordio” ricordo qui una bella discussione fra Schmitt e Jünger, avvenuta negli anni Ottanta[9].

Terzo punto. Il termine stesso “la conversazione” mi ricorda un bel film, “La conversazione” (1974), di F. Ford Coppola, in particolare la scena finale dove c’è G. Hackman che suona il sax – scena che merita un ricordo[10] –: si era da poco iniziata quella Grande Crisi energetica (cominciata l’anno prima, il 1973), la cui risposta sarebbe stata quella serie di cambiamenti detta “globalizzazione”, cioè “il sistema di simulazione di massa” (Baudrillard), il System della “Grande Prostituta” (come lo chiamo), sistema che oggi vediamo vacillare, in crisi, nelle cui vene scorre petrolio. Ricordiamo questi dati storici, anch’essi fondamentali per poter ben inquadrare le cose.
Iniziava la massiccia informatizzazione: le “sinistre”, sinistrate, legate ai vecchi quadri marxisti e dimentiche delle lezioni marxiane sulla natura “non naturale”, dunque costruita, del sistema capitalistico, venivano colte di sorpresa: di lì un declino irrimediabile.
Crollava pian piano l’epoca di massimo fulgore del “riformismo incrementale” che richiedeva una fase potentemente espansiva: quella dal 1945 al 1973-74 (Wallerstein). Per quest’ultimo, il culmine della crisi ci sarebbe stato (scriveva negli anni Novanta!) negli anni 2000-2025, i “nostri” cosiddetti “favolosi”, in realtà orrendi, anni, i peggiori mai visti, dove tutti gli indici, anche culturali, ambientali, strettamente umani ed antropologici, son giù
Dopo il 2025 per Wallerstein si sarebbe entrati in un altro sistema, cosa giustissima, sistema che, però, secondo lui – e si ribadisce che scriveva negli anni Novanta! – era impossibile da prevedere, pur presentando dei quadri probabili, a seconda se avessero vinto delle forze relativamente portatrici di un’idea di un qualche “ordine mondiale” qualsiasi, oppure avessero vinto le forze “del caos”, come potremmo chiamarle oggi, quelle che, poi, hanno vinto sinora.

VVV
V

Riassumo qui dei punti fermi, che son tre: 1) la centralità della paura nella nascita della modernità: la modernità è il sogno-incubo del “controllo”, perché la sua molla è stata la paura; 2) la sovranità moderna come auto referenziale, nata da una circolarità logica: qui è la frattura con la Traditio, perché il sogno-incubo del controllo totale nasce da un potere che non ha la sua legittimità da un’autorità superiore, ma solo da sé stesso[11], e, di conseguenza, deve dimostrare la sua legittimità in modo pratico ed operativo; 3) il referente (cioè “Il” sociale[12]), cominciato con la Rivoluzione francese, referente che va oltre la “nazione”: e cioè la “libertà” come “auto coscienza” (Hegel), che implica la “rappresentatività”: dunque il legame fra “libertà” e “nazione” si basa sulla credenza secondo cui l’ auto-coscienza di un “popolo” (cioè la “nazione”) è la sua “libertà”. Il che è, a sua volta, di un’ “aporia” terribile, tremenda, anche se non vista.
Questi tre punti son costitutivi della “modernità”. E questa è la “genealogia della modernità”.

Quanto alla modalità “pratica” di svolgimento della conversazione, essa si svolge come il “sunto” di una effettiva conversazione, con frasi di uno o dell’altro – chiaramente specificandone l’autore – ma senza domande né risposte, ché sarebbe un dialogo, cosa esclusa, come s’è detto. Le frasi di Paolo Broccoli saranno citate, fra parentesi tonda, come “PB”; le mie con: “AAI”, sempre fra parentesi tonde.
 (AAI)



VVV
V



Conversazione sulla sovranità e sulla rappresentanza


Il nostro tema d’inizio è la sovranità nella modernità. Ora, la sovranità nella modernità “è” lo stato moderno, e quest’ultimo, nella modernità sempre, si esprime, si sostanzia, si rappresenta, come sovranità “più” popolo “più” territorio. La sovranità moderna, in realtà, è frutto di una crisi, molto profonda: quella delle guerre di religione. Non si potrà mai sottolineare abbastanza la centralità di quella crisi, che ha dato l’origine alla modernità politica. Certo, vi erano dei fatti precedenti, molto importanti, senza i quali quest’evoluzione sarebbe stata impossibile, tuttavia una data è fondamentale: segna un evento irreversibile. Per dare una “data” d’inizio della sovranità moderna si può citare i due Trattati di Westfalia, nel 1648: nasceva la sovranità moderna, prendeva inizio lo stato moderno, come distinto da ogni forma precedente. Vi erano state delle avvisaglie con Martin Lutero: con lui già ci si avvicina allo stato moderno, ma le forme vi erano ancora quelle precedenti. La crisi data dalla guerre di religione fu crisi vera: le forme statuali precedenti non erano state in grado di regolare la crisi che era scaturita. Di qui la pressante necessità di una forma statuale diversa. Anche in Machiavelli vi sono delle avvisaglie di stato moderno, ma la forma non è ancora precisamente quella della sovranità moderna.
(PB)


La data del 1648 funge da vero spartiacque, anche se il processo si attuerà pienamente solo del tempo dopo, così come nacque prima, e qui colgo il tuo accenno a Machiavelli. Secondo Leo Strauss, è con Machiavelli che, dal punto di vista concettuale, si opera la “frattura” fra sovranità medioevale – tipo Federico II di Svevia – e sovranità moderna in senso specifico[13].
Si sottovaluta, però, la sfida di Lutero – del “secondo” Lutero – quando affermava che il papa era “l’Anticristo” (ed ovviamente i cattolici dicevano che invece era Lutero ad essere “l’Anticristo”!) perché poneva in questione l’ origine della sovranità. La modernità nasce da questo “dubbio radicale”. Ogni sottovalutazione della sua radicalità fa “ridere i polli”, come suol dirsi, anche se a questi giochetti ci si è dati con tanta foga: il fallimento dei “fascismi” (plurale) sta in questa sottovalutazione: il fallimento dei tentativi di “tradizionalizzare” i fascismi (plurale) sta, di nuovo, in questa sottovalutazione della radicalità dell’interrogazione moderna, interrogazione cui la modernità stessa non è in grado di rispondere. Si sta capendo la radicalità di questa mia risposta alla radicalità dell’ “interrogatiomoderna?? Non credo, non credo proprio …
Son solo moderni, che dimostrano di attribuire ad un’epoca passata il proprio modo di pensare, coloro che credono che Federico II dubitasse della legittimità della sovranità papale: quello col Papato era un conflitto di competenze, ognuna delle due auctoritates accusando l’altra d’ “invasione di campo”, ma nessuno dei due antagonisti avrebbe neanche concepito di pensare che la loro sovranità potesse venire da altri che da Dio stesso. Punto e basta. La questione era proprio quella dell’estensione delle reciproche competenze. Per cui nel Medioevo vi era sì “il” papa cattivo, vi era sì “l’” imperatore cattivo, ma la cattiveria era del singolo: ci vuole un buon imperatore e un papa santo e non mondano, si pensava. Ma Papato ed Impero erano ambedue “voluti da Dio” (come ben attestava Dante nella sua Monarchia), in Dio avevano la loro sovranità. Ora qualcuno diceva non che un singolo papa fosse “anticristico” – cosa che s’è detta molte volte nel Medioevo – ma che il Papato, come istituzione, non avesse “origine in Dio”. Seguono a questo le guerre di religione, e segue lo scacco in merito a questa controversia sull’ “origine” della sovranità. Nasce da questo scacco la modernità[14], la quale sostiene, allora, poiché non può dare una risposta positiva all’interrogazione radicale, sostiene che la sovranità “viene dal basso”, per mezzo di un patto. Essa, come giustamente dici, è pattizia, non ha basi “in Dio”, ma ciò significa ch’essa è debole, e che deve dimostrare la sua legittimità – cosa che a un medioevale non sarebbe proprio venuta in mente! –, cosa incomprensibile per un Federico II! Vi erano sì delle minoranze, ma davvero minime, che nel Medioevo s’interrogavano, ma il loro problema era come giungere ad un “vero” dominio “voluto da Dio”, cioè quel che vedevano nel loro tempo era troppo poco, troppo svilito: quindi la domanda era per un modello ancor più stringente, non era una critica al modello.
Torniamo alle guerre di religione. E’ vero che, senza di esse, tutto il “divenire storico” sarebbe andato ben diversamente: ed oggi parleremmo di un mondo assai differente, per noi, oggi, del tutto inimmaginabile. Molto probabilmente, la modernità lo stesso si sarebbe sviluppata, sì, ma con ritmo, e forza, minori.
(AAI)


Questo sviluppo dello stato moderno fu soltanto occidentale, si ebbe solo nell’Europa occidentale: la Guerra dei Trent’anni ne fu l’ incubatore[15].
 (PB)


Le mie osservazioni, a  tal proposito: non a caso ho posto all’inizio un brano da un libro dedicato alla decadenza dell’Europa occidentale, cioè solo tale, occidentale appunto. Questo nodo qui è d’importanza decisiva. Incalcolabile, direi: qui si può soltanto sottolinearlo en passant, suggerendo che andrebbe scritta anche una “genealogia della sovranità”, moderna, chiaro.
(AAI)


La modernità si struttura nei “corpi intermedi”, essi le sono fondamentali. I corpi intermedi sono il punto più alto del pensiero moderno e questa questione fa riferimento all’ inesistente “popolo”. La condizione di normalità, nella modernità, non è l’assenza di conflitto: al contrario, i molteplici soggetti che la modernità ha generato, non a caso, sono, in primo luogo, i partiti. Proprio la rappresentanza di tali parziali interessi, che sono “in conflitto” e “in equilibrio”, e, dunque, confliggenti all’ interno di un sistema e uniti verso il nemico esterno, costituisce la “modernità”. Non ci si scordi che, fattore decisivo per abolire la monarchia, sono state le guerre di religione. E’ nella natura più profonda della matrice di ogni mutamento reale, la Rivoluzione francese in primis, che si è creato la singola creatura come “soggetto libero”.
 (PB)


Ed è la natura di tale “libertà” che oggi, ma in realtà ormai da tempo, è in questione. Questo consente di “misurare”, con relativa esattezza, la “crisi” della “modernità” in sé. Diciamocelo chiaro: la crisi dei “corpi intermedi” è la crisi (finale) della democrazia rappresentativa[16] come sistema. Altra osservazione – decisiva – è quella sul contrasto, sulla lotta che si ritrova nel centro della “democrazia”, sin dai suoi esordi ateniesi. Ricordiamoci come quella non era una democrazia “rappresentativa”, ma diretta, anche se le versioni caricaturali attuali di democrazia “diretta” avvengono per mezzo della tecnica, e cioè sono delle simulazioni. Tanto più credono sia diretta, tanto più essa è indiretta ma non rappresentativa. A tutti costoro, che usano così incoscientemente i mezzi di cosiddetta “comunicazione di massa” – di massa lo sono, ma non vi è alcuna “comunicazione” – vanno invece opposti tutti gli studi, davvero precursori, di J. Baudrillard sul senso che non esiste in questa simulazione che abbatte la rappresentazione, ma crea un ambiente dove il “reale” sparisce nella sua riproducibilità. Insomma, nessuno sembra pensare che tutte queste cose elettroniche, tipo quelle di questa pagina web, non sono reali, ma simulazioni formate per mezzo d’impulsi elettronici.
Tornando ad Atene, seppur non rappresentativa, la democrazia era conflittuale, ed apprezzo il tuo sottolineare come la democrazia nasce dalla lotta. E’ vero che la lotta aveva dei correttivi e dei limiti, ma non ci vengano però a dire che non era feroce, che la “pace” fosse il suo scopo: basti leggersi la tumultuosa storia politica dell’antica Grecia. Anzi, Atena è la dea della guerra: i nostri cari “pazzi per la democrazia” hanno mai realizzato questo?? Certo, non è guerra “belluina”, ma piuttosto strategica o tattica, dunque simbolizza il raffinamento di quest’istinto politico conflittuale, ma sempre istinto conflittuale rimane, cioè ciò che F. Nietzsche avrebbe chiamato: “volontà di potenza”. Eh sì, illustri irenisti, la democrazia è guerra, regolata certo, ma è guerra, pòlemos.
Nella democrazia non vi è alcuna “morale”, essa limita ma non elimina la lotta politica, la indirizza, ma, per certi versi, la esalta, il contrario della “vulgata” sulla democrazia rappresentativa che sarebbe “il migliore dei regimi possibile” perché “ci dà la pace”. Questo modello tendenzialmente irenista, ma in modo subdolo ed indiretto, è piuttosto il modello post democratico della simulazione, quindi del codice, cioè della società dell’informazione, che viene applicato ad una società precedente, cosa non storica. Noi oggi viviamo in questo secondo regime, quello post democratico.
Nella democrazia, però, in modo costitutivo ed essenziale, manca qualsiasi spinta verso la “totalità”, verso la risoluzione delle contraddizioni all’interno, che diventa operabile solo con dei regimi autoritari, fallimentari, però, in Europa occidentale, parte del mondo che ha conosciuto i fascismi, ma non ha mai conosciuto i comunismi: è forse casuale ?? … E qui ritorniamo all’ “aporia” dello stato liberale che, di parte, si pretende, però, “di tutti”, “generale”, in nome della “libertà di tutti”, che è il punto preciso, segnalato da Cacciari e detto qui all’inizio, attaccato dal “pensiero negativo”, punto che, in Asia Orientale (si veda sopra la nota con quel passo da Sol Levante “L’Asia alla conquista del Ventunesimo secolo”), non possono accettare per ragioni culturali profonde, di modello culturale.
Il punto che si pone questo è: che un tal modello “competitivo” ha potuto dare all’Occidente la sua forza espansiva proprio perché incapace di “sintetizzare”, proprio perché la lotta ne costituisce l’anima profonda. Ma oggi questo stesso modello è quello che sta distruggendo il centro propulsore dal quale un tempo emanò. Le conseguenze di tutto ciò sono incalcolabili.
Di qui un dibattersi senza scopo e senza soluzioni, questo perché è il modello di base che, ormai, è debole. Ma la democrazia è, al tempo stesso, l’ “insovvertibile”, salvo colpi di stato e putsch. In altre parole, con il suo “metodo”, perpetuerà sé stessa, dunque, se vi è una falla sistemica e sostanziale, e il sistema stesso necessiterebbe di un cambiamento profondo, la democrazia non è in grado di fornire lo spazio per poter operare un tal cambiamento. Ne deriva un moto d’inerzia spaventoso.
(AAI)


La sovranità è artificiale, essa è pattizia. Tale sovranità lascia spazi al cives, ma oggi si lascia la sovranità a gruppi sovranazionali: questo è problema.
  (PB)


Appunto sin da Hobbes, la natura artificiale della sovranità moderna è chiara, ma essa lascia spazio al “cittadino”, ecco la chiave di volta. E, senza dubbio: il conferimento crescente di sovranità a gruppi sovra-nazionali è problematico, come dici giustamente, nell’ottica moderna, ma è anche il frutto inevitabile della modernità stessa, ed è qui che tutte le stupide “proteste senza testa” (oggi quasi tutte, non a caso, di “destra”) – come le chiamo – cadono miseramente. Perché, se non sei consapevole della “genesi della sovranità moderna”, la mera protesta non solo è, in definitiva, inefficace, ma non fa che acuire il problema. La causa profonda sta in quel che si è detto: la sovranità moderna è priva di fondamento.  Come dicevi: ha base pattizia. Ma questa stessa base ha potuto contribuire alla crisi dello Ius Publicum Europaeum (Schmitt).
(AAI)


Rincaro la dose, in questa nostra franca conversazione: lo stato di diritto è un artificio (come ha dimostrato Miglio). La modernità è assenza di fondamenti, però essa fonda: crea poteri e divide su base maggioritaria. Il che non è il minimo dei paradossi. E qui si può porre anche il “paradosso delle rivoluzioni”. Le rivoluzioni intervengono “sfondando” il quadro precedente, eppure si pongono come un “nuovo” fondamento.
Per ben intendere questi temi, si deve tornare alle radici della vicenda della modernità, dove lo stato moderno – il cives, per quella caratteristica di cui si vedono già i semi in Hobbes e della quale ha parlato Cacciari e che hai segnalato – privo di fondamento, si sviluppa e si espande in base ad un’esigenza di tutela. Lo stato moderno, in ciò diversamente da ogni stato precedente, si mantiene perché promette al “cittadino” una maggior tutela. Lo stato moderno, in altre parole, unisce la sovranità con la tutela.
Insomma, quando le due cose non riescono più ad andare di pari passo, lo stato moderno va in crisi, profonda e sostanziale. La risposta sono le rivoluzioni che, non a caso, sono sempre estensioni, o tentativi d’estensione, della tutela, per questo hanno contribuito a far espandere lo stato moderno. Per questo lo stato moderno, quando si è trovato di fronte una crisi, l’ha risolta con le rivoluzioni, con delle fratture violente degli equilibri precedenti. Ma questo sembra oggi remoto. Oggi il binomio sovranità e rappresentanza, che n’è il corollario necessario, il binomio non funziona più.   
(PB)


Mi pare tu abbia toccato un nodo decisivo, in questa conversazione, ove pure ne abbiam toccati altri, sempre decisivi: ma questo “nodo” sembra più importante di altri, sembra esser incredibilmente attuale. La crisi di oggi, come dici esattamente, nasce da un meccanismo classico proprio della modernità: la contraddizione fra la sovranità statuale e la sua promessa di maggior tutela. A sua volta, la promessa è nata dall’assenza di una sovranità “dall’Alto”, che nasce con la modernità, aggiungo io. La sovranità moderna, dunque, ha necessità di dover “dimostrare” sé stessa. E propone una “maggior tutela”, o, più spesso, la impone … Da quest’esigenza, di dover “dimostrare” la legittimità della sovranità moderna, nasce il fatto che il controllo della società diventa centrale in età moderna. Di qui la centralità della paura (ricordata all’inizio). Lo stato deve difendere dalla paura, cioè deve “tutelare”.
Prima lo stato doveva solo difendere, differenza fondamentale questa. Esso doveva proteggere, sì, dai nemici, tanto interni che esterni, ma non tutelare. Di qui il fatto che lo stato moderno avrebbe sempre più preso delle competenze della Chiesa. Nel Medioevo era la Chiesa che doveva “tutelare”, non certo lo stato!! Questi fatti storici vanno sempre tenuti ben presenti, sennò ci manca la prospettiva, scambiando una situazione storica (cioè transeunte) per la “natura” delle cose, per lo stato “naturale”.  Ovviamente anche il capitalismo dice di sé che è “stato ‘naturale’”, ed è falsissimo: la critica di Marx rimane ancora centrale su questi punti, non su altri, ma, come s’è visto nella commemorazione fatta poco tempo fa, la comprensione di tali punti “fora” con difficoltà la spessa coltre dei pregiudizi. Tout se tient  Di nuovo, su Machiavelli: “Machiavelli docet: gli innovatori, i fondatori di ‘principati nuovi’ debbono conoscere bene gli antichi exempla, debbono ben sapere che gli uomini camminano ‘quasi sempre per le vie battute da altri’, che ‘tutte le cose che sono state’ possono essere di nuovo. Non si dà mai una pura inventio novitatis. Il nuovo si costruisce con i mattoni della storia – ma trasformandoli e costringendoli in forme mai prima realizzate. Né eterno ritorno né inarrestabile flusso di disordinati mutamenti. Il passato, come gli astri, inclina, non determina”[17]. Tale ossessione per il “nuovo”, per lo pseudo “nuovo”, attesta una sovranità moderna totalmente svuotata di senso, ma che ormai sente – senza poterlo mai capire, però, ed è grave – che la sua “bandiera” della “maggior tutela” fa ormai acqua da tutte le parti. In altre parole, la sovranità moderna, in crisi irreversibile, non riesce a dare tutela, ed allora si esaurisce in “novità” senza senso, per mascherare questa sua totale assenza di senso. Machiavelli, all’inizio della vicenda della modernità, sapeva che una novità in senso assoluto è impossibile. Lo stesso Cacciari, parlando subito dopo di rivoluzionari, precisava che ben conoscevano il passato[18], insomma che non avevano l’ubbia della novità sedicente “assoluta”. Deduzione: siamo fuori dall’epoca “rivoluzionaria”. Difatti, si fa per dire, il “bello” della nostra situazione è che la vecchia soluzione, quella dell’ “esplosione rivoluzionaria”, oggi non è più possibile: non a caso, ai suoi tempi, già Baudrillard parlava di implosione, non più di esplosione. Le “sinistre” sono state spazzate via dalla storia – non meramente il “comunismo”, ma le “sinistre” tout court – perché han mantenuto (ed, ahi loro, mantengono …) il modello “esplosivo”, espansivo. In una parola: solo e soltanto quando il sistema capitalistico sta in fase massicciamente espansiva (in Occidente lo è stato a lungo, ma non lo è più da tempo) le “sinistre” possono avere una “chance” effettiva. 
(AAI)


Siamo in effetti in una situazione pre-rivoluzionaria, se è vero – com’è vero – che “il motore” delle rivoluzioni moderne sta nel non poter mantenere, da parte d’uno stato “moderno”, la promessa di tutela crescente. Ma oggi nessuna rivoluzione è possibile. Perché così è oggi: non può esserci alcuna rivoluzione. Questo a causa della presenza massiccia del capitalismo, e del suo consenso unanime globale.
Chi dice oggi che il capitalismo è governabile, sogna.
Chi dice oggi che il capitalismo è gestibile, sogna.
Il capitalismo non è governabile. Ma la sinistra ha ceduto all’industria la classe operaia. Con il risultato che oggi il lavoro è instabile per sua stessa natura: è l’instabilità dei rapporti lavorativi la caratteristica di quest’epoca. Ciò non può esser diversamente perché il capitalismo stesso attraversa una fase di profonda instabilità. Ma il punto è che la logica amico/nemico non trova più spazio in relazione a questo problema: il capitalismo non è più “nemico” di nessuno. E nessuno è più “nemico” del capitalismo.  Ma qui si pone, insomma, il problema: se non c’è la logica amico/nemico (la “categoria” del “politico”, Schmitt), dove sta la “politica” oggi??  
(PB)


Stavolta la dose la rincaro io: se non c’è più la categoria di amico/nemico – apparentemente moltiplicata in mille rivoli (ma è un effetto illusorio, un dreckeffekt) – allora l’unica deduzione possibile è questa: non c’è più politica.
Forse altrove ne rimangono vestigia (Putin, la Cina), ma da noi, nel “famoso” Occidente, non c’è più.
Ma oggi, al posto di amico/nemico c’è: mi piace/non mi piace. Notato? E dove può mai essere la “politica” in questa strettoia, dov’è il popolo? C’è solo un pubblico.
La “categoria del politico” è amico/nemico; la categoria mi piace/non mi piace non è politica, ma fa parte dello spettacolo, cioè della simulazione (Baudrillard). Che quest’ottica da spettacolo possa anche solo “risolvere” un problema qualsiasi è chimera pura. Ma si sa: la chimera è il più grande criminale della storia … Peggio: la politica non può esserci, mancandone “la” categoria.
(AAI)


La “rottura” è stata la Prima Guerra Mondiale, la “finis Europae”, va ribadito. Con essa finisce una cultura.
(PB)


Su questo, nessun dubbio. Ricordo qui le parole di Gurdjieff, dette proprio in quel tempo, ancor più vere oggi, sul fatto che la civiltà moderna si basa “sulla violenza, la schiavitù e le belle parole” (in nota finale il passo completo[ii]), cioè si basa su interessi miopi e sulle chiacchiere “traduco” io … Ed oggi le chiacchiere sono amplificate dai social: esse svolazzano per il mondo sino a coprirlo, esse lo generano e costituiscono un sottomondo che oscura ogni residuale realtà. In realtà, esse esauriscono il mondo e contribuiscono a “consumarne” la società, a consumarne il tessuto sociale residuale, che il capitalismo, nel mentre che “sviluppa”, in realtà distrugge, secondo Baudrillard[iii].
(AAI)


Dunque “chi” rappresenta “chi”, oggi?, e chi rappresenta “cosa”, quali interessi “rappresenta”? E come si può “generare” il consenso, se esso è già dato, ed è consenso al capitalismo? Il consenso viene prima dato al sistema capitalistico e, di conseguenza, alla “politica”: ma questo è un passaggio irrilevante, o ha delle conseguenze?
(PB)


Domande che oggi si tende a non farsi … troppi grattacapi!! Dov’è il dissenso oggi?, e ci può essere? Vi può essere “pensiero critico” oggi? Temo che le risposte debbano essere negative, negative ad ognuna di queste domande … E, se si prendesse coscienza che sono negative, già si sarebbe fatto un passettino fuori del tunnel. Ma invece, pur essendo tutti gli indici negativi, si costruisce una realtà – di nuovo: la simulazione!! – dove risulta impensabile che le risposte siano negative, mentre “debbano” essere “positive”, tra virgolette, ovvio. Vi è oggi il cosiddetto “sovranismo” che dice di essere un “dissenso”, dice ….
(AAI)


Ma è davvero “assurdo” il “sovranismo”, come si legge? O lo è invece l’ “europeismo”?
Possono delle “sovranità nazionali” cedere ad autorità sovranazionali, come “l’Europa”, senza colpo ferire … Il tema è fondamentale: come si passa da una sovranità basata su “popolo e territorio”, seppur con tutele decrescenti, ad un’autorità la cui sovranità va “sopra” la nazione: qui è la debolezza fondamentale dell’idea di “Europa” com’è stata realizzata. In realtà, non si può passare dalla sovranità nazionale all’altra, e il caso degli Stati Uniti d’America non è valido né può fare da modello all’Europa, perché gli Usa nascono federali. Non credo all’Europa “unita” perché nasce come comunità solo economica, ed in effetti l’Euro prosegue quella via, che continua sin ora.
Non credo all’Europa unita come non credo al dialogo interreligioso. L’Europa è lotta, la democrazia è contrasto: l’Europa ha invaso il mondo proprio in quanto non era capace di risolvere i suoi conflitti! Questa è stata la sua forza, ma questo percorso si è definitivamente concluso con la Prima Guerra Mondiale. Quest’ultima segna la fine di una cultura, cosa ben vista da tanti testimoni dell’epoca.
Allora solo la consapevolezza del fatto che, senza una sorta di più o meno posticcia “unità”, l’Europa è zero, può cercare di fare da cemento. Ma non credo nemmeno a questo, perché implicherebbe la costruzione di una nuova sovranità. E su quali basi? La cosa è difficile perché vi sono due correnti culturali profonde nella storia moderna dell’Europa occidentale: quella francese, o franco-inglese, in sostanza legata all’illuminismo, e alla democrazia parlamentare (con varianti), e quella tedesca. Hitler non è “un incidente di percorso” della storia europea, ma è conforme ad una determinata tradizione culturale.
Heidegger non nasce dal nulla, e questa corrente la possiamo far risalire indietro, sino a Fichte e alla sua esaltazione della nazione tedesca e del suo destino. Queste due correnti non vanno d’accordo e continueranno a non ritrovare una sintesi, perché la loro lotta è ciò che ha fatto esplodere l’Europa nel mondo, quel che le ha dato forza.  
(PB)


Quel che ha segnato la “volontà di potenza” dell’Europa, aggiungerei. La “pace” e la “buona gestione” sono prive di “volontà di potenza”, per cui la “volontà di potenza” dell’Europa non ha nessuna possibilità di esprimersi per mezzo della “buona gestione”, men che meno per mezzo del “dialogo”.
Su Fichte non posso che darti ragione, tant’è che c’è stato chi ha studiato quel che rimane della biblioteca di Hitler, conservata nella Libreria del Congresso a Washington DC[19], negli Usa: studiandola, vi ha confermato non solo il noto interesse che Hitler aveva per l’occulto, ma pure l’apprezzamento che Hitler aveva per Fichte proprio per quest’aspetto di forte nazionalismo, le cui basi sono molto profonde: tant’è che Hitler possedeva gli otto volumi della rara prima edizione delle opere di Fichte stesso, regalatagli da Leni Riefenstahl[20]. E un volume di essi era pieno d’annotazioni e commenti al margine, quindi Hitler dava a queste posizioni di Fichte una grande centralità. D’altro canto, la Riefenstahl non avrebbe regalato a Hitler quella rara edizione di Fichte se non avesse saputo che Hitler si muoveva secondo delle coordinate a lei ben note, che, in sostanza, condivideva.
Per il resto, non posso che condividere le tue valutazioni sull’Europa: ed ho anche riportato su questo blog qualche vecchio scritto, degli anni ’90, contro l’Euro e l’Europa, senza, però, esser affatto un “sovranista”: semplicemente son un critico “storico” dell’Europa.
Concludo ringraziandoti per la conversazione.
In essa, abbiamo toccato alcuni “nodi” centrali che accompagnano questo mondo anche quando quest’ultimo non vuol vederli. Non si può eluderli. Chiaro che oggi non può esservi dibattito pubblico, perché la tecnica tende ad abolire lo “spazio di risposta”, dunque lo spazio per poter elaborare una posizione critica, “critica” che oggi ben pochi hanno la possibilità di sviluppare: manca lo spazio di risposta. Lo stimolo sopravanza di molto la possibilità di sua elaborazione ed è voluto così …
Hai qualche osservazione finale da fare?
(AAI)


Traggo spunto da questa tua ultima osservazione. Quel che governa oggi davvero il mondo è la cosiddetta “Big Science”: essa è il vero potere occulto oggi. Ed esso condiziona la vita concreta. Essa domina le decisioni e  nessuno può fare come non esistesse o credere alla sua “libertà” decisionale. Questo è un punto molto importante.
Diresti tu: dalle conseguenze incalcolabili.
Anche io ringrazio te.  
(PB)






[Andrea A. Ianniello]
















[1] J. Delumeau, La paura in Occidente. Storia della paura nell’età moderna, Il Saggiatore, Milano 2018 (edizione originale Italia: SEI, 1979), p. 9, corsivi in originale. Non è, dunque, il Medioevo “l’epoca della paura” – chiaro che la “paura” c’è sempre stata, ma quel tempo (Medioevo), aveva dei correttivi – quanto piuttosto è l’epoca moderna “l’epoca della paura”. E quali erano le sue “figure”? Lo straniero, l’eretico, l’ebreo. Suona familiare? … Ad Augusta vi era, poi, un complicato meccanismo di porte chiuse per poter entrarvi. Si pagava per entrare, com’è crescente costume anche nelle città d’oggi, cosa che, ovviamente, non può venir vista per ciò che è, cioè il segno – chiaro e distintivo, assieme alle strade sempre in stato peggiore, peggio in Italia che altrove –, della fine dello Stato (moderno). “Un particolare importante completa questo dispositivo ad un tempo macchinoso ed ingegnoso: sotto le sale e le porte è sistemato un grande scantinato capace di alloggiare cinquecento armati con i propri cavalli, per far fronte ad ogni eventualità. In caso d’emergenza, essi vengono impiegati in azioni di guerra ‘all’insaputa dei cittadini qualunque’”, ivi, p. 10, corsivi miei. Questo “all’insaputa dei cittadini qualunque” accade anche oggi: e dove sta la loro famosa “democrazia”?, e l’altrettanto famosa “trasparenza”? Dal punto di vista “pop” vi è questa scena dal film “Non ci resta che piangere” (del lontano 1984!, quando queste cose sembravano, ma non erano, lontane …), che “tipizza”, in modo chiaramente ridicolo, quest’uso del pedaggio, cosiddetto da “ancien régime”, cf.

https://www.youtube.com/watch?v=KF0VYpzsZYE.

Per riassumere: la modernità è l’epoca della paura concreta, non il Medioevo, ch’è l’epoca di una paura più “metaphysica”, e meno concreta e “storica”, come la modernità. La modernità è nata sotto il segno della “grande paura” e, a questo punto, non dovrebbe più sorprendere che stia finendo sotto il segno della “grande paura”. Le “sinistre” non riescono a capir questo e continuano, imperterrite, a cercare di vendere la brutta copia di quando “the things were going on”, cioè della fase “systemica” di quando avevano il consenso massimo della classi medie dell’ “Occidente”: quell’epoca è definitivamente finita. Continuare a cercar di rivendere vecchie merci non ha proprio alcun senso, cf.


[2] “L’Europa e l’America, con le loro radici culturali gemelle che affondano nella tradizione filosofica greco-romana e giudeo-cristiana, non hanno scoperto la formula magica del buon governo valida al di là di ogni divisione culturale. Non esiste una definizione universale del concetto di democrazia, nonostante i suoi campioni euro-americani insistano nel sostenere il contrario. […] L’esempio più evidente di questo sciovinismo culturale”, Sol Levante “L’Asia alla conquista del Ventunesimo secolo”, “Indice Internazionale” Le monografie di Internazionale, 1996, p. 52. Tra le varie osservazioni di quest’ importante volume di Monografie di Internazionale, alcune condivisibili ed altre non, vi è quella – già più di vent’anni fa! – secondo cui la tendenza dell’Europa a chiudersi era un errore fondamentale: e così è stato, e Maastricht questo ha segnato. All’epoca si contrapponeva l’Europa “chiusa” con l’America più “aperta”, mentre oggi l’America è ancor più chiusa dell’Europa! Altre osservazioni erano quelle di P. Krugman che sottolineava come le “tigri asiatiche” fossero deboli poiché il loro sviluppo si basava sulla manodopera a basso costo, per cui si sarebbero fermate. Se si parla delle “tigri asiatiche” dell’epoca, questo si è visto nella crisi del 1998, ma Krugman sottovalutava il fattore demografico, per cui le tigre suddette si son in parte riprese, senza contare il “tigrone” cinese che vi si è aggiunto, colla sua manodopera così numerosa, che gli ha consentito di durare ben vent’anni ancora.  Sulla crisi del 1998, all’epoca scrissi delle cose, “salvate” su ed in questo blog, in qualche vecchio post.

[3] Cf. J. Evola, Il fascismo visto dalla destra, con note sul III Reich, Volpe editore, Roma 1979.


[5] P. Thuiller, La Grande Implosione. Rapporto sul crollo dell’Occidente 1999-2002, Asterios Delithanassis Editore, Trieste 1997, pp. 83-84, corsivi in originale. Questo testo, che immagina una commissione di studi dopo l’ “implosione” – corretto: implosione, non esplosione – dell’Occidente (processo nel quale “viviamo e siamo”), commissione che si chiede le ragioni profonde di un tal evento. Del tema dell’implosione s’è già trattato su questo blog, in una recensione, cf.
Qualche frase di Thuiller la si può leggere, sempre su questo blog, cf.

[6] M. Cacciari, Dialettica e critica del Politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli Editore, Milano 1978, pp. 83-84, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre. Ci son testi voluminosi che si reggono su di un’ideuccia, e testi brevi, solo libretti, ma pieni di significato: questo è uno di quelli. Tra l’altro, l’impossibilità della sintesi e la necessità del contrasto, della lotta, fan parte dello stato borghese: qui, all’epoca, Cacciari metteva in questione il marxismo, se potesse – come poi non poté, di fatto – risolvere il contrasto fra il suo statalismo e il sogno di abolizione dello stato, sogno che, peraltro, il sistema capitalistico è arrivato vicino a compiere. Si chiedeva: “L’ideologia della distruzione dello Stato non è perciò intrinsecamente liquidazione autoritaria del conflitto?”, ivi, p. 54, corsivo in originale, in nota a pie’ pagina. La risposta è “sì”, a tale domanda: ed è anche per questo punto irrisolto, ed irrisolvibile nel marxismo, che tale ideologia è fallita. Nello stato borghese, la “liquidazione autoritaria del conflitto” (Cacciari) è impossibile. Ma se, di fatto, c’è stata, se ne deve dedurre una sola cosa: lo stato borghese è finito. Si dà, per caos, da qualche parte, la consapevolezza di un qualcosa del genere? Ah, se non c’è stato borghese e lo stato borghese “è” la società “civile” (Hegel), se non c’è più stato borghese, ergo non v’è più società civile. Anzi, è assai probabile che sia sparita prima quest’ultima e solo dopo sia sparito il primo.     

[7] “La costrizione a pro-durre domina la dialettica dell’autocoscienza. Il Lavoro vi rappresenta la figura centrale; con esso entriamo nella fase decisiva […] della genealogia della Libertà. Questa fase decisiva si realizza però, ancora oltre: allorché l’autocoscienza borghesemente dispiegata nel Lavoro pro-duce la forma-Stato”, ivi, p. 8, corsivo in originale. Ed ecco il riferimento a Dimenticare Foucault: “Sulla forma del pro-durre vorrei rimandare all’importante saggio di Jean Baudrillard, Oublier Foucault, Paris 1977”, ibid., nota  pie’ pagina, corsivi in originale. Il legame fra tal pensiero, di Baudrillard, in particolare con Nietzsche, è chiaro ed evidente: Su Nietzsche e le “masse” cf. ivi, pp. 68-70, passi ancor oggi fondamentali per chi voglia comprender un po’ più da presso queste tematiche: si vede qui che la concezione di Baudrillard nel suo, da me più volte ricordato, fondamentale saggio breve All’ombra della maggioranza silenziose, ha un evidente legame con la relazione fra Nietzsche e le “masse”. Il “mediatore” fra Nietzsche e Baudrillard è stato, chiaramente, G. Bataille, quest’ultimo peraltro citato esplicitamente in Lo scambio simbolico e  la morte. Dalla crisi provocata dal “nichilismo europeo”, tuttavia, non v’è stata quell’uscita di piena, e vera, décadence accettata, che lo stesso Nietzsche, in parte (ed anche Baudrillard, come ipotesi) aveva prefigurato come possibilità, una possibilità che, però, sia per Nietzsche sia per Baudrillard, non si sarebbe verificata: “l’esistenza, così com’è, senza senso e senza scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza un finale nel nulla […]. E’ questa la forma estrema del nichilismo […]. Forma europea del buddhismo: l’energia del sapere e della forza costringe ad una tale credenza. E’ la più scientifica di tutte le ipotesi possibili. Noi neghiamo gli scopi finali: se l’esistenza ne avesse uno, sarebbe già stato raggiunto”, F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, Adelphi edizioni, Milano 2006, pp. 13-14, corsivi in originale. “L’origine della sete di vivere determina l’origine dell’attaccamento alla vita, l’annientamento della sete di vivere determina l’annientarsi dell’attaccamento alla vita. Ma questa è la via, che mena all’annientarsi dell’attaccamento alla vita, il santo sentiero otto partito, cioè: retta cognizione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto sapere, retto raccoglimento”, Buddha, I quattro pilastri della saggezza, a cura di Neumann e De Lorenzo, Dhamma-Pada, a cura di P. Filippani-Ronconi, Newton Compton editori, Roma 2013 (edizione or. 1992), p. 35. Quest’accettazione, pur nel dubbio radicale sul “fine”, per Nietzsche costituiva la forma positiva di accettazione del nichilismo, forma che ne avrebbe “disinnescato” la forza. Un nichilismo non accettato, eppur presente, avrebbe invece, sempre per Nietzsche, aperto la via solo al rancore plebeo, che oggi vediamo predominare ogni dove. E le “destre” che, a parole, spesso fan riferimento a Nietzsche, ne sono le massime amplificatrici. Ora, questo stesso fenomeno, presente in ambito sociale, per Baudrillard, avrebbe aperto la via all’ implosione.       

[8] Parafrasi del Guénon de Il Regno della Quantità, e questo è un significato fondamentale di questo testo. Ed è da quest’impossibilità che la modernità potesse, o possa, da “sola”, da “sé stessa”, risolvere le sue contraddizione derivava il suo postulato della necessità che “qualcos’altro” – proveniente non dal mondo moderno, “chi ha orecchie per intendere, intenda” – intervenisse a “tagliare il Nodo di Gordio”.

[9] Cf. E. Jünger – C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo fra Oriente e Occidente nella storia del mondo, Il Mulino, Bologna 1987. Anche questo è un piccolo libro, un po’ più grande di altri “piccoli libri” qui citati, ma di grande rilevanza. Come detto, e ribadisco: spesse volte vi son grossi volumi che si reggono su “ideuzze” dappoco, mentre piccoli libri sono “seminali”, sono “densificazioni” di pensieri “grossi” ed imponenti, e nient’affatto impotenti. Spesse volte, invece, la dimensione maschera la scarsità di profondità e la debolezza del pensiero. “Già la cosiddetta economia politica classica del tardo XVIII secolo e dell’inizio del XIX non è che una sovrastruttura sociologica e concettuale su questo primo stadio di una tecnica basata su un’esistenza marinara. A sua volta, il marxismo è una continuazione di quest’ economia politica classica. Esso divenne l’appropriata patrimonio concettuale di un’ élite di rivoluzionari russi di professione, che nell’ottobre 1917 riuscirono ad impadronirsi dell’impero russo e a trasferire su un paese agricolo quella doppia sovrastruttura. Storicamente non si trattò affatto di realizzare nella pratica una dottrina pura o di portare a compimento certe leggi del corso storico: si trattò invece di mettere un impero agricolo industrialmente arretrato in condizione d’impadronirsi della tecnica industriale, senza il quale in caso di una moderna guerra mondiale sarebbe inevitabilmente divenuto preda di ogni conquistatore provvisto di potenza industriale. Da sovrastruttura ideologica relativa al primo stadio della rivoluzione industriale, il marxismo si trasformò in uno strumento pratico per superare una situazione d’impotenza tecnico-industriale  ed eliminare la vecchia élite, che s’era dimostrata impari a tal compito”, ivi, p. 164, corsivi in originale  

[10] Cf. https://www.youtube.com/watch?v=o8-i7lA5gic.

[11] Sulla “legittimità” scrisse qualcosa di fondamentale Talleyrand, sul quale cf. R. Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi Edizioni, Milano 1983, cap. “«La forza misteriosa della legittimità»”, pp. 77-82. “La storia rapinosa delle metamorfosi occidentali è tutta un seguito d’ ‘insurrezioni teologiche’. Come si scindano, dopo Melchisedec, l’ auctoritas e la potestas, come s’alleino e si scontrino, come si subordinino l’una all’altra, come si omaggino, si nutrano e si delimitino, in rapporto ai molti dèi del cosmo o in rapporto a un unico dio extracosmico, come s spartiscano le terre e i cielo, come infine l’ auctoritas venga assorbita nella potestas, ma iniettandole quel veleno spirituale che la renderà da quel momento in poi indemoniata: tutto questo è in primo luogo una sequenza di glosse teologiche. Erano teologi i meccanici che hanno messo a punto, oliato e avviato l’ingombrante macchina moderna. Poi si son ritirati, con discrezione. Rimaneva ormai soltanto da constatare l’aspetto più banale: il passaggio ai fatti, il corteo delle rivoluzioni. Tutto l’artificialismo moderno, che è l’artificio di gran lunga più efficace per operare sul mondo e sviluppare potenza, trova il sigillo della sua tortuosa storia non certo in qualche laico empirista, ma in Calvino. Secondo la definizione di Louis Dumont, quell’artificialismo è ‘applicazione sistematica alle cose di questo mondo di un valore estrinseco, imposto’. […] Qualcosa che non appartiene al mondo – e presto vorrà anche ignorare questa sua origine – si pone a centro del mondo e lo scuote, lo artiglia, lo fruga. Gli effetti più devastanti di tale volontà si avranno quando nessuno ormai ricorderà che l’origine di quella potenza è fuori del mondo […] e rimane soltanto da subirne l’azione senza riconoscerla. Dalla teologia si passa a una magia nera di cui non si riesce a scoprire la fonte [gran problema, essenziale, al quale lo stesso Guénon, in realtà, dedicò tempo ed attenzione, pur essendo cosa vietata ad “evolomani” e “tradizionalisti” d’ogni fatta, forma o misura: qui si può dire che, “personalmente”, ho dato il mio piccolo contributo ad “scoprirne la fonte” …!]. Perché essa è in coelestibus [lo notino, lor signori, se ne son capaci, ma non lo credo lo siano …!]. Così, in tutte le sue convulsioni, nelle sue pretese di autonomia, […] ‘ciò che noi chiamiamo il moderno “individuo-nel-mondo” ha in se stesso, nascosto nella sua costituzione interna, un elemento non percepito ma essenziale di extramondanità’ [e di ciò Hegel era ben consapevole, e lo stato borghese moderno lo ha lo stesso, da ciò fa derivare la sua pretesa di “universalità”, ma gli manca, ed anche di ciò Hegel era ben consapevole, la possibilità di esser super partes, esso èdi parte” per definizione: di qui “l’aporia dello stato borghese”, secondo Cacciari]. Eppure tutto avviene come se quel cristallo abbagliante, quella mandorla confitta nella psiche non sussistesse. Graecum est, non legitur: ma quella lingua che non si legge è la lingua che agisce”, ivi, pp. 80-81, corsivi in originale. Per una biografia di Talleyrand, cf. P. D. Ori – G. Perich, Talleyrand, Rusconi Libri, Milano 1978.

[12] “E’ dopo il secolo XVIII, e particolarmente dopo la rivoluzione, che il politico s’inflette in modo decisivo. Si carica di una referenza sociale […]. Allo stesso tempo entra nella rappresentazione, il suo gioco è dominato da meccanismi rappresentativi (il teatro subisce un destino parallelo: diventa un teatro rappresentativo, e lo stesso avviene per lo spazio prospettico: da macchinario ch’era in origine, diventa il luogo d’iscrizione di una verità dello spazio e della rappresentazione). La scena politica diventa quella dell’ evocazione di un significato fondamentale: il popolo, la volontà del popolo etc. Essa non lavora più sui soli segni, ma sul senso, all’improvviso è chiamata a significare al meglio il reale che esprime, a divenire trasparente, a moralizzarsi e a rispondere all’ ideale sociale di una buona rappresentazione. Tuttavia, ancora per molto tempo, vi sarà equilibrio tra la sfera del politico e le forze che vi si riflettono: il sociale, lo storico, l’economico. Quest’equilibrio corrisponde indubbiamente all’età d’oro dei sistemi rappresentativi borghesi (il costituzionalismo: Inghilterra del secolo XVIII, Stati Uniti d’America, Francia delle rivoluzioni borghesi, Europa del 1848)”, J. Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose, ovvero la fine del sociale, Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2019, pp. 42-43, corsivi miei. Quest’età di successo di tali sistemi fa parte del nostro passato, definitivamente, irreversibilmente. Si dà da qualche parte contezza di questo? Direi di no. Ma cosa diventa un sistema rappresentativo dove la rappresentazione è simulabile, riproducibile senza un termine preciso? Si dà l’autoreferenzialità, cioè la perdita di senso. E vi è, qui, ancora un’altra, terribile, constatazione: riguarda il fatto che in questo meccanismo d’iper controllo – ridondante – si rompe sempre qualcosa, ed ecco la relazione fra masse, come mera potenza di assorbimento ed indifferenza, e terrorismo, di cui si parlava sempre in All’ombra delle maggioranza silenziose, libro del lontano 1978, ripubblicato assai opportunamente quest’anno, e cui ho dedicato un post, cf.
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2019/02/una-breve-recensione-della-prefazione.html. Il Baudrillard studioso dei media, quello più noto, è meno importante, a mio avviso, del sociologo che ha formulato, soprattutto in Dimenticare Foucault e nel, già citato, All’ombra delle maggioranze silenziose, la teoria dell’ implosione, la più vicina alla nostra realtà effettiva. Il mondo, infatti, è sempre più stato attraversato da crescenti tensioni da trent’anni a questa parte, ma non solo non esplode: al contrario, implode. La relazione fra massa e terrorismo non è affatto causale, ma si pone sotto il segno dell’indifferenza. Ora. in tal genere di considerazioni si pongono, come detto qui sopra, gli incidenti e qualsiasi difetto che colpisca la complessa e totalizzante “maglia” plastica coprente prodotta dall’ “istallazione” tecnologica (Heidegger). All’epoca – 1978 – Baudrillard studiò il black out di N. Y. City avvenuto nel 1977, ben quaranta due anni fa. Si è riprodotto recentemente, quest’anno, questo luglio, un simile black out. E nulla può consentire di “misurare” le differenza fra quel tempo ed il “nostro” della differente reazione ai due simili eventi: così si comprende il passaggio del tempo, in concreto. Riportiamo il passo di Baudrillard (1978) relativo al black out di 42 anni fa: “E’ in questo senso, o piuttosto in questa sfida al senso, che l’atto terroristico è simile alla catastrofe naturale [si spiega così la fascinazione del mondo dei media per le catastrofi naturali: è la fascinazione del sistema dell’iper controllo ridondante per ciò che, comunque, ne inceppa il funzionamento privo di senso e di scopo, cioè autoreferenziale]. […] La natura è terrorista [idem sulla fascinazione], come lo è l’improvviso difetto di funzionamento di ogni sistema tecnologico: i grandi black-out di New York (’65 e 77) creano situazioni terroristiche più belle di quelle vere, situazioni da sogno. Meglio: questi grandi incidenti tecnologici, come le grandi catastrofi naturali [Fukushima nel 2011 ha unito le due cose, la catastrofe naturale dello tsunami del 2004 ha ben rappresentato invece la modalità “naturale”], illustrano la possibilità di una sovversione radicale senza soggetto. Se l’arresto di funzionamento del 1977 a New York fosse stato provocato da un gruppo terroristico molto organizzato, il suo risultato oggettivo non sarebbe stato diverso. Sarebbero avvenuti gli stessi atti di violenza, di saccheggio, la stessa sollevazione, la stessa sospensione dell’ordine ‘sociale’. Questo significa che il terrorismo non s’identifica con la volontà di compiere violenza, ma che si trova ovunque nella normalità del sociale, sul punto di trasformarsi da un istante all’altro in una realtà inversa [e questo avverrà: questa sarà la “fine del mondo moderno”, la sua finale, piena trasformazione in una “realtà inversa” …], assurda, incontrollabile. La catastrofe naturale gioca all’interno di questo senso ed è così che, paradossalmente, diviene l’ espressione mitica della catastrofe del sociale”, J. Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose, cit., pp. 80-81, corsivi in originale, miei commenti fra parentesi quadre. Ora, venendo all’evento black out, vi sono due grosse differenze: il black out del 2019 è stato risolto prestissimo, rispetto a quello del 1977. Poi, la reazione collettiva è stata ben diversa: nel 1977 prevaleva il dissenso, nel 2019 ha prevalso il consenso. E, si badi bene: questa non è un’osservazione “morale”: durante l’uragano di Katrina (New Orleans 2005) si svilupparono saccheggi a iosa lo stesso. Non è qui la differenza, non sul livello del comportamento individuale, ma sulla reazione collettiva: la richiesta pressante del pollo d’allevamento dell’uomo-massa che l’allevamento continui e migliori, nel qual mentre il sistema di controllo, però, mostra la corda da più parti. Nel 1977, invece, prevaleva la sfiducia nel sistema.
Una giusta intuizione che ebbe Nietzsche si è che i Greci “vedessero” le creature “mitiche”, cf. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, cit., pp. 31-32, ed è la forza “esangue” della mente che copre tutto di una “ragnatela”, cf. ivi, p. 33 e sgg. Ma cos’accade quando la struttura diventa concreta – la tecnica – ed inoltre si “materializza”? Nasce una natura “seconda”, che copre quella “vera”, sia quella “mitica” – già di per sé stessa oscuratasi – sia quella “materiale” stessa: si ha una natura “seconda”, come la chiamo … La natura seconda, costruita dalla “tecnica”, “installazione” aliena, copre oggi qualsiasi percezione della Natura effettiva: ed è di qui che occorrerebbe cominciare, cf.

[13] Cf. L. Strauss, “Niccolò Machiavelli 1469-1527” in Storia della filosofia politica, vol. II, Il melangolo, Genova 1995, pp. 11-36. Si tratta di un testo da me varie volte letto, con sottolineature ed annotazioni laterali, ma il testo di L. Strauss è quello più denso di annotazioni laterali e di sottolineare: Strauss ha molte intuizioni, per lui è con Machiavelli che nasce la riflessione politica moderna, tesi ben nota, e tuttavia fa delle osservazioni molto particolari, come quella secondo cui Machiavelli paragona sé stesso a Mosè, o il legame con Cesare, ma pure con Senofonte, o la dottrina dei cicli che si può leggervi tra le righe (cf. ivi, p. 33), ecc. ecc.. Che lo stesso Strauss abbia scritto la voce su Machiavelli è molto significativo, e rimane un contributo degno di attenta riflessione questo suo scritto su Machiavelli. Leo Strauss, allievo di Carl Schmitt, ma emigrato in America, è stata una voce, come suol dirsi, “controversa” delle “destre” del secolo scorso (il XX), su di lui cf. la Postfazione di G. Galli a M. Dolcetta, Gli spettri del Quarto Reich. Le trame occulte del nazismo dal 1945 a oggi, RCS Libri “BUR”, Milano 2007, pp. 202-204. Discutere di questo breve, ma intenso, libretto – della serie: piccolo libro ma denso, versus grosso libro ma dispersivo e senza forza – ci porterebbe lontano, si vuol solo qui osservare che segna una piccola pietra miliare nell’ambito della “genealogia della modernità”. Pietra miliare, quest’espressione linguistica mi ricorda qualcosa: “Niente di grande/ di straordinario/ d’imperiale o di principesco: soltanto un modesto blocco/ di pietra/ sul ciglio della massicciata./ La gente ti chiede/ la strada/ per non perdersi lungo/ il cammino/ a ciascuno/ tu mostri la strada/ e la lunghezza del cammino./ Non è poco/ mia piccola pietra/ e non potrò dimenticarti!”, Ho Chi Minh, Diario dal carcere, Garzanti Editore, Milano 1972, p. 53, corsivi miei.
Per finire, quegli ambienti del cosiddetto “Quarto Reich” – ch’è un nome improprio – son quelli dietro tutto quel che vediamo, gli attacchi alla “Grande Prostituta”, solo che chiamarli “Quarto Reich” è, come già detto, improprio. Diciamolo meglio: si tratta degli “ambienti” dietro quel che – nell’ apparenza – si è chiamato “Terzo Reich”, dunque non l’effettiva forma statuale apparente del Terzo Reich. Allo stesso modo, il “Quarto” Reich rimane nell’ apparenza, si tratta di quelle forze che stanno dietro … Che poi queste forze “dietro le quinte” usino coloro i quali non han mai accettato la confitta del Terzo Reich, è vero, è verissimo, ma tali forze non sono gli “sconfitti” che sognano vendetta … su questo è bene l’esser chiari!!  

[14] Ecco perché, diceva il Guénon di Crisi del mondo moderno, che la modernità – in sé stessaè un’epoca di crisi: perché nasce dallo scacco nel rispondere ad una domanda radicale, relativa precisamente all’ origine della sovranità.

[15] Cf. E. A. Beller, La Guerra dei trent’anni in Storia del mondo moderno (della Cambridge University Press), vol. IV La decadenza della Francia e la Guerra dei trent’anni, Garzanti Editore, Milano 1971, pp. 355-417, pur se per certi versi datato, è interessante, con le sue illustrazioni.

[16] Leggevo un vecchio libro: P. Barcellona – E. Severino, Tecnica, politica e futuro della democrazia, Edizioni Saletta dell’Uva, Caserta 2004. La democrazia non ha alcun futuro, solo un passato. le sue basi rappresentative sono in crisi, ed irreversibile, cioè non si torna indietro. Tutti i tentativi di “diffusione” per mezzo della digitalizzazione non possono che render sempre più instabile il sistema, senza toccarne il punto centrale ch’è andato in crisi: questo è ben noto sin dall’inizio degli anni Ottanta (Baudrillard). Ma non son in grado di vederlo: vi è qui un “punto cieco”, come lo chiamo.

[17] M. Cacciari, Re Lear: padri, figli, eredi, Edizioni Saletta dell’Uva, Caserta 2015, pp. 72-73, corsivi in originale.

[18] “Nessuno aveva ‘interiorizzato’ storia e ragioni del suo nemico meglio di un Marx o di un Lenin”, ivi, p. 69.



[20] Autrice – oltre che del famoso documentario propagandistico, però opera magistrale dal punto di vista strettamente filmico, sul “Parteitag” di Norimberga del 1934 (dal 4 al 10 settembre)  – anche di altre cose, meno note, come di un film e di un libro sui Nuba, rispettivamente cf,

https://en.wikipedia.org/wiki/The_Last_of_the_Nuba, e cf.

https://en.wikipedia.org/wiki/The_People_of_Kau.   





[i] Diamone il riferimento, a questo punto giunti, arrivati a siffatta incomprensione: cf. R. Guénon, Introduzione allo studio delle dottrine indù, Adelphi edizioni, Milano 1989 (si noti la data), Conclusione, pp. 245-256: vi si parla, in particolare, delle “tre ipotesi” sulla fine della “deviazione moderna”. La prima è che l’Occidente, lasciato a sé stesso, nel suo sviluppo unilaterale, crolla al suo interno: ed è questa la situazione nella quale siamo, di una tale situazione si parla in questo blog, in realtà. L’altra ipotesi è l’ “intervento orientale”, dove Guénon pensava in primis all’Islàm, e, in secundis, alla Cina (in ciò seguendo Matgioi ed alcune intuizioni di quest’ultimo). Ed anche qui occorre, allo stesso modo, esser chiarissimi: Guénon non era a favore dei ciò che oggi chiameremmo l’integralismo islamico (in realtà, una forma di modernismo islamico, incapace di attuare un vero contropotere ma, invece, solidale colla “deviazione occidentale”, se ne studi per bene la genealogia), e non era favorevole al “pericolo giallo”. Si trattava di “orientali occidentalizzati” che “presentavano il conto” all’Occidente moderno e, al momento, solo la Cina è su questa “corrente di forza (storica)”, pur con molte debolezze. E qui occorrerebbe studiarsi i Discorsi inediti di Mao Tze-tung [Zedong] laddove quest’ultimo parla della “forza delle masse” da scatenare (lo dice anche in altri scritti), cosa che, però, non poté fare perché il suo quadro ideologico glielo impediva, ma che da alcuni suoi successori è stato fatto.
Per tornare al punto – vero – va ribadito che Guénon era favorevole a questa “conquista dell’Occidente moderno in crisi”, conquista fatta dagli “orientali occidentalizzati”, giusto per chiarezza. La Russia per Guénon era interessante, da parte delle corrente di “orientali occidentalizzati”, non perché “bolscevica” o “zarista” o ciò che si vuole, né perché fosse “orientale”, ma perché – pur occidentale – le sue ambizioni espansive dovevano per forza andar contro l’Occidente: ed ecco Putin. Ora, fra capir questo agli occidentali è fatica di Sisifo, che cioè la Russia, per sua natura, se si espande deve andar contro l’Occidente, è impossibile. Quegli stessi che s’illudevano sulla fine del regime sovietico, quegli stessi che continuano a credere la “democrazia” come il sistema “ultimo” e cose del genere. Dovrebbero invece prender atto della realtà: la Russia non sarà mai pienamente “europeizzata”, occidentale sì, ma nello style dell’Europa occidentale non potrà mai diventarlo. Quel giorno sarebbe la fine dell’ idea di “Russia” in quanto tale.
PS. Vi era una terza ipotesi, intermedia, che era quella cui Guénon dava più credito, e nella quale credeva: cioè che in Occidente sorgesse un’ “élite intellettuale” tale da poter risolvere il problema dell’Occidente e della sua – inevitabilecrisi dal suo stesso interno. Di qui i dibattiti con Evola, e le incomprensioni – gravi – di Evola a tal proposito, su questo punto preciso. Noi oggi sappiamo che quest’eventualità non si sarebbe mai realizzata e questo fu realizzata da Guénon, che disse apertamente, nella fase finale, che non ci credeva più. Questo Guénon, poi il discorso andrebbe ulteriormente precisato: non è questa la sede, ma queste precisazioni andavano fatte, “giusto per”, come suol dirsi …  
[ii] “Ad una delle riunioni seguenti si parlò ancora una volta delle vie. ‘Per un uomo di cultura occidentale, io dicevo, è naturalmente difficile credere ed accettare l’idea che un fachiro ignorante, un monaco ingenuo o uno yogi separato dal mondo possano essere sulla via dell’evoluzione, mentre un europeo colto, armato della sua “scienza esatta” e degli ultimi metodi d’investigazione, non ha alcuna possibilità e gira in tondo in un cerchio dal quale non può sperare d’uscire’. ‘Sì, ed è perché la gente crede nel progresso e nella cultura, disse G., Ma non vi è alcun progresso di nessun genere. Ogni cosa è esattamente com’era migliaia e decine di migliaia d’anni fa. La forma esteriore cambia. L’essenza non cambia. L’uomo resta esattamente lo stesso. Le persone colte e civilizzate vivono con gli stessi interessi dei selvaggi più ignoranti. La civiltà moderna è basata sulla violenza, la schiavitù e le belle frasi; ma tutte le belle frasi sulla civiltà ed il progresso non sono che parole’. Questo naturalmente produceva un’impressione particolarmente profonda su di noi, poiché veniva detto nel 1916, quando l’ultima dimostrazione della ‘civiltà’, una guerra quale il mondo non aveva mai visto, non faceva che crescere ed ampliarsi trascinando milioni di uomini nella sua orbita. […] Un giorno in cui eravamo riuniti parlai […] dei pensieri che erano sorti in me. ‘Ma che volete, disse G. Gli uomini sono macchine. Le macchine son obbligatoriamente cieche, incoscienti […]. Tutto accade. Nessuno fa nulla. Progresso e civiltà nel senso reale di queste parole, possono apparire soltanto al termine di sforzi coscienti. […] Ora, l’attività incosciente di milioni di macchine deve necessariamente concludersi in sterminio e rovina. E’ precisamente nelle manifestazioni incoscienti e involontarie che sta tutto il male. Voi non capite ancora e non potete immaginare tutte le conseguenze di questo flagello, ma verrà il giorno in cui comprenderete”, P. D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma 1976, pp. 60-61, corsivi in originale. Ed è davvero un flagello l’attività incosciente di milioni di uomini, in ogni campo e non solo nella guerra; ma chissà se è venuto il tempo che alcuni comprendano …
[iii] “Baudrillard sostiene infatti che ci troviamo ‘in un universo nel quale si dà sempre più informazione e sempre meno senso’, verità non facile da cogliere [in quel tempo!, non oggi!] in quanto il mito della produttività c’induce a credere ‘che l’informazione produca una circolazione accelerata del senso, un plusvalore senso analogo al plusvalore economico che deriva dalla rotazione accelerata del capitale. L’informazione viene presentata come creatrice di comunicazione, e anche se lo spreco è immenso, un consenso generale pretende che nell’insieme del processo risulti in ogni caso un eccesso di senso, il quale si ridistribuisce in tutti gli interstizi del sociale […]. Noi siamo tutti complici di questo mito […], senza il quale la credibilità della nostra organizzazione sociale andrebbe a fondo. Ora, il fatto è che essa va effettivamente a fondo, e proprio per questa ragione. Perché mentre noi pensiamo che l’informazione produca senso, comunicazione, socialità, quel che accade è esattamente l’inverso’. Oltre che ‘oggettivista’, questa tesi appare incomprensibile [all’epoca sembrava davvero ‘incomprensibile’!!] se non si chiarisce che il concetto di ‘sociale’ ha in Baudrillard due facce: sociale è l’insieme delle strutture astratte che si fonda appunto sulla circolazione dei segni, ma esiste anche una ‘sostanza profonda’ del sociale, che sono ‘le rovine dell’edificio simbolico e rituale delle società precedenti’ [questo livello profondo è proprio ciò che il capitalismo consuma, per Baudrillard]. La citazione precedente va quindi intesa nel senso che il sociale ‘capitalistico’ si alimenta della sostanza profonda del sociale divorandola [precisamente così]: ‘I media, tutti i media, l’informazione, tutta l’informazione, si muovo in questa doppia direzione: producono un aumento di sociale in apparenza, mentre in profondità neutralizzano i rapporti sociali e il sociale stesso’. Con questa precisazione la tesi diviene comprensibile, ma permane e si rafforza la sensazione di una stretta analogia con [..] Marx”, C. Formenti, La fine del valore d’uso, riproduzione, informazione, controllo, Feltrinelli Editore, Milano 1980, pp. 62-63, corsivi e commenti fra parentesi quadre miei. I passi di Baudrillard sono di un suo articolo (Su “Aut Aut”) del lontano 1979, ben quarant’anni fa ormai … Nonostante la critica di Formenti, per la quale la tesi è “oggettivista” e “marxiana”, i fatti stan qui a dimostrare che accade sempre più spesso che quanto più informazione ci sia, tanto meno senso, significato ci sta. Oggi tanti sanno che l’informazione non necessariamente genera comunicazione, ma vederlo nel 1979 non era facile … Inoltre, quand’anche constatino che informazione e comunicazione non vadano necessariamente assieme, non ne traggono affatto tutte le necessarie deduzioni che Baudrillard ne traeva ai suoi tempi, e le traeva in modo assai rigoroso e radicale … In ogni caso, l’analogia con Marx non venne assolutamente percepita delle “sinistre”, ben marxiste, dell’epoca, anzi: non fu capita proprio, il che la dice lunga …  










5 commenti:

  1. Quello detto qui sopra è il “meccanismo fondante”la modernità, che ti **deve** “dare di più”, proprio perché il potere moderno non ha alcuna legittimità superiore, nessuna base verso l’Alto.
    E questo nonostante che la “maggiore tutela” è sempre più difficile da “dare”, ma lo scopo, il fine, la direzione della modernità – ormai al capolinea – rimangono questi. La situazione oggi è questa: che al richiesta di “maggiore tutela” continua, anzi, si accresce, a fronte di una impossibilità di poterle rispondere, salvo in modo totalmente **illusori**, come “sovranismi” ed altre sciocchezze, che han successo perché oggi la simulazione e la (ex) “realtà” sono sempre più indistinguibili.
    A una tale richiesta saranno “altre” forze che potranno – sempre illusoriamente – rispondere, ma con una “illusorietà” ben diversa, di **qualità** molto diversa ….














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    1. Quella della nascita dello stato moderno è un’interrogazione **implicita** sull’ “Origine” dello stato stesso, sulla sua “legittimità” cioè, “implicita” perché mai esplicitata, ma nata dalla crisi **nel** (cioè dentro, all’interno) “mondo della tradizione” occidentale; le risposte a tale crisi sono sempre state di tipo “pratico”, vale a dire ch’esse giammai hanno reso esplicito il punto “critico” iniziale, ma, invece, si sono concentrate – le “risposte” – sul “come fare” (“know how”) per aumentare la “preformatività” concreta dello stato, in luogo di rispondere al momento “critico” iniziale, invece di corrispondere al problema dell’ “origine” dello stato. In altre parole: lo stato moderno “non ha” origine, si rifiuta di discutere sulla sua “origine” – dunque sulla sua legittimità – per concentrarsi sulle soluzioni “pratiche” per rafforzarsi, anche senza “origine” o dandola per scontata. Traduzione: discutere dell’origine – = “chi/cosa” ti/ci ha fatto “stato” – è **il** “tabù” fondante lo stato moderno. E’ “il” tabù **fondante** poiché discuterne è **impossibile** nell’ambito della modernità stessa. Deduzione: occorre un **altro** “quadro di riferimento mentale” per poterne discutere. Di conseguenza, è “più facile che un cannellone trapassi per la cruna nel lago” – per dirla scherzosamente – che la modernità possa risolvere quella “frattura” **dalla** quale essa è nata, e **della** quale essa è assolutamente **inconsapevole**, **del tutto** inconsapevole.
      Ulteriore deduzione: la modernità **si basa**, si fonda, su tale inconsapevolezza …
      Due le risposte concrete che la storia ci ha consegnato (piaccia o non), una di “sinistra” e l’altra di “destra”: quella di “sinistra” è basata sul concetto di “estensione”, di “tutela” e/o di “diritti”, ma sempre di “estensione” trattasi: aumentare la “platea” e coinvolgere, insomma. La non soluzione di “destra” è la “legittimità” di Talleyrand: non ci s’interroga sull’ “origine” del potere politico (perché nella modernità ciò è “tabù”), ma si dice che è “legittimo” ciò che già lo era: in tal modo, si può mantenere in epoca moderna dei poteri di origine premoderna ma non fondarne di nuovi, il gioco di prestigio è questo, ed è durato sin troppo, le “destra” d’ogni risma e forma non avendo alcuna consapevolezza del problema fondante né potendo averne. Se un diverso assetto si può instaurare o si deve confermare quello preesistente, si deve ricorrere al “plebiscito”, la “sindrome plebiscitaria”, con il suo corollario di super retorica sul “popolo”, è parte costitutiva della “destra” politica moderna, che si auto presenta come “tradizionale” cosiddetta. In tal senso, fra “populismo” e “destre” vi è similarità e differenza al tempo stesso, nel senso che le “destre” sono “plebiscitarie”, il “populismo”, simile alle destre, però ha il senso “materico” della protesta. Le “destre” non si oppongono mai – ma dico **mai** – al cosiddetto “popolo” ed alla sua ancor più iper cosiddetta ““volontà”” – sono meri desideri di massa, in effetti –, ma se il “popolo” non va in una certe direzione occorre condurvelo. Al populismo questo ultimo punto è lontano, si accontenta del muro fra cosiddette “classi dirigenti” e “popolo” cosiddetto, i “poteri forti” ecc. ecc., quella retorica che oggi ben si conosce. Finisce lì, quando si deve passare da ciò ad un programma positivo, hanno delle difficoltà grandissime, come la cronaca dimostra.
      Ambedue le cosiddette “soluzioni” storicamente proposte oggi sono **inefficaci**, quella di “sinistra” è tramontata per definizione, e da tempo, come s’è detto varie volte su questo blog. Mentre quella di “destra” è in crisi, in realtà in crisi esiziale, ma non vista, **non** riconosciuta: di qui le false soluzioni – in realtà: **dis**-soluzioni … – proposte da varie forme di “sovranismo” – sempre cosiddetto tale.

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  2. A proposito di una recente pubblicazione – W. DAVIES, “Stati nervosi. Come lì’emotività ha conquistato il mondo”, Einaudi, Torino c.a. –: queste eruzioni di “emotività di massa” sono tutt’altro che una novità nella storia moderna (e non solo); sulla storia moderna, si veda M. GREENGRASS, “La cristianità in frantumi. Europa 1517-1648”, Laterza, Roma-Bari 2017, che parla di “parossismo” dell’Europa in quel periodo. In linea generale, la modernità si connota per queste esplosioni di emotività di massa, contrastate, ma in realtà sono due facce dello stesso fenomeno, dall’andamento “razionalisteggiante”, basato sull’ossessione del “controllo”, dello “stato moderno”, teorizzato anche a partire da Hobbes. E a Hobbes fa riferimento Davies, che si domanda se la “delega totale” al “sovrano”, che governa colla paura – cioè ha l’ossessione del “controllo totale” –, possa servire oggi: egli stesso è “scettico” al riguardo; personalmente, opto per un deciso “no” come recisa risposta. Non serve. Ma era proprio la delega che, però, apriva lo spazio al “cittadino” ed alle sue “libertà”, **non** ancora in Hobbes, ma, “in nuce”, già in lui come seme, come germe. Ne ha parlato giustamente P. Broccoli qui sopra. Anche questo non c’è più, di conseguenza la “soluzione” proposta da Davies, e cioè l’uso dello stato e della legge, della “scienza” ecc. ecc., per recuperare lo spazio perduto e rafforzare un’emotività positiva, è perdente, non mi convince affatto. Il punto è che le due costellazioni nascono allo stesso momento, come pure l’enfasi sull’emotività di massa: che cos’è la 2destra” se non l’appello a tale emotività? E che cos’è la “rivoluzione conservatrice” se non la centralità di tale emotività? Che tutto ciò potesse controllare al deriva della modernità, era chimerico. E lo è tutt’ora. Dalle cosiddette “risposte” di Davies deduco due cose: 1) che la **radicalità** della “Crisi” che la modernità **è** (come diceva Guénon ne “La Crisi del mondo moderno”) è non vista e sottovalutata; 2) le cosiddette “risposte” oggi sono del tipo: la febbre a 39 “cura” la febbre a quaranta. Senza dubbio, **giusto** far diminuire la febbre – ma perché nemmeno questo siete in grado di fare?, c’è qualcuno che se lo chiede? – ma **non è** una “cura”, non lo è in alcun modo.

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    1. Tutto ciò detto, **non** ho mai sottovalutato la portata e l’importanza dell’emotività nelle dinamiche di massa, in questo ben diversamente dalle “razionalistizzanti” cosiddette “sinistre”, in questo ben lontano dalle “ubbie” illuministiche. Ma ciò, a sua volta, **non** significa che la risposta emotiva non possa mai esser altro se non una risposta **falsa**, errata. In questo ben lontano dalle cosiddette “destre”, oggi così di voga. Tutti questi ottusi che straparlano della “sinistra” che avrebbe in mano il “monopolio” della “cultura”, stanno fuori epoca. Ma come si fa a non vedere che tutta l’atmosfera mentale dei “nostri” tempi è dominata dalle “destre”? Che esse abbiano imposto l’ “agenda” dominante, oggi? Ma, davvero, “l’invidia degli dèi sopravvive agli dèi”, diceva Adorno: questi hanno l’invidia delle “sinistre” – che non esistono più da tempo – e ciò serve ad una “narrazione” del “bambino sperduto ed abbandonato” nel quale s’identifica la classe media “oltre la frutta” dei “nostri” tempi, ma non ha niente a che spartire colla realtà, che è quella di un’atmosfera mentale dominata dalle “destre”, e non da ieri, a cominciare dagli anni Ottanta del secolo scorso, ormai un **lungo quarantennio** di dominio. Poi rafforzatosi, in modo esponenziale, a partire dal 1994 fatidico.




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