Il
“Breviario del professor Dupin”
Il Breviario
del professor Sylvestre Dupin.
Qui
di seguito si riporteranno le frasi dell’immaginario
professor Dupin, tratte da La
Grande Implosione
(di Thuiller, Asterios 1997).
Le
frasi saranno seguite semplicemente dal numero di pagina. Thuiller immagina un gruppo di sociologi nel futuro, dopo La Grande Implosione, che ricerca, nel crepuscolo della modernità, le cause profonde dei successivi avvenimenti, a quel gruppo noti ed a noi oggi al contrario non noti...
Questo è lo stato che abbiamo conosciuto, ne La Grande Implosione Thuiller immaginava che una rivolta globale, partita dalle “campagne del mondo” poi avesse dato inizio a ciò che appunto chiamava La Grande Implosione. Siamo vicini a detta Grande Implosione? E quanto?
Si badi bene: implosione, non esplosione. I modelli basati sulla esplosione son quelli moderni (come Baudrillard docebat) e non si passa senza fratture o cesure di continuità da e fra i due moti, centripeto e centrifugo intendo...
Questo è lo stato che abbiamo conosciuto, ne La Grande Implosione Thuiller immaginava che una rivolta globale, partita dalle “campagne del mondo” poi avesse dato inizio a ciò che appunto chiamava La Grande Implosione. Siamo vicini a detta Grande Implosione? E quanto?
Si badi bene: implosione, non esplosione. I modelli basati sulla esplosione son quelli moderni (come Baudrillard docebat) e non si passa senza fratture o cesure di continuità da e fra i due moti, centripeto e centrifugo intendo...
1.
“Ogni cultura nasce da certe
scelte e, nel bene e nel male, si spinge sempre fino al limite”
(p. 11).
“Gli Occidentali degli anni Ottanta e Novanta - affermava il professor Dupin - erano in realtà sprovvisti di ogni cultura, perlomeno se si ammette che una vera cultura presuppone una solida concezione dell’uomo e della società” (p. 12).
“Alla vigilia della Grande Implosione l’ideale della razionalità serviva essenzialmente a legittimare le forme peggiori dell’attivismo tecnico, dell’attivismo organizzativo e di quello industriale e commerciale: meccanizzazione ad oltranza, culto del rendimento, licenziamenti, ecc.” (p. 23).
“Una cultura - diceva il professor Dupin - è un’opera d’arte. Una società industriale, nel migliore dei casi, solo un formicaio iper-razionalizzato” (ibid.). “Il grande fallimento degli Occidentali - affermava il professor Dupin - non è il fatto che non abbiano saputo trovare delle soluzioni, ma il fatto che non siano stati neanche capaci di cogliere i problemi” (p. 31), davvero fondamentale quest’aforisma.
“Il professor Dupin, per definire la situazione di decadenza in cui si trovavano le società occidentali alla fine del XX secolo, parlava di pseudo-cultura. Era un’espressione comoda per ricordare quanto i ‘civili’ fossero sprovvisti di qualsiasi progetto spirituale. ‘Tutti i valori che avevano ereditato si disperdevano’. Dove persistevano era in modo marginale e con forme imbastardite” (p. 38). “Come diceva il professor Dupin, ‘il 95% è non-umanitario; il 5% è umanitario. In una società altamente sofisticata, che praticava un’infernale ‘divisione del lavoro’, il senso dell’umano era stato dappertutto riassorbito ed era divenuto interesse esclusivo di qualche specialista. Ovvero: una ciliegina d’idealismo sulla grande torta del realismo moderno. Come avevano potuto uomini ‘civili’ accontentarsi di simili trucchetti culturali?’” (p. 39).
E’ che, come spesso dico, non si pone sufficiente attenzione sul fatto che “civiltà” fa rima con “viltà”... “Che stile di vita stiamo instaurando? In che senso modifichiamo le relazioni fra persone o fra gruppi umani? Che spazio lasciamo all’avventura, alla vita spirituale, alla poesia?” (p. 43), le domande fondamentali di una società secondo il professor Dupin, tutte disattese dalla modernità stagnante e finale, che teorizza il non doversele porre. “I moderni, presi com’erano in un demenziale turbinio d’informazioni disparate, inebriati da un infinito scatenamento di visioni caleidoscopiche, avevano perso il contatto con la realtà, con la vita. Da un lato c’era il piccolo mondo dei loro interessi più immediati (soldi, consumo, comodità, sicurezza, ecc.); dall’altro l’universo astratto, disincarnato e falsamente realista che fabbricava per loro la televisione” (p. 59).
“Come diceva il professor Dupin: ‘sdoppiati o sradicati dal televoyeurismo universale, gli Occidentali erano caduti in una sorta d’intorpidimento spirituale. L’uomo moderno, nel 2000, non era altro che un occhio, uno sguardo astratto. Le sole cose che lo collegavano al mondo erano i suoi interessi finanziari ed economici, le esigenze esclusivamente materiali del consumo. Il resto si riduceva a giochi d’ombra, a telespettacoli (cioè a spettacoli che rendevano gli altri uomini sempre più lontani)’” (p. 61). L’occhio, come l’Occhio di Sauron: si potrebbe quasi dire che Tolkien nell’Occhio di Sauron dà una versione simbolica della modernità...
“Gli Occidentali degli anni Ottanta e Novanta - affermava il professor Dupin - erano in realtà sprovvisti di ogni cultura, perlomeno se si ammette che una vera cultura presuppone una solida concezione dell’uomo e della società” (p. 12).
“Alla vigilia della Grande Implosione l’ideale della razionalità serviva essenzialmente a legittimare le forme peggiori dell’attivismo tecnico, dell’attivismo organizzativo e di quello industriale e commerciale: meccanizzazione ad oltranza, culto del rendimento, licenziamenti, ecc.” (p. 23).
“Una cultura - diceva il professor Dupin - è un’opera d’arte. Una società industriale, nel migliore dei casi, solo un formicaio iper-razionalizzato” (ibid.). “Il grande fallimento degli Occidentali - affermava il professor Dupin - non è il fatto che non abbiano saputo trovare delle soluzioni, ma il fatto che non siano stati neanche capaci di cogliere i problemi” (p. 31), davvero fondamentale quest’aforisma.
“Il professor Dupin, per definire la situazione di decadenza in cui si trovavano le società occidentali alla fine del XX secolo, parlava di pseudo-cultura. Era un’espressione comoda per ricordare quanto i ‘civili’ fossero sprovvisti di qualsiasi progetto spirituale. ‘Tutti i valori che avevano ereditato si disperdevano’. Dove persistevano era in modo marginale e con forme imbastardite” (p. 38). “Come diceva il professor Dupin, ‘il 95% è non-umanitario; il 5% è umanitario. In una società altamente sofisticata, che praticava un’infernale ‘divisione del lavoro’, il senso dell’umano era stato dappertutto riassorbito ed era divenuto interesse esclusivo di qualche specialista. Ovvero: una ciliegina d’idealismo sulla grande torta del realismo moderno. Come avevano potuto uomini ‘civili’ accontentarsi di simili trucchetti culturali?’” (p. 39).
E’ che, come spesso dico, non si pone sufficiente attenzione sul fatto che “civiltà” fa rima con “viltà”... “Che stile di vita stiamo instaurando? In che senso modifichiamo le relazioni fra persone o fra gruppi umani? Che spazio lasciamo all’avventura, alla vita spirituale, alla poesia?” (p. 43), le domande fondamentali di una società secondo il professor Dupin, tutte disattese dalla modernità stagnante e finale, che teorizza il non doversele porre. “I moderni, presi com’erano in un demenziale turbinio d’informazioni disparate, inebriati da un infinito scatenamento di visioni caleidoscopiche, avevano perso il contatto con la realtà, con la vita. Da un lato c’era il piccolo mondo dei loro interessi più immediati (soldi, consumo, comodità, sicurezza, ecc.); dall’altro l’universo astratto, disincarnato e falsamente realista che fabbricava per loro la televisione” (p. 59).
“Come diceva il professor Dupin: ‘sdoppiati o sradicati dal televoyeurismo universale, gli Occidentali erano caduti in una sorta d’intorpidimento spirituale. L’uomo moderno, nel 2000, non era altro che un occhio, uno sguardo astratto. Le sole cose che lo collegavano al mondo erano i suoi interessi finanziari ed economici, le esigenze esclusivamente materiali del consumo. Il resto si riduceva a giochi d’ombra, a telespettacoli (cioè a spettacoli che rendevano gli altri uomini sempre più lontani)’” (p. 61). L’occhio, come l’Occhio di Sauron: si potrebbe quasi dire che Tolkien nell’Occhio di Sauron dà una versione simbolica della modernità...
2.
“Un sociologo-guru, verso la metà
del XX secolo, aveva avuto un lampo di genio: quest’umanità era
‘condannata al
progresso per l’eternità’.
La formula doveva essere presa alla lettera. Quest’epoca, secondo
il professor Dupin, era sepolcrale e negativa, e cioè votata ai
rifiuti, ai comportamenti di evasione e di fuga. Come ci mostrano i
documenti più sicuri, bisognava continuamente schivare minacce e
‘difendersi’. Come evitare d’essere derubato o aggredito? Come
evitare le conseguenze di una svalutazione o di un crollo in Borsa?
Come proteggersi dall’inquinamento? Come lottare contro la droga?
Come resistere alla concorrenza straniera, all’immigrazione
galoppante? Come ‘disinnescare’ le periferie esplosive? Se mai
una cultura è entrata nell’avvenire a ritroso, per riprendere
un’espressione di Paul Valéry, è proprio questa. Quale ironia! I
moderni dileggiavano i ‘conservatori’ ma erano costretti a
spendere senza guardare al portafoglio per proteggere se stessi e i
loro beni” (p. 69). OGGI!
“Il professor Dupin, come sempre, aveva trovato una formula stimolante: ‘L’Occidente moderno è nato nelle città e nelle città è morto’” (p. 75).
“‘E’ nel vocabolario dell’economia - constatava ironicamente il professor Dupin - che ha finito per concentrarsi l’essenziale della metafisica del XX secolo’” (p. 105). “‘Il denaro - affermava il professor Dupin - era la sola variabile che sapessero o volessero manipolare. Tutto il resto sfuggiva loro. Gli esseri e gli oggetti erano reali solo in quanto valori economici misurabili e svolgevano un ruolo qualsiasi nelle attività della Grande Rete’” (p. 107). (continua) “Il professor Dupin non perdeva occasione per citare una formula che circolava nel XX secolo: ‘Le altre civiltà hanno inventato macchine; solo l’Occidente cristiano ha inventato la Macchina’” (p. 176). “In Occidente l’indottrinamento meccanicista delle masse ha ottenuto prestissimo i suoi titoli nobiliari” (p. 179). “‘A partire dal 1500 - affermava il professor Dupin - la Chiesa, senza volerlo, era divenuta una conchiglia vuota. E in questo vuoto si erano comodamente installati nuovi maestri decisi ad andare fino ai limiti estremi delle loro possibilità. Per raggiungerli e morirne sarebbero stati sufficienti cinque secoli’” (p. 183).
“‘In fondo - diceva il professor Dupin - vi si dedicavano come se stessero scavando il tunnel sotto la Manica, cioè cominciando dalle due estremità. Gli uni riducevano l’uomo a una macchina, gli altri perfezionavano la macchina di modo che non la si potesse più distinguere da un essere umano’” (p. 221). “‘O meglio - diceva il professor Dupin - la crisi gigantesca della disoccupazione era stata programmata e preparata deliberatamente. Essa non costituiva un incidente di percorso, un’imprevedibile peripezia; al contrario, era il risultato di un progetto ben definito e chiaramente annunciato’” (p. 235).
“Il professor Dupin, come sempre, aveva trovato una formula stimolante: ‘L’Occidente moderno è nato nelle città e nelle città è morto’” (p. 75).
“‘E’ nel vocabolario dell’economia - constatava ironicamente il professor Dupin - che ha finito per concentrarsi l’essenziale della metafisica del XX secolo’” (p. 105). “‘Il denaro - affermava il professor Dupin - era la sola variabile che sapessero o volessero manipolare. Tutto il resto sfuggiva loro. Gli esseri e gli oggetti erano reali solo in quanto valori economici misurabili e svolgevano un ruolo qualsiasi nelle attività della Grande Rete’” (p. 107). (continua) “Il professor Dupin non perdeva occasione per citare una formula che circolava nel XX secolo: ‘Le altre civiltà hanno inventato macchine; solo l’Occidente cristiano ha inventato la Macchina’” (p. 176). “In Occidente l’indottrinamento meccanicista delle masse ha ottenuto prestissimo i suoi titoli nobiliari” (p. 179). “‘A partire dal 1500 - affermava il professor Dupin - la Chiesa, senza volerlo, era divenuta una conchiglia vuota. E in questo vuoto si erano comodamente installati nuovi maestri decisi ad andare fino ai limiti estremi delle loro possibilità. Per raggiungerli e morirne sarebbero stati sufficienti cinque secoli’” (p. 183).
“‘In fondo - diceva il professor Dupin - vi si dedicavano come se stessero scavando il tunnel sotto la Manica, cioè cominciando dalle due estremità. Gli uni riducevano l’uomo a una macchina, gli altri perfezionavano la macchina di modo che non la si potesse più distinguere da un essere umano’” (p. 221). “‘O meglio - diceva il professor Dupin - la crisi gigantesca della disoccupazione era stata programmata e preparata deliberatamente. Essa non costituiva un incidente di percorso, un’imprevedibile peripezia; al contrario, era il risultato di un progetto ben definito e chiaramente annunciato’” (p. 235).
3.
“‘Qualsiasi tecnica veramente
nuova - diceva il
professor Dupin - trasforma
le relazioni fra gli uomini ed il loro ambiente’”
(p. 259).
“Un punto
affascinava particolarmente il professor Dupin: ‘Perché
gli Occidentali non avevano mai ammesso di provare orrore per la
natura?’” (p.
261).
“Poiché i moderni rifiutavano qualsiasi mutazione, poiché erano sordi a qualsiasi rivendicazione spirituale, il crollo era inevitabile. Non senza tristezza il professor Dupin faceva questa constatazione post-mortem: ‘L’unica via d’uscita era la violenza’” (p. 273).
“Poiché i moderni rifiutavano qualsiasi mutazione, poiché erano sordi a qualsiasi rivendicazione spirituale, il crollo era inevitabile. Non senza tristezza il professor Dupin faceva questa constatazione post-mortem: ‘L’unica via d’uscita era la violenza’” (p. 273).
“C’era bisogno di spingersi più
in là? Il nostro gruppo di ricerca ha avuto la tentazione di
fermarsi (...). Abbiamo constatato che l’Occidente si era messo una
volta per tutte nelle mani dei mercanti, degli imprenditori e dei
banchieri, degli ingegneri, degli esperti e dei tecnocrati: un
bilancio piuttosto deludente. la storia della ‘modernità’ (...)
si riduceva a quella di un lungo incaponimento collettivo. In un
certo senso non c’era niente da capire. Eravamo capaci di dirne di
più su questa pseudocultura? Ci siamo allora ricordati di una frase
del professor Dupin: ‘Uno
dei personaggi più strani dell’Occidente è stato lo scienziato,
l’uomo di scienza. Diciamolo chiaramente: ha giocato su tutti i
tavoli. Da una parte era completamente integrato nella cultura
borghese, e più precisamente nel complesso militar-industriale.
Dall’altra si presentava volentieri come l’incarnazione della
ragion Pura e persino come la perfetta guida intellettuale dei tempi
moderni. Un giorno bisognerà pur fare il punto. Perché gli
scienziati hanno goduto di un prestigio che oggi ci pare smisurato?
Che cos’ha significato la scienza nella società dei costumi?’.
Fedele a se stesso, il professore non andava troppo per il sottile”
(p. 277).
“Dal
XVI al XVIII, se non anche nel XIX, la maggioranza degli scienziati
sono tecnici” (p.
281).
“‘In ogni scienziato moderno - diceva ancora il professor Dupin - sonnecchiava un ingegnere’” (p. 287). “‘Si possono contare sulla punta delle dita -affermava il professor Dupin - le autorità che hanno riconosciuto esplicitamente che la scienza moderna, nel suo movimento principale, era una tecno-scienza. Una scienza, dunque, impegnata appieno nella corsa ai profitti e nella corsa agli armamenti e che, volente o no, partecipava attivamente ai deliri di meccanizzazione, automazione, normalizzazione e tecnocratizzazione’” (p. 294).
“Il professor Dupin aveva tuttavia ragione a sottolinearlo: in Occidente c’erano alcuni scienziati che si erano rivelati nel contempo celebri e lucidi, ma essi, anche quando le loro critiche (talvolta violente) non rimanevano nascoste nelle loro carte private, si scontravano con l’indifferenza generale” (p. 303). “Diversi indizi ci sono parsi confermare l’opinione del professor Dupin: ‘In molte circostanze lo scienziato ha svolto presso i civili lo stesso ruolo dello stregone nelle popolazioni cosiddette primitive’” (p. 305). “‘A partire dal momento in cui uno scienziato si era fatto un nome grazie ai suoi lavori propriamente scientifici - diceva il professor Dupin - poteva raccontare all’incirca qualsiasi cosa. Forse non veniva creduto sempre, tuttavia beneficiava quantomeno di un pregiudizio favorevole. E più i suoi argomenti erano inintelligibili, meno rischiava di essere contraddetto’” (p. 306).
“Il professor Dupin lo aveva sottolineato più volte: affinché i cittadini si mostrassero sottomessi, affinché si affidassero ed obbedissero ad ogni sorta di tecnocrati non era essenziale una buona conoscenza delle scienze e delle tecniche ma solo la loro cieca venerazione. (...) ‘La scienza - diceva ancora il professor Dupin - era la teologia della tecnocrazia’” (p. 317).
Anzi, una buona conoscenza poteva pur essere dannosa, in quanto, potenzialmente, mostra l’inconsistenza di molte “teorie scientifiche”. “... tutto accadde come se (...) i moderni si fossero decisi a ‘ricondurre allo stato inorganico tutto ciò che viveva’” (p. 322).
“Per quanto il malessere dell’Occidente fosse correttamente analizzato, di certo non sarebbe servito a niente: ‘Nessuno avrà mai l’autorità sufficiente per imporre alla collettività la terapia necessaria’” (p. 324).
“Oggi sappiamo che i pessimisti avevano ragione. Le società industriali, sempre più sottomesse al denaro ed alla macchina, sempre più minate dall’individualismo e sempre più distaccate dalla vita universale, hanno subito, nella violenza, lo stesso destino delle altre civiltà. Non senza una certa amarezza il nostro gruppo di ricerca ha scoperto un ultimo paradosso: nel settembre del 1645 Descartes, quello stesso Descartes che doveva svolgere un così triste ruolo nella storia spirituale dell’Occidente, aveva scritto alla principessa Elisabetta di Boemia una bellissima lettera in cui non c’erano né animali-macchina né razionalismo inaridente, ma una sobria poesia, un autentico senso di giustizia e di generosità. (...) Ma questa lettera era privata. E quand’anche avesse goduto della più ampia pubblicità, avrebbe forse cambiato qualcosa nel destino dell’Occidente? Avrebbe impedito la catastrofe? ‘Sicuramente non’ avrebbe risposto il professor Dupin” (ibid.).
“‘In ogni scienziato moderno - diceva ancora il professor Dupin - sonnecchiava un ingegnere’” (p. 287). “‘Si possono contare sulla punta delle dita -affermava il professor Dupin - le autorità che hanno riconosciuto esplicitamente che la scienza moderna, nel suo movimento principale, era una tecno-scienza. Una scienza, dunque, impegnata appieno nella corsa ai profitti e nella corsa agli armamenti e che, volente o no, partecipava attivamente ai deliri di meccanizzazione, automazione, normalizzazione e tecnocratizzazione’” (p. 294).
“Il professor Dupin aveva tuttavia ragione a sottolinearlo: in Occidente c’erano alcuni scienziati che si erano rivelati nel contempo celebri e lucidi, ma essi, anche quando le loro critiche (talvolta violente) non rimanevano nascoste nelle loro carte private, si scontravano con l’indifferenza generale” (p. 303). “Diversi indizi ci sono parsi confermare l’opinione del professor Dupin: ‘In molte circostanze lo scienziato ha svolto presso i civili lo stesso ruolo dello stregone nelle popolazioni cosiddette primitive’” (p. 305). “‘A partire dal momento in cui uno scienziato si era fatto un nome grazie ai suoi lavori propriamente scientifici - diceva il professor Dupin - poteva raccontare all’incirca qualsiasi cosa. Forse non veniva creduto sempre, tuttavia beneficiava quantomeno di un pregiudizio favorevole. E più i suoi argomenti erano inintelligibili, meno rischiava di essere contraddetto’” (p. 306).
“Il professor Dupin lo aveva sottolineato più volte: affinché i cittadini si mostrassero sottomessi, affinché si affidassero ed obbedissero ad ogni sorta di tecnocrati non era essenziale una buona conoscenza delle scienze e delle tecniche ma solo la loro cieca venerazione. (...) ‘La scienza - diceva ancora il professor Dupin - era la teologia della tecnocrazia’” (p. 317).
Anzi, una buona conoscenza poteva pur essere dannosa, in quanto, potenzialmente, mostra l’inconsistenza di molte “teorie scientifiche”. “... tutto accadde come se (...) i moderni si fossero decisi a ‘ricondurre allo stato inorganico tutto ciò che viveva’” (p. 322).
“Per quanto il malessere dell’Occidente fosse correttamente analizzato, di certo non sarebbe servito a niente: ‘Nessuno avrà mai l’autorità sufficiente per imporre alla collettività la terapia necessaria’” (p. 324).
“Oggi sappiamo che i pessimisti avevano ragione. Le società industriali, sempre più sottomesse al denaro ed alla macchina, sempre più minate dall’individualismo e sempre più distaccate dalla vita universale, hanno subito, nella violenza, lo stesso destino delle altre civiltà. Non senza una certa amarezza il nostro gruppo di ricerca ha scoperto un ultimo paradosso: nel settembre del 1645 Descartes, quello stesso Descartes che doveva svolgere un così triste ruolo nella storia spirituale dell’Occidente, aveva scritto alla principessa Elisabetta di Boemia una bellissima lettera in cui non c’erano né animali-macchina né razionalismo inaridente, ma una sobria poesia, un autentico senso di giustizia e di generosità. (...) Ma questa lettera era privata. E quand’anche avesse goduto della più ampia pubblicità, avrebbe forse cambiato qualcosa nel destino dell’Occidente? Avrebbe impedito la catastrofe? ‘Sicuramente non’ avrebbe risposto il professor Dupin” (ibid.).
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Termina qui il
“Breviario
del professor Dupin”.
“Più tutto diventa inutile più credi che sia vero”(F. Battiato, verso dalla canzone “Il Re del mondo”), ma qui siam ben oltre l’inutile …
RispondiEliminaTutti ‘sti annunci che non producono eventi: la caratteristica del “nostro” tempo; quando l’evento viene, poi, è SEMPRE DELUDENTE: troppi annunci prima …
I situazionisti avevano di fronte ancora un po’ di realtà, residuale però, ma non lo capirono … Forse non potevano …