domenica 31 marzo 2024

Una riflessione Pasqua “Lina” – per mezzo di due passi “da ‘u tori di versi” –

 

 

 

 

 

 

«Il Saggio troverà la nostra pietra anche nel letame mentre l’ignorante non potrà credere di trovarla neanche nell’oro», dichiara il Cosmopolita. Con quest’ abbassamento volontario, l’ «Alta Scienza» non occupa forse, scegliendo di chiamarsi «la scienza dei folli» e assegnando alla lama maggiore del Tarocco, chiamato il «Matto», il «Folle» o l’ «Alchimista», un posto paradossale tra il «Mondo» e il «Saltimbanco»[1] che crea l’ illusione del gioco? I pretoriani non hanno forse mascherato il Cristo da buffone di carnevale [NB]? Non si son forse giocati ai dadi le vesti  del «figlio dell’uomo» e quest’esempio della sovversione totale dei valori [attenzione: TOTALE, sovversione TOTALE verso la quale sempre più andiamo e siamo] non ci prova forse che questo mondo è stato già sovranamente giudicato [lo è stato già, NESSUN DUBBIO al proposito]?”, R. ALLEAU, Aspetti dell’alchimia tradizionale, Atanòr, Roma 1989 (edizione originale francese: 1 9 5 3), p. 73, corsivi e grassetti miei, mie osservazioni fra parentesi quadre.

 

« “È possibile pensare per migliaia di anni, è possibile scriver biblioteche intere, inventare teorie a milioni e tutto questo nel sonno, senz’alcuna possibilità di risveglio. Al contrario, queste teorie e questi libri inventati e scritti da gente addormentata, avranno semplicemente l’effetto di trascinare altri uomini nel sonno, e così di seguito.

Non vi è niente di nuovo nell’idea del sonno. Fin dalla creazione del mondo è stato detto agli uomini che essi erano addormentati e che dovevano svegliarsi. Per esempio, quante volte leggiamo nei Vangeli: ‘Svegliatevi’, ‘vegliate’, ‘non dormite’. I discepoli del Cristo, persino nel Giardino di Getsemani, mentre il loro Maestro pregava per l’ultima volta, dormivano. Questo dice tutto. Ma gli uomini lo comprendono? Essi considerano ciò una una figura retorica, una metafora. Non vedono affatto che deve esser preso alla lettera. E di nuovo è facile capire perché. Per prenderlo alla lettera occorrerebbe svegliarsi un po’, o per lo meno tentare di svegliarsi. Mi è stato sovente chiesto, seriamente, perché i Vangeli non parlano mai del sonno, mentre se ne parla in ogni pagina. Ciò dimostra semplicemente che la gente legge i Vangeli dormendo”», P. D. OUSPENSKY, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio Editore, Roma 1976, p. 160.

 

 

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[1] Come A. Bullock chiamava Hitler, il “Saltimbanco” – sbagliando, vero – però il nome merita una menzione. Attenzione che il “Saltimbanco” NON È il “Folle” …! Non confondiamo!

 

 

 

giovedì 14 marzo 2024

Frammento di frase

 

 



«L’Occidente non ha più bisogno di giustificare le proprie azioni di fronte alla storia – come le diverse parti in conflitto fra loro si sono sempre sforzate di fare, – perché, non essendoci più opposizioni, esso si autogiustifica. Ma, autogiustificandosi, ed autoliberandosi conseguentemente e preventivamente da ogni possibile accusa, non si potrebbe dire che l’Occidente, al culmine della propria storia, ritorna alle proprie origini preistoriche e si morde la coda? Questo è il movimento che vediamo fargli in questo momento: come se, passando da un’espansione in linea retta, avesse cominciato ormai ad ingoiare se stesso [Baudrillard lo disse molto ma molto tempo fa!] perché non c’è più nient’altro da ingoiare, in quanto non c’è più nient’altro da ingoiare, in quanto ha trasformato il suo opposto in una semplice appendice, effettuale o potenziale, di se stesso [con queste, ormai non certo più solo potenziali”, appendici, l’Occidente “collettivo” ha problemi oggi: non è casuale]. Nella profondità della gola del serpente c’è buio, e siccome in questo momento siamo, per questo così pochi riescono a vedere»1.

Il buio è solo cresciuto …





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1A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente ovvero Ragionamento sull’ «Apocalissi», Einaudi editore, Torino 1992, pp. 12-14, corsivo in originale, grassetti miei, mie osservazioni fra parentesi quadre.

 

giovedì 7 marzo 2024

“Aquariana 9”

 

 

 

 

 

Shiva sta rivolto ad Oriente”.

A. AVALON, Il potere del Serpente. Due opere sul Laya-yoga tradotte dal sanscrito. Con Introduzione e commento, Edizioni Mediterranee, Roma 2002 (prima edizione: 1968), p. 382, nota 2 del commento al secondo testo tradotto.

 

 

Vi sarebbero varie considerazioni, piuttosto interessanti, da farsi su questo testo, che tratta del viaggio in Tibet occidentale nel 1935 (seguente al precedente, sempre nel Tibet occidentale, del 1933 – anno fatidico! –, e seguito da un altro, nell’altro fatidico anno, 1939, sempre nel Tibet, ma stavolta in quello centrale, quello con Lhasa, per intenderci[1], del quale si dà un breve riassunto nell’Appendice del testo che si sta per citare). Vi sarebbe da dire: per esempio, che i “sadhu” spesse volte non erano quel che sembravano (cosa mica solo caratteristica dell’epoca del viaggio in questione!), o che il Lamaismo versava – come poi anche si è visto – in una fase di scolasticismo chiusa e senza “soffio” spirituale. Ma veniamo al passo, che “sposa” col dì presente …

Ma i tempi son ormai cambiati. L’ardore religioso è stato spento dal convenzionalismo della vita monastica. I monaci che ci fanno da guida aspettano ansiosi l’obolo: anche ai loro occhi Milarepa è trapassato nel mondo della leggenda, non solo lontano nel tempo, ma evanescente ideale di purezza e di sublimazioni che essi non sanno più comprendere. La grotta di Milarepa è divenuta una curiosità ed una fonte di guadagno. Il monachesimo ha ucciso l’ascesi: la lettera ha soffocato lo spirito. Milarepa, che non si era genuflesso in nessun tempio, ma aveva vagato per l’immensità dei deserti e delle montagne assorto in un’estatica identità con l’Essere che, pur determinando ogni forma, tutte le trascende, è qua effigiato in una statua di stucco che lo rappresenta in posa tradizionale: in atto di cantare con la mano destra sollevata all’altezza dell’orecchio: sull’altare lampade d’argento ed offerte votive (tormà) e file di coppe di rame o di bronzo, sempre in numero dispari (tin), nelle quale giornalmente i monaci rinnovano l’acqua. Sotto ogni cielo l’uomo ha bisogno di simboli concreti per accostarsi all’eterno. Così ho compiuto l’esplorazione dei monasteri costruiti da pietà di fedeli o munificenza di principi intorno alla montagna più sacra del Tibet: ho catalogato le raccolte di libri che essi contengono, esaminato le statue e le pitture, messo insieme un notevolissimo numero di opere e manoscritti buddhistici e Bonpo.

Mi par certo che il culto del Kailasa, montagna sacra fin dall’alba della storia  agli indiani, fu accolto dalle comunità lamaistiche soprattutto ad opera della sètta Caghiurpà, quella nella quale specialmente si diffusero gli insegnamenti esoterici del Buddhismo del Grande Veicolo ed ebbero fortuna le difficili pratiche dello yoga. Ma prima assai che il Buddhismo ne facesse uno dei suoi luoghi santi, le popolazioni indigene del Tibet occidentale dovettero venerarlo come la temuta sede dei loro dèi: dèi forse, e non dio perché Ghicod, che i Bonpo dicono che abbiano colà la loro sede, è il nome di una categoria di 360 deità che per il numero sembrano d’origine astronomica.

Dei due nomi  con i quali il Kailasa è conosciuto ai Tibetani, quello cioè poetico di Kanrinpoche o Kanri (gans rin po che) «la gemma delle cime ghiacciate» e quello di Tise, il secondo ci riporta, come già nel caso del Gurla Mandhata, al sottostrato etnico più antico di queste contrade himalayane.

Probabilmente Tise è sopravvivenza in tibetano di una parola della lingua di Guge.

Nel tardo pomeriggio torniamo a Darcin: è un brulicare di gente, un continuo affluire di pellegrini, un fumigare di bivacchi. Contro le ultime luci del tramonto vediamo profilarsi all’orizzonte, quasi lunghe teorie di sadhu salmodianti che giungono dal Nepal: ombre nere che sfilano lente sullo sfondo livido del crepuscolo accigliato. Li guida Paramanityananda, uno degli asceti più noti dell’India.

A  notte fatta vado a trovarli nel loro campo: canti e cori inneggiano al sadhu, immerso in trance, immobile come una statua; intorno la gente genuflessa prega.

Ritornai al mio campo ed anche lì mi giungeva l’eco dell’inno a Sciva che da tutti i bivacchi saliva al cielo. Un inno che non è una preghiera, ma meditazione: un inno che non chiede nulla, ma cerca la consustanziazione dell’oratore col principio primo delle cose. Sciva armato di tridente, col ciuffo ascetico e cosparso di cenere come lo ha rappresentato l’iconografia tradizionale, è il simbolo dell’Eterno fattosi accessibile alle folle: esso ha una realtà relativa, un’esistenza puramente soggettiva nello spirito dei fedeli non ancora preparati alla suprema realizzazione dell’identità dell’anima individua con l’anima germinale del tutto; ciò che il mito racconta di lui e tutto ciò che la leggenda narra è linguaggio simbolico che lentamente prepara al meditante il definito possesso. Quando questo sia raggiunto ogni forma scompare ed il relativo svanisce nell’assoluto. Sciva si snaturalizza: ed oltre al simbolo si rivela, in un balenio luminoso che trascende ogni umana consapevolezza, il fondo dell’Essere. L’uomo è redento.

«Io m’inchino al supremo Signore, Dio manifesta e quiescenza assoluta che è dappertutto e che tutto pervade. Egli è Brahma e la rivelazione sacra. Salve a Lui, l’Assoluto in sé, senz’attributi, oltre ogni imagine, al di là d’ogni desiderio; intelligenza pura che pervade lo spazio infinito.

Salve a Lui che non ha forma ma è principio di tutto ciò che è forma, quarta dimensione dello Spirito. Salve al Re della montagna, che trascende la parola, la conoscenza ed i sensi. Nel suo aspetto terrifico, morte del dio della morte; nel suo aspetto misericordioso, colui che fattosi a noi accessibile con i suoi attributi ci guida al di là dell’esistenza fugace»”, G. TUCCI, Tibet ignoto, Newton Compton Editori, Roma 1979, p. 94-95, corsivi in originale, grassetti miei, mantengo la grafia dell’originale(*). Bell’inno.

Anche interessanti sono le foto dell’epoca, alcune delle quali meriterebbero un commento, ma, come si è detto, dobbiamo mantenerci nei limiti, per vari motivi. Non mi piace, ma così stanno le cose. Stop.

Era un mondo diverso, inutile che stiamo a dire, né a cercare di “recuperare”; questo giochetto – presto stantio – ha occupato larga parte del XX secolo con gli effetti, pessimi!, che vediamo sotto i nostri occhi. Ma fossero bastati siffatti balocchi! Ovviamente non è stato così, perché si è largamente sottovalutato la radice, molto profonda, del male in atto. Chi ne parlò non è stato veramente ascoltato, ma invece lo si è “capito” (quindi NON CAPITO) per mezzo di spesse lenti distorcenti. Ma questa lente “distorcente” non può andar oltre i “limiti”, limiti che ha ormai raggiunto. Non possiamo “ridar indietro” quanto l’umanità si è “giocata”, pian piano, perdendolo pezzo dopo pezzo, con costanza e convinzione: perché NON ERA nostro. Ecco perché non possiamo “ridarlo” indietro. Perso è perso.

Per sempre. Ci vuole un “altro” momento di “dono”, per forza di cose. Ma intanto il mondo versa nelle conseguenze della sua deviazione, gravissima, della quale così pochi dicono, aggiungendosi così, al cumulo di errori e deviazioni – che ormai tocca il Cielo, novella “Torre di Babele” – solo la cecità.

Va poi precisato che il “tridente” non è un simbolo negativo, e che Shiva non ha solo l’aspetto distruttivo, anzi! Come “Nataraja” egli anche danza la creazione del mondo. Sennonché: “Roteando nella danza, accompagnato dal suo tamburo (damaru), Shiva mantiene nelle loro orbite tutte le stelle e i pianeti [quindi è anche “conservatore” del mondo, in tal suo aspetto]. Infine, la danza cosmica rappresenta anche la distruzione dell’universo: al termine del kali-yuga, il dio […] riassorbe tutte le energie dell’universo, prodotte attraverso la creazione [chiaramente ciò è VERO per l’universo INTERO e – IN PICCOLO – per la Terra, cioè per il Kali-Yuga della Terra]”, DIZIONARIO delle RELIGIONI ORIENTALI (DRO), Garzanti Editore, Milano 1993, p. 219, corsivi in originale, grassetti miei, mie osservazioni fra parentesi quadre.

Sul tridente, vi è un’immagine, in ivi, p. 334, con la seguente – importante – didascalia: “Trishula, il tridente simbolo di Shiva, che ne simbolizza le funzioni nell’universo induista: creazione, conservazione e distruzione del cosmo”, ibid., corsivi in originale.

Vale a dire che il “Trishula” NON È simbolo “SOLO” del lato “DISTRUTTORE” di Shiva: si spiega, così, anche il suo valore “talismanico” contro le forze demoniache.

Andrea A. Ianniello

 

[1] Il precedente post, cf.

https://associazione-federicoii.blogspot.com/2024/02/vecchio-link.html, 

tratta del viaggio – del 1952 stavolta (molto tempo dopo i viaggi precedenti di cui qui sopra, non tanto “quantitativamente” molto, ma “qualitativamente” molto: infatti, le due narrazioni sono esatto “specchio” dei tempi) –, di Tucci, nel Nepal e in Mustang, quest’ “insula” tibetana in Nepal. Su quest’ultimo, cf. P. VERNI, L’Ultimo Tibet. Un viaggio nel Mustang, Casa Editrice Corbaccio,  Milano 1994, con Prefazione di F. Maraini (che, però, attesta un’epoca diversa: interessante anche questo, ma come un documento che fa “specchio” dei tempi!), ristampa TEA, Milano 2002.

Altro viaggio – del 1995, alle prime (“limitate”) aperture del paese, un piccolo regno tibetano che fa parte del Nepal – è questo: T. TERZANI, Mustang. Un viaggio, Fandango Libri, Roma marzo 2011, con tanti sponsor poiché trattasi di libro con molte foto, in bianco e nero – volutamente tali – e, quindi, è, a suo modo, un documento.

Ricordo le foto, infine, ed il link è sul blog, della copertina di un libro legato alla spedizione Younghusnband, dell’ inizio del SECOLO VENTESIMO, spedizione considerata da Gurdjieff – illo tempore – una vera e propria jattura!

E difatti, da quel tempo in poi, le cose vanno sempre peggio sul pianeta Terra. Non siamo ancora – davvero – “usciti” dall’ “effetto 1914” che si ripropone, in salse diverse, ancora ed ancora.

A buon intenditor …

 

(*) Vien citato Tucci in cf. T. SKORUPSKI, Tibetan Amulets, Orchid Press, Bangkok (Thailand) 1983, 2000, 2009, p. 3, nota 2 a pie’ pagina. Si tratta dell’edizione inglese, del 1980, di: G. TUCCI, Le religioni del Tibet, Edizioni Mediterranee; Roma 1976.