“ ‘Ho parlato troppo? La loro cecità provoca la replica’.
‘Che t’importa? Lascia nell’errore chi ama l’errore;
non sai che sta scritto: “Quelli che saranno sulla terra …
tutti gli scribi capaci di mettere a nudo le difficoltà
delle scritture,
ed esperti nei geroglifici; coloro che si lanciano alla
ricerca della
conoscenza, coloro che gioiscono in beatitudine dei risultati
raggiunti”.
Per costoro furono scritti i testi dei Saggi, e per quelli
che
con animo nobile sanno rinnegare l’errore comune
per scoprire la verità. Ma per gli altri la verità è stata
celata
“Federico amava
disputare con i copisti e coi dignitari di corte, e molte di queste
conversazioni vertevano sul tema della legge e della giustizia. Diritto e giustizia
rappresentavano per lui i pilastri sui quali poggiava il suo dominio; ed egli
stesso si compiaceva di definirsi non già padrone e servitore dello Stato, bensì
padrone e servitore della Giustizia. Queste duplice figura
del padre-padrone, artefice della legge, e del figlio-servitore, che onora la
Giustizia e la persegue, scaturiva dal diritto di famiglia, così il concetto
secondo cui i fini della Giustizia fossero superiori a quelli dello Stato,
rientrava nella terminologia medioevale. ‘La Giustizia non serviva affatto a mantenere
lo Stato, ma era lo Stato ad esistere in funzione della Giustizia’.
Significativo, in tal
senso, l’aneddoto su una contesa intellettuale svoltasi alla mensa di Federico
e basata, pare, su un fatto realmente accaduto. A due dotti Federico pone le seguenti
domande: ‘Posso io, secondo la vostra legge, togliere senza ragione qualcosa ad
uno dei miei sudditi per darla ad un altro? Posso io far quel che m’aggrada
essendo Re? e ciò che aggrada al Re è legge per i sudditi?’. Uno dei dotti
rispose: ‘Signore, tu puoi agire senza colpa verso i sudditi secondo ciò che a
te piace’. L’altro, scuotendo la testa, sentenziò: ‘No, Maestà, non mi sembra
giusto … La legge è giusta e giustamente deve essere seguita affinché si possa
rendere giustizia. Giusto sarebbe spiegare la ragione per cui ad uno viene
tolto per essere dato ad un altro’. Entrambe le risposte concordavano con il
diritto allora vigente. ‘E poiché entrambe affermavano il vero – prosegue l’aneddoto
– Federico ricompensò entrambi i dotti ma con diversa mercede. Il primo ebbe un
cappello scarlatto e un cavallo bianco. Al secondo fu concesso di fare una
legge a sua discrezione’.
La storia non finisce
qui. Sorse infatti un’altra disputa sui motivi che stavano alla base della
difformità di quelle ricompense e quale delle due fosse più preziosa. Dopo lungo
dissertare, ci si accordò nel modo seguente: colui che aveva parlato per
piacere all’Imperatore, ebbe cavallo e cappello. All’altro, che nella Giustizia
vedeva il valore più alto, toccò il più alto onore, quello di fare egli stesso
una legge.
Per quanto questa
storia di grande rilievo alla Giustizia, e benché le leggi fossero improntate
ai principi della superiorità di essa, resta il fatto che in pratica Federico si atteneva più alla risposta del primo che a quella del secondo dotto. Ai suoi occhi non esisteva alcun contrasto tra Stato di diritto e Stato
assoluto. Non è possibile,
comunque, adattare concetti di oggi al
tempo di allora. Secondo una concezione squisitamente medioevale Federico
faceva discendere la sua nomina e missione direttamente da Dio, il solo verso
il quale si sentiva obbligato […] come, del resto, dichiarava anche Roffredo di
Benevento, giurista docente all’università di Bologna e poi in quella di Napoli,
il quale così formulò l’autorità giuridica di Federico: ‘L’Imperatore fonda il
suo diritto sul dono elargitogli dalla grazia celeste’. Per meglio comprendere
queste teorie, oggi non più facilmente comprensibili, della personificazione
del diritto e dello Stato, occorre esaminarne le conseguenze pratiche: la
centralizzazione del potere operata da Federico e la sua nuova legislazione
eliminarono l’arbitrarietà del dominio d’innumerevoli feudatari apportando alla
popolazione la pace, l’ordine, la sicurezza giuridica, la difesa dei deboli garantita dalla persona dell’Imperatore e l’ uguaglianza
di tutti di fronte alla legge […] ma non va dimenticato che l’assolutismo di
Federico, comunque fosse motivato, condusse
inevitabilmente allo Stato assoluto non lasciando quasi spazio alla libertà
individuale […]
Questo massiccio
intervento statale in ogni settore della vita sociale determinò più tardi,
allorché Federico dovette difendersi da una sotterranea attività di agenti
pontifici e di altri, il sorgere di una vasta rete sionistica, che teneva sotto
controllo non solo i funzionari ma l’intera popolazione. La questione a
soggetto del Diritto e della Giustizia, formulata nel famoso aneddoto, era
dunque inevitabilmente legata all’assolutismo di Federico e alla sua sempre più
spiccata identificazione con lo Stato”[2].
Andrea A.
Ianniello
[1] I. Schwaller de Lubicz, Her-Bak (Cecio), L’Ottava , Milano 198x, p. 274; la citazione nel passo
riportato è tratta da un “Appello ai vivi, scolpito all’entrata della stanza
interiore della cappella funeraria tebana di Khaemhât” (ibid., in nota).
[2] E. Horst, Federico II di Svevia, Rizzoli Editore, Milano 1981, pp. 102-104, corsivi miei.
“L’appello ai vivi” è riportato al post, cf.
RispondiEliminahttps://associazione-federicoii.blogspot.com/2021/06/appello-vivi.html