“Shiva sta rivolto ad Oriente”.
A. AVALON, Il potere del Serpente. Due opere sul Laya-yoga tradotte dal sanscrito. Con Introduzione e commento, Edizioni Mediterranee, Roma 2002 (prima edizione: 1968), p. 382, nota 2 del commento al secondo testo tradotto.
Vi sarebbero varie considerazioni, piuttosto interessanti, da farsi su questo testo, che tratta del viaggio in Tibet occidentale nel 1935 (seguente al precedente, sempre nel Tibet occidentale, del 1933 – anno fatidico! –, e seguito da un altro, nell’altro fatidico anno, 1939, sempre nel Tibet, ma stavolta in quello centrale, quello con Lhasa, per intenderci[1], del quale si dà un breve riassunto nell’Appendice del testo che si sta per citare). Vi sarebbe da dire: per esempio, che i “sadhu” spesse volte non erano quel che sembravano (cosa mica solo caratteristica dell’epoca del viaggio in questione!), o che il Lamaismo versava – come poi anche si è visto – in una fase di scolasticismo chiusa e senza “soffio” spirituale. Ma veniamo al passo, che “sposa” col dì presente …
“Ma i tempi son ormai cambiati. L’ardore religioso è stato spento dal convenzionalismo della vita monastica. I monaci che ci fanno da guida aspettano ansiosi l’obolo: anche ai loro occhi Milarepa è trapassato nel mondo della leggenda, non solo lontano nel tempo, ma evanescente ideale di purezza e di sublimazioni che essi non sanno più comprendere. La grotta di Milarepa è divenuta una curiosità ed una fonte di guadagno. Il monachesimo ha ucciso l’ascesi: la lettera ha soffocato lo spirito. Milarepa, che non si era genuflesso in nessun tempio, ma aveva vagato per l’immensità dei deserti e delle montagne assorto in un’estatica identità con l’Essere che, pur determinando ogni forma, tutte le trascende, è qua effigiato in una statua di stucco che lo rappresenta in posa tradizionale: in atto di cantare con la mano destra sollevata all’altezza dell’orecchio: sull’altare lampade d’argento ed offerte votive (tormà) e file di coppe di rame o di bronzo, sempre in numero dispari (tin), nelle quale giornalmente i monaci rinnovano l’acqua. Sotto ogni cielo l’uomo ha bisogno di simboli concreti per accostarsi all’eterno. Così ho compiuto l’esplorazione dei monasteri costruiti da pietà di fedeli o munificenza di principi intorno alla montagna più sacra del Tibet: ho catalogato le raccolte di libri che essi contengono, esaminato le statue e le pitture, messo insieme un notevolissimo numero di opere e manoscritti buddhistici e Bonpo.
Mi par certo che il culto del Kailasa, montagna sacra fin dall’alba della storia agli indiani, fu accolto dalle comunità lamaistiche soprattutto ad opera della sètta Caghiurpà, quella nella quale specialmente si diffusero gli insegnamenti esoterici del Buddhismo del Grande Veicolo ed ebbero fortuna le difficili pratiche dello yoga. Ma prima assai che il Buddhismo ne facesse uno dei suoi luoghi santi, le popolazioni indigene del Tibet occidentale dovettero venerarlo come la temuta sede dei loro dèi: dèi forse, e non dio perché Ghicod, che i Bonpo dicono che abbiano colà la loro sede, è il nome di una categoria di 360 deità che per il numero sembrano d’origine astronomica.
Dei due nomi con i quali il Kailasa è conosciuto ai Tibetani, quello cioè poetico di Kanrinpoche o Kanri (gans rin po che) «la gemma delle cime ghiacciate» e quello di Tise, il secondo ci riporta, come già nel caso del Gurla Mandhata, al sottostrato etnico più antico di queste contrade himalayane.
Probabilmente Tise è sopravvivenza in tibetano di una parola della lingua di Guge.
Nel tardo pomeriggio torniamo a Darcin: è un brulicare di gente, un continuo affluire di pellegrini, un fumigare di bivacchi. Contro le ultime luci del tramonto vediamo profilarsi all’orizzonte, quasi lunghe teorie di sadhu salmodianti che giungono dal Nepal: ombre nere che sfilano lente sullo sfondo livido del crepuscolo accigliato. Li guida Paramanityananda, uno degli asceti più noti dell’India.
A notte fatta vado a trovarli nel loro campo: canti e cori inneggiano al sadhu, immerso in trance, immobile come una statua; intorno la gente genuflessa prega.
Ritornai al mio campo ed anche lì mi giungeva l’eco dell’inno a Sciva che da tutti i bivacchi saliva al cielo. Un inno che non è una preghiera, ma meditazione: un inno che non chiede nulla, ma cerca la consustanziazione dell’oratore col principio primo delle cose. Sciva armato di tridente, col ciuffo ascetico e cosparso di cenere come lo ha rappresentato l’iconografia tradizionale, è il simbolo dell’Eterno fattosi accessibile alle folle: esso ha una realtà relativa, un’esistenza puramente soggettiva nello spirito dei fedeli non ancora preparati alla suprema realizzazione dell’identità dell’anima individua con l’anima germinale del tutto; ciò che il mito racconta di lui e tutto ciò che la leggenda narra è linguaggio simbolico che lentamente prepara al meditante il definito possesso. Quando questo sia raggiunto ogni forma scompare ed il relativo svanisce nell’assoluto. Sciva si snaturalizza: ed oltre al simbolo si rivela, in un balenio luminoso che trascende ogni umana consapevolezza, il fondo dell’Essere. L’uomo è redento.
«Io m’inchino al supremo Signore, Dio manifesta e quiescenza assoluta che è dappertutto e che tutto pervade. Egli è Brahma e la rivelazione sacra. Salve a Lui, l’Assoluto in sé, senz’attributi, oltre ogni imagine, al di là d’ogni desiderio; intelligenza pura che pervade lo spazio infinito.
Salve a Lui che non ha forma ma è principio di tutto ciò che è forma, quarta dimensione dello Spirito. Salve al Re della montagna, che trascende la parola, la conoscenza ed i sensi. Nel suo aspetto terrifico, morte del dio della morte; nel suo aspetto misericordioso, colui che fattosi a noi accessibile con i suoi attributi ci guida al di là dell’esistenza fugace»”, G. TUCCI, Tibet ignoto, Newton Compton Editori, Roma 1979, p. 94-95, corsivi in originale, grassetti miei, mantengo la grafia dell’originale(*). Bell’inno.
Anche interessanti sono le foto dell’epoca, alcune delle quali meriterebbero un commento, ma, come si è detto, dobbiamo mantenerci nei limiti, per vari motivi. Non mi piace, ma così stanno le cose. Stop.
Era un mondo diverso, inutile che stiamo a dire, né a cercare di “recuperare”; questo giochetto – presto stantio – ha occupato larga parte del XX secolo con gli effetti, pessimi!, che vediamo sotto i nostri occhi. Ma fossero bastati siffatti balocchi! Ovviamente non è stato così, perché si è largamente sottovalutato la radice, molto profonda, del male in atto. Chi ne parlò non è stato veramente ascoltato, ma invece lo si è “capito” (quindi NON CAPITO) per mezzo di spesse lenti distorcenti. Ma questa lente “distorcente” non può andar oltre i “limiti”, limiti che ha ormai raggiunto. Non possiamo “ridar indietro” quanto l’umanità si è “giocata”, pian piano, perdendolo pezzo dopo pezzo, con costanza e convinzione: perché NON ERA nostro. Ecco perché non possiamo “ridarlo” indietro. Perso è perso.
Per sempre. Ci vuole un “altro” momento di “dono”, per forza di cose. Ma intanto il mondo versa nelle conseguenze della sua deviazione, gravissima, della quale così pochi dicono, aggiungendosi così, al cumulo di errori e deviazioni – che ormai tocca il Cielo, novella “Torre di Babele” – solo la cecità.
Va poi precisato che il “tridente” non è un simbolo negativo, e che Shiva non ha solo l’aspetto distruttivo, anzi! Come “Nataraja” egli anche danza la creazione del mondo. Sennonché: “Roteando nella danza, accompagnato dal suo tamburo (damaru), Shiva mantiene nelle loro orbite tutte le stelle e i pianeti [quindi è anche “conservatore” del mondo, in tal suo aspetto]. Infine, la danza cosmica rappresenta anche la distruzione dell’universo: al termine del kali-yuga, il dio […] riassorbe tutte le energie dell’universo, prodotte attraverso la creazione [chiaramente ciò è VERO per l’universo INTERO e – IN PICCOLO – per la Terra, cioè per il Kali-Yuga della Terra]”, DIZIONARIO delle RELIGIONI ORIENTALI (DRO), Garzanti Editore, Milano 1993, p. 219, corsivi in originale, grassetti miei, mie osservazioni fra parentesi quadre.
Sul tridente, vi è un’immagine, in ivi, p. 334, con la seguente – importante – didascalia: “Trishula, il tridente simbolo di Shiva, che ne simbolizza le funzioni nell’universo induista: creazione, conservazione e distruzione del cosmo”, ibid., corsivi in originale.
Vale a dire che il “Trishula” NON È simbolo “SOLO” del lato “DISTRUTTORE” di Shiva: si spiega, così, anche il suo valore “talismanico” contro le forze demoniache.
Andrea A. Ianniello
[1] Il precedente post, cf.
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2024/02/vecchio-link.html,
tratta del viaggio – del 1952 stavolta (molto tempo dopo i viaggi precedenti di cui qui sopra, non tanto “quantitativamente” molto, ma “qualitativamente” molto: infatti, le due narrazioni sono esatto “specchio” dei tempi) –, di Tucci, nel Nepal e in Mustang, quest’ “insula” tibetana in Nepal. Su quest’ultimo, cf. P. VERNI, L’Ultimo Tibet. Un viaggio nel Mustang, Casa Editrice Corbaccio, Milano 1994, con Prefazione di F. Maraini (che, però, attesta un’epoca diversa: interessante anche questo, ma come un documento che fa “specchio” dei tempi!), ristampa TEA, Milano 2002.
Altro viaggio – del 1995, alle prime (“limitate”) aperture del paese, un piccolo regno tibetano che fa parte del Nepal – è questo: T. TERZANI, Mustang. Un viaggio, Fandango Libri, Roma marzo 2011, con tanti sponsor poiché trattasi di libro con molte foto, in bianco e nero – volutamente tali – e, quindi, è, a suo modo, un documento.
Ricordo le foto, infine, ed il link è sul blog, della copertina di un libro legato alla spedizione Younghusnband, dell’ inizio del SECOLO VENTESIMO, spedizione considerata da Gurdjieff – illo tempore – una vera e propria jattura!
E difatti, da quel tempo in poi, le cose vanno sempre peggio sul pianeta Terra. Non siamo ancora – davvero – “usciti” dall’ “effetto 1914” che si ripropone, in salse diverse, ancora ed ancora.
A buon intenditor …
(*) Vien citato Tucci in cf. T. SKORUPSKI, Tibetan Amulets, Orchid Press, Bangkok (Thailand) 1983, 2000, 2009, p. 3, nota 2 a pie’ pagina. Si tratta dell’edizione inglese, del 1980, di: G. TUCCI, Le religioni del Tibet, Edizioni Mediterranee; Roma 1976.