Etica, economia e cultura globale
1. Manifesto
“Se
l’umanità deve avere un futuro nel quale
riconoscersi,
non potrà averlo prolungando
il
passato o il presente. Se cerchiamo di
costruire
il terzo millennio su questa base,
falliremo.
E il prezzo del fallimento... è il buio”.
Eric
J. Hobsbawm
(Il
secolo breve)
Un
fantasma si aggira per il mondo: il XIX secolo. L’idea
d’unilinearità, di sviluppo univoco. Nonostante tale ottica sia,
oggi, assolutamente improponibile,
essa rimane inchiodata nelle menti, pur essendo ormai lontana dal
ritmo
dell’epoca, ben diverso. Quest’inerzia mentale purtroppo
impedisce di rispondere alle pressanti
sfide che spingono la nostra epoca oltre se stessa.
E’
stato lo sviluppo che, nel suo tumultuoso fluire come di un fiume in
piena, come la Grande Onda immortalata da Hokusai, ha rotto quel
castigato schemuccio di uno sviluppo quieto ed ordinato. Uno schema
profondamente datato nella sua presupposta unilateralità, uno schema
che sa di carrozze e di treni a vapore, che sa di una realtà
sparita.
Proprio
lo sconvolgimento
che lo sviluppo ha provocato sorprenderebbe i teorici del secolo
scorso, i quali si sarebbero aspettati che lo sviluppo producesse
ordine,
e non
disordine, com’è invece accaduto nei fatti. Ma il bello è che,
pur non potendo esser più negato il legame fra sviluppo e disordine,
tale correlazione non
può essere spiegata in base alle idee del XIX secolo. Così, mentre
la situazione spinge forzatamente a soluzioni diverse, poi ben pochi
vogliono effettivamente
abbandonare comodi schemi risultati fallaci.
Un
altro punto che non va è la dicotomia
struttura/sovrastruttura, che riduce quest’ultima ad appendice
della prima. Questo è un distillato puro di riduttivismo del XIX
secolo. Proprio questo punto è stato attaccato all’inizio di
questo secolo da Max Weber, che ha dimostrato, in un famoso saggio,
la centralità dell’etica protestante nella genesi del capitalismo.
Gli scritti di Weber sono particolarmente centrali per gli studi
d’orientalistica e soprattutto per l’Asia orientale. Difatti, la
Cina ha sviluppato assai prima dell’Occidente il predominio dei
valori acquisitivi su quelli ascrittivi, in altre parole una delle
principali caratteristiche distintive dell’epoca moderna. Eppure la
Cina non ha sviluppato la modernità in termini di tendenze mentali,
anzi vi si è strenuamente opposta, tant’è che si è giustamente
parlato di moderno senza modernità. Dov’era la differenza?
Precisamente nell’etica, in pratica nella cultura.
Anche
nell’analisi marxiana della struttura del capitalismo la
sottovalutazione dell’importanza della sovrastruttura ha giocato il
suo ruolo. Difatti, come ha dimostrato J. Baudrillard, la rivoluzione
iniziata dal capitalismo con la metà degli anni ‘70 ha riguardato
l’informazione, cioè la sovrastruttura; solo in séguito ha
modificato la struttura. Il marxismo ha perso quando non è stato in
grado di afferrare il legame fra quel cambiamento sovrastrutturale e
la modificazione strutturale conseguente. Solo dopo
son crollati i regimi che s’ispiravano, molto alla lontana per la
verità, al marxismo.
Vuoi
cambiar la struttura? Inizia dalla sovrastruttura. Vuoi modificare la
sovrastruttura? Inizia dalla struttura.
2
La centralità dell’economia è illusoria. Piuttosto, è dal secolo
scorso, dalla Rivoluzione Industriale, che essa è divenuta l’agone
principale, ed ora in concreto l’unico e il globale,
dove si esprimono e si manifestano i contrasti ed i rapporti di
forza. Essa è oggi l’agone mondiale, complessivo, unico. Però è
necessario precisare che questo predominio è un’eccezione
nella storia dell’umanità, e non
la regola. Tutti i diversi contendenti giungendo, per l’appunto,
diversi
a quest’unico mercato globale, le loro differenze, pur essendo
appiattite, uniformate, pure non sono tolte. Tali differenze si
manifestano all’interno della dimensione economica, che quindi non
può essere centrale, pur essendo, e la cosa è oggi evidente, quella
predominante.
Il
confondere il predominio con la centralità dà la misura della
povertà dell’economicismo, che altro non è altro se non
l’applicazione nella sfera economica del riduttivismo materialista
del secolo scorso. Il suo problema è che non funziona, cioè non dà
conto proprio delle differenze che continuano a manifestarsi
all’interno dell’agone economico. Le differenze all’interno di
quest’ultimo derivano dall’economico? Nient’affatto. Nel non
vedere quest’ultimo punto c’è il limite dell’economicismo.
Dice
Fukuyama: “Per il decennio passato, il dibattito centrale intorno
all’economia globale è avvenuto fra neomercantilisti ed economisti
ortodossi neoclassici” (F. Fukuyama: “Social Capital and the
Global Economy”, FOREIGN AFFAIRS, Sept./Oct. 1995, p. 101). Cosa
rispecchiava questo dibattito? La classica querelle
sul ruolo dello stato, questo piede fasciato della teoria economica.
Il primo gruppo di cui parla Fukuyama rimproverava l’altro di
sottovalutare il ruolo dello stato, mentre il secondo gruppo non
faceva che applicare allo sviluppo asiatico l’antistatalismo
americano, questa bizzarra applicazione della teoria della
generazione spontanea alla sfera dell’economico.
In
realtà, hanno ambedue una parte di ragione, ed ambedue torto. Hanno
ambedue ragione nel senso che realmente il ruolo dello stato
costituisce un punto centrale, ma in quanto è riflesso
di tendenze non meramente economiche, e lo vedremo con Fukuyama, ed
hanno ambedue torto nel senso che ambedue perdono di vista il ruolo
della cultura (lato
sensu),
quest’ultima davvero centrale.
Fukuyama,
nel suo articolo, dimostra come il diverso modello di relazioni
sociali non può che influenzare la struttura economica. Egli
distingue tra società ad alta fiducia sociale e società a bassa
fiducia sociale. La fiducia è la base
della società: essa consente di sviluppare intensi rapporti sociali
con non consanguinei, cioè intensi rapporti sociali oltre
il nucleo familiare. La fiducia sociale è, dunque, per Fukuyama, la
base del capitale sociale; quest’ultimo consente di costruire
grossi gruppi, mentre laddove il capitale sociale è basso, il
modello economico è basato sulla famiglia, e quindi coagula in un
vasto tessuto di piccole e medie aziende, con qualche grosso gruppo,
sempre
a conduzione familiare. Questo rimaner legati alla famiglia si chiama
familismo1,
forte in Cina come in Italia, mentre l’altra tendenza è forte in
Giappone come negli Stati Uniti.
La
caratteristica delle nazioni governate da quest’ultima tendenza, è
stata quella di aver formato per prime delle compagnie di grande
scala, che son governate da manager esterni ai legami familiari “in
cui la proprietà era dispersa e separata dalla gestione” (cit., p.
91). Questa separazione di proprietà e gestione, oltre all’uso di
manager esterni, è la caratteristica del modello economico delle
nazioni non dominate dalla tendenza familistica.
Fukuyama,
prima di concentrarsi sul rapporto fra Cina e Giappone, quello che
più qui c’interessa, collega al Giappone gli Stati Uniti2
e la Germania, ed alla Cina la Francia e l’Italia3.
In realtà, la tendenza al familismo, come a formare comunità
delinquenziali, si ritrova nell’America Latina e nei paesi
dell’Europa dell’Est4.
Non
è che un modello basato su di un familismo virtuoso, cioè su tante
piccole e medie aziende, sia in sé negativo. Difatti: “Ciò che le
piccole compagnie perdono in termini di copertura finanziaria,
risorse tecnologiche e potere di controllo, lo guadagnano in
flessibilità, mancanza di burocrazia e velocità nel prendere
decisioni. Lungo gli anni ‘80, l’economia dell’Italia e quelle
d’altre società familistiche latino-cattoliche dell’EU son
cresciute più velocemente della Germania. Quelli che, come Max
Weber, argomentavano che il familismo cinese avrebbe impedito la
modernizzazione economica hanno semplicemente sbagliato” (pp.
94-95). In effetti, però, uno sviluppo solo di questo tipo presenta
i suoi problemi, risolvibili o con il ruolo dello stato come
investitore, o con l’aiuto dall’estero (cfr. pp. 95-96). Il punto
è questo: “Se l’unico obiettivo (...) è la massimizzazione di
ricchezza aggregata, allora non c’è particolar bisogno di muoversi
oltre la scala relativamente piccola dell’impresa familiare” (p.
95). Tuttavia, la posizione di centralità e controllo si ha solo
prendendo posizione sui settori tecnologici nevralgici; la qual cosa
è possibile solo a grossi gruppi organizzati in modo non
familistico5.
Per quanto, poi, lo stato possa intervenire nello sviluppo economico
di tali settori centrali, come fa la Francia, non può sostituire il
ruolo delle grandi industrie6.
Così,
la “Consapevolezza dell’importanza del capitale sociale illumina
la povertà del discorso economico contemporaneo” (p. 101).
Difatti: “La cultura inibisce la crescita di grandi compagnie in
certe società, lo permette in altre, e stimola l’emergere di nuove
forme d’impresa economica (...) in altre ancora” (p. 95).
La
cultura è centrale. Ora, com’è che, appartenendo Cina e Giappone
alla stessa area culturale, han preso due strade così diverse?
Fukuyama
ci dà una traccia: “La ragione della scala relativamente piccola
delle imprese cinesi è la centralità della famiglia nella cultura
cinese. In netto contrasto con il Giappone, le relazioni familiari
vincono tutti gli altri obblighi sociali. (...) le famiglie
giapponesi (...) sono più piccole ed hanno esercitato un’influenza
sociale molto più debole delle loro controparti cinesi. La lealtà
verso gruppi non basati sulla parentela hanno eclissato le relazioni
familiari almeno dai tempi dei Tokugawa, una pratica ancora riflessa
nella propensione del manager giapponese ad abbandonare sposa e
bambini in favore dei colleghi sere e weekend” (p. 92).
Si
tratta, dunque, di una differenziazione all’interno
dei comuni valori confuciani su quale valore porre al vertice: in
Cina la pietà filiale, in Giappone la lealtà. Tutto ciò si mostra
nella sfera economica, però ha radici antiche. In Cina, il
predominio della pietà filiale ha già più volte esercitato
un’influenza in parte disgregatrice (come si vede soprattutto nel
crollo della dinastia Han (206a.C.-220d.C.) ). In Giappone, la lealtà
verso il sovrano è sempre stata il valore supremo, essendosi poi
diffusa all’interno
dei rapporti feudali, per esser definitivamente cristallizzata nel
periodo Tokugawa (o Edo, 1603-1853).
3.
Etica
confuciana in Cina e Giappone. Il fatto che il Confucianesimo possa
essere interpretato in due diverse maniere in Cina e Giappone non fa
che rimarcare che il Confucianesimo è un insieme, un fascio di
valori suscettibili di differenti accenti e diverse interpretazioni,
come la storia del pensiero dell’Asia orientale non fa che
confermare. E così, la stessa “sfida confuciana” ha due volti
molto diversi, come ha dimostrato Fukuyama.
Sfida
confuciana: non è un mero fatto economico, né si tratta di una
sfida unitaria, visto che proprio le differenze all’interno del
Confucianesimo generano sfide differenti. No, il punto è un altro: è
che il Confucianesimo è stato in grado di rispondere alla modernità,
cioè di non esserne distrutto, riuscendo anche ad imprimere un
cambiamento di rotta allo sviluppo, vale a dire in certa misura
“assorbendolo”. Come il judoka
segue il suo più forte avversario sfruttando la maggior forza di
quello contro lui stesso, allo stesso modo è avvenuto in queste
culture. Esse hanno dimostrato che lo sviluppo non può distruggere
le parti premoderne, che anzi son loro a modificare lo sviluppo.
L’obiezione che alcuni fanno, cioè che questo parlare degli
elementi che, nel Confucianesimo, sono a favore dello sviluppo nasce
solo dal fatto che lo sviluppo sia stato impiantato con successo, è
un’obiezione che tocca solo la superficie del fenomeno. Difatti, il
Confucianesimo reca in sé molte varianti che gli hanno consentito di
rispondere
(si badi bene a questo termine) allo sviluppo: ciò significa che non
si è trattato di passivo trascinamento.
Ma
c’è di peggio per gli Occidentali: se il Confucianesimo ha
positivamente risposto ad una sfida mortale, non sarà perché i suoi
valori, pur nelle varianti particolari, hanno un fondo universale?
Questa è, forse, la vera
“sfida confuciana” all’Occidente.
Naturalmente,
c’è stato, e c’è,
forte, l’influsso occidentale. Reischauer e Fairbank, difatti,
ebbero una giusta intuizione quando parlarono, riferendosi alle
culture attuali dell’Asia orientale, di “culture ibride” (E.O.
Reischauer - J.K. Fairbank: Storia
dell’Asia Orientale,
Einaudi 1974, vol.I°, p. 8), cioè caratterizzate da una parte
moderna ed una premoderna. L’errore dei due autori si sviluppa nel
secondo volume, dove, contrariamente alla giusta loro intuizione,
sostenevano che solo la completa occidentalizzazione era l’unica
via verso la completa modernizzazione. Pur avendo il caso Giappone
sotto gli occhi, non si resero conto della vitalità profonda dei
modelli premoderni di quelle culture, modelli capaci d’influenzare
lo sviluppo.
Certo,
questo non va enfatizzato, perché sarebbe sbagliato
allo stesso modo, ma in senso inverso, vedere negli attuali
rappresentanti dell’Asia orientale i rappresentanti della loro
grande Tradizione nella sua gloria. Quel che n’è venuto fuori è,
per l’appunto, una cultura ibrida, un’unione di moderno e
premoderno: una variante di postmoderno, in realtà. In Occidente il
postmoderno è un discorso, mentre la società (e soprattutto i ceti
colti, le idee dominanti) si tiene aggrappata alla modernità
passata, nonostante questo scoglio sia sempre più viscido ed i
marosi sempre più minacciosi sotto l’apparente calma di
superficie: le correnti profonde della storia son di nuovo in moto.
In Asia orientale si vive in un àmbito postmoderno de
facto,
in specie in Giappone. In questo,
e non
nel modello economico, il Giappone ha fatto da testa di ponte per
tutta l’area, ed in tal senso solo si può parlare di “modello
nipponico” e, più alla larga, di “modello confuciano”; tutto
ciò non ha che ben poco a che vedere con la struttura industriale
nipponica e con la mentalità che vi si lega, unicamente giapponese7.
Il
Giappone nasce, per così dire, sotto l’impronta cinese: durante il
periodo Asuka, con la riforma Taika (645), il modello cinese della
dinastia T’ang [Tang] è importato massicciamente in Giappone8.
In séguito, nel periodo Heian (794-1085), sotto l’apparente
mantenimento della veste cinese, vengon fuori i valori nipponici
preesistenti. Qui il Giappone diverge per la prima volta radicalmente
dalla Cina, e prende una sua via particolare. Mentre in Cina, con la
fina della dinastia T’ang [Tang] (618 -907), termina il periodo
aristocratico ed inizia il primo periodo moderno, con il prevalere
definitivo dei valori acquisitivi su quelli ascrittivi, in Giappone
si ha lo smembramento feudale del modello centralizzato cinese. In
realtà, tutto ciò avviene a causa di un sistema di valori
ascrittivi precedente. In tale sistema, la lealtà (al Sovrano in
primo luogo, ma poi al superiore nei rapporti vassallatici) ha un
posto rilevante. Durante tutti i periodi, dall’epoca Heian a quella
Tokugawa (1603-1853), si ha una lunga fase d’elaborazione e
digestione culturale degli stimoli della cultura cinese. Ciò non
poteva non riguardare i valori confuciani. Quando il
Neoconfucianesimo di Chu Hsi [Zhu Xi] divenne filosofia ufficiale
sotto i Tokugawa, ciò non fu che un evento terminale, la definitiva
consacrazione dell’interpretazione nipponica dei comuni valori
dell’area sinica. Quest’ufficializzazione farà sì che i valori
confuciani nipponizzati penetrassero fin nei più remoti angoli della
società9.
In
Cina, invece, la fine del periodo propriamente aristocratico non può
che ridimensionare l’importanza della lealtà, che non potrà
esercitare quell’influenza che invece resterà decisiva in
Giappone10.
Con la fine dei T’ang [Tang] e, soprattutto, con i Sung [Song], i
valori acquisitivi vincono definitivamente quelli ascrittivi: è la
“modernità senza moderno” (F. Mazzei)11.
Tutto ciò è altresì amplificato dalla cosiddetta “rivoluzione
commerciale” dei Sung12.
La
città, in Cina e Giappone, può costituire un interessante banco di
prova delle differenze
complementari
fra Cina e Giappone che la chiave
di Fukuyama ha posto in evidenza e che la storia tutta dei due paesi,
che si è appena brevemente commentata, dimostra.
In
Cina la città è un nodo fondamentale, però ha un ruolo ben
differente che in Occidente. La stessa struttura delle città,
eminentemente simbolica come quelle del mondo antico occidentale13,
è un’immagine di questa differenza. La città cinese classica è
il luogo dove “Cielo e Terra sono in accordo, s’incontrano le
quattro stagioni, si riuniscono i venti e le piogge, le forze
negative yin
e quelle positive yang”
(dal Chou-li
[Zhuli],
in P. Corradini: “La città cinese”, in Modelli
di città,
Einaudi 1987, p. 188); tale città, per un apparente paradosso14,
si è conservata in Giappone: “Kyoto conserva ancor oggi la maggior
parte delle caratteristiche della città cinese” (ibid., p. 189),
caratteristiche sparite o difficilmente riconoscibili nella città
cinese d’oggi. Il che ci fa misurar
con mano
quanto la Cina si sia allontanata
dal suo modello
classico.
Kyoto
è quadrata ed ha strade che si tagliano ad angolo retto. Non ha
mura, a differenza delle città cinesi15,
e questo è molto
indicativo della maggior apertura del Giappone e dell’avere, il
Giappone, una muraglia che lo distingue naturalmente: il mare. “Kyoto
è interamente circondata da templi buddistici (...). I templi
sorgono nei dintorni della città. Unica eccezione notevole era il
Ming-t’ang,
se si può definirlo luogo di culto” (ibid.)16.
Cosa
occupa
il centro? “Quello che occupa il centro della città è il palazzo
imperiale o, nelle città di provincia, lo ya-men
del mandarino, rappresentante dell’autorità imperiale. Ciò è ben
comprensibile in una civiltà che ha visto svilupparsi presto
un’autorità statale fondata su[r] un’amministrazione
centralizzata, a fronte della quale non è mai esistito un potere
sacerdotale talmente forte da porsi in alternativa ad esso”
(ibid.)17.
Fatto molto
significativo, molto malinteso dall’Occidente moderno, che spesso
ha flirtato con la Cina cercando in essa il mondo senza religione che
cercava di costruire in Occidente e nel mondo (in parte
riuscendoci)18.
Purtroppo, è vero il contrario: l’autorità imperiale ha un
aspetto che gli Occidentali potrebbero chiamare, nel loro linguaggio,
“religioso”, e che sarebbe più giusto chiamare sacro.
L’Imperator
è un Re-Pontefice; e non è un caso che vi siano stati problemi
proprio con il papato, mentre con altre religioni di origine
vicinorientale come l’islamismo, non si sia verificato niente di
simile. Naturalmente, l’Occidente moderno ha enormi
difficoltà nel vedere la sacertà nel
sociale, nonostante il Medioevo e ancor più l’evo antico
occidentale, che ha molte similarità con la civiltà sinica, pur
nella gran differenza già esistente in
nuce
allora: la tendenza occidentale a dar gran valore alla ragione, alla
logica, alla dialettica.
Il
paradosso cinese è questa centralizzazione dell’autorità statale
che non va di pari passo con la modernità, ma che, al contrario, ha
consentito a strutture di pensiero premoderne di formalizzarsi e
perdurare. E’ questo che sconcerta il pensiero dell’Occidente
moderno. Ora, il punto è che quel processo di centralizzazione che
ha portato in auge la modernità non
è la
modernità in
sé.
E’ proprio perché legano questi due aspetti in realtà
storicamente legati solo
in una fase, che molti non riescono a comprendere la fase attuale,
“postmoderna” (sarebbe più corretto chiamarla tardomoderna),
dove lo sviluppo distrugge e dissolve le strutture coagulate nella
fase precedente. E’ una fase studiata da J. Baudrillard sin dalla
metà degli anni ‘70, quando è iniziata (la crisi del ‘74
facendo da spartiacque). Purtroppo, quell’errore d’identificare
la modernità con una sua fase ottunde lo sguardo di molti ed ha
gravissime
conseguenze d’inerzia nel campo politico.
L’essere
la città in Cina soprattutto centro amministrativo (in séguito
commerciale ed industriale) ha fatto sì che in Cina nessuna città
“ha mai assunto un’importanza analoga a quella delle città
occidentali. (...) nessuna ha mai imposto una moda nell’abbigliamento
(...), nessuna s’è mai imposta come centro di cultura ad
esclusione di altri centri. Anzi, le maggiori e più importanti
scuole artistiche, le accademie culturali, le biblioteche tendevano a
sorgere e a svilupparsi nelle campagne, nelle residenze dei mecenati
e dei grandi letterati, piuttosto che nelle città, sedi del potere
amministrativo” (ibid., p. 192).
L’esser
centro amministrativo implica l’amministrare la campagna, con la
quale sussisteva “un complesso rapporto di continuità” (F.
Mazzei, “La città giapponese”, in op. cit., p. 201). Tale
“rapporto di continuità tra città e villaggio è reso evidente
dalla doppia connotazione sociologica della classe dominante cinese
(spesso definita gentry),
che era sì burocratica (urbana) ma anche rentière,
saldamente legata alla campagna, dove si rifugiava nei periodi di
disordine politico. La città giapponese nel periodo antico
rispecchia fedelmente il modello cinese, con la differenza che nei
confronti delle comunità agricole che la circondavano presente non
un rapporto di continuità ma una netta frattura”
(ibid., sottolineature mie).
La
città cinese amministra la campagna, è l’organo di un
sovrasistema che regola ma non si mescola con la struttura, il
sottosistema della campagna, dove la famiglia rimane il punto
centrale, il nerbo. In Giappone, invece, la città si differenzia
dalla campagna: vi è la borghesia (chônin,
una delle poche parole composte giapponesi non
d’origine cinese). “Così, mentre i Cinesi hanno dovuto prendere
in prestito un termine straniero per designare la borghesia, l’unica
classe che storicamente si è identificata in modo esplicito con la
città, i Giapponesi già avevano a disposizione per questo scopo una
parola della loro lingua” (ibid., p. 211).
Ora,
poiché il grande sviluppo della borghesia si ha in Giappone dalla
metà circa del periodo Tokugawa, perché la risposta alla crisi
della feudalità è la sua centralizzazione, lo sviluppo della
borghesia non
si pone in opposizione al governo feudale samurai, che non si sarebbe
sciolto senza una scossa esterna, quali che fossero le possibilità
già presenti. Così, lo sviluppo borghese è avvenuto all’interno
dell’interpretazione nipponica feudale dei valori confuciani,
interpretazione che dava, alla lealtà verso il superiore, il primo
posto sulla pietà filiale.
Il
borghese assorbiva quell’atmosfera che lo impregnava come un
profumo, mentre il samurai che andava in città, quand’anche fosse
corrotto, non poteva che diffondere dei valori vitali.
Così,
la città è stata lo specchio della differenza tra Cina e Giappone
all’interno della comune cultura.
4.
Culture
is Destiny. Voglio
qui usare le categorie cinesi di nei
(interno, interiore) e wai
(esterno, esteriore), categorie a loro volta riflesso di quella
basilare yin/yang,
e che abbiamo già incontrato (vedi nota 15), per descrivere le
tendenze del pensiero e della religione cinesi in modo differente da
quello comune negli studi orientalistici. Difatti, questi ultimi
hanno troppo spesso la tendenza a voler meramente applicare categorie
occidentali: ed ecco un altro piede fasciato19.
Il problema di dover usare necessariamente categorie occidentali, ma
senza distorcere la forma di ciò che si studia, è sempre stato
cruciale nell’orientalismo occidentale. Si può risolvere
modificando le categorie occidentali quando si applicano all’Oriente,
e questo è sempre alla base di qualche querelle,
da un lato, e dall’altro accogliendo talune categorie della cultura
che si studia (e qui il campo è libero). Ora, il punto veramente
dolente dell’orientalismo è che l’Oriente non è stato mai
considerato portatore di una cultural
challenge.
E questo è grave20.
Troppo
spesso, poi, posizioni giuste si affiancano alla tendenza del “piede
fasciato”, come dico un po’ scherzosamente, in altre parole a
veder le cose attraverso lenti distorcenti che impongono una forma
estranea alle cose come sono21.
Quando poi si va oltre l’ambiente degli orientalisti, la povertà
del dibattito è grande22.
Se
la cultura è destino, come afferma il Senior Minister (SM) di
Singapore Li Kuan-yu [Li Guanyu], e se c’è una sfida culturale
all’Occidente che si manifesta in modi diversi, ebbene il
retroterra culturale di tale sfida è il punto cruciale. Questo
retroterra è costituito dal Neoconfucianesimo, cioè il frutto
maturo dello sviluppo della civiltà cinese, apparso nel momento del
volgimento della ruota, del moto: la luna piena; e quando la luna è
piena comincia a calare. Quel momento fu tra la fine dei T’ang ed i
Sung, come si è visto (nota n°10).
Non
si può non notare che in Cina si apre uno iato fra la grandezza
degli orizzonti aperti dal pensiero cinese e la limitatezza della
realizzazione concreta, nel senso che il familismo cinese ha
compresso
le potenzialità enormi di un certo pensiero cinese.
Uno
degli errori più comuni in Occidente è stato quello di vedere
Taoismo, Confucianesimo e Buddismo come perenni nemici per le
rivalità di scuola che li hanno opposti, scuole organizzate come
famiglie: di nuovo la tendenza compressiva del familismo ha operato.
Ma
come hanno vissuto i Cinesi questa terna? A livello popolare, si è
formato un sincretismo simbiotico, cioè che accetta tutt’e tre le
vie, senza confonderle23.
A livello filosofico si è invece avuta una sintesi in cui le tre
componenti si sono unite; solo che la quantità
degli elementi che ognuna delle tre ha fornito è differente.
Modificandosi la quantità, il risultato finale è qualitativamente
diverso.
Ciò
che noi chiamiamo Neoconfucianesimo si chiama in cinese Tao
hsueh
[Daoxue],
in altre parole lo studio
della Via, del Tao. Così, abbiamo il Tao
chia
[Daojia],
cioè il Taoismo classico di Lao-tzu, Chuang-tzu [Zhuangzi] e
Lieh-tzu [Liezi], il Tao
chiao
[Daojiao],
cioè la religione taoista fondata durante gli Han orientali (25-220)
da Chang Tao-ling [Zhang Daoling] (34-156)24
su ordine di Lao-tzu. Ed abbiamo il Tao
hsueh,
sintesi del pensiero cinese confluito all’interno della tendenza
menciana
del Confucianesimo, tendenza che spesso gli Occidentali non amano
vedere, ché cercano di ridurre il Confucianesimo o all’agricoltura
o al funzionariato. Invece il Confucianesimo ha radici più profonde.
Laddove
il wai
predomina sul nei
abbiamo le tendenze “realistiche” del Confucianesimo, quelle di
Hsün-tzu [Xunzi], della “Scuola degli studi Han”, della scuola
della “conoscenza pratica”. Laddove il nei
ed il wai
si equiparano armoniosamente vi è la tendenza “idealistica” del
Confucianesimo, quella di Confucio stesso, di Mencio, che ha dato
origine al Tao
hsueh,
di Tung Chung-shu [Dong Zhongshu], quest’ultimo molto sottovalutato
e dagli Occidentali e dai Cinesi degli ultimi due secoli25.
Questa tendenza menciana rinasce nel Neoconfucianesimo. Purtroppo,
nonostante quel che hanno cercato di dimostrare gli studiosi
occidentali, che piaccia o no, la corrente menciana è il ramo
principale, quella realistica il ramo secondario.
Laddove
il nei
supera il wai,
ma quest’ultimo è ancora presente, abbiamo il Taoismo, con accenti
diversi sia il Tao
chia
sia il Tao
chiao26.
Il Tao
chiao
si richiama idealmente al Tao
chia,
ma in realtà è legato al Neotaoismo, detto in cinese hsuan
hsueh
[xuanxue],
sapienza misteriosa27.
Neotaoismo e religione taoista son legati inscindibilmente.
E’
il Neotaoismo a riportare gli elementi cosmologici del Confucianesimo
di Tung Chung-shu nel Neoconfucianesimo, tramite Chou Tun-yi [Zhou
Dunyi] e Shao Yung [Shao Yong]. Quest’ultimo era molto legato alla
seconda divisione del Neotaoismo, che si divideva in hsüan
hsueh
vero e proprio e fêng
liu
[fengliu]
(vento-corrente, in giapponese furyu)28.
E’ questo il lato estetico e bello del Taoismo; però anche il
vivere secondo gli impulsi può esser molto malinteso, e lo è stato.
Come abbiam visto, l’aspetto sacrale della religione vera e propria
tenderà dai Sung in poi a trasferirsi nell’arte e nella pittura in
particolare. Questo senso estetico colmo di contemplatività
impregnerà lo Zen (Ch’an), e si diffonderà in tutta l’Asia
orientale come un profumo sottile, discreto, melodioso e pervadente.
Il
Taoismo è dunque non-mondano, ma non
ultramondano. Dove il nei
sorpassa molto il wai
si ha il Buddismo, religione pienamente ultramondana. L’unione di
Buddismo con Taoismo dà il Ch’an, cioè lo Zen, che considera il
nei
superiore, ma non disprezza il wai,
va oltre il mondo, ma vive bene in questo mondo. In ciò, è come il
Taoismo.
Questo
è il quadro. Ora, l’Occidente nella sua espansione ha superato il
punto di massima forza: nell’’89 si è raggiunta la pienezza, ora
la luna è cominciata a calare. Ed ecco che quel che serviva
all’Occidente per espandersi non
serve a portare ordine, ed appare sempre più come vuoto simulacro.
L’Occidente, nella sua espansione, è stato incapace di ordinare il
mondo, e lo diventa sempre più, perché rimane legato ad un’epoca
passata. Gli vien lanciata la sfida, ma non risponde, perché è
sordo.
Per
ordinare il mondo ha necessità
(si badi bene a questo termine) di assumere dei concetti vitali dalle
culture che, con un’operazione rischiosissima ma efficace di judo
“storico”, hanno giocato l’Occidente contro l’Occidente
stesso, accettando di mettere sé stesse in un rischio potente
d’occidentalizzazione, cercando cioè di modernizzarsi
occidentalizzandosi il meno possibile29.
Non
vedere la sfida è morire. Rispondere vuol dire accettare la
possibilità di una cultura ibrida occidental-orientale che nasca in
Occidente. Questo è un punto-chiave, ma è un punto delicato30.
Qui si pone l’importanza centrale
del Neoconfucianesimo31.
Esso si pone al centro
che armonizza il nei
ed il wai,
laddove l’uomo si accorda prima
con il Cielo, quindi con la Terra, e poi con gli altri uomini. Si
pone al centro laddove una religiosità incline a trovare il Divino
nella Natura si unisce al rispetto per il Cielo e la Sua Volontà ed
al progetto d’Armonia nel mondo umano, perché ogni uomo trovi il
posto giusto per lui, secondo la sua natura (hsing),
secondo ciò che egli è.
E
non è quasi ogni uomo “fuori posto” il giorno d’oggi? E non è
l’umanità tutta in rotta col Cielo, con la Terra e con se stessa
oggi?
“Chi
conosce la sua natura (hsing),
conosce il Cielo” (Mencio, VIIa, 1). Chi la ignora, non può
conoscere il Cielo. Ecco la proposta neoconfuciana: iniziare dal
conoscere la propria natura; non per fermarsi lì, beninteso, ma per
andar oltre, per conoscere il Cielo, per armonizzarsi con la Terra di
cui siamo ospiti ed inquilini: la Natura che ci attornia non
è
nostra proprietà, per costruire una società il più possibile
armoniosa32.
Certo,
il Tao
hsueh
ha molti accenti, variazioni, varietà, come gli stessi valori
confuciani sono stati, e sono
ancora,
visti in differenti modi e maniere.
Ora,
qui non si sostiene che dobbiamo imitare i Cinesi. Qui si sostiene
ch’è d’uopo, ch’è buona cosa e giusta che nasca in
Occidente
(punto importantissimo) una cultura ibrida occidental-orientale, come
via d’uscita alla crisi che il successo dell’Occidente ha
generato nell’Occidente stesso 33.
S’individua nel Neoconfucianesimo, nel Tao
hsueh
cioè, la chiave
di volta.
Tutta
la cultura del XX sec. Ha tentato di liberarsi dal pesante, greve,
fangoso abbraccio del pensiero del XIX sec.. Nel complesso, si può
dire che la pars
destruens
è riuscita. Terminata, però, quest’operazione, del resto iniziata
già nel secolo scorso da F. Nietzsche, si passa naturalmente alla
pars
construens.
E qui non si trova nulla.
Come
non vedere che il pensiero occidentale, da
solo,
non ce la fa a liberarsi delle conseguenze funeste delle sue fangose
spire? (…)
5.
Considerazioni
finali. Scherzosamente (ma non
troppo), amo sostenere che Dio, dopo aver sancito il predominio
dell’Occidente, “si pentì” (per dirla col Genesi),
e portò fuori l’Estremo Oriente con delle caratteristiche tali da
mettere costitutivamente in crisi alcune “certezze” del pensiero
moderno. Ed ecco la “modernità senza moderno” (F. Mazzei) della
Cina del secondo millennio dopo Cristo; ed ecco il passaggio al
postmoderno senza passare per il moderno del Giappone (F. Mazzei). Il
fatto che tutto ciò sia
dovrebbe poter interessare l’intero
pensiero dell’Occidente, di un Occidente, beninteso, che fosse
consapevole che il suo stesso successo è causa della sua
irreversibile
crisi. Ma già il cominciare a presentirlo, a rendersi realmente
conto di ciò, vuol dire cominciare ad uscire un po’ fuori del
cerchio magico, entro il quale il pensiero occidentale moderno pare
rinchiuso (o è stato
rinchiuso).
Diamo
un’occhiata, a “volo d’uccello”, alla storia dell’epoca
moderna ed a quella postmoderna (o tardomoderna, più esattamente,
come si è detto estesamente nella nota 33). L’Occidente, nella sua
espansione, ha distrutto molte cose che non capiva ed ha trascinato
tutto il globo nel suo moto disarmonico. E a nulla serve che gli
Occidentali, resisi tardivamente conto che ciò che han distrutto è
di valore, ora sommergano il mondo con lacrime di coccodrillo, o si
scandalizzino perché gli altri fanno ciò che hanno insegnato loro
di fare. Le lacrime di coccodrillo non fanno che aggiungere al male
l’ipocrisia, così aggravandolo. Bene, invece, sarebbe accettare
il male fatto, ed andare oltre. Ma, come accade poiché il bene e il
male sono relativi, questo male reca con sé un bene: la fine degli
spazi chiusi, delle aree separate, e, conseguentemente in
futuro,
ché non
ci siamo ancora giunti,
la potenziale costruzione di una civiltà globale, una e molteplice
assieme. Proprio come successe in Cina con la dinastia Ch’in [Qin],
anch’essa mossasi dall’angolo nord-ovest del mondo cinese, e
semibarbara rispetto al resto dell’antica Cina, come, per
certi aspetti,
l’Occidente rispetto all’Oriente.
L’analogia
calza, e così il probabile futuro. Ma ecco la grande
differenza:
in Cina la cultura, anche nel Ch’in, anche per i Legisti, dava
grande importanza all’unità,
mentre l’Occidente ha dominato (ed ancora domina, sebbene
indebolito) il mondo con la tecnica, con mezzi pratici. Il sistema
che l’Europa ha costruito nella sua espansione (come ha dimostrato
C. Schmitt) si basava sulla centralità dell’Europa, che si legava
col mondo per mezzo dell’Inghilterra. Proprio il proseguimento
dell’espansione e le idee del XIX sec. (democrazia liberale +
capitalismo + tecnica), se hanno fatto continuare l’espansione, non
sono mai state capaci di ordinare
il mondo. E’ chiaro! Il loro scopo era (ed è) quello di dominarlo
dividendo.
Son
dunque idee costitutivamente
incapaci di unire,
ma solo di dividere. Dopo l’‘89, la loro impotenza è divenuta
clamorosa. Ma, ecco il punto, l’Occidente è privo di una visione
unificatrice globale. C’era quella cristiana, ma sia i suoi punti
deboli sia il suo legame con la fase dell’espansione occidentale le
impediscono di riuscire utile oggi (senza contare, last
but not least,
il rifiuto che hanno avuto le idee del XIX sec. per il
Cristianesimo). L’universalismo confuciano, che un tempo era
contenuto nei limiti del Celeste Impero e dell’Asia orientale, ha
molti
punti di contatto con quello cristiano senza molti punti deboli di
quest’ultimo, punti deboli che l’han fatto fallire storicamente.
L’Occidente, per
ordinare,
prendendosi le sue gravi responsabilità con giusto coraggio, non ha
in sé gli elementi per poterlo fare, per molti e gravi motivi; non
può che importare gli elementi che gli servono, è nella necessità
di farlo. Ed ecco la necessità della nascita di una cultura “ibrida”
occidental-orientale in
Occidente,
cosa problematica ma che sentitamente caldeggiamo, nonostante le
grandissime forze d’inerzia, cultura “ibrida” che oggi non
c’è
34.
Essa è, a nostro avviso, una possibile via d’uscita al problema
che ha oggi l’Occidente: l’impossibilità di porre ordine nel
ed al
mondo che ha dominato nell’epoca moderna35.
E’
chiaro che una tale ibridazione, di cui non
c’è traccia
oggi in Occidente, nonostante kili di parole al vento, è molto
difficile. Iniziamo dal non separare i fenomeni materiali da quelli
non-materiali nel corpo sociale. In un corpo vivo
non si può separare la struttura corporea dalle forze vitali e dai
moti psichici che, muovendo la “vitalità” (ch’i),
comportano delle necessarie conseguenze sulla e nella struttura
corporea. Se operiamo questa separazione, allora stiamo studiando un
cadavere36.
Il marxismo ha sempre avuto il difetto di operare questo taglio37.
Tutto
è legato nell’inestricabile geroglifico della realtà. Il che non
significa che tale geroglifico sia incomprensibile, ma significa che
la parte materiale e quella culturale s’incontrano in un
inestricabile viluppo, in un nodo. No, il nodo di Gordio non si può
tagliare che in modo illusorio38.
16-29/06/1996
A.D.
Decemberwolf
NOTE
1
Dice Fukuyama: “se il familismo non è
accompagnato da una forte enfasi sull’educazione e sul lavoro,
nella cultura Confuciana od Ebraica, per esempio, allora può
condurre ad una palude soffocante di nepotismo e stagnazione
congenita” (cit., p. 91)
Nella
cultura italiana non c’è mai stata una forte enfasi del genere
sottolineato da Fukuyama, così l’enormità della corruzione
(enormità enfatizzata dalla piccolezza delle dimensioni
dell’Italia, che non
ha il problema di un centro direttivo
lontano come in Cina) in Italia è stata incredibile. Venendo al
problema del Sud, questo è aggravato dall’essere il Sud lontano
dalle correnti europee; l’espressione di “palude soffocante”
calza particolarmente bene all’Italia del Sud.
Volendo
paragonare la fiducia sociale al calore, si può affermare che
l’Italia del Sud ha un livello di fiducia sociale paragonabile
alla glaciazione wurmiana...
2
In relazione agli Stati Uniti, Fukuyama osserva:
“Questa mappa non è immutabile. Ci sono indicazioni che l’arte
americana di associarsi è stata in serio declino lungo le passate
due generazioni e che gli Americani stanno diventando tanto
individualisti quanto hanno sempre creduto loro stessi di essere”
(cit., p. 94). E’ da ricercarsi l’incrinatura del predominio
americano proprio in questa sudditanza al modello liberista estremo,
in altre parole al neoliberismo. L’estensione del
modello americano va di pari passo con il
suo indebolimento radicale, in pratica va di pari passo con il suo
predominio assoluto, dove questo modello distrugge le altre parti
che pure componevano l’America. Si scopre così che tali altre
parti tendevano a bilanciare, quindi a riequilibrare, l’intero
insieme degli Stati Uniti.
3
E’ indubbio che la tendenza alla
centralizzazione sia una delle cause del familismo: “La Cina, la
Francia, l’Italia del Sud ed altre società con bassa fiducia
tutte son passate attraverso un periodo di forte centralizzazione
politica, quando (...) un monarca assoluto, o lo stato,
deliberatamente si espone per eliminare i competitori per il potere.
In tali società, il capitale che esisteva nel periodo
precedente la centralizzazione fu
esaurito” (pp. 100-101).
Ora, non
è lo stato in sé il problema: il problema è la politica di
centralizzazione aggressiva che
intacca il capitale
sociale. Questa centralizzazione è forte
in Francia e Cina (quest’ultima poi aggiunge il problema delle sue
gigantesche dimensioni). E’ invece una centralizzazione oscillante
nell’Italia del Sud. Quest’ultima era una marca di frontiera
traversata da lotte fra latino-longobardi, greco-italici e
siculo-arabi prima dell’unificazione normanna: i Normanni
portarono la cultura francese (franca) e la tendenza
centralizzatrice francese. Però, tale tendenza si ruppe bruscamente
con gli Angioini; da quel momento la storia meridionale avrebbe
oscillato fra brevi momenti di rientro nel centro della storia
europea e più lunghi momenti di marginalità che, in realtà, hanno
marchiato l’Italia del Sud in maniera indelebile (anche se non
incancellabile). Così, la centralizzazione abortita, se ha
dilapidato una parte rilevante di capitale sociale, pure non è
stata in grado di fornire quel parziale correttivo dato dalla forza
dell’apparato statale, com’è avvenuto in Francia e Cina.
Tutto ciò
ha fatto sì che molto spesso nell’Italia del Sud la famiglia sia
nucleare, piccola e debole (p. 93), dipendente dall’aiuto dello
stato per intraprendere un’attività imprenditoriale familiare; ma
lo stato non c’è, è assente. Ciò produce un familismo povero,
ed è qui la differenza con l’Italia centro-settentrionale, per
assenza di stato. E’ un paradosso tutto
apparente, dovuto al fatto che il Sud ha conosciuto una
centralizzazione abortita, nata dal brusco congelamento della via
“francese” intrapresa, congestionamento causato dalla
marginalità del Sud che, troppo spesso, ricaccia questa parte
d’Europa nel ruolo del cane perennemente bastonato.
4
Giustamente osserva Fukuyama: “E’ come se ci
sia un naturale impulso umano universale verso la socievolezza, che,
se bloccato dall’esprimersi attraversi strutture sociali come la
famiglia o le organizzazioni volontarie, appare in forme come le
gang criminali” (cit., p. 94). I casi presentati da Fukuyama sono
o nazioni come la Russia, vale a dire che vengono da una dittatura,
o paesi dell’America Latina o dell’Africa, che han conosciuto la
centralizzazione abortita. Com’è, infatti, che la Francia non
soffre di gang criminali che più o meno come tutti, mentre gli
Stati Uniti, con l’elevata fiducia sociale che hanno, ne soffrono
moltissimo? Se ne possono dedurre due cose: 1) indubbiamente anche
qui s’intromettono fattori culturali particolari; 2) la
centralizzazione statale non porta necessariamente a tali fenomeni.
5
“Il Giappone e la Corea, con le loro grandi
corporazioni, si sono mossi in aree come le automobili,
l’elettronica di consumo e i semiconduttori, che sono direttamente
competitive con le grandi industrie nordamericane ed europee” (pp.
97-98). Ciò non può accadere in Cina.
Non si
possono che condividere le osservazioni di Fukuyama sul duplice
sistema economico cinese e sui suoi potenziali pericoli. Al di là
del problema politico pressante, resta la differenza tra Cina e
Giappone; di conseguenza, “non c’è un singolo modello asiatico
di sviluppo economico e nessuna unificata sfida confuciana
all’Occidente” (p. 97).
6
Tutta la querelle
sul ruolo dello stato nell’economia è smontata
da Fukuyama, sia per quanto riguarda lo sviluppo dell’Asia
orientale (si è trattato in realtà del coerente proseguimento di
tendenze pre-moderne adattate alle esigenze dello sviluppo), sia per
quel che concerne le vedute politiche. A tal proposito, dice: “E’
chiaro, comunque, che sia la necessità di una politica industriale
che la capacità di svilupparne una effettivamente sono dipendenti
da fattori culturali quali il capitale sociale. Il Giappone, la
Germania e gli Stati Uniti hanno forti settori privati capaci di
generare spontaneamente organizzazioni di grossa scala; la Cina,
l’Italia e la Francia non ne hanno, così è perfettamente
naturale lì che lo stato debba salire per promuovere questo tipo
d’organizzazione” (p. 102).
E’
chiaro che tutto ciò si presta a più vaste considerazioni: “Siamo
alla fine di un prolungato periodo in cui gli stati moderni sono
stati i promotori chiave della crescita economica e della
trasformazione sociale” (ibid.). E’ la fine di questo ciclo,
cioè della modernità, che molti non riescono ad accettare. La
Fine della storia
(Fukuyama) non vuol dire “che l’agitazione sia cessata e che il
mondo sia diventato completamente uniforme, ma piuttosto che non ci
sono serie alternative istituzionali sistematiche alla liberal
democrazia ed al capitalismo basato sul mercato per i paesi più
avanzati del mondo. Messa in altro modo, l’ingegneria
sociale, mentre un tempo chiave
del governo progressista [o: progressivo], ha
oggi raggiunto un punto morto” (p. 103,
sottolineature mie). E’ la centralità dell’istituto dello stato
che è sparita, distrutta da quel movimento sviluppista che lo
stesso stato ha contribuito a porre in moto. C’è un punto debole,
però, in questa giusta idea di Fukuyama: ed è la capacità di
questa liberal democrazia e del capitalismo di ordinare il mondo e
di offrire un posto a chi esclude da sé, esclusi che, ormai, non
trovando un coagulo nel comunismo, svolgono un ruolo d’erosione
particolaristica ben più pericoloso della contrapposizione
comunista. Ma su ciò si rimanda al seguito del presente studio.
Questa
fine di cui parla
Fukuyama ha definite conseguenze nell’agone politico, conseguenze
che i politici non
vogliono vedere perché sanno
che la contrapposizione destra/sinistra, quest’altro piede
fasciato definitivamente sfasciatosi, è il loro unico
coagulo, mentre sono incapaci di trovarne un altro. Intanto, la
situazione domanda
con forza un nuovo coagulo. Così, “la sinistra sbaglia nel
pensare che lo stato possa incarnare o promuovere una significativa
solidarietà sociale. I conservatori liberalisti, da parte loro,
sbagliano nel pensare che forti strutture sociali si rigenereranno
una volta che lo stato sia sottratto dall’equazione” (ibid.).
La
polemica sul ruolo dello stato è una questione ancora importante,
ma di retroguardia; la divisione destra/sinistra è un vuoto
simulacro che copre la nullità del dibattito politico attuale. E’
giunto il tempo di cambiar musica.
7
Questo Fukuyama lo capisce bene (cfr. Fukuyama,
cit., p. 100).
8
Si tratta di una delle cose più stupefacenti
della storia: in soli trent’anni si costruisce un impero T’ang
in miniatura.
9
Il periodo Tokugawa è importante perché qui il
Giappone, che col periodo Heian si era differenziato dalla Cina, si
differenzia pure dall’Occidente. Mentre l’Europa si allontanava
dal feudalesimo, i giapponesi “edificarono sul vecchio ordine
feudale, anziché distruggerlo, e si chiusero alle influenze esterne
invece di continuare nella loro espansione oltremare”
(Reischauer-Fairbank, cit., vol.I°, p. 669).
La Cina
nasce centralizzata, in Giappone invece abbiamo in questo periodo un
feudalesimo centralizzato, cioè la particolare forma di feudalesimo
Tokugawa. Come si è visto con Fukuyama, sembra che troppo stato o
troppo poco stato (come l’oscillare tra i due) tendono a generare
il familismo, mentre uno stato non troppo né troppo poco forte dà
le condizioni ideali perché si accumuli un grosso capitale sociale:
precisamente quel che è successo con il Giappone Tokugawa.
In Cina
la centralizzazione non è legata
con la modernità,
nel senso che la modernità, in Occidente,
si è comunque accompagnata con un processo di centralizzazione più
o meno forte, mentre in Cina questo processo è separato
dalla modernità. Il movimento che ha portato alla modernità nasce
e si accompagna con la crisi della feudalità; ora, in Giappone,
tale movimento di crisi della feudalità, analogo a quello
dell’Occidente moderno (sec. XVII), porta alla centralizzazione
del feudalesimo!
10
Ciò vien enfatizzato dal fatto che, con la fine
della dinastia T’ang, il wen
ha il sopravvento sul wu,
mentre invece il fatto che il Giappone sia stato a lungo dominato
dai samurai
contribuisce a spiegare il maggior peso della lealtà in Giappone.
Se le
società delle dinastie Ming (1368-1644) e Ch’ing [Qing]
(1644-1912) è stabile ma non
statica, nell’etnocentrismo e nel culturalismo cinesi di queste
dinastie si percepisce un ripiegamento
su di sé che segna in realtà un indebolimento della Cina. La fine
delle spedizioni marinare di Cheng Ho [Zheng He] sono un segno
importante di tale ripiegamento: Nondimeno, anche tale movimento ha
dei suoi fattori di bilanciamento: alla tendenza ad accentrare il
potere in mano dell’imperatore iniziata sotto i Sung [Song] (del
Nord: 960-1127, del Sud: 1127-1279) e portata all’apogeo dai Ming,
la dinastia Ch’ing [Qing] reagisce con un maggior bilanciamento
fra burocrazia ed imperatore. Indubbiamente, sotto l’ultima
dinastia la Cina raggiunge l’apogeo della sua forma tradizionale,
ma ciò non è accaduto senza una cristallizzazione deleteria, le
cui radici sono, dal punto di vista politico, nella dinastia Ming,
mentre dal punto di vista culturale, nell’epoca Sung. Volendo
paragonare la storia cinese ad un moto di onde, alla fine del primo
impero cinese con gli Han, succede la curva discendente dell’onda
(dal punto di vista politico, non
culturale); quest’ultima, però, incontra la prima grand’onda
“barbarica”, un’onda in salita, che in realtà rinnova
profondamente la civiltà cinese. Dal Medioevo cinese, parallelo a
quello europeo, la Cina esce diversamente, a causa del suo modello
profondo, e rifonda
l’Impero: qui l’onda barbarica si fonde con quella della cultura
cinese, e la cultura cinese raggiunge il suo apogeo con i T’ang ed
i Sung. Con quest’ultima dinastia, lo sviluppo delle componenti
taoiste e buddiste si fonde con quelle confuciane: ed è il
Neoconfucianesimo la sintesi definitiva delle tre vie, il frutto
maturo della civiltà sinica. In tutti i campi il periodo della fine
dei T’ang e dei Sung è l’apogeo, il volgimento della ruota, è
l’onda che, raggiunto il culmine, si ripiega su di sé. Con i
Mongoli, l’onda in discesa della cultura cinese dopo l’apogeo
incontra la nuova onda in ascesa dei “barbari” che nuovamente le
danno forza, ma non
di ascesa, bensì di moto orizzontale. Vediamo questa modificazione
in tutti i campi, con tutti i suoi aspetti positivi;
difatti, per quanto ci sia il ripiegamento, vi è tuttavia la
diffusione dei germi
vitali della cultura del periodo d’oro nel corpo sociale, per
quanto tali germi siano abbassati di livello.
Il moto
orizzontale sostituisce quello verticale: chiamo ciò “la
grand’onda lunga”, e spontaneamente mi viene in mente Hokusai
nuovamente. Si tende a stabilizzare la costruzione del Celeste
Impero, mentre nessun nuovo impulso succede al Neoconfucianesimo se
non la scuola della “conoscenza pratica” o interpretazioni
letteraliste e limitative (la cosiddetta “Scuola degli studi Han”)
che non attestano più il ripiegamento creativo
dei Sung (che si prolungò in parte fino ai Ming), ma una definitiva
cristallizzazione. Prevale, sin dai Ming, la compilazione di
enciclopedie, la raccolta di oggetti d’arte, l’intento
collezionistico e critico. In cambio, la diffusione dell’estetica
contribuisce a veicolare nel corpo sociale, seppur ad un livello
minore, molti aspetti della religiosità T’ang-Sung, mentre, con
gli Yuan (1276-1368), emergono il romanzo popolare ed il teatro
popolare, questi due frutti autunnali della cultura cinese; ora, si
dice che i frutti d’autunno, pur non essendo così colorati come
quelli estivi, siano i più gustosi. La diffusione era ormai
divenuta sempre più capillare.
Con la
crisi dell’ultima dinastia, sia l’onda politica sia quella
culturale erano al loro minimo. In tale situazione, la Cina incontrò
la grand’onda devastante dell’espansione dell’Occidente
industriale.
11
Il che ci fa comprendere come i fenomeni tipici
della modernità (accentramento, predominio dei valori acquisitivi,
mobilità sociale, ecc.) non siano di per sé la caratteristica
distintiva della modernità; deve intervenire qualcos’altro a
livello culturale.
Nella cultura neoconfuciane cinese risiede la differenza con la
modernità
dell’Occidente.
12
Questa “rivoluzione” è alla radice della
differenza, un po’ schematica invero, che oggi si fa tra “Cina
gialla”, agricola e del Centro-Nord, e “Cina blu”, del Sud e
delle coste tutte, commerciale ed imprenditoriale. Tutto l’attuale
sviluppo della Cina viene dalla Cina blu, al punto che si potrebbe,
certamente forzando la mano, leggere tutta la storia cinese dai Sung
all’epoca attuale come una contesa fra le due Cine, con alterne
vicende, e col prevalere oggi della Cina blu.
Ma ecco
un punto interessante. Come nel Giappone Tokugawa la fase
dell’accumulazione primitiva andava di pari passo con la
diffusione dei valori
confuciani, così, mutatis mutandis,
ciò è accaduto (accade) in Cina. Senza dubbio ciò va di pari
passo col formarsi di una cultura ibrida, come abbiamo visto, ma gli
Occidentali moderni hanno sottovalutato la persistenza dei valori
confuciani. Ciò perché li hanno legati all’agricoltura. Invece,
come la Cina dei Sung era in ogni caso confuciana, così gli ultimi
eventi hanno dimostrato che quei valori hanno una loro componente
universalistica. Se c’è una “sfida confuciana” non può
essere, conviene ripeterlo, che questa.
Tale
commercialismo non fa che confermare il cambiamento che avviene
durante la dinastia Sung, l’apogeo e quindi il volgimento della
ruota. E’ quel che Okakura Kakuzô ha espresso in relazione al tè:
“Per il cinese d’oggi, il tè è una bevanda deliziosa, non un
ideale. Le calamità che hanno a lungo travagliato il suo paese,
hanno cancellato in lui la passione per i significati della vita. E’
moderno, cioè vecchio e disincantato. (...) E’ un eclettico che
accetta cortesemente le tradizioni dell’universo. (...) la sua
foglia di tè è spesso meravigliosa col suo aroma di fiori, ma
nella sua tazza è sparita la fiaba cerimoniale dei T’ang e dei
Sung” (Okakura Kakuzô: Il Libro del Tè,
Editoriale Nuova 1983, p. 35).
13
“Le città capitali (...) erano concepite come
un umbelicus mundi,
al centro del quale passava l’asse dell’universo (...). (...)
Ma la
città (...) sorgeva sulla terra ed era sottoposta alla volta del
cielo (...). La terra (...) era concepita come uno dei tre piani sui
quali si svolge la vita del mondo (gli altri due essendo quello
umano e quello celeste) e come un corpo vivente sul quale non si può
intervenire se non si tien conto delle forze e delle correnti
d’energia che in esso agiscono e che l’attraversano. Come nella
pratica dell’agopuntura non si può impunemente stuzzicare a caso
un corpo umano, ma ogni puntura avrà l’effetto di squilibrare o
riequilibrare le forze dell’organismo, così la costruzione di una
casa (e a maggior ragione di un villaggio o di una città) dovrà
avvenire in armonia con le forze che attraversano il terreno (...).
Nasce di qui la pratica geomantica chiamata fêng-shui
(‘vento e acqua’) (...). Se (...) al piano terrestre corrisponde
un piano celeste (...), particolare importanza avrà l’orientamento
(...).
Un’attenta
osservazione (...) delle città cinesi antiche permette di
riscontrare un atteggiamento simbolico
religioso di corrispondenza tra la terra, il
cielo e la città stessa che (...) potrà a sua volta orientare la
vita degli uomini (...) nella direzione del tao,
la ‘via’ del Confucianesimo e del Taoismo, che tutti debbono
seguire. Così (...) la città cinese risulta rigorosamente
orientata nei confronti dei quattro punti cardinali, con l’asse
nord-sud privilegiato” (P. Corradini, “La città cinese”, in
Modelli di città,
Einaudi 1987, pp. 184-185, sottolineature mie). Stessa orientazione
nella città romana, col suo cardo
ed il suo decumanus,
ma qui è l’asse est-ovest ad essere privilegiato. Il che è molto
significativo dal punto di vista simbolico.
14
Ricordo una significativa affermazione di F.
Mazzei: “bisogna conoscere la Cina per conoscere l’Occidente, il
Giappone per conoscere la Cina, l’Occidente per conoscere il
Giappone”. Tale affermazione illumina sui rapporti di reciproca
illuminazione culturale
all’interno di questa triangolarità. Notare il rapporto culturale
fra Cina e Giappone.
15
La città in Cina era chiamata ch’eng
[cheng], cioè
muraglia, quella muraglia che separava la Cina dall’esterno, e che
il Giappone non conosce. “Queste muraglie avevano sì un ruolo
difensivo, ma erano importanti soprattutto dal punto di vista
simbolico. Esse distinguevano tra interno ed esterno, nei
e wai, termini che
corrispondono ad una delle tante sfaccettature dell’antitesi yang
e yin. (...) un
antico adagio cinese dice che la sicurezza si trova in tempi di pace
in città e in tempi di disordine in campagna: l’esatto contrario
di quanto avveniva in Occidente, dove la rocca costituiva l’ultimo
rifugio per i cittadini assediati” (Corradini, cit., p. 192). La
civiltà cinese è orientata inversamente
rispetto a quella occidentale.
16
E’ un luogo di culto, posto al centro
del palazzo imperiale, centro del centro.
Nel Ming-t’ang
[Mingtang]
l’imperatore deambulava secondo il cammino del sole, mentre il
sovrano era reso simile alla Terra, ch’egli personifica rispetto
all’universo simboleggiato dalla “Sala della Luce” (il
Ming-t’ang).
Quest’ultima era un microcosmo, immagine del macrocosmo, e
l’imperatore era l’Uomo archetipo che forma la terna col Cielo e
la Terra. Il Ming-t’ang
e il luogo del culto imperiale, che non è
culto di un uomo,
bensì dell’Uomo archetipo.
Che tale
religiosità sia posta nel centro è una caratteristica distintiva
della civiltà dell’Asia orientale, che ha perpetuato delle
caratteristiche del mondo antico sin nell’epoca moderna. Le
religioni “ufficiali”, formalizzate, si modellano su questa
religiosità “archetipa”, mentre non accade l’inverso. Così,
i templi stanno all’esterno, la religione istituzionale fa parte
del wai!
17
“Il sistema familiare cinese non poteva quindi
fornire basi solide per lo sviluppo di una società di tipo
pluralistico come quella occidentale, dove le molteplici forze della
chiesa e dello stato, del capitale e del lavoro, del governo e
dell’impresa privata si equilibrano sotto il dominio della legge”
(Reischauer-Fairbank, op. cit., p.34). Tale pluralità di forze
semplicemente non è esistita in Cina, e solo oggi è in
nuce. “La civiltà cinese (...) è la sola
la cui unità sia essenzialmente, nella sua natura profonda,
un’unità di razza” (R. Guénon: Introduzione
generale allo studio delle dottrine indù,
Adelphi 1989, p. 61); affermazione condivisibile a patto che non la
s’interpreti dal punto di vista “razzistico”, ma si
sostituisca a razza il termine famiglia. Una società familistica e
di villaggio, coagulata da un sovrasistema politico che ha a sua
volta il punto d’unione, di coagulo nella cultura.
18
Nel 1978, l’anno della rivoluzione in Iran,
uscì un libro in Iran che affermava una cosa interessante: che gli
Orientali spesso hanno fatto di tutto per modellarsi secondo
l’immagine caricaturale
che gli Occidentali si erano fatti di loro. Curioso esempio
d’influsso psichico, verificatosi più volte in questo secolo.
Ecco, infatti, l’Islam sempre più modellarsi sulla falsa immagine
del “fanatismo islamico”. Ecco la Cina, dall’inizio del secolo
scorso fino alla metà degli anni ‘70, aver fatto ogni sforzo per
diventare la “nazione senza religione” immaginata da certa
intellighenzia
occidentale. L’immagine falsa viene introiettata.
19
Il piede fasciato non è
il bonsai. Il
fasciare il piede forza
quest’ultimo in una forma che non gli è propria. E’ indice
della tendenza cinese a rafforzare la chiusura, a porre barriere
troppo forti: c’è una tendenza compressiva, autolimitante,
“saturnina”, volta verso un ordine ferreo ed eccessivo, tipica
della Cina. Il bonsai
è riprodurre in piccolo un grande albero rispettandone le
proporzioni. Si tratta di seguire la natura. Il modello del bonsai
è il bonsai
naturale, che si
forma laddove condizioni di clima e di terreno fan sì che un grosso
albero sia piccolo, mantenendo però le proporzioni del grosso
albero. Quello dei bonsai
è un artigianato, che però può diventare arte laddove si riesce a
raggiungere la stessa “casualità significativa” ed
“imprevedibilità regolare” del vento, della pioggia e delle
mille variabili della natura.
Questo
gusto per il microcosmo che si basa sul macrocosmo e lo pone “in
piccolo” è caratteristico dell’Asia orientale. E’ diventata
una pratica estetica, ma in origine nasce da precise tendenze
religiose (cfr. R. A. Stein: Il mondo in
piccolo, Il Saggiatore 1987).
20
La vita sessuale nell’antica Cina, la vita
quotidiana prima dell’invasione mongola, le porcellane e
quant’altro ancora son tutte cose interessanti e belle. Ma come
non accorgersi che c’è di più, e delle cose che possono
realmente servire all’Occidente?
Certo,
nell’interesse per l’Oriente, anche oltre l’ambiente
accademico, si vedono due tendenze ugualmente squilibrate: a non
voler dare oppure a dilapidare volendo dar tutto a tutti; cioè,
anche nelle posizioni teoriche, a voler fare troppi distinguo
oppure a non farne. Certo, l’equilibrio è difficile. Bisogna
tentare di seguirlo rifuggendo dagli eccessi.
21
Il pensiero cinese di
M. Granet è un libro interessante (particolarmente il capitolo sui
numeri, molto complesso); però Granet rovina tutto cercando di fare
del Confucianesimo una specie di “positivismo orientale”: ecco
la forzatura.
Prendiamo
Needham (il vol. 2 del suo Scienza e civiltà
in Cina, dal titolo: Storia
del pensiero scientifico, Einaudi 1983, il
volume d’importanza maggiore). Needham giustamente rivaluta il
pensiero scientifico cinese di tipo organicistico
(cap. 13). Rovina tutto subito dopo, però, ed in tre modi: in primo
luogo, accetta la visione organicistica cinese solo se può
assumerla attraverso quella scientifica moderna, mentre la visione
cinese è indipendente
da tale mezzo di propagazione inerziale; in secondo luogo, parla di
“pseudoscienze”, che altro non sono se non l’applicazione di
quella visione; in terzo luogo, conseguentemente al suo parlare di
“pseudoscienze”, invece di parlare di forma diversa di scienza
(condivisibile o non), si chiede come mai la scienza cinese non ha
preso la stessa via di quella occidentale. Ma già chiedersi questo
vuol dire credere che c’è una sola scienza “vera”, e tutto il
resto è “pseudoscienza”.
Ma è
proprio il tentativo di Needham d’inserire il piede della visione
organicistica cinese nell’esigua scarpuccia foderata di ferro
della scienza moderna è sbagliato, perché nel Taoismo è comune
l’espressione del Tao-Te-Ching
[Daodejing] relativa
al mondo: shen-ch’i
[shenqi],
“apparecchio” (ch’i)
divino (shen).
Non ci fosse quello shen,
l’operazione di Needham potrebbe aver avuto senso. Purtroppo (per
lui), c’è.
Così, la
visione organicistica cinese non è
latrice di una sfida culturale che mette radicalmente in crisi le
nostre certezze, alla quale occorre rispondere e dalla quale occorre
imparare, per poterle rispondere. Il tutto si riduce a qualcosa che
anche la scienza attuale sta sviluppando, a
suo modo. Ma è proprio
quel modo il che va modificato radicalmente.
Tutto ciò
non ha certo lo scopo di dar la “colpa” a questo o a quell’altro
autore (la mania occidentale di dar “la colpa” non risolve
niente). Quel che preme rilevare sono le tendenze
mentali profonde, che toccano anche i
migliori autori.
22
Tutti quei discorsi sterili se Confucio è
“democratico” o non sono assurdi. Confucio è Confucio. Tutti
quei discorsi vòlti a trovare il laissez-faire
liberalista in Lao-tzu [Laozi] sono assurdi: che c’entra Lao-tzu
con il liberalismo del XIX secolo in Europa? Niente. Lao-tzu è
Lao-tzu.
Confucio,
Lao-tzu, i grandi del pensiero cinese sono patrimonio di tutta
l’umanità. Bisognerebbe accostarcisi con rispetto,
come ad una maestosa montagna o ad un sereno lago magnifico. Poi,
che il loro studio ci spinga, stimoli, suggerisca a formulare una
nostra interpretazione o, meglio ancora, una nostra rielaborazione
indipendente è più che legittimo: i Cinesi, però, l’han fatto
per tanto tempo. Tuttavia, sempre
rispettando la loro forma,
senza forzare.
23
E’ il san jiao yi jiao
[san chiao yi chiao]:
i tre Insegnamenti sono un Insegnamento. Di qui il fatto che uno
stesso individuo può appartenere a più di una religione, fatto
caratteristico dell’Asia orientale, che nasce però dall’avere
ogni religione ha un suo posto preciso, quindi si affianca ma non si
mescola. La religiosità popolare in quanto tale, però, è composta
da tutt’e tre le componenti. In Giappone si ha lo stesso fenomeno,
basta sostituire al Taoismo lo Scintoismo.
24
Cfr. Feng Meng-lung: Le
Sette Prove, SE 1995, a cura di G.
Casacchia.
25
Com’è che degli elementi che poi faranno
parte della religione taoista (5 elementi, yin-yang,
ecc.) fanno parte del Confucianesimo Han di Tung Chung-shu
(179-104a.C.)? Ciò non potrebbe essere, se non fosse che
Confucianesimo e Taoismo affondano le radici nella stessa
Tradizione.
Wang
Ch’ung [Wang Chong], cui Needham dà fin troppo peso, e c’era da
aspettarselo, è uno “scettico” cinese, ma uno scettico sui
generis, che accetta la teoria dei cinque
elementi (wu hsing) e
quella yin-yang, solo
vaglia criticamente i prodigi: ed è per questo che Needham lo
esalta. Il punto è che Wang Ch’ung crede che il posto dell’uomo
nell’universo non sia tale per cui l’uomo possa credere che i
prodigi siano fatti per lui; in realtà, i prodigi son derivati dal
ch’i, la sostanza
psicovitale dell’universo. E’ scetticismo questo? Piuttosto,
Wang Ch’ung era vicino alla corrente realistica, ma fu influenzato
dal Taoismo, che però pure critica con il Confucianesimo di Tung
Chung-shu, tant’è che non rinunciò mai ai wu
hsing ed a yin-yang.
A lui si attribuisce che le correnti che sostenevano i wu
hsing e yin-yang
lasciassero il Confucianesimo per entrare nel Taoismo. Avrebbe
criticato il Confucianesimo per far fluire ciò che criticava nel
Taoismo, che in parte apprezzava! Non mi ci ritrovo. Semplicemente
Wang Ch’ung fu araldo, ma non
del tutto, della tendenza realistica.
Quanto al
legame fra Taoismo, wu hsing
e yin-yang,
caratteristico del Tao chiao,
esso si generò sì per il contrattacco della tendenza realistica,
ma soprattutto per la fondazione del Tao
chiao unita alla crisi dell’Impero Han cui
quella forma di Confucianesimo che li inglobava si legava. Senza
tale crisi, la tendenza realistica avrebbe portato avanti un’azione
inefficace.
Wu
hsing e yin-yang
rientreranno nel Neoconfucianesimo tramite il Neotaoismo.
26
Quest’ultimo, oltre a raccogliere gli elementi
del Confucianesimo Han ed a permetter loro di superare la crisi del
primo impero cinese, “ha conservato e trasmesso un vecchio fondo
di religione popolare in cui si constata una certa preponderanza
dell’elemento femminile” (Stein, Il mondo
in piccolo, cit., p. 91). Ha inoltre avuto
un notevole ruolo di “drenaggio” per tutto ciò che non
rientrava nell’ufficialità confucianista (si badi bene che non
diciamo confuciana perché non è
il Confucianesimo ad opporsi al Taoismo, bensì una sua particolare
corrente): “La stessa vocazione del taoismo, in un certo senso, è
di essere marginale, e si può dire che tutto ciò che non entrava
negli schemi del sapere ufficiale né nel quadro delle conoscenze
tecniche particolari, e tutto quello che era ‘altro’ senza
essere buddista, era classificato come taoista; tanto che il solo
punto in comune tra alcuni testi definiti taoisti è la loro
appartenenza al Dao zang”
(I. Robinet: Meditazione Taoista,
Ubaldini 1984, p. 7); il Dao zang
[Tao ts’ang] è il
Canone taoista pubblicato sotto i Ming nel 1442. L’autrice ha
ragione, dunque, quando afferma che: “Il carattere eterogeneo del
taoismo è noto a tutti” (ibid.), pertanto è scorretto paragonare
il Dao zang alla
Bibbia o al Corano, mentre non
lo è paragonar loro il Tao-Te-Ching o
il Chuang-tzu
[Zhuangzi].
Giustamente l’autrice precisa parlando dei discorsi che compongono
il Dao zang: “Ciò
nonostante, non bisogna intendere che questi discorsi siano
necessariamente confusi” (p. 8).
Dove
l’autrice, a mio avviso, erra è nel sottovalutare il peso che il
settarismo, effetto del familismo nel campo religioso, ha avuto nel
render eterogeneo il Taoismo e, soprattutto, anche in tal campo, nel
comprimere l’universalità dei valori taoisti in un angolo chiuso.
Storicamente, poi, sottovaluta il peso del Neotaoismo, che in realtà
è stato il vero
coagulo della religione taoista molto più del Taoismo classico, del
Tao chia; in verità,
senza hsuan hsüeh
niente Tao chiao. Il
nerbo attivo del Tao
chiao non sta nel Dao
zang, per quanto possa essere interessante,
ma nello hsuan hsüeh.
27
Come nel Neoconfucianesimo si è avuta la
tendenza verso il Ch’an,
cioè lo Zen, rappresentata da Wang Shouren, così nel Neotaoismo si
è avuta la tendenza verso il Confucianesimo. I neotaoisti
consideravano Confucio superiore a Lao-tzu ed interpretavano i
Classici confuciani in chiave neotaoista.
28
Fung Yu-lan (Storia della
filosofia cinese, Oscar Mondadori 1975)
paragona il fêng liu
al romanticismo, però aggiunge: “Confesso di non avere ancora
capito a fondo il significato delle parole romanticismo e romantico”
(p. 183). Nel vivere secondo gli impulsi, nella libertà di
comportamento il fêng liu
è come il romanticismo. E così lo è per l’amore per la natura.
Gli manca il titanismo romantico. In cambio, ha un sentimento panico
del divino nella natura sommamente utile all’arte. Per dare
un’idea del fêng liu
(furyu), immaginiamo
di percepire il divino nel
mondo; cosa n’è delle cose? Esse sono contemplate nella loro
fulgida bellezza e insieme nella loro fugace fragilità. Quel che ne
vien fuori è una serena struggente malinconia unita con gioia
sottile e sublime distacco.
“Fra
umile e alta posizione,
Fra
povertà e ricchezza.
Non
si muove con le cose né le precorre,
Non
ha limitazioni né tabù;
E’
povero ma non ha dolore,
Beve,
ma senza eccessi.
Raccoglie
nel suo spirito la primavera del mondo” (Shao
Yung, in Fung Yu-lan cit., p. 235, corsivi miei).
“In
questi anni tardi, nulla viene
Che
facile non sia e semplice;
Ogni
mattino sfolgora il sole traverso la finestra,
Mentre
mi sveglio;
Ogni
creatura segue con letizia la sua via,
Mentre
tranquillo osservo.
(...)
Di
là dal Cielo e dalla Terra di là da ciò che ha forma,
Là
è il Tao.
Venti
e nuvole muovono su di me e svariano,
Là
è il mio pensiero” (Ch’eng Hao,
ibid., corsivi miei).
29
“Perciò lei troverà persone non ricettive
all’idea che saranno occidentalizzate. Modernizzate sì, nel senso
che hanno accettato l’inevitabilità della scienza e della
tecnologia ed il cambiamento negli stili di vita che portano” (“La
cultura è il destino”, intervista a Li Kuan-yu [Lee Kwan Yew], in
Foreign Affairs
Marzo-Aprile 1994, p. 118).
30
Qui, senza dubbio, si son verificati degli
errori, a mio avviso, nel tentativo d’importare religioni
orientali in Occidente (Buddismo, Taoismo, Induismo, parzialmente
Islamismo). Da un lato c’è la parzialità e la superficialità
dei seguaci occidentali, non all’altezza, con molte lodevoli
eccezioni, del còmpito; dall’altro, c’è la chiusura mentale
dei seguaci orientali e le specificità tipiche di un certo contesto
culturale. Son due lame di tagliola che sinora hanno impedito un
profondo passaggio,
un vero avvicinamento.
Il
tentativo d’impiantare il Cattolicesimo in Cina dovrebbe servir da monito
per questi benintenzionati ma ingenui seguaci. Ecco quel che Toynbee stesso notò come
segue: “La vittoria della Chiesa cristiana nell’Impero romano
non sarebbe avvenuto se i Padri della Chiesa, da San Paolo in poi,
non si fossero esercitati, durante i primi quattro o cinque secoli,
a tradurre la dottrina cristiana nei termini della filosofia
ellenica (...). Le istruzioni del Vaticano ai missionari gesuiti in
Cina paralizzarono un’impresa di questo genere” (A. Toynbee, Le
civiltà nella storia, Einaudi 1950, p.
550).
E’ nel
non aver compreso questo punto che, a mio avviso, quei seguaci non
hanno individuato il bandolo della matassa. Difatti, c’è un’altra
difficoltà: il pensiero moderno dell’Occidente non sente la
necessità, che però i tempi a gran voce invocano, di modificarsi
per unirsi a tipi di pensiero differenti senza rinchiuderli nelle
proprie categorie (libertà/totalitarismo, democrazia, ecc.). Non
può esser dunque l’interlocutore. Al
contrario vediamo troppo spesso i rappresentanti di tradizioni
extraeuropee tentar d’ingraziarsi o di usare il pensiero
dell’attuale minoranza dominante, con il risultato che tende a
venir fuori un sincretismo non
simbiotico, ma caotico e confuso. Al contrario, quegli stessi
rappresentanti rifiutano di confrontarsi con gli elementi che nella
tradizione dell’Occidente sono gl’interlocutori naturali.
Nella storia le tradizioni straniere autentiche
hanno sempre galvanizzato quel che Toynbee chiama “proletariato
interno” (Toynbee usa il termine in senso assai
diverso dal significato sociologico del termine): ecco, ciò manca
totalmente oggi. L’incapacità dei rappresentanti, occidentali
come orientali, delle tradizioni autentiche dell’Oriente, di
operare tale giunzione
è davvero enorme, incredibile, assordante nel suo silente rumore
(ma bisogna esser “giusti d’orecchio” per sentirlo).
Una delle
concause di tale incapacità è che essa richiede un’opera
veramente creativa.
Ora, la creatività è un dato d’inizio, non un punto d’arrivo:
o c’è o non c’è. Qui casca l’asino.
31
Personalmente, ho questa posizione: il nei
supera il wai, ma il
wai è in ogni caso
presente. Ora, non c’è solo l’armonizzarsi col Cosmo, la
Natura, il Cielo, il Tao, la Terra, ci sono anche i rapporti degli
uomini fra loro e con la natura (nel senso d’ambiente, non
d’essenza). Ecco che sostengo il Neoconfucianesimo come chiave,
giacché il Tao hsüeh
è l’erede della tendenza ad armonizzare il nei
ed il wai ed a
considerarli ambedue essenziali. E’ la tendenza confucio-menciana.
E’ chiaro, però, che non è
un problema quantitativo (50% al nei,
50% al wai), ma un
problema di orientazione simbolica del pensiero. In tal senso, il
Tao hsüeh fa da
chiave per quella che Guénon (op. cit., Conclusioni) chiama la
“seconda ipotesi”, cioè quella che, in certo modo, va
realizzandosi sotto i nostri occhi. Precisiamo, però, che i
paragoni testé operati qui e “le spiegazioni offerte non possono
corrispondere al nostro pensiero nella sua totalità” (Guénon,
op. cit., p. 246). C’è una “dimensione nascosta”, in tutto
l’insieme dell’ingarbugliato problema, che non si può
negligere. Ma tutto ciò amplissimamente travalica i limiti del
presente scritto.
32
E’ chiaro che l’Impero cinese si è solo
avvicinato, e non troppo, a tali augusti ideali: il piede fasciato
del familismo ne ha compresso la grandezza, che, potenzialmente, è
universale. Comunque,
il Celeste Impero è stato l’involucro che ha protetto e
traghettato il prezioso carico attraverso i perigliosi flutti della
storia; ed esso è giunto sino a noi, senza che né rinoceronte né
tigre o lama ne intaccassero il prezioso Corpus.
Con la
fine dell’Impero centrato su quella cultura, su quei pilastri
culturali generali,
Cina e cultura cinese si son separate. Ciò è un male. Tuttavia,
reca un bene: si può riscoprire l’universalità sottesa in
ed a quei pilastri.
33
Interessante quanto afferma A. Toynbee nel suo
Le Civiltà nella storia,
uscito in Italia nel 1950
ed in Inghilterra (nella sua forma completa) dal 1933 al ‘39!
Dopo aver criticato (giustamente) la dicotomia antico/moderno nata
con la civiltà ellenistica e la periodizzazione
antico-medievale-moderno nata da categorie ellenistiche, giustamente
critica l’equazione ellenistico = occidentale. Distingue
giustamente fra Ellenico ed Occidentale come due
civiltà. Operata questa distinzione, propone questa corretta
periodizzazione per la civiltà occidentale: “Abbiamo perciò:
Occidentale I
(‘Età Oscura’), 675-1075;
Occidentale II
(‘Medio Evo’), 1075-1475;
Occidentale III
(‘Moderno’), 1475-1875;
Occidentale IV
(‘Postmoderno’), 1875- ? ”
(Toynbee, op. cit., p. 68, grassetto mio).
Toynbee,
quindi, fa iniziare il “postmoderno” nel 1875! E, a mio avviso,
con ragione: trattasi di una grande intuizione. Tra l’altro, il
periodo realmente moderno,
quello di un dominio mondiale occidentale ordinato
intorno alla centralità dell’Europa, termina col 1875.
L’Occidentale IV è il periodo dell’emersione delle idee del XIX
sec. (democrazia liberale più tecnica applicata all’economia,
cioè capitalismo, ché questo è
il capitalismo) e del loro potenziale distruttivo. L’Occidente
prosegue nel cammino iniziato nell’Occidentale III, ma così, se
continua ad estendersi, comincia a soffrire di contraccolpi sia
politici (guerre mondiali prima e seconda) che a livello culturale.
Ma, se
queste categorie son valide per l’Occidente (che si è
progressivamente trascinato con sé, nelle ultime sue due fasi,
l’intero globo), ciò significa che il vero post-moderno (=
superamento del moderno) non è più
occidentale. Il postmoderno, come lo s’intende oggi, momento di
massima diffusione e insieme di crisi del moderno, andrebbe chiamato
tardomoderno: allora
ciò che vien dopo andrebbe giustamente chiamato post-moderno.
Poiché quest’ultimo è invece inteso nel senso di massima
diffusione e crisi,
ma non superamento,
allora il vero
post-moderno sarà chiamato post-Occidentale o anti-moderno.
Quando
inizierà questa nuova epoca sarà detta: post-Occidentale
od anti-moderna.
Propongo, per la sua periodizzazione futura, di chiamarla: Globale
I, Globale II, ecc..
Come la
Cina, anche questa futura unità potrà rompersi, ma, se l’idea
d’unità globale,
che richiede l’apporto di culture non occidentali e della cultura
sinica in particolare, metterà radice, non si potrà mai tornare
all’epoca delle aree separate. Ci sarà un moto
d’espansione/contrazione all’interno del globo, ma l’unità di
fondo resterà. Come in Cina.
34
Non facciamoci trarre in inganno da certi
fenomeni superficiali: in realtà, finché le idee del XIX sec. Non
saranno realmente superate,
ed in teoria e non
solo de facto (dove
già lo sono), non sarà possibile nessun’ibridazione, ibridazione
che implica la
nascita di un terzo
figlio dai due, ma diverso da entrambi.
35
Questa cultura “ibrida” sarebbe anche la
salvezza di molte
altre cose che non si vedono, cose sulle quali sarebbe lungo parlare
(non è questa la sede adatta, pur avendoci alluso).
Il
pericolo delle cose “ibride” è fare “né carne, né pesce”,
ma ciò solo e soltanto quando non si genera un terzo, e la
relazione, per un motivo o per un altro, resta sterile. Bisogna
precisare, allora, che la cultura ibrida è il frutto della
relazione fra due culture, non è
la relazione, il rapporto fra esse due.
36
Il cadavere è sempre stato il modello della
scienza moderna come il corpo vivo lo è stato della scienza cinese.
37
Perciò non è stato capace di seguire
il sistema capitalista nelle sue trasformazioni, che hanno sempre
avuto dei “sottofondi” culturali chiari. Per questo non è stato
in grado di comprendere né di giustificare le differenze culturali
dei vari corpi sociali, differenze irriducibili
all’economicismo.
38
Del resto, l’antica leggenda greca non dice
che Alessandro Magno tagliò quel nodo, ma che lo staccò dal giogo
per buoi cui era legato. Una cosa molto
diversa.
22 lunghissimi anni fa! Ma ci rendiamo conto?! Ma “‘ndo’ cacio” è stato “er” monno in tutti questi anni?
RispondiEliminaDove? Nelle lande della desolazione? Mentale, ovvio ...
Nella “terre gaste” ...
Si tagli codesto stradannato “nodo di Gordio”, lo si tagli una buona volta!!
Quesa “fine che non finisce mai” sfinisce. Brucia le energie.
Consuma senza poter aprire alcun altro cammino.