domenica 15 agosto 2021

Sulla – **per nulla** “sorprendente” – “caduta” dell’Afghanistan: un passo di Hobsbawm di ben 22 anni fa … (Sempre della serie: togliersi qualche sassolino dalle scarpe …)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sulla – prevedibilissima – “caduta” dell’Afghanistan, o almeno di sue grosse parti, sotto il dominio dei “Talebàn” [alla lettera “studenti coranici”, sì, ma di tipo “integralistico”], che così realizzano quanto non riuscirono a  fare ventun anni fa!, si sprecano aggettivi e cosiddette “sorprese”, magari anche soltanto per la “rapidità” dell’evento. Il che ci fa capire quanto le dirigenze occidentali – e in particolare gli USA – siano completamente “perse”, anche – ma non solo – per la chimera pericolosissima della “diffusione delle democrazia”, cosa impossibile, non solo perché non è possibile farlo “con le armi” (ma non è un’impossibilità in termini assoluti: c’è stata un’epoca in cui ciò **era possibile**, ma è passata: perché?), ma perché  non è possibile farlo tout court. Perché un tempo era possibile farlo ed oggi non più? Vi sono varie ragioni (*). Nondimeno, in Afghanistan, non siamo solo in presenza dell’impossibilità di “esportare la democrazia” – un’ubbia tipicamente americana: la democrazia, però non è la Coca Cola – quanto di un altro fenomeno: l’assenza di stato, di stato tout court.

In tal senso, le considerazioni di Hobsbawm, del lontano 1999, cioè ben ventidue anni fa, potrebbero essere interessanti, in un tal contesto.

 

 

Non affermo […] che lo Stato ha perso potere. Eppure […] ha perso entro certi limiti il monopolio dei mezzi di coercizione. In parte a causa della grande facilità con cui certi tipi di arma sono oggi disponibili. Ma anche perché – e questo mi preme rilevare – nei cittadini è diminuita la riluttanza ad usarle. A mio parere, rispetto al passato, è minore la disponibilità volontaria dei cittadini a obbedire alle leggi dello Stato [i “no vax” ed altri “no qualcosa”, qualsiasi cosa sia cui si dice “no”, non son altro che una delle tante manifestazioni precisamente di questo fenomeno]. Penso che uno dei primi esempi di questo fenomeno sia stato il Sessantotto. […] Un altro esempio è l’ordine pubblico. Negli anni Settanta i sovrintendenti di polizia inglesi avvisarono il governo che non sarebbe stato più possibile garantire all’interno del paese il livello di pace ed ordine pubblico assicurato fino ad allora [noi non abbiamo quasi più idea dello stato di “sicurezza” che un tempo era garantita da forze di polizia anche meno numerose, “laggente” non ne ha idea, e da quel tempo le cose sono solo peggiorate, in certe zone dell’Italia poi molto più che in Inghilterra, però abbiamo sacche dove “l’autorità dello ‘Stato’” funziona male, zoppica, claudica, si presenta come a sprazzi, ma ciò non tocca l’ambito fiscale, dove la pressione non fa che aumentare]. Le dimostrazioni contro la guerra del Vietnam ne sono ancora un altro esempio: erano più rivolte, che pacifiche manifestazioni. Il punto più alto del rafforzamento dello Stato moderno [questa “forma-stato” precisa] era coinciso con il momento in cui la protesta sociale era stata in qualche modo istituzionalizzata [dalla “forma-partito” del secondo dopoguerra!], come parte del regolare processo politico […]. Anche questo finisce negli anni Settanta in Europa. La dimostrazione più evidente di questo fenomeno, è stata l’incapacità, per lunghi periodi, e anche da parte di governi forti, di eliminare l’esistenza di forze armate organizzate dal proprio territorio [questo è decisivo = la perdita – perdita – del monopolio (monopolio: vuol dire che solo tu puoi utilizzare quel qualcosa) della forza organizzata – forze armate organizzate, anche piccolissime eh – dal proprio territorio]. L’Ira, per esempio […]. Può essere che il fenomeno che sto descrivendo sia temporaneo [non lo è stato, ventidue anni dopo possiamo dirlo, era più che prevedibile, ma le dirigenze per vent’anni han fatto solamente “orecchie da mercante” e non possono che continuare a farlo]. Ma è certo che a rafforzarlo, dagli anni Settanta in poi, è intervenuta l’ideologia dei governi neoliberisti, esplicitamente diretta contro lo Stato [ed abbiam visto che i “no qualcosa” sono i succedanei di quel movimento anti statuale], al fine d’indebolirlo [e ci son riusciti, “Mission Accomplished”, come Bush figlio in Iraq: successo, ma il risultato è il contrario delle aspettative, come oggi nell’Afghanistan: il punto è chi vede le cose all’incontrario della realtà, il punto non è la realtà, che va per la sua via; solo che costoro vivono dei simulacri che li dominano e dunque non ammetteranno mai la ragione di fondo del fallimento = pronti a compierne altri di fallimenti], d’invertire la tendenza storica al rafforzamento del suo [dello stato moderno, cioè] ruolo, nell’economia e […] in tutte le sue funzioni [sì, era precisamente questo lo scopo, però all’epoca era mascherato: oggi la maschera non serve più]. Questo non vuol dire che gli Stati si siano disintegrati. La Gran Bretagna, che pure ha dovuto convivere per trent’anni in Ulster con una situazione di quasi guerra civile tra fazioni, magari si è indebolita, ma non disintegrata. Ribadisco però che ciò ha segnato un cambiamento nel rapporto tra lo Stato e le attività non statuali all’interno del suo territorio [i “no qualcosa”, i cosiddetti “populismi” e tutta la tendenza all’ “implosione dolce” (Baudrillard) dell’ultima, lunga fase di “crisi” della rappresentanza nell’Occidente non son altro che manifestazioni di tutto ciò]. L’altra parte del problema [e qui siamo all’ “implosione dura”, direi] è rappresentata da quelle aree del mondo nelle quali qualsiasi tipo di Stato tende a scomparire [leggi, tra gli altri: l’Afghanistan]. Noi oggi abbiamo – e penso si tratti di un fenomeno nuovo [vero, son d’accordo] – grandi porzioni dell’Africa, e considerevoli parti dell’Asia occidentale e centrale, in cui è praticamente impossibile parlare di uno Stato che funzioni [da ciò deriva il cosiddetto “fenomeno dell’ ‘immigrazione’”, in effetti]. […] Non è chiaro fino a che punto noi possiamo parlare di uno Stato in funzione in Albania, oggi [all’epoca era il 1999]. Il contrasto è sorprendente, perché, […] fino al tramonto del comunismo esisteva uno Stato i Albania. Così pure ce n’era uno, sino alla fine del comunismo, nel Nord Caucaso. Dove ora non c’è più. Io penso che tanto l’inversione della tendenza secolare [la parola “secolare” qui è centrale] al rafforzamento degli Stati territoriali [questa è la parola chiave], quanto la disintegrazione e la scomparsa effettiva di alcuni Stati, siano legati da un aspetto: la perdita, da parte dello Stato sovrano, del monopolio della forza coercitiva [punto decisivo]. In alcuni casi, come l’Afghanistan [ma guarda un po’ …], non c’è più Stato, ma faide tra gruppi [alle quali, con modalità rétro, i “Talebàn” vogliono porre rimedio, a modo loro, sbagliato, ma questo vogliono fare: proprio per questo han successo], come nel XV secolo durante il feudalesimo, con fazioni più o meno armate, più o meno legate ad aristocratici e proprietari terrieri, che combattevano l’una con l’altra per raggiungere una certa forma d’equilibrio [ciò che ora è in questione in Afghanistan, ora che gli USA, com’era prevedibile, han suggellato il loro ennesimo fallimento]. In altri casi, come in Africa, non è nemmeno così [vero]. Io penso che la disintegrazione degli Stati, in queste aree del mondo, è in massima parte il risultato del collasso degli imperi coloniali, della fine dell’epoca in cui i grandi paesi europei, direttamente o indirettamente, controllavano grandi porzioni del mondo, dove avevano trovato società non statuali, e avevano imposto un grado d’ordine esterno ed interno. Quest’analisi si applica anche a territori conquistati dalla Russia, come il Caucaso, non prima del XIX secolo. E’ ora diventato chiaro che solo in alcuni casi questo processo fu qualcosa di più che un’imposizione dall’esterno [in Afghanistan, come altrove, in realtà, è stato solo un’ “imposizione dall’esterno”!]. […] Quello che è accaduto in queste parti del mondo mi sembra, per certi aspetti, analogo a ciò che avvenne in Europa occidentale dopo la caduta dell’Impero romano. Non c’era più un’autorità centrale [eccolo il punto centrale]. In alcuni casi c’erano autorità locali che ancora riuscivano ad operare, in altri casi ci fu la conquista di gruppi provenienti dall’esterno che vi si stabilirono; ma, nei fatti, in vaste regioni dell’Europa non ci furono, per un lungo periodo, regolari e permanenti [parola chiave] strutture statali. Credo che proprio questo stia accadendo di nuovo in alcune parti del mondo [frasi del 1999, e, da quel tempo – illo tempore – il fenomeno si è solo acuito ed è solo peggiorato]. E ciò pone problemi seri nei rapporti o quell’altra parte del globo dove non accade: Europa, America, Asia orientale [problemi del tutto non risolti, salvo il “mandiamoli a casa loro” ed altre ubbie cosiddette “populiste”, cioè la non risposta, o il continuare sulla vecchia via, cioè: peggiorare la situazione, ventidue anni buttati nello sciacquone, dove i fenomeni, vent’anni fa già super evidenti, han preso una via catastrofica, in senso etimologico, (niente isterismi di massa da social, in stile XXI secolo, per favore!)]. Una delle grandi questioni che sta di fronte al XXI secolo è l’interazione tra il mondo dove lo Stato esiste e il mondo dove non c’è [o non c’è più: ma rimane il problema decisivo, ben descritto da Hobsbawm illo tempore, solo che il mondo dove “lo Stato esiste” non ha alcuna soluzione da offrire al mondo dove “lo Stato non c’è”, o non c’è più!]. Un problema reso ancor più difficile da gestire per ragioni nuove, che richiamano il problema prima sollevato, e cioè la volontaria obbedienza dei popoli ai loro governi [problema che è esploso nella pandemia anche in Occidente – ed ecco i “no X”, dove “X” è qualsiasi chimera o cosa improbabile, non importa, purché sia: “no!” -, cioè dove lo “Stato esisteva”!, ma il processo di digitalizzazione l’ha fatto ulteriormente inceppare, per cui proporre la digitalizzazione “spinta” come soluzione al problema che si è incancrenito grazie alla digitalizzazione = che la febbre a 40 curi la febbre a 39: ridicolo!]. Per una buona parte della storia valeva la generale assunzione che, se un governo è efficace, il cittadino obbedisce [ed ecco la ragione del successo dell’espansione originale dell’Islàm, ch’è stato in origine uno “Stato religioso” e non solo una “religione”, il punto è che era efficace]. Quale che sia il governo, piaccia o non piaccia. E’ vero che, in alcuni casi, veniva accettato perché era forte, ma in altri casi veniva accettato sulla base dell’idea espressa da Hobbes, secondo cui un governo efficiente è meglio di nessun governo. Per esempio, quando gli inglesi conquistarono l’India riuscirono ad amministrare quel paese per un periodo molto lungo con poco più di qualche decina di migliaia di uomini inclusi i soldati. Consideri che governavano un paese di centinaia di milioni di persone: sarebbe stato impossibile se la maggioranza della popolazione non avesse deciso di accettare il regime. Gli indiani ne avevano accettati altri nel passato, che erano altrettanto stranieri, e anche questa volta lo accettarono. Questa è la ragione dello straordinario successo ottenuto dalla maggioranza delle potenze europee nel reggere vasti imperi coloniali. In definitiva, furono molto pochi i popoli che resistettero, certo non quelli già abituati a vivere sotto un governo, di un tipo o di un altro. I soli che non si piegarono furono i popoli che vivevano in società senza Stato: come nel caso dell’Afghanistan, delle società tribali del selvaggio West, dei Curdi, dei Berberi del Marocco. Ma, fondamentalmente, i popoli che resistettero erano popoli che avrebbero resistito a qualsiasi governo. Al loro governo, così come a un governo straniero. Voglio dire, insomma, che l’atteggiamento generale degli uomini era di accettare l’idea di essere governati. […] La nuova situazione, alla fine del Secolo breve, anche in eguito alla mobilitazione dal basso della gente [e i social non han fatto altro che portare un tal fenomeno al suo apice] – perché questo [il XX secolo, il “Secolo breve” cosiddetto] è stato il secolo della gente comune, in cui la gente ha assunto un ruolo essenziale nella gestione della cosa pubblica – è che non si può più dare per scontata questa tendenza nell’accettare un’autorità superiore [ribadisco: i “no vax” o qualsiasi “no qualcosa”, sono l’espressione di questo, come i cosiddetti “populismi”, come le campagne sui social e tutti questi fenomeni: ma tutto ciò non fa che indebolire ulteriormente la vecchia forma dello “stato-nazione”, cioè lo stato “territoriale”]. In un certo modo, la Resistenza in Europa durante la seconda guerra mondiale ha anticipato questo fenomeno. La reazione classica alla conquista esterna era quella di Pétain e della Francia di Vichy: noi abbiamo perso, loro hanno vinto, dobbiamo scendere a patti con la realtà. Una reazione razionale. Ma il movimento della Resistenza rifiutò totalmente di conformarvisi. E questo rappresenta l’inizio della novità. Ecco la ragione per cui […] l’ovvia soluzione praticata nel XIX secolo nelle aree del mondo dove gli Stati si disintegravano, e che consisteva nel trasformali in colonie, non funziona più. E’ troppo costoso e dà risultati incerti. Prendiamo in esame la Somalia […]. sia gli inglesi che gli italiani hanno sempre avuto problemi in quel paese, ma in nessun momento ci furono serie difficoltà per la Gran Bretagna o per l’Italia nel reggerlo come una colonia. Nessuno suggerì nemmeno che si dovessero ritirare da quella terra [e cioè precisamente ciò che oggi, e da tempo, gli USA stan facendo …!!, all’epoca era inconcepibile]. Negli anni Novanta gli Stati Uniti v’intervennero, per ragioni umanitarie, ma, prima che capissero dov’erano, n’erano già stati buttati fuori [d’allora in poi hanno appreso ad andarsene via da soli …]. Insomma, la gente, in molti paesi del mondo, non è più disposta ad accettare il principio secondo il quale non vale la pena di combattere contro gli eserciti di occupazione [e il caso dei “Talebàn” è uno, fra i molti, esempi multiformi di tale “no”]. E questo vale anche per i Balcani. […] Diventerà perciò sempre più problematico decidere che fare in queste aree [così è stato e così è]. Perché intervenir efficacemente richiederebbe una mobilitazione permanente [la chiave sta nel termine: permanente, ma ecco lo “stato d’emergenza” prolungato come maschera per poter sostenersi, però senza intervenire o intervenendo il meno possibile: ecco la ragione di tale stato d’emergenza “permanente”, ed ecco la risposta all’ultimo articolo di Cacciari su “L’Espresso” dell’8 agosto c.a., che s’è commentato su tal blog] di forze che pochissimi paesi son pronti a sostenere, e […] solo nei casi in cui è in gioco la loro stessa esistenza. […] Se si paragona il costo di governare la Bosnia del dopoguerra con il costo di reggere una colonia, ci si accorgerà della sproporzione. Credo che ci siano 64.000 soldati stranieri nella piccola Bosnia, cioè pressappoco quanti ne servirono agli inglesi per governare e mantenere l’ordine nel subcontinente indiano. […] Certo, il riaffiorare di drammatiche ostilità nazionali in quei paesi è per certi aspetti inspiegabile. Specialmente perché, in particolare nelle città, sembravano di fatto scomparse grazie all’alto numero di matrimoni misti. E’ probabile che questo fenomeno abbia inciso più profondamente tra le classi colte che nella parte più povera di quelle società […]. C’è qualcosa che può aiutarci a capire […]: i regimi comunisti erano, in un certo senso, e deliberatamente, dei regimi elitari. Non foss’altro perché insistevano sul ruolo guida del partito. Il loro scopo non era quello di convertire il popolo, le loro non erano fedi, ma chiese ufficiali. Per questo la gran parte dei popoli sottoposti a questi regimi erano fondamentalmente depoliticizzati. Il comunismo non entrò mai nelle loro vite [che, poi, è il punto che gli occidentali – drogati da decenni di anticomunismo – non hanno mai capito: il “popolo” lì viveva la sua vita e il “partito” la sua, “laggente” non era sollecitata e cambiata nella sua vita quotidiana in modo così massivo come accade nel “mondo democratico” dominato dalla “tirannia dolce” del capitalismo], nel senso in cui, per esempio, il cattolicesimo entrò nelle vite e nelle coscienze dei popoli dell’America latina dopo la colonizzazione. Il comunismo era qualcosa da cui ci si aspettava buoni o cattivi risultati [questo era, in sostanza]. Ma che, in genere, non era interiorizzato dai popoli [fondamentale questo punto]. C’è una sola vera eccezione, ed è la seconda guerra mondiale della Grande Russia. Vi son pochi dubbi che Stalin riuscì a trasformarsi in una genuina figura di leader nazionale perché guidò una guerra concepita da quel popolo come genuinamente nazionale. Una guerra in cui di fatto ogni russo era coinvolto. Per questo, ancor oggi, quando ci si domanda che cos’ha lasciato il comunismo in Russia, bisogna prestare attenzione all’esperienza della guerra [ancora non c’era il dominio di Putin, ma quest’ultimo dominio ha le sue radici precisamente in questa esperienza della guerra, dalla ripresa – con testo diverso – dell’inno dell’URSS alla centralità della “Parata della Vittoria” nella Seconda Guerra Mondiale al nazionalismo: Putin ha qui, su ed in questo preciso punto, le sue radici, da ciò “che il comunismo” ha lasciato in eredità in Russia, cioè la vittoria]”, E. J. Hobsbawm, Intervista sul nuovo secolo, a cura di A. Polito, Gius. Laterza e figli, Roma-Bari 1999, pp. 32-39, corsivi miei, mie osservazioni fra parentesi quadre.

 

 

Andrea A. Ianniello

 

 

 

 

 

(*) Su tal tema, scrissi un mio vecchio post nel 2017, che ora rendo di nuovo disponibile, poiché poi lo cancellai: cf.

https://associazionefederigoiisvevia.files.wordpress.com/2021/08/la-fine-della-democrazia-cancellato-del-2017.pdf.

 

 

 

 

2 commenti:

  1. Vi è qui su il vecchio post sulla crisi della democrazia, molto importante, cf.
    https://associazionefederigoiisvevia.files.wordpress.com/2021/08/la-fine-della-democrazia-cancellato-del-2017.pdf


    RispondiElimina