domenica 1 dicembre 2013

Di cose già passate che hanno avuto conseguenze... “Etica, economia e cultura globale”


Etica, economia e cultura globale



1. Manifesto

“Se l’umanità deve avere un futuro nel quale
riconoscersi, non potrà averlo prolungando
il passato o il presente. Se cerchiamo di
costruire il terzo millennio su questa base,
falliremo. E il prezzo del fallimento... è il buio”.
Eric J. Hobsbawm
(Il secolo breve)

Un fantasma si aggira per il mondo: il XIX secolo. L’idea d’unilinearità, di sviluppo univoco. Nonostante tale ottica sia, oggi, assolutamente improponibile, essa rimane inchiodata nelle menti, pur essendo ormai lontana dal ritmo dell’epoca, ben diverso. Quest’inerzia mentale purtroppo impedisce di rispondere alle pressanti sfide che spingono la nostra epoca oltre se stessa.
E’ stato lo sviluppo che, nel suo tumultuoso fluire come di un fiume in piena, come la Grande Onda immortalata da Hokusai, ha rotto quel castigato schemuccio di uno sviluppo quieto ed ordinato. Uno schema profondamente datato nella sua presupposta unilateralità, uno schema che sa di carrozze e di treni a vapore, che sa di una realtà sparita. 
Proprio lo sconvolgimento che lo sviluppo ha provocato sorprenderebbe i teorici del secolo scorso, i quali si sarebbero aspettati che lo sviluppo producesse ordine, e non disordine, com’è invece accaduto nei fatti. Ma il bello è che, pur non potendo esser più negato il legame fra sviluppo e disordine, tale correlazione non può essere spiegata in base alle idee del XIX secolo. Così, mentre la situazione spinge forzatamente a soluzioni diverse, poi ben pochi vogliono effettivamente abbandonare comodi schemi risultati fallaci.

Un altro punto che non va è la dicotomia struttura/sovrastruttura, che riduce quest’ultima ad appendice della prima. Questo è un distillato puro di riduttivismo del XIX secolo. Proprio questo punto è stato attaccato all’inizio di questo secolo da Max Weber, che ha dimostrato, in un famoso saggio, la centralità dell’etica protestante nella genesi del capitalismo. Gli scritti di Weber sono particolarmente centrali per gli studi d’orientalistica e soprattutto per l’Asia orientale. Difatti, la Cina ha sviluppato assai prima dell’Occidente il predominio dei valori acquisitivi su quelli ascrittivi, in altre parole una delle principali caratteristiche distintive dell’epoca moderna. Eppure la Cina non ha sviluppato la modernità in termini di tendenze mentali, anzi vi si è strenuamente opposta, tant’è che si è giustamente parlato di moderno senza modernità. Dov’era la differenza? Precisamente nell’etica, in pratica nella cultura.

Anche nell’analisi marxiana della struttura del capitalismo la sottovalutazione dell’importanza della sovrastruttura ha giocato il suo ruolo. Difatti, come ha dimostrato J. Baudrillard, la rivoluzione iniziata dal capitalismo con la metà degli anni ‘70 ha riguardato l’informazione, cioè la sovrastruttura; solo in séguito ha modificato la struttura. Il marxismo ha perso quando non è stato in grado di afferrare il legame fra quel cambiamento sovrastrutturale e la modificazione strutturale conseguente. Solo dopo son crollati i regimi che s’ispiravano, molto alla lontana per la verità, al marxismo.
Vuoi cambiar la struttura? Inizia dalla sovrastruttura. Vuoi modificare la sovrastruttura? Inizia dalla struttura.

2
La centralità dell’economia è illusoria. Piuttosto, è dal secolo scorso, dalla Rivoluzione Industriale, che essa è divenuta l’agone principale, ed ora in concreto l’unico e il globale, dove si esprimono e si manifestano i contrasti ed i rapporti di forza. Essa è oggi l’agone mondiale, complessivo, unico. Però è necessario precisare che questo predominio è un’eccezione nella storia dell’umanità, e non la regola. Tutti i diversi contendenti giungendo, per l’appunto, diversi a quest’unico mercato globale, le loro differenze, pur essendo appiattite, uniformate, pure non sono tolte. Tali differenze si manifestano all’interno della dimensione economica, che quindi non può essere centrale, pur essendo, e la cosa è oggi evidente, quella predominante.
Il confondere il predominio con la centralità dà la misura della povertà dell’economicismo, che altro non è altro se non l’applicazione nella sfera economica del riduttivismo materialista del secolo scorso. Il suo problema è che non funziona, cioè non dà conto proprio delle differenze che continuano a manifestarsi all’interno dell’agone economico. Le differenze all’interno di quest’ultimo derivano dall’economico? Nient’affatto. Nel non vedere quest’ultimo punto c’è il limite dell’economicismo.
Dice Fukuyama: “Per il decennio passato, il dibattito centrale intorno all’economia globale è avvenuto fra neomercantilisti ed economisti ortodossi neoclassici” (F. Fukuyama: “Social Capital and the Global Economy”, FOREIGN AFFAIRS, Sept./Oct. 1995, p. 101). Cosa rispecchiava questo dibattito? La classica querelle sul ruolo dello stato, questo piede fasciato della teoria economica. Il primo gruppo di cui parla Fukuyama rimproverava l’altro di sottovalutare il ruolo dello stato, mentre il secondo gruppo non faceva che applicare allo sviluppo asiatico l’antistatalismo americano, questa bizzarra applicazione della teoria della generazione spontanea alla sfera dell’economico.
In realtà, hanno ambedue una parte di ragione, ed ambedue torto. Hanno ambedue ragione nel senso che realmente il ruolo dello stato costituisce un punto centrale, ma in quanto è riflesso di tendenze non meramente economiche, e lo vedremo con Fukuyama, ed hanno ambedue torto nel senso che ambedue perdono di vista il ruolo della cultura (lato sensu), quest’ultima davvero centrale.
Fukuyama, nel suo articolo, dimostra come il diverso modello di relazioni sociali non può che influenzare la struttura economica. Egli distingue tra società ad alta fiducia sociale e società a bassa fiducia sociale. La fiducia è la base della società: essa consente di sviluppare intensi rapporti sociali con non consanguinei, cioè intensi rapporti sociali oltre il nucleo familiare. La fiducia sociale è, dunque, per Fukuyama, la base del capitale sociale; quest’ultimo consente di costruire grossi gruppi, mentre laddove il capitale sociale è basso, il modello economico è basato sulla famiglia, e quindi coagula in un vasto tessuto di piccole e medie aziende, con qualche grosso gruppo, sempre a conduzione familiare. Questo rimaner legati alla famiglia si chiama familismo1, forte in Cina come in Italia, mentre l’altra tendenza è forte in Giappone come negli Stati Uniti.
La caratteristica delle nazioni governate da quest’ultima tendenza, è stata quella di aver formato per prime delle compagnie di grande scala, che son governate da manager esterni ai legami familiari “in cui la proprietà era dispersa e separata dalla gestione” (cit., p. 91). Questa separazione di proprietà e gestione, oltre all’uso di manager esterni, è la caratteristica del modello economico delle nazioni non dominate dalla tendenza familistica.
Fukuyama, prima di concentrarsi sul rapporto fra Cina e Giappone, quello che più qui c’interessa, collega al Giappone gli Stati Uniti2 e la Germania, ed alla Cina la Francia e l’Italia3. In realtà, la tendenza al familismo, come a formare comunità delinquenziali, si ritrova nell’America Latina e nei paesi dell’Europa dell’Est4.
Non è che un modello basato su di un familismo virtuoso, cioè su tante piccole e medie aziende, sia in sé negativo. Difatti: “Ciò che le piccole compagnie perdono in termini di copertura finanziaria, risorse tecnologiche e potere di controllo, lo guadagnano in flessibilità, mancanza di burocrazia e velocità nel prendere decisioni. Lungo gli anni ‘80, l’economia dell’Italia e quelle d’altre società familistiche latino-cattoliche dell’EU son cresciute più velocemente della Germania. Quelli che, come Max Weber, argomentavano che il familismo cinese avrebbe impedito la modernizzazione economica hanno semplicemente sbagliato” (pp. 94-95). In effetti, però, uno sviluppo solo di questo tipo presenta i suoi problemi, risolvibili o con il ruolo dello stato come investitore, o con l’aiuto dall’estero (cfr. pp. 95-96). Il punto è questo: “Se l’unico obiettivo (...) è la massimizzazione di ricchezza aggregata, allora non c’è particolar bisogno di muoversi oltre la scala relativamente piccola dell’impresa familiare” (p. 95). Tuttavia, la posizione di centralità e controllo si ha solo prendendo posizione sui settori tecnologici nevralgici; la qual cosa è possibile solo a grossi gruppi organizzati in modo non familistico5. Per quanto, poi, lo stato possa intervenire nello sviluppo economico di tali settori centrali, come fa la Francia, non può sostituire il ruolo delle grandi industrie6.
Così, la “Consapevolezza dell’importanza del capitale sociale illumina la povertà del discorso economico contemporaneo” (p. 101). Difatti: “La cultura inibisce la crescita di grandi compagnie in certe società, lo permette in altre, e stimola l’emergere di nuove forme d’impresa economica (...) in altre ancora” (p. 95).
La cultura è centrale. Ora, com’è che, appartenendo Cina e Giappone alla stessa area culturale, han preso due strade così diverse?
Fukuyama ci dà una traccia: “La ragione della scala relativamente piccola delle imprese cinesi è la centralità della famiglia nella cultura cinese. In netto contrasto con il Giappone, le relazioni familiari vincono tutti gli altri obblighi sociali. (...) le famiglie giapponesi (...) sono più piccole ed hanno esercitato un’influenza sociale molto più debole delle loro controparti cinesi. La lealtà verso gruppi non basati sulla parentela hanno eclissato le relazioni familiari almeno dai tempi dei Tokugawa, una pratica ancora riflessa nella propensione del manager giapponese ad abbandonare sposa e bambini in favore dei colleghi sere e weekend” (p. 92).
Si tratta, dunque, di una differenziazione all’interno dei comuni valori confuciani su quale valore porre al vertice: in Cina la pietà filiale, in Giappone la lealtà. Tutto ciò si mostra nella sfera economica, però ha radici antiche. In Cina, il predominio della pietà filiale ha già più volte esercitato un’influenza in parte disgregatrice (come si vede soprattutto nel crollo della dinastia Han (206a.C.-220d.C.) ). In Giappone, la lealtà verso il sovrano è sempre stata il valore supremo, essendosi poi diffusa all’interno dei rapporti feudali, per esser definitivamente cristallizzata nel periodo Tokugawa (o Edo, 1603-1853).


3.
Etica confuciana in Cina e Giappone. Il fatto che il Confucianesimo possa essere interpretato in due diverse maniere in Cina e Giappone non fa che rimarcare che il Confucianesimo è un insieme, un fascio di valori suscettibili di differenti accenti e diverse interpretazioni, come la storia del pensiero dell’Asia orientale non fa che confermare. E così, la stessa “sfida confuciana” ha due volti molto diversi, come ha dimostrato Fukuyama.
Sfida confuciana: non è un mero fatto economico, né si tratta di una sfida unitaria, visto che proprio le differenze all’interno del Confucianesimo generano sfide differenti. No, il punto è un altro: è che il Confucianesimo è stato in grado di rispondere alla modernità, cioè di non esserne distrutto, riuscendo anche ad imprimere un cambiamento di rotta allo sviluppo, vale a dire in certa misura “assorbendolo”. Come il judoka segue il suo più forte avversario sfruttando la maggior forza di quello contro lui stesso, allo stesso modo è avvenuto in queste culture. Esse hanno dimostrato che lo sviluppo non può distruggere le parti premoderne, che anzi son loro a modificare lo sviluppo. L’obiezione che alcuni fanno, cioè che questo parlare degli elementi che, nel Confucianesimo, sono a favore dello sviluppo nasce solo dal fatto che lo sviluppo sia stato impiantato con successo, è un’obiezione che tocca solo la superficie del fenomeno. Difatti, il Confucianesimo reca in sé molte varianti che gli hanno consentito di rispondere (si badi bene a questo termine) allo sviluppo: ciò significa che non si è trattato di passivo trascinamento.
Ma c’è di peggio per gli Occidentali: se il Confucianesimo ha positivamente risposto ad una sfida mortale, non sarà perché i suoi valori, pur nelle varianti particolari, hanno un fondo universale? Questa è, forse, la vera “sfida confuciana” all’Occidente.
Naturalmente, c’è stato, e c’è, forte, l’influsso occidentale. Reischauer e Fairbank, difatti, ebbero una giusta intuizione quando parlarono, riferendosi alle culture attuali dell’Asia orientale, di “culture ibride” (E.O. Reischauer - J.K. Fairbank: Storia dell’Asia Orientale, Einaudi 1974, vol.I°, p. 8), cioè caratterizzate da una parte moderna ed una premoderna. L’errore dei due autori si sviluppa nel secondo volume, dove, contrariamente alla giusta loro intuizione, sostenevano che solo la completa occidentalizzazione era l’unica via verso la completa modernizzazione. Pur avendo il caso Giappone sotto gli occhi, non si resero conto della vitalità profonda dei modelli premoderni di quelle culture, modelli capaci d’influenzare lo sviluppo.
Certo, questo non va enfatizzato, perché sarebbe sbagliato allo stesso modo, ma in senso inverso, vedere negli attuali rappresentanti dell’Asia orientale i rappresentanti della loro grande Tradizione nella sua gloria. Quel che n’è venuto fuori è, per l’appunto, una cultura ibrida, un’unione di moderno e premoderno: una variante di postmoderno, in realtà. In Occidente il postmoderno è un discorso, mentre la società (e soprattutto i ceti colti, le idee dominanti) si tiene aggrappata alla modernità passata, nonostante questo scoglio sia sempre più viscido ed i marosi sempre più minacciosi sotto l’apparente calma di superficie: le correnti profonde della storia son di nuovo in moto. In Asia orientale si vive in un àmbito postmoderno de facto, in specie in Giappone. In questo, e non nel modello economico, il Giappone ha fatto da testa di ponte per tutta l’area, ed in tal senso solo si può parlare di “modello nipponico” e, più alla larga, di “modello confuciano”; tutto ciò non ha che ben poco a che vedere con la struttura industriale nipponica e con la mentalità che vi si lega, unicamente giapponese7.
Il Giappone nasce, per così dire, sotto l’impronta cinese: durante il periodo Asuka, con la riforma Taika (645), il modello cinese della dinastia T’ang [Tang] è importato massicciamente in Giappone8. In séguito, nel periodo Heian (794-1085), sotto l’apparente mantenimento della veste cinese, vengon fuori i valori nipponici preesistenti. Qui il Giappone diverge per la prima volta radicalmente dalla Cina, e prende una sua via particolare. Mentre in Cina, con la fina della dinastia T’ang [Tang] (618 -907), termina il periodo aristocratico ed inizia il primo periodo moderno, con il prevalere definitivo dei valori acquisitivi su quelli ascrittivi, in Giappone si ha lo smembramento feudale del modello centralizzato cinese. In realtà, tutto ciò avviene a causa di un sistema di valori ascrittivi precedente. In tale sistema, la lealtà (al Sovrano in primo luogo, ma poi al superiore nei rapporti vassallatici) ha un posto rilevante. Durante tutti i periodi, dall’epoca Heian a quella Tokugawa (1603-1853), si ha una lunga fase d’elaborazione e digestione culturale degli stimoli della cultura cinese. Ciò non poteva non riguardare i valori confuciani. Quando il Neoconfucianesimo di Chu Hsi [Zhu Xi] divenne filosofia ufficiale sotto i Tokugawa, ciò non fu che un evento terminale, la definitiva consacrazione dell’interpretazione nipponica dei comuni valori dell’area sinica. Quest’ufficializzazione farà sì che i valori confuciani nipponizzati penetrassero fin nei più remoti angoli della società9.
In Cina, invece, la fine del periodo propriamente aristocratico non può che ridimensionare l’importanza della lealtà, che non potrà esercitare quell’influenza che invece resterà decisiva in Giappone10. Con la fine dei T’ang [Tang] e, soprattutto, con i Sung [Song], i valori acquisitivi vincono definitivamente quelli ascrittivi: è la “modernità senza moderno” (F. Mazzei)11. Tutto ciò è altresì amplificato dalla cosiddetta “rivoluzione commerciale” dei Sung12.
La città, in Cina e Giappone, può costituire un interessante banco di prova delle differenze complementari fra Cina e Giappone che la chiave di Fukuyama ha posto in evidenza e che la storia tutta dei due paesi, che si è appena brevemente commentata, dimostra.
In Cina la città è un nodo fondamentale, però ha un ruolo ben differente che in Occidente. La stessa struttura delle città, eminentemente simbolica come quelle del mondo antico occidentale13, è un’immagine di questa differenza. La città cinese classica è il luogo dove “Cielo e Terra sono in accordo, s’incontrano le quattro stagioni, si riuniscono i venti e le piogge, le forze negative yin e quelle positive yang” (dal Chou-li [Zhuli], in P. Corradini: “La città cinese”, in Modelli di città, Einaudi 1987, p. 188); tale città, per un apparente paradosso14, si è conservata in Giappone: “Kyoto conserva ancor oggi la maggior parte delle caratteristiche della città cinese” (ibid., p. 189), caratteristiche sparite o difficilmente riconoscibili nella città cinese d’oggi. Il che ci fa misurar con mano quanto la Cina si sia allontanata dal suo modello classico.
Kyoto è quadrata ed ha strade che si tagliano ad angolo retto. Non ha mura, a differenza delle città cinesi15, e questo è molto indicativo della maggior apertura del Giappone e dell’avere, il Giappone, una muraglia che lo distingue naturalmente: il mare. “Kyoto è interamente circondata da templi buddistici (...). I templi sorgono nei dintorni della città. Unica eccezione notevole era il Ming-t’ang, se si può definirlo luogo di culto” (ibid.)16.
Cosa occupa il centro? “Quello che occupa il centro della città è il palazzo imperiale o, nelle città di provincia, lo ya-men del mandarino, rappresentante dell’autorità imperiale. Ciò è ben comprensibile in una civiltà che ha visto svilupparsi presto un’autorità statale fondata su[r] un’amministrazione centralizzata, a fronte della quale non è mai esistito un potere sacerdotale talmente forte da porsi in alternativa ad esso” (ibid.)17. Fatto molto significativo, molto malinteso dall’Occidente moderno, che spesso ha flirtato con la Cina cercando in essa il mondo senza religione che cercava di costruire in Occidente e nel mondo (in parte riuscendoci)18. Purtroppo, è vero il contrario: l’autorità imperiale ha un aspetto che gli Occidentali potrebbero chiamare, nel loro linguaggio, “religioso”, e che sarebbe più giusto chiamare sacro. L’Imperator è un Re-Pontefice; e non è un caso che vi siano stati problemi proprio con il papato, mentre con altre religioni di origine vicinorientale come l’islamismo, non si sia verificato niente di simile. Naturalmente, l’Occidente moderno ha enormi difficoltà nel vedere la sacertà nel sociale, nonostante il Medioevo e ancor più l’evo antico occidentale, che ha molte similarità con la civiltà sinica, pur nella gran differenza già esistente in nuce allora: la tendenza occidentale a dar gran valore alla ragione, alla logica, alla dialettica.
Il paradosso cinese è questa centralizzazione dell’autorità statale che non va di pari passo con la modernità, ma che, al contrario, ha consentito a strutture di pensiero premoderne di formalizzarsi e perdurare. E’ questo che sconcerta il pensiero dell’Occidente moderno. Ora, il punto è che quel processo di centralizzazione che ha portato in auge la modernità non è la modernità in sé. E’ proprio perché legano questi due aspetti in realtà storicamente legati solo in una fase, che molti non riescono a comprendere la fase attuale, “postmoderna” (sarebbe più corretto chiamarla tardomoderna), dove lo sviluppo distrugge e dissolve le strutture coagulate nella fase precedente. E’ una fase studiata da J. Baudrillard sin dalla metà degli anni ‘70, quando è iniziata (la crisi del ‘74 facendo da spartiacque). Purtroppo, quell’errore d’identificare la modernità con una sua fase ottunde lo sguardo di molti ed ha gravissime conseguenze d’inerzia nel campo politico.
L’essere la città in Cina soprattutto centro amministrativo (in séguito commerciale ed industriale) ha fatto sì che in Cina nessuna città “ha mai assunto un’importanza analoga a quella delle città occidentali. (...) nessuna ha mai imposto una moda nell’abbigliamento (...), nessuna s’è mai imposta come centro di cultura ad esclusione di altri centri. Anzi, le maggiori e più importanti scuole artistiche, le accademie culturali, le biblioteche tendevano a sorgere e a svilupparsi nelle campagne, nelle residenze dei mecenati e dei grandi letterati, piuttosto che nelle città, sedi del potere amministrativo” (ibid., p. 192).
L’esser centro amministrativo implica l’amministrare la campagna, con la quale sussisteva “un complesso rapporto di continuità” (F. Mazzei, “La città giapponese”, in op. cit., p. 201). Tale “rapporto di continuità tra città e villaggio è reso evidente dalla doppia connotazione sociologica della classe dominante cinese (spesso definita gentry), che era sì burocratica (urbana) ma anche rentière, saldamente legata alla campagna, dove si rifugiava nei periodi di disordine politico. La città giapponese nel periodo antico rispecchia fedelmente il modello cinese, con la differenza che nei confronti delle comunità agricole che la circondavano presente non un rapporto di continuità ma una netta frattura” (ibid., sottolineature mie).
La città cinese amministra la campagna, è l’organo di un sovrasistema che regola ma non si mescola con la struttura, il sottosistema della campagna, dove la famiglia rimane il punto centrale, il nerbo. In Giappone, invece, la città si differenzia dalla campagna: vi è la borghesia (chônin, una delle poche parole composte giapponesi non d’origine cinese). “Così, mentre i Cinesi hanno dovuto prendere in prestito un termine straniero per designare la borghesia, l’unica classe che storicamente si è identificata in modo esplicito con la città, i Giapponesi già avevano a disposizione per questo scopo una parola della loro lingua” (ibid., p. 211).
Ora, poiché il grande sviluppo della borghesia si ha in Giappone dalla metà circa del periodo Tokugawa, perché la risposta alla crisi della feudalità è la sua centralizzazione, lo sviluppo della borghesia non si pone in opposizione al governo feudale samurai, che non si sarebbe sciolto senza una scossa esterna, quali che fossero le possibilità già presenti. Così, lo sviluppo borghese è avvenuto all’interno dell’interpretazione nipponica feudale dei valori confuciani, interpretazione che dava, alla lealtà verso il superiore, il primo posto sulla pietà filiale.
Il borghese assorbiva quell’atmosfera che lo impregnava come un profumo, mentre il samurai che andava in città, quand’anche fosse corrotto, non poteva che diffondere dei valori vitali.
Così, la città è stata lo specchio della differenza tra Cina e Giappone all’interno della comune cultura.


4.
Culture is Destiny. Voglio qui usare le categorie cinesi di nei (interno, interiore) e wai (esterno, esteriore), categorie a loro volta riflesso di quella basilare yin/yang, e che abbiamo già incontrato (vedi nota 15), per descrivere le tendenze del pensiero e della religione cinesi in modo differente da quello comune negli studi orientalistici. Difatti, questi ultimi hanno troppo spesso la tendenza a voler meramente applicare categorie occidentali: ed ecco un altro piede fasciato19. Il problema di dover usare necessariamente categorie occidentali, ma senza distorcere la forma di ciò che si studia, è sempre stato cruciale nell’orientalismo occidentale. Si può risolvere modificando le categorie occidentali quando si applicano all’Oriente, e questo è sempre alla base di qualche querelle, da un lato, e dall’altro accogliendo talune categorie della cultura che si studia (e qui il campo è libero). Ora, il punto veramente dolente dell’orientalismo è che l’Oriente non è stato mai considerato portatore di una cultural challenge. E questo è grave20.
Troppo spesso, poi, posizioni giuste si affiancano alla tendenza del “piede fasciato”, come dico un po’ scherzosamente, in altre parole a veder le cose attraverso lenti distorcenti che impongono una forma estranea alle cose come sono21. Quando poi si va oltre l’ambiente degli orientalisti, la povertà del dibattito è grande22.
Se la cultura è destino, come afferma il Senior Minister (SM) di Singapore Li Kuan-yu [Li Guanyu], e se c’è una sfida culturale all’Occidente che si manifesta in modi diversi, ebbene il retroterra culturale di tale sfida è il punto cruciale. Questo retroterra è costituito dal Neoconfucianesimo, cioè il frutto maturo dello sviluppo della civiltà cinese, apparso nel momento del volgimento della ruota, del moto: la luna piena; e quando la luna è piena comincia a calare. Quel momento fu tra la fine dei T’ang ed i Sung, come si è visto (nota n°10).
Non si può non notare che in Cina si apre uno iato fra la grandezza degli orizzonti aperti dal pensiero cinese e la limitatezza della realizzazione concreta, nel senso che il familismo cinese ha compresso le potenzialità enormi di un certo pensiero cinese.
Uno degli errori più comuni in Occidente è stato quello di vedere Taoismo, Confucianesimo e Buddismo come perenni nemici per le rivalità di scuola che li hanno opposti, scuole organizzate come famiglie: di nuovo la tendenza compressiva del familismo ha operato.
Ma come hanno vissuto i Cinesi questa terna? A livello popolare, si è formato un sincretismo simbiotico, cioè che accetta tutt’e tre le vie, senza confonderle23. A livello filosofico si è invece avuta una sintesi in cui le tre componenti si sono unite; solo che la quantità degli elementi che ognuna delle tre ha fornito è differente. Modificandosi la quantità, il risultato finale è qualitativamente diverso.
Ciò che noi chiamiamo Neoconfucianesimo si chiama in cinese Tao hsueh [Daoxue], in altre parole lo studio della Via, del Tao. Così, abbiamo il Tao chia [Daojia], cioè il Taoismo classico di Lao-tzu, Chuang-tzu [Zhuangzi] e Lieh-tzu [Liezi], il Tao chiao [Daojiao], cioè la religione taoista fondata durante gli Han orientali (25-220) da Chang Tao-ling [Zhang Daoling] (34-156)24 su ordine di Lao-tzu. Ed abbiamo il Tao hsueh, sintesi del pensiero cinese confluito all’interno della tendenza menciana del Confucianesimo, tendenza che spesso gli Occidentali non amano vedere, ché cercano di ridurre il Confucianesimo o all’agricoltura o al funzionariato. Invece il Confucianesimo ha radici più profonde.
Laddove il wai predomina sul nei abbiamo le tendenze “realistiche” del Confucianesimo, quelle di Hsün-tzu [Xunzi], della “Scuola degli studi Han”, della scuola della “conoscenza pratica”. Laddove il nei ed il wai si equiparano armoniosamente vi è la tendenza “idealistica” del Confucianesimo, quella di Confucio stesso, di Mencio, che ha dato origine al Tao hsueh, di Tung Chung-shu [Dong Zhongshu], quest’ultimo molto sottovalutato e dagli Occidentali e dai Cinesi degli ultimi due secoli25. Questa tendenza menciana rinasce nel Neoconfucianesimo. Purtroppo, nonostante quel che hanno cercato di dimostrare gli studiosi occidentali, che piaccia o no, la corrente menciana è il ramo principale, quella realistica il ramo secondario.
Laddove il nei supera il wai, ma quest’ultimo è ancora presente, abbiamo il Taoismo, con accenti diversi sia il Tao chia sia il Tao chiao26. Il Tao chiao si richiama idealmente al Tao chia, ma in realtà è legato al Neotaoismo, detto in cinese hsuan hsueh [xuanxue], sapienza misteriosa27. Neotaoismo e religione taoista son legati inscindibilmente.
E’ il Neotaoismo a riportare gli elementi cosmologici del Confucianesimo di Tung Chung-shu nel Neoconfucianesimo, tramite Chou Tun-yi [Zhou Dunyi] e Shao Yung [Shao Yong]. Quest’ultimo era molto legato alla seconda divisione del Neotaoismo, che si divideva in hsüan hsueh vero e proprio e fêng liu [fengliu] (vento-corrente, in giapponese furyu)28. E’ questo il lato estetico e bello del Taoismo; però anche il vivere secondo gli impulsi può esser molto malinteso, e lo è stato. Come abbiam visto, l’aspetto sacrale della religione vera e propria tenderà dai Sung in poi a trasferirsi nell’arte e nella pittura in particolare. Questo senso estetico colmo di contemplatività impregnerà lo Zen (Ch’an), e si diffonderà in tutta l’Asia orientale come un profumo sottile, discreto, melodioso e pervadente.
Il Taoismo è dunque non-mondano, ma non ultramondano. Dove il nei sorpassa molto il wai si ha il Buddismo, religione pienamente ultramondana. L’unione di Buddismo con Taoismo dà il Ch’an, cioè lo Zen, che considera il nei superiore, ma non disprezza il wai, va oltre il mondo, ma vive bene in questo mondo. In ciò, è come il Taoismo.
Questo è il quadro. Ora, l’Occidente nella sua espansione ha superato il punto di massima forza: nell’’89 si è raggiunta la pienezza, ora la luna è cominciata a calare. Ed ecco che quel che serviva all’Occidente per espandersi non serve a portare ordine, ed appare sempre più come vuoto simulacro. L’Occidente, nella sua espansione, è stato incapace di ordinare il mondo, e lo diventa sempre più, perché rimane legato ad un’epoca passata. Gli vien lanciata la sfida, ma non risponde, perché è sordo.
Per ordinare il mondo ha necessità (si badi bene a questo termine) di assumere dei concetti vitali dalle culture che, con un’operazione rischiosissima ma efficace di judo “storico”, hanno giocato l’Occidente contro l’Occidente stesso, accettando di mettere sé stesse in un rischio potente d’occidentalizzazione, cercando cioè di modernizzarsi occidentalizzandosi il meno possibile29.
Non vedere la sfida è morire. Rispondere vuol dire accettare la possibilità di una cultura ibrida occidental-orientale che nasca in Occidente. Questo è un punto-chiave, ma è un punto delicato30. Qui si pone l’importanza centrale del Neoconfucianesimo31. Esso si pone al centro che armonizza il nei ed il wai, laddove l’uomo si accorda prima con il Cielo, quindi con la Terra, e poi con gli altri uomini. Si pone al centro laddove una religiosità incline a trovare il Divino nella Natura si unisce al rispetto per il Cielo e la Sua Volontà ed al progetto d’Armonia nel mondo umano, perché ogni uomo trovi il posto giusto per lui, secondo la sua natura (hsing), secondo ciò che egli è.
E non è quasi ogni uomo “fuori posto” il giorno d’oggi? E non è l’umanità tutta in rotta col Cielo, con la Terra e con se stessa oggi?
“Chi conosce la sua natura (hsing), conosce il Cielo” (Mencio, VIIa, 1). Chi la ignora, non può conoscere il Cielo. Ecco la proposta neoconfuciana: iniziare dal conoscere la propria natura; non per fermarsi lì, beninteso, ma per andar oltre, per conoscere il Cielo, per armonizzarsi con la Terra di cui siamo ospiti ed inquilini: la Natura che ci attornia non è nostra proprietà, per costruire una società il più possibile armoniosa32.
Certo, il Tao hsueh ha molti accenti, variazioni, varietà, come gli stessi valori confuciani sono stati, e sono ancora, visti in differenti modi e maniere.
Ora, qui non si sostiene che dobbiamo imitare i Cinesi. Qui si sostiene ch’è d’uopo, ch’è buona cosa e giusta che nasca in Occidente (punto importantissimo) una cultura ibrida occidental-orientale, come via d’uscita alla crisi che il successo dell’Occidente ha generato nell’Occidente stesso 33. S’individua nel Neoconfucianesimo, nel Tao hsueh cioè, la chiave di volta.
Tutta la cultura del XX sec. Ha tentato di liberarsi dal pesante, greve, fangoso abbraccio del pensiero del XIX sec.. Nel complesso, si può dire che la pars destruens è riuscita. Terminata, però, quest’operazione, del resto iniziata già nel secolo scorso da F. Nietzsche, si passa naturalmente alla pars construens. E qui non si trova nulla.
Come non vedere che il pensiero occidentale, da solo, non ce la fa a liberarsi delle conseguenze funeste delle sue fangose spire? (…)


5. 
Considerazioni finali. Scherzosamente (ma non troppo), amo sostenere che Dio, dopo aver sancito il predominio dell’Occidente, “si pentì” (per dirla col Genesi), e portò fuori l’Estremo Oriente con delle caratteristiche tali da mettere costitutivamente in crisi alcune “certezze” del pensiero moderno. Ed ecco la “modernità senza moderno” (F. Mazzei) della Cina del secondo millennio dopo Cristo; ed ecco il passaggio al postmoderno senza passare per il moderno del Giappone (F. Mazzei). Il fatto che tutto ciò sia dovrebbe poter interessare l’intero pensiero dell’Occidente, di un Occidente, beninteso, che fosse consapevole che il suo stesso successo è causa della sua irreversibile crisi. Ma già il cominciare a presentirlo, a rendersi realmente conto di ciò, vuol dire cominciare ad uscire un po’ fuori del cerchio magico, entro il quale il pensiero occidentale moderno pare rinchiuso (o è stato rinchiuso).
Diamo un’occhiata, a “volo d’uccello”, alla storia dell’epoca moderna ed a quella postmoderna (o tardomoderna, più esattamente, come si è detto estesamente nella nota 33). L’Occidente, nella sua espansione, ha distrutto molte cose che non capiva ed ha trascinato tutto il globo nel suo moto disarmonico. E a nulla serve che gli Occidentali, resisi tardivamente conto che ciò che han distrutto è di valore, ora sommergano il mondo con lacrime di coccodrillo, o si scandalizzino perché gli altri fanno ciò che hanno insegnato loro di fare. Le lacrime di coccodrillo non fanno che aggiungere al male l’ipocrisia, così aggravandolo. Bene, invece, sarebbe accettare il male fatto, ed andare oltre. Ma, come accade poiché il bene e il male sono relativi, questo male reca con sé un bene: la fine degli spazi chiusi, delle aree separate, e, conseguentemente in futuro, ché non ci siamo ancora giunti, la potenziale costruzione di una civiltà globale, una e molteplice assieme. Proprio come successe in Cina con la dinastia Ch’in [Qin], anch’essa mossasi dall’angolo nord-ovest del mondo cinese, e semibarbara rispetto al resto dell’antica Cina, come, per certi aspetti, l’Occidente rispetto all’Oriente.
L’analogia calza, e così il probabile futuro. Ma ecco la grande differenza: in Cina la cultura, anche nel Ch’in, anche per i Legisti, dava grande importanza all’unità, mentre l’Occidente ha dominato (ed ancora domina, sebbene indebolito) il mondo con la tecnica, con mezzi pratici. Il sistema che l’Europa ha costruito nella sua espansione (come ha dimostrato C. Schmitt) si basava sulla centralità dell’Europa, che si legava col mondo per mezzo dell’Inghilterra. Proprio il proseguimento dell’espansione e le idee del XIX sec. (democrazia liberale + capitalismo + tecnica), se hanno fatto continuare l’espansione, non sono mai state capaci di ordinare il mondo. E’ chiaro! Il loro scopo era (ed è) quello di dominarlo dividendo.
Son dunque idee costitutivamente incapaci di unire, ma solo di dividere. Dopo l’‘89, la loro impotenza è divenuta clamorosa. Ma, ecco il punto, l’Occidente è privo di una visione unificatrice globale. C’era quella cristiana, ma sia i suoi punti deboli sia il suo legame con la fase dell’espansione occidentale le impediscono di riuscire utile oggi (senza contare, last but not least, il rifiuto che hanno avuto le idee del XIX sec. per il Cristianesimo). L’universalismo confuciano, che un tempo era contenuto nei limiti del Celeste Impero e dell’Asia orientale, ha molti punti di contatto con quello cristiano senza molti punti deboli di quest’ultimo, punti deboli che l’han fatto fallire storicamente. L’Occidente, per ordinare, prendendosi le sue gravi responsabilità con giusto coraggio, non ha in sé gli elementi per poterlo fare, per molti e gravi motivi; non può che importare gli elementi che gli servono, è nella necessità di farlo. Ed ecco la necessità della nascita di una cultura “ibrida” occidental-orientale in Occidente, cosa problematica ma che sentitamente caldeggiamo, nonostante le grandissime forze d’inerzia, cultura “ibrida” che oggi non c’è 34. Essa è, a nostro avviso, una possibile via d’uscita al problema che ha oggi l’Occidente: l’impossibilità di porre ordine nel ed al mondo che ha dominato nell’epoca moderna35.
E’ chiaro che una tale ibridazione, di cui non c’è traccia oggi in Occidente, nonostante kili di parole al vento, è molto difficile. Iniziamo dal non separare i fenomeni materiali da quelli non-materiali nel corpo sociale. In un corpo vivo non si può separare la struttura corporea dalle forze vitali e dai moti psichici che, muovendo la “vitalità” (ch’i), comportano delle necessarie conseguenze sulla e nella struttura corporea. Se operiamo questa separazione, allora stiamo studiando un cadavere36. Il marxismo ha sempre avuto il difetto di operare questo taglio37.
Tutto è legato nell’inestricabile geroglifico della realtà. Il che non significa che tale geroglifico sia incomprensibile, ma significa che la parte materiale e quella culturale s’incontrano in un inestricabile viluppo, in un nodo. No, il nodo di Gordio non si può tagliare che in modo illusorio38.

16-29/06/1996 A.D.
Decemberwolf



NOTE
1 Dice Fukuyama: “se il familismo non è accompagnato da una forte enfasi sull’educazione e sul lavoro, nella cultura Confuciana od Ebraica, per esempio, allora può condurre ad una palude soffocante di nepotismo e stagnazione congenita” (cit., p. 91)
Nella cultura italiana non c’è mai stata una forte enfasi del genere sottolineato da Fukuyama, così l’enormità della corruzione (enormità enfatizzata dalla piccolezza delle dimensioni dell’Italia, che non ha il problema di un centro direttivo lontano come in Cina) in Italia è stata incredibile. Venendo al problema del Sud, questo è aggravato dall’essere il Sud lontano dalle correnti europee; l’espressione di “palude soffocante” calza particolarmente bene all’Italia del Sud.
Volendo paragonare la fiducia sociale al calore, si può affermare che l’Italia del Sud ha un livello di fiducia sociale paragonabile alla glaciazione wurmiana...
2 In relazione agli Stati Uniti, Fukuyama osserva: “Questa mappa non è immutabile. Ci sono indicazioni che l’arte americana di associarsi è stata in serio declino lungo le passate due generazioni e che gli Americani stanno diventando tanto individualisti quanto hanno sempre creduto loro stessi di essere” (cit., p. 94). E’ da ricercarsi l’incrinatura del predominio americano proprio in questa sudditanza al modello liberista estremo, in altre parole al neoliberismo. L’estensione del modello americano va di pari passo con il suo indebolimento radicale, in pratica va di pari passo con il suo predominio assoluto, dove questo modello distrugge le altre parti che pure componevano l’America. Si scopre così che tali altre parti tendevano a bilanciare, quindi a riequilibrare, l’intero insieme degli Stati Uniti.
3 E’ indubbio che la tendenza alla centralizzazione sia una delle cause del familismo: “La Cina, la Francia, l’Italia del Sud ed altre società con bassa fiducia tutte son passate attraverso un periodo di forte centralizzazione politica, quando (...) un monarca assoluto, o lo stato, deliberatamente si espone per eliminare i competitori per il potere. In tali società, il capitale che esisteva nel periodo precedente la centralizzazione fu esaurito” (pp. 100-101).
Ora, non è lo stato in sé il problema: il problema è la politica di centralizzazione aggressiva che intacca il capitale sociale. Questa centralizzazione è forte in Francia e Cina (quest’ultima poi aggiunge il problema delle sue gigantesche dimensioni). E’ invece una centralizzazione oscillante nell’Italia del Sud. Quest’ultima era una marca di frontiera traversata da lotte fra latino-longobardi, greco-italici e siculo-arabi prima dell’unificazione normanna: i Normanni portarono la cultura francese (franca) e la tendenza centralizzatrice francese. Però, tale tendenza si ruppe bruscamente con gli Angioini; da quel momento la storia meridionale avrebbe oscillato fra brevi momenti di rientro nel centro della storia europea e più lunghi momenti di marginalità che, in realtà, hanno marchiato l’Italia del Sud in maniera indelebile (anche se non incancellabile). Così, la centralizzazione abortita, se ha dilapidato una parte rilevante di capitale sociale, pure non è stata in grado di fornire quel parziale correttivo dato dalla forza dell’apparato statale, com’è avvenuto in Francia e Cina.
Tutto ciò ha fatto sì che molto spesso nell’Italia del Sud la famiglia sia nucleare, piccola e debole (p. 93), dipendente dall’aiuto dello stato per intraprendere un’attività imprenditoriale familiare; ma lo stato non c’è, è assente. Ciò produce un familismo povero, ed è qui la differenza con l’Italia centro-settentrionale, per assenza di stato. E’ un paradosso tutto apparente, dovuto al fatto che il Sud ha conosciuto una centralizzazione abortita, nata dal brusco congelamento della via “francese” intrapresa, congestionamento causato dalla marginalità del Sud che, troppo spesso, ricaccia questa parte d’Europa nel ruolo del cane perennemente bastonato.
4 Giustamente osserva Fukuyama: “E’ come se ci sia un naturale impulso umano universale verso la socievolezza, che, se bloccato dall’esprimersi attraversi strutture sociali come la famiglia o le organizzazioni volontarie, appare in forme come le gang criminali” (cit., p. 94). I casi presentati da Fukuyama sono o nazioni come la Russia, vale a dire che vengono da una dittatura, o paesi dell’America Latina o dell’Africa, che han conosciuto la centralizzazione abortita. Com’è, infatti, che la Francia non soffre di gang criminali che più o meno come tutti, mentre gli Stati Uniti, con l’elevata fiducia sociale che hanno, ne soffrono moltissimo? Se ne possono dedurre due cose: 1) indubbiamente anche qui s’intromettono fattori culturali particolari; 2) la centralizzazione statale non porta necessariamente a tali fenomeni.
5 “Il Giappone e la Corea, con le loro grandi corporazioni, si sono mossi in aree come le automobili, l’elettronica di consumo e i semiconduttori, che sono direttamente competitive con le grandi industrie nordamericane ed europee” (pp. 97-98). Ciò non può accadere in Cina.
Non si possono che condividere le osservazioni di Fukuyama sul duplice sistema economico cinese e sui suoi potenziali pericoli. Al di là del problema politico pressante, resta la differenza tra Cina e Giappone; di conseguenza, “non c’è un singolo modello asiatico di sviluppo economico e nessuna unificata sfida confuciana all’Occidente” (p. 97).
6 Tutta la querelle sul ruolo dello stato nell’economia è smontata da Fukuyama, sia per quanto riguarda lo sviluppo dell’Asia orientale (si è trattato in realtà del coerente proseguimento di tendenze pre-moderne adattate alle esigenze dello sviluppo), sia per quel che concerne le vedute politiche. A tal proposito, dice: “E’ chiaro, comunque, che sia la necessità di una politica industriale che la capacità di svilupparne una effettivamente sono dipendenti da fattori culturali quali il capitale sociale. Il Giappone, la Germania e gli Stati Uniti hanno forti settori privati capaci di generare spontaneamente organizzazioni di grossa scala; la Cina, l’Italia e la Francia non ne hanno, così è perfettamente naturale lì che lo stato debba salire per promuovere questo tipo d’organizzazione” (p. 102).
E’ chiaro che tutto ciò si presta a più vaste considerazioni: “Siamo alla fine di un prolungato periodo in cui gli stati moderni sono stati i promotori chiave della crescita economica e della trasformazione sociale” (ibid.). E’ la fine di questo ciclo, cioè della modernità, che molti non riescono ad accettare. La Fine della storia (Fukuyama) non vuol dire “che l’agitazione sia cessata e che il mondo sia diventato completamente uniforme, ma piuttosto che non ci sono serie alternative istituzionali sistematiche alla liberal democrazia ed al capitalismo basato sul mercato per i paesi più avanzati del mondo. Messa in altro modo, l’ingegneria sociale, mentre un tempo chiave del governo progressista [o: progressivo], ha oggi raggiunto un punto morto” (p. 103, sottolineature mie). E’ la centralità dell’istituto dello stato che è sparita, distrutta da quel movimento sviluppista che lo stesso stato ha contribuito a porre in moto. C’è un punto debole, però, in questa giusta idea di Fukuyama: ed è la capacità di questa liberal democrazia e del capitalismo di ordinare il mondo e di offrire un posto a chi esclude da sé, esclusi che, ormai, non trovando un coagulo nel comunismo, svolgono un ruolo d’erosione particolaristica ben più pericoloso della contrapposizione comunista. Ma su ciò si rimanda al seguito del presente studio.
Questa fine di cui parla Fukuyama ha definite conseguenze nell’agone politico, conseguenze che i politici non vogliono vedere perché sanno che la contrapposizione destra/sinistra, quest’altro piede fasciato definitivamente sfasciatosi, è il loro unico coagulo, mentre sono incapaci di trovarne un altro. Intanto, la situazione domanda con forza un nuovo coagulo. Così, “la sinistra sbaglia nel pensare che lo stato possa incarnare o promuovere una significativa solidarietà sociale. I conservatori liberalisti, da parte loro, sbagliano nel pensare che forti strutture sociali si rigenereranno una volta che lo stato sia sottratto dall’equazione” (ibid.).
La polemica sul ruolo dello stato è una questione ancora importante, ma di retroguardia; la divisione destra/sinistra è un vuoto simulacro che copre la nullità del dibattito politico attuale. E’ giunto il tempo di cambiar musica.
7 Questo Fukuyama lo capisce bene (cfr. Fukuyama, cit., p. 100).
8 Si tratta di una delle cose più stupefacenti della storia: in soli trent’anni si costruisce un impero T’ang in miniatura.
9 Il periodo Tokugawa è importante perché qui il Giappone, che col periodo Heian si era differenziato dalla Cina, si differenzia pure dall’Occidente. Mentre l’Europa si allontanava dal feudalesimo, i giapponesi “edificarono sul vecchio ordine feudale, anziché distruggerlo, e si chiusero alle influenze esterne invece di continuare nella loro espansione oltremare” (Reischauer-Fairbank, cit., vol.I°, p. 669).
La Cina nasce centralizzata, in Giappone invece abbiamo in questo periodo un feudalesimo centralizzato, cioè la particolare forma di feudalesimo Tokugawa. Come si è visto con Fukuyama, sembra che troppo stato o troppo poco stato (come l’oscillare tra i due) tendono a generare il familismo, mentre uno stato non troppo né troppo poco forte dà le condizioni ideali perché si accumuli un grosso capitale sociale: precisamente quel che è successo con il Giappone Tokugawa.
In Cina la centralizzazione non è legata con la modernità, nel senso che la modernità, in Occidente, si è comunque accompagnata con un processo di centralizzazione più o meno forte, mentre in Cina questo processo è separato dalla modernità. Il movimento che ha portato alla modernità nasce e si accompagna con la crisi della feudalità; ora, in Giappone, tale movimento di crisi della feudalità, analogo a quello dell’Occidente moderno (sec. XVII), porta alla centralizzazione del feudalesimo!
10 Ciò vien enfatizzato dal fatto che, con la fine della dinastia T’ang, il wen ha il sopravvento sul wu, mentre invece il fatto che il Giappone sia stato a lungo dominato dai samurai contribuisce a spiegare il maggior peso della lealtà in Giappone.
Se le società delle dinastie Ming (1368-1644) e Ch’ing [Qing] (1644-1912) è stabile ma non statica, nell’etnocentrismo e nel culturalismo cinesi di queste dinastie si percepisce un ripiegamento su di sé che segna in realtà un indebolimento della Cina. La fine delle spedizioni marinare di Cheng Ho [Zheng He] sono un segno importante di tale ripiegamento: Nondimeno, anche tale movimento ha dei suoi fattori di bilanciamento: alla tendenza ad accentrare il potere in mano dell’imperatore iniziata sotto i Sung [Song] (del Nord: 960-1127, del Sud: 1127-1279) e portata all’apogeo dai Ming, la dinastia Ch’ing [Qing] reagisce con un maggior bilanciamento fra burocrazia ed imperatore. Indubbiamente, sotto l’ultima dinastia la Cina raggiunge l’apogeo della sua forma tradizionale, ma ciò non è accaduto senza una cristallizzazione deleteria, le cui radici sono, dal punto di vista politico, nella dinastia Ming, mentre dal punto di vista culturale, nell’epoca Sung. Volendo paragonare la storia cinese ad un moto di onde, alla fine del primo impero cinese con gli Han, succede la curva discendente dell’onda (dal punto di vista politico, non culturale); quest’ultima, però, incontra la prima grand’onda “barbarica”, un’onda in salita, che in realtà rinnova profondamente la civiltà cinese. Dal Medioevo cinese, parallelo a quello europeo, la Cina esce diversamente, a causa del suo modello profondo, e rifonda l’Impero: qui l’onda barbarica si fonde con quella della cultura cinese, e la cultura cinese raggiunge il suo apogeo con i T’ang ed i Sung. Con quest’ultima dinastia, lo sviluppo delle componenti taoiste e buddiste si fonde con quelle confuciane: ed è il Neoconfucianesimo la sintesi definitiva delle tre vie, il frutto maturo della civiltà sinica. In tutti i campi il periodo della fine dei T’ang e dei Sung è l’apogeo, il volgimento della ruota, è l’onda che, raggiunto il culmine, si ripiega su di sé. Con i Mongoli, l’onda in discesa della cultura cinese dopo l’apogeo incontra la nuova onda in ascesa dei “barbari” che nuovamente le danno forza, ma non di ascesa, bensì di moto orizzontale. Vediamo questa modificazione in tutti i campi, con tutti i suoi aspetti positivi; difatti, per quanto ci sia il ripiegamento, vi è tuttavia la diffusione dei germi vitali della cultura del periodo d’oro nel corpo sociale, per quanto tali germi siano abbassati di livello.
Il moto orizzontale sostituisce quello verticale: chiamo ciò “la grand’onda lunga”, e spontaneamente mi viene in mente Hokusai nuovamente. Si tende a stabilizzare la costruzione del Celeste Impero, mentre nessun nuovo impulso succede al Neoconfucianesimo se non la scuola della “conoscenza pratica” o interpretazioni letteraliste e limitative (la cosiddetta “Scuola degli studi Han”) che non attestano più il ripiegamento creativo dei Sung (che si prolungò in parte fino ai Ming), ma una definitiva cristallizzazione. Prevale, sin dai Ming, la compilazione di enciclopedie, la raccolta di oggetti d’arte, l’intento collezionistico e critico. In cambio, la diffusione dell’estetica contribuisce a veicolare nel corpo sociale, seppur ad un livello minore, molti aspetti della religiosità T’ang-Sung, mentre, con gli Yuan (1276-1368), emergono il romanzo popolare ed il teatro popolare, questi due frutti autunnali della cultura cinese; ora, si dice che i frutti d’autunno, pur non essendo così colorati come quelli estivi, siano i più gustosi. La diffusione era ormai divenuta sempre più capillare.
Con la crisi dell’ultima dinastia, sia l’onda politica sia quella culturale erano al loro minimo. In tale situazione, la Cina incontrò la grand’onda devastante dell’espansione dell’Occidente industriale.
11 Il che ci fa comprendere come i fenomeni tipici della modernità (accentramento, predominio dei valori acquisitivi, mobilità sociale, ecc.) non siano di per sé la caratteristica distintiva della modernità; deve intervenire qualcos’altro a livello culturale. Nella cultura neoconfuciane cinese risiede la differenza con la modernità dell’Occidente.
12 Questa “rivoluzione” è alla radice della differenza, un po’ schematica invero, che oggi si fa tra “Cina gialla”, agricola e del Centro-Nord, e “Cina blu”, del Sud e delle coste tutte, commerciale ed imprenditoriale. Tutto l’attuale sviluppo della Cina viene dalla Cina blu, al punto che si potrebbe, certamente forzando la mano, leggere tutta la storia cinese dai Sung all’epoca attuale come una contesa fra le due Cine, con alterne vicende, e col prevalere oggi della Cina blu.
Ma ecco un punto interessante. Come nel Giappone Tokugawa la fase dell’accumulazione primitiva andava di pari passo con la diffusione dei valori confuciani, così, mutatis mutandis, ciò è accaduto (accade) in Cina. Senza dubbio ciò va di pari passo col formarsi di una cultura ibrida, come abbiamo visto, ma gli Occidentali moderni hanno sottovalutato la persistenza dei valori confuciani. Ciò perché li hanno legati all’agricoltura. Invece, come la Cina dei Sung era in ogni caso confuciana, così gli ultimi eventi hanno dimostrato che quei valori hanno una loro componente universalistica. Se c’è una “sfida confuciana” non può essere, conviene ripeterlo, che questa.
Tale commercialismo non fa che confermare il cambiamento che avviene durante la dinastia Sung, l’apogeo e quindi il volgimento della ruota. E’ quel che Okakura Kakuzô ha espresso in relazione al tè: “Per il cinese d’oggi, il tè è una bevanda deliziosa, non un ideale. Le calamità che hanno a lungo travagliato il suo paese, hanno cancellato in lui la passione per i significati della vita. E’ moderno, cioè vecchio e disincantato. (...) E’ un eclettico che accetta cortesemente le tradizioni dell’universo. (...) la sua foglia di tè è spesso meravigliosa col suo aroma di fiori, ma nella sua tazza è sparita la fiaba cerimoniale dei T’ang e dei Sung” (Okakura Kakuzô: Il Libro del Tè, Editoriale Nuova 1983, p. 35).
13 “Le città capitali (...) erano concepite come un umbelicus mundi, al centro del quale passava l’asse dell’universo (...). (...)
Ma la città (...) sorgeva sulla terra ed era sottoposta alla volta del cielo (...). La terra (...) era concepita come uno dei tre piani sui quali si svolge la vita del mondo (gli altri due essendo quello umano e quello celeste) e come un corpo vivente sul quale non si può intervenire se non si tien conto delle forze e delle correnti d’energia che in esso agiscono e che l’attraversano. Come nella pratica dell’agopuntura non si può impunemente stuzzicare a caso un corpo umano, ma ogni puntura avrà l’effetto di squilibrare o riequilibrare le forze dell’organismo, così la costruzione di una casa (e a maggior ragione di un villaggio o di una città) dovrà avvenire in armonia con le forze che attraversano il terreno (...). Nasce di qui la pratica geomantica chiamata fêng-shui (‘vento e acqua’) (...). Se (...) al piano terrestre corrisponde un piano celeste (...), particolare importanza avrà l’orientamento (...).
Un’attenta osservazione (...) delle città cinesi antiche permette di riscontrare un atteggiamento simbolico religioso di corrispondenza tra la terra, il cielo e la città stessa che (...) potrà a sua volta orientare la vita degli uomini (...) nella direzione del tao, la ‘via’ del Confucianesimo e del Taoismo, che tutti debbono seguire. Così (...) la città cinese risulta rigorosamente orientata nei confronti dei quattro punti cardinali, con l’asse nord-sud privilegiato” (P. Corradini, “La città cinese”, in Modelli di città, Einaudi 1987, pp. 184-185, sottolineature mie). Stessa orientazione nella città romana, col suo cardo ed il suo decumanus, ma qui è l’asse est-ovest ad essere privilegiato. Il che è molto significativo dal punto di vista simbolico.
14 Ricordo una significativa affermazione di F. Mazzei: “bisogna conoscere la Cina per conoscere l’Occidente, il Giappone per conoscere la Cina, l’Occidente per conoscere il Giappone”. Tale affermazione illumina sui rapporti di reciproca illuminazione culturale all’interno di questa triangolarità. Notare il rapporto culturale fra Cina e Giappone.
15 La città in Cina era chiamata ch’eng [cheng], cioè muraglia, quella muraglia che separava la Cina dall’esterno, e che il Giappone non conosce. “Queste muraglie avevano sì un ruolo difensivo, ma erano importanti soprattutto dal punto di vista simbolico. Esse distinguevano tra interno ed esterno, nei e wai, termini che corrispondono ad una delle tante sfaccettature dell’antitesi yang e yin. (...) un antico adagio cinese dice che la sicurezza si trova in tempi di pace in città e in tempi di disordine in campagna: l’esatto contrario di quanto avveniva in Occidente, dove la rocca costituiva l’ultimo rifugio per i cittadini assediati” (Corradini, cit., p. 192). La civiltà cinese è orientata inversamente rispetto a quella occidentale.
16 E’ un luogo di culto, posto al centro del palazzo imperiale, centro del centro. Nel Ming-t’ang [Mingtang] l’imperatore deambulava secondo il cammino del sole, mentre il sovrano era reso simile alla Terra, ch’egli personifica rispetto all’universo simboleggiato dalla “Sala della Luce” (il Ming-t’ang). Quest’ultima era un microcosmo, immagine del macrocosmo, e l’imperatore era l’Uomo archetipo che forma la terna col Cielo e la Terra. Il Ming-t’ang e il luogo del culto imperiale, che non è culto di un uomo, bensì dell’Uomo archetipo.
Che tale religiosità sia posta nel centro è una caratteristica distintiva della civiltà dell’Asia orientale, che ha perpetuato delle caratteristiche del mondo antico sin nell’epoca moderna. Le religioni “ufficiali”, formalizzate, si modellano su questa religiosità “archetipa”, mentre non accade l’inverso. Così, i templi stanno all’esterno, la religione istituzionale fa parte del wai
 
17 “Il sistema familiare cinese non poteva quindi fornire basi solide per lo sviluppo di una società di tipo pluralistico come quella occidentale, dove le molteplici forze della chiesa e dello stato, del capitale e del lavoro, del governo e dell’impresa privata si equilibrano sotto il dominio della legge” (Reischauer-Fairbank, op. cit., p.34). Tale pluralità di forze semplicemente non è esistita in Cina, e solo oggi è in nuce. “La civiltà cinese (...) è la sola la cui unità sia essenzialmente, nella sua natura profonda, un’unità di razza” (R. Guénon: Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi 1989, p. 61); affermazione condivisibile a patto che non la s’interpreti dal punto di vista “razzistico”, ma si sostituisca a razza il termine famiglia. Una società familistica e di villaggio, coagulata da un sovrasistema politico che ha a sua volta il punto d’unione, di coagulo nella cultura.
18 Nel 1978, l’anno della rivoluzione in Iran, uscì un libro in Iran che affermava una cosa interessante: che gli Orientali spesso hanno fatto di tutto per modellarsi secondo l’immagine caricaturale che gli Occidentali si erano fatti di loro. Curioso esempio d’influsso psichico, verificatosi più volte in questo secolo. Ecco, infatti, l’Islam sempre più modellarsi sulla falsa immagine del “fanatismo islamico”. Ecco la Cina, dall’inizio del secolo scorso fino alla metà degli anni ‘70, aver fatto ogni sforzo per diventare la “nazione senza religione” immaginata da certa intellighenzia occidentale. L’immagine falsa viene introiettata.
19 Il piede fasciato non è il bonsai. Il fasciare il piede forza quest’ultimo in una forma che non gli è propria. E’ indice della tendenza cinese a rafforzare la chiusura, a porre barriere troppo forti: c’è una tendenza compressiva, autolimitante, “saturnina”, volta verso un ordine ferreo ed eccessivo, tipica della Cina. Il bonsai è riprodurre in piccolo un grande albero rispettandone le proporzioni. Si tratta di seguire la natura. Il modello del bonsai è il bonsai naturale, che si forma laddove condizioni di clima e di terreno fan sì che un grosso albero sia piccolo, mantenendo però le proporzioni del grosso albero. Quello dei bonsai è un artigianato, che però può diventare arte laddove si riesce a raggiungere la stessa “casualità significativa” ed “imprevedibilità regolare” del vento, della pioggia e delle mille variabili della natura.
Questo gusto per il microcosmo che si basa sul macrocosmo e lo pone “in piccolo” è caratteristico dell’Asia orientale. E’ diventata una pratica estetica, ma in origine nasce da precise tendenze religiose (cfr. R. A. Stein: Il mondo in piccolo, Il Saggiatore 1987).
20 La vita sessuale nell’antica Cina, la vita quotidiana prima dell’invasione mongola, le porcellane e quant’altro ancora son tutte cose interessanti e belle. Ma come non accorgersi che c’è di più, e delle cose che possono realmente servire all’Occidente?
Certo, nell’interesse per l’Oriente, anche oltre l’ambiente accademico, si vedono due tendenze ugualmente squilibrate: a non voler dare oppure a dilapidare volendo dar tutto a tutti; cioè, anche nelle posizioni teoriche, a voler fare troppi distinguo oppure a non farne. Certo, l’equilibrio è difficile. Bisogna tentare di seguirlo rifuggendo dagli eccessi.
21 Il pensiero cinese di M. Granet è un libro interessante (particolarmente il capitolo sui numeri, molto complesso); però Granet rovina tutto cercando di fare del Confucianesimo una specie di “positivismo orientale”: ecco la forzatura.
Prendiamo Needham (il vol. 2 del suo Scienza e civiltà in Cina, dal titolo: Storia del pensiero scientifico, Einaudi 1983, il volume d’importanza maggiore). Needham giustamente rivaluta il pensiero scientifico cinese di tipo organicistico (cap. 13). Rovina tutto subito dopo, però, ed in tre modi: in primo luogo, accetta la visione organicistica cinese solo se può assumerla attraverso quella scientifica moderna, mentre la visione cinese è indipendente da tale mezzo di propagazione inerziale; in secondo luogo, parla di “pseudoscienze”, che altro non sono se non l’applicazione di quella visione; in terzo luogo, conseguentemente al suo parlare di “pseudoscienze”, invece di parlare di forma diversa di scienza (condivisibile o non), si chiede come mai la scienza cinese non ha preso la stessa via di quella occidentale. Ma già chiedersi questo vuol dire credere che c’è una sola scienza “vera”, e tutto il resto è “pseudoscienza”.
Ma è proprio il tentativo di Needham d’inserire il piede della visione organicistica cinese nell’esigua scarpuccia foderata di ferro della scienza moderna è sbagliato, perché nel Taoismo è comune l’espressione del Tao-Te-Ching [Daodejing] relativa al mondo: shen-ch’i [shenqi], “apparecchio” (ch’i) divino (shen). Non ci fosse quello shen, l’operazione di Needham potrebbe aver avuto senso. Purtroppo (per lui), c’è.
Così, la visione organicistica cinese non è latrice di una sfida culturale che mette radicalmente in crisi le nostre certezze, alla quale occorre rispondere e dalla quale occorre imparare, per poterle rispondere. Il tutto si riduce a qualcosa che anche la scienza attuale sta sviluppando, a suo modo. Ma è proprio quel modo il che va modificato radicalmente.
Tutto ciò non ha certo lo scopo di dar la “colpa” a questo o a quell’altro autore (la mania occidentale di dar “la colpa” non risolve niente). Quel che preme rilevare sono le tendenze mentali profonde, che toccano anche i migliori autori.
22 Tutti quei discorsi sterili se Confucio è “democratico” o non sono assurdi. Confucio è Confucio. Tutti quei discorsi vòlti a trovare il laissez-faire liberalista in Lao-tzu [Laozi] sono assurdi: che c’entra Lao-tzu con il liberalismo del XIX secolo in Europa? Niente. Lao-tzu è Lao-tzu.
Confucio, Lao-tzu, i grandi del pensiero cinese sono patrimonio di tutta l’umanità. Bisognerebbe accostarcisi con rispetto, come ad una maestosa montagna o ad un sereno lago magnifico. Poi, che il loro studio ci spinga, stimoli, suggerisca a formulare una nostra interpretazione o, meglio ancora, una nostra rielaborazione indipendente è più che legittimo: i Cinesi, però, l’han fatto per tanto tempo. Tuttavia, sempre rispettando la loro forma, senza forzare.
23 E’ il san jiao yi jiao [san chiao yi chiao]: i tre Insegnamenti sono un Insegnamento. Di qui il fatto che uno stesso individuo può appartenere a più di una religione, fatto caratteristico dell’Asia orientale, che nasce però dall’avere ogni religione ha un suo posto preciso, quindi si affianca ma non si mescola. La religiosità popolare in quanto tale, però, è composta da tutt’e tre le componenti. In Giappone si ha lo stesso fenomeno, basta sostituire al Taoismo lo Scintoismo.
24 Cfr. Feng Meng-lung: Le Sette Prove, SE 1995, a cura di G. Casacchia.
25 Com’è che degli elementi che poi faranno parte della religione taoista (5 elementi, yin-yang, ecc.) fanno parte del Confucianesimo Han di Tung Chung-shu (179-104a.C.)? Ciò non potrebbe essere, se non fosse che Confucianesimo e Taoismo affondano le radici nella stessa Tradizione.
Wang Ch’ung [Wang Chong], cui Needham dà fin troppo peso, e c’era da aspettarselo, è uno “scettico” cinese, ma uno scettico sui generis, che accetta la teoria dei cinque elementi (wu hsing) e quella yin-yang, solo vaglia criticamente i prodigi: ed è per questo che Needham lo esalta. Il punto è che Wang Ch’ung crede che il posto dell’uomo nell’universo non sia tale per cui l’uomo possa credere che i prodigi siano fatti per lui; in realtà, i prodigi son derivati dal ch’i, la sostanza psicovitale dell’universo. E’ scetticismo questo? Piuttosto, Wang Ch’ung era vicino alla corrente realistica, ma fu influenzato dal Taoismo, che però pure critica con il Confucianesimo di Tung Chung-shu, tant’è che non rinunciò mai ai wu hsing ed a yin-yang. A lui si attribuisce che le correnti che sostenevano i wu hsing e yin-yang lasciassero il Confucianesimo per entrare nel Taoismo. Avrebbe criticato il Confucianesimo per far fluire ciò che criticava nel Taoismo, che in parte apprezzava! Non mi ci ritrovo. Semplicemente Wang Ch’ung fu araldo, ma non del tutto, della tendenza realistica.
Quanto al legame fra Taoismo, wu hsing e yin-yang, caratteristico del Tao chiao, esso si generò sì per il contrattacco della tendenza realistica, ma soprattutto per la fondazione del Tao chiao unita alla crisi dell’Impero Han cui quella forma di Confucianesimo che li inglobava si legava. Senza tale crisi, la tendenza realistica avrebbe portato avanti un’azione inefficace.
Wu hsing e yin-yang rientreranno nel Neoconfucianesimo tramite il Neotaoismo.
26 Quest’ultimo, oltre a raccogliere gli elementi del Confucianesimo Han ed a permetter loro di superare la crisi del primo impero cinese, “ha conservato e trasmesso un vecchio fondo di religione popolare in cui si constata una certa preponderanza dell’elemento femminile” (Stein, Il mondo in piccolo, cit., p. 91). Ha inoltre avuto un notevole ruolo di “drenaggio” per tutto ciò che non rientrava nell’ufficialità confucianista (si badi bene che non diciamo confuciana perché non è il Confucianesimo ad opporsi al Taoismo, bensì una sua particolare corrente): “La stessa vocazione del taoismo, in un certo senso, è di essere marginale, e si può dire che tutto ciò che non entrava negli schemi del sapere ufficiale né nel quadro delle conoscenze tecniche particolari, e tutto quello che era ‘altro’ senza essere buddista, era classificato come taoista; tanto che il solo punto in comune tra alcuni testi definiti taoisti è la loro appartenenza al Dao zang” (I. Robinet: Meditazione Taoista, Ubaldini 1984, p. 7); il Dao zang [Tao ts’ang] è il Canone taoista pubblicato sotto i Ming nel 1442. L’autrice ha ragione, dunque, quando afferma che: “Il carattere eterogeneo del taoismo è noto a tutti” (ibid.), pertanto è scorretto paragonare il Dao zang alla Bibbia o al Corano, mentre non lo è paragonar loro il Tao-Te-Ching o il Chuang-tzu [Zhuangzi]. Giustamente l’autrice precisa parlando dei discorsi che compongono il Dao zang: “Ciò nonostante, non bisogna intendere che questi discorsi siano necessariamente confusi” (p. 8).
Dove l’autrice, a mio avviso, erra è nel sottovalutare il peso che il settarismo, effetto del familismo nel campo religioso, ha avuto nel render eterogeneo il Taoismo e, soprattutto, anche in tal campo, nel comprimere l’universalità dei valori taoisti in un angolo chiuso. Storicamente, poi, sottovaluta il peso del Neotaoismo, che in realtà è stato il vero coagulo della religione taoista molto più del Taoismo classico, del Tao chia; in verità, senza hsuan hsüeh niente Tao chiao. Il nerbo attivo del Tao chiao non sta nel Dao zang, per quanto possa essere interessante, ma nello hsuan hsüeh.
27 Come nel Neoconfucianesimo si è avuta la tendenza verso il Ch’an, cioè lo Zen, rappresentata da Wang Shouren, così nel Neotaoismo si è avuta la tendenza verso il Confucianesimo. I neotaoisti consideravano Confucio superiore a Lao-tzu ed interpretavano i Classici confuciani in chiave neotaoista.
28 Fung Yu-lan (Storia della filosofia cinese, Oscar Mondadori 1975) paragona il fêng liu al romanticismo, però aggiunge: “Confesso di non avere ancora capito a fondo il significato delle parole romanticismo e romantico” (p. 183). Nel vivere secondo gli impulsi, nella libertà di comportamento il fêng liu è come il romanticismo. E così lo è per l’amore per la natura. Gli manca il titanismo romantico. In cambio, ha un sentimento panico del divino nella natura sommamente utile all’arte. Per dare un’idea del fêng liu (furyu), immaginiamo di percepire il divino nel mondo; cosa n’è delle cose? Esse sono contemplate nella loro fulgida bellezza e insieme nella loro fugace fragilità. Quel che ne vien fuori è una serena struggente malinconia unita con gioia sottile e sublime distacco.
Fra umile e alta posizione,
Fra povertà e ricchezza.
Non si muove con le cose né le precorre,
Non ha limitazioni né tabù;
E’ povero ma non ha dolore,
Beve, ma senza eccessi.
Raccoglie nel suo spirito la primavera del mondo(Shao Yung, in Fung Yu-lan cit., p. 235, corsivi miei).
In questi anni tardi, nulla viene
Che facile non sia e semplice;
Ogni mattino sfolgora il sole traverso la finestra,
Mentre mi sveglio;
Ogni creatura segue con letizia la sua via,
Mentre tranquillo osservo.
(...)
Di là dal Cielo e dalla Terra di là da ciò che ha forma,
Là è il Tao.
Venti e nuvole muovono su di me e svariano,
Là è il mio pensiero (Ch’eng Hao, ibid., corsivi miei).
29 “Perciò lei troverà persone non ricettive all’idea che saranno occidentalizzate. Modernizzate sì, nel senso che hanno accettato l’inevitabilità della scienza e della tecnologia ed il cambiamento negli stili di vita che portano” (“La cultura è il destino”, intervista a Li Kuan-yu [Lee Kwan Yew], in Foreign Affairs Marzo-Aprile 1994, p. 118).
30 Qui, senza dubbio, si son verificati degli errori, a mio avviso, nel tentativo d’importare religioni orientali in Occidente (Buddismo, Taoismo, Induismo, parzialmente Islamismo). Da un lato c’è la parzialità e la superficialità dei seguaci occidentali, non all’altezza, con molte lodevoli eccezioni, del còmpito; dall’altro, c’è la chiusura mentale dei seguaci orientali e le specificità tipiche di un certo contesto culturale. Son due lame di tagliola che sinora hanno impedito un profondo passaggio, un vero avvicinamento.
Il tentativo d’impiantare il Cattolicesimo in Cina dovrebbe servir da monito per questi benintenzionati ma ingenui seguaci. Ecco quel che Toynbee stesso notò come segue: “La vittoria della Chiesa cristiana nell’Impero romano non sarebbe avvenuto se i Padri della Chiesa, da San Paolo in poi, non si fossero esercitati, durante i primi quattro o cinque secoli, a tradurre la dottrina cristiana nei termini della filosofia ellenica (...). Le istruzioni del Vaticano ai missionari gesuiti in Cina paralizzarono un’impresa di questo genere” (A. Toynbee, Le civiltà nella storia, Einaudi 1950, p. 550).
E’ nel non aver compreso questo punto che, a mio avviso, quei seguaci non hanno individuato il bandolo della matassa. Difatti, c’è un’altra difficoltà: il pensiero moderno dell’Occidente non sente la necessità, che però i tempi a gran voce invocano, di modificarsi per unirsi a tipi di pensiero differenti senza rinchiuderli nelle proprie categorie (libertà/totalitarismo, democrazia, ecc.). Non può esser dunque l’interlocutore. Al contrario vediamo troppo spesso i rappresentanti di tradizioni extraeuropee tentar d’ingraziarsi o di usare il pensiero dell’attuale minoranza dominante, con il risultato che tende a venir fuori un sincretismo non simbiotico, ma caotico e confuso. Al contrario, quegli stessi rappresentanti rifiutano di confrontarsi con gli elementi che nella tradizione dell’Occidente sono gl’interlocutori naturali. Nella storia le tradizioni straniere autentiche hanno sempre galvanizzato quel che Toynbee chiama “proletariato interno” (Toynbee usa il termine in senso assai diverso dal significato sociologico del termine): ecco, ciò manca totalmente oggi. L’incapacità dei rappresentanti, occidentali come orientali, delle tradizioni autentiche dell’Oriente, di operare tale giunzione è davvero enorme, incredibile, assordante nel suo silente rumore (ma bisogna esser “giusti d’orecchio” per sentirlo).
Una delle concause di tale incapacità è che essa richiede un’opera veramente creativa. Ora, la creatività è un dato d’inizio, non un punto d’arrivo: o c’è o non c’è. Qui casca l’asino.
31 Personalmente, ho questa posizione: il nei supera il wai, ma il wai è in ogni caso presente. Ora, non c’è solo l’armonizzarsi col Cosmo, la Natura, il Cielo, il Tao, la Terra, ci sono anche i rapporti degli uomini fra loro e con la natura (nel senso d’ambiente, non d’essenza). Ecco che sostengo il Neoconfucianesimo come chiave, giacché il Tao hsüeh è l’erede della tendenza ad armonizzare il nei ed il wai ed a considerarli ambedue essenziali. E’ la tendenza confucio-menciana. E’ chiaro, però, che non è un problema quantitativo (50% al nei, 50% al wai), ma un problema di orientazione simbolica del pensiero. In tal senso, il Tao hsüeh fa da chiave per quella che Guénon (op. cit., Conclusioni) chiama la “seconda ipotesi”, cioè quella che, in certo modo, va realizzandosi sotto i nostri occhi. Precisiamo, però, che i paragoni testé operati qui e “le spiegazioni offerte non possono corrispondere al nostro pensiero nella sua totalità” (Guénon, op. cit., p. 246). C’è una “dimensione nascosta”, in tutto l’insieme dell’ingarbugliato problema, che non si può negligere. Ma tutto ciò amplissimamente travalica i limiti del presente scritto.
32 E’ chiaro che l’Impero cinese si è solo avvicinato, e non troppo, a tali augusti ideali: il piede fasciato del familismo ne ha compresso la grandezza, che, potenzialmente, è universale. Comunque, il Celeste Impero è stato l’involucro che ha protetto e traghettato il prezioso carico attraverso i perigliosi flutti della storia; ed esso è giunto sino a noi, senza che né rinoceronte né tigre o lama ne intaccassero il prezioso Corpus.
Con la fine dell’Impero centrato su quella cultura, su quei pilastri culturali generali, Cina e cultura cinese si son separate. Ciò è un male. Tuttavia, reca un bene: si può riscoprire l’universalità sottesa in ed a quei pilastri.
33 Interessante quanto afferma A. Toynbee nel suo Le Civiltà nella storia, uscito in Italia nel 1950 ed in Inghilterra (nella sua forma completa) dal 1933 al ‘39! Dopo aver criticato (giustamente) la dicotomia antico/moderno nata con la civiltà ellenistica e la periodizzazione antico-medievale-moderno nata da categorie ellenistiche, giustamente critica l’equazione ellenistico = occidentale. Distingue giustamente fra Ellenico ed Occidentale come due civiltà. Operata questa distinzione, propone questa corretta periodizzazione per la civiltà occidentale: “Abbiamo perciò:
Occidentale I (‘Età Oscura’), 675-1075;
Occidentale II (‘Medio Evo’), 1075-1475;
Occidentale III (‘Moderno’), 1475-1875;
Occidentale IV (‘Postmoderno’), 1875- ?(Toynbee, op. cit., p. 68, grassetto mio).
Toynbee, quindi, fa iniziare il “postmoderno” nel 1875! E, a mio avviso, con ragione: trattasi di una grande intuizione. Tra l’altro, il periodo realmente moderno, quello di un dominio mondiale occidentale ordinato intorno alla centralità dell’Europa, termina col 1875. L’Occidentale IV è il periodo dell’emersione delle idee del XIX sec. (democrazia liberale più tecnica applicata all’economia, cioè capitalismo, ché questo è il capitalismo) e del loro potenziale distruttivo. L’Occidente prosegue nel cammino iniziato nell’Occidentale III, ma così, se continua ad estendersi, comincia a soffrire di contraccolpi sia politici (guerre mondiali prima e seconda) che a livello culturale.
Ma, se queste categorie son valide per l’Occidente (che si è progressivamente trascinato con sé, nelle ultime sue due fasi, l’intero globo), ciò significa che il vero post-moderno (= superamento del moderno) non è più occidentale. Il postmoderno, come lo s’intende oggi, momento di massima diffusione e insieme di crisi del moderno, andrebbe chiamato tardomoderno: allora ciò che vien dopo andrebbe giustamente chiamato post-moderno. Poiché quest’ultimo è invece inteso nel senso di massima diffusione e crisi, ma non superamento, allora il vero post-moderno sarà chiamato post-Occidentale o anti-moderno.
Quando inizierà questa nuova epoca sarà detta: post-Occidentale od anti-moderna. Propongo, per la sua periodizzazione futura, di chiamarla: Globale I, Globale II, ecc..
Come la Cina, anche questa futura unità potrà rompersi, ma, se l’idea d’unità globale, che richiede l’apporto di culture non occidentali e della cultura sinica in particolare, metterà radice, non si potrà mai tornare all’epoca delle aree separate. Ci sarà un moto d’espansione/contrazione all’interno del globo, ma l’unità di fondo resterà. Come in Cina.
34 Non facciamoci trarre in inganno da certi fenomeni superficiali: in realtà, finché le idee del XIX sec. Non saranno realmente superate, ed in teoria e non solo de facto (dove già lo sono), non sarà possibile nessun’ibridazione, ibridazione che implica la nascita di un terzo figlio dai due, ma diverso da entrambi.
35 Questa cultura “ibrida” sarebbe anche la salvezza di molte altre cose che non si vedono, cose sulle quali sarebbe lungo parlare (non è questa la sede adatta, pur avendoci alluso).
Il pericolo delle cose “ibride” è fare “né carne, né pesce”, ma ciò solo e soltanto quando non si genera un terzo, e la relazione, per un motivo o per un altro, resta sterile. Bisogna precisare, allora, che la cultura ibrida è il frutto della relazione fra due culture, non è la relazione, il rapporto fra esse due.
36 Il cadavere è sempre stato il modello della scienza moderna come il corpo vivo lo è stato della scienza cinese.
37 Perciò non è stato capace di seguire il sistema capitalista nelle sue trasformazioni, che hanno sempre avuto dei “sottofondi” culturali chiari. Per questo non è stato in grado di comprendere né di giustificare le differenze culturali dei vari corpi sociali, differenze irriducibili all’economicismo.
38 Del resto, l’antica leggenda greca non dice che Alessandro Magno tagliò quel nodo, ma che lo staccò dal giogo per buoi cui era legato. Una cosa molto diversa.

1 commento:

  1. 22 lunghissimi anni fa! Ma ci rendiamo conto?! Ma “‘ndo’ cacio” è stato “er” monno in tutti questi anni?
    Dove? Nelle lande della desolazione? Mentale, ovvio ...
    Nella “terre gaste” ...
    Si tagli codesto stradannato “nodo di Gordio”, lo si tagli una buona volta!!
    Quesa “fine che non finisce mai” sfinisce. Brucia le energie.
    Consuma senza poter aprire alcun altro cammino.




    RispondiElimina