giovedì 20 giugno 2019

“SCHIAVI a Caserta” – un libro di VENTI ANNI FA, ormai!! – che spinge ad un’interessante discussione sulla schiavitù e sullo “statuto” dello schiavo, prima dell’epoca moderna, come **in**epoca moderna

















Il libro è: R. Del Prete – N. Joulain, Schiavi a Caserta. La vita, i lavori, il contributo delle schiere di lavoratori musulmani, Stampato dalla Coop. Sociale Villa Maraini, Roma 1999 (20 anni fa), Con il Contributo Commissione Europea – Programma Servizio Volontario Europeo.





Qui di seguito, un passo di Baudrillard – colmo ancora di linguaggio hegeliano e marxiano (che. dunque, il linguaggio, andrà interpretato e “letto tra le righe”) –, però un passo molto interessante, nonché alquanto illuminante, a tal proposito (cioè al riguardo della schiavitù e della schiavitù nell’età moderna e nell’età “tardo moderna” (o “postmoderna”), cioè ancor oggi, dove continua nell’esistere, la relazione “salariale” classica essendo sempre più equiparata alla “corvée”, piuttosto che il resto. E sarà sempre di più così, man mano che le macchine vanno sostituendo – in parte, ovvio – il lavoro umano. Di qui le ridicole rimostranze dei residui della “sinistra” che continuano, imperterriti, a non aver afferrato il cambiamento epocale avvenuto decenni fa. Lo stesso Baudrillard, dopo il libro un cui passo del quale si citerà qui di seguito, avrebbe detto che il modello non era più il lavoro “produttivo” ma quello “servizio”: era il 1979, in Italia, ben quarant’anni fa, quaranta lunghi anni, tremendi ed orribili. E la “sinistra” non capiva niente allora, niente capisce oggi. Infatti, l’unica vera domanda che si sarebbero dovuti fare allora – e non si fecero –, e che continuano a non farsi, è questa: come si risponde (non parlo né di vincere né di combattere, solo e soltanto di “rispondere”), a questa ristrutturazione systemica? A questa modifica della struttura portante systemica?
Cambiamento strutturale che, però, come da me spiegato più volte, non ne ha alterato le finalità, punto molto importante. Il non aver afferrato questa modificazione della natura del lavoro è dove il marxismo ha toppato, ed alla grande: qui ha perso la partita, né vi saranno ritorni al “socialismo” perché la natura del lavoro è mutata, profondamente. Tra l’altro, è stata: capitale versus forza lavoro: kappaò da parte del capitale. Tutte quelle stupidaggini del seguire la realtà” – cosa che sottoscrivo, eh – si sono rivelate solo stupidaggini, da parte dei marxisti: quando han dovuto scegliere fra l’analisi – impietosa e rigorosa come deve essere un’analisi vera – della realtà e il rimanere attaccati alle scemenze marxiste, hanno scelto queste ultime, ed han perso la guerra, non una battaglia: han perso la guerra. Questo non significa per niente che tutto in Marx “fosse falso”, come ha recitato una lunga, e fasulla, “vulgata”, non funziona così la cosa. Marx ha analizzato una fase del capitalismo, dai suoi seguaci analisi presa per “le ‘leggi’ della storia”, ed ovviamente la storia non ha seguito le supposte leggi: questo ha pervertito il marxismo, l’aver creduto di aver scoperto “le leggi” della storia. La storia non ci chiede il permesso di andare di qua o di là: ci va. Punto; starà poi a noi di capir bene perché va qua o là.
Inoltre in Marx vi erano degli spunti, solo spunti – spuntini – ma comunque validi, sulla natura profonda del sistema capitalistico, come un sistema di “natura seconda”, una sorta di superfetazione aggiunta, una “emulsione” – come la chiamo, un po’ simile all’ “impianto” heideggeriano – che si spaccia per “natura” ma, in realtà, non lo è affatto. Se un piccolo merito ha questo blog, sta proprio nell’aver rimesso al centro questo punto preciso. E qui, forse, Marx può esserci ancora utile, non dunque nel rimanere fermi dentro discussioni fondamentalmente ottocentesche, più che datate ormai.
Infine molte delle supposte – dolorose, quando prese dal didietro, come la crudele “dea storia” non ha mancato d’insegnarci … – “leggi” della storia, che Marx avrebbe “scoperto”, erano, per lui, delle ipotesi, non dimentichiamocene. Tantissimo gli è stato, poi, attribuito.
Ma veniamo allo “statuto epistemologico” dello schiavo e della schiavitù, dunque.
Prima di venire al passo, una precisazione: il libro di sopra ci fa capire come la schiavitù sia continuata a lungo anche nell’epoca moderna, che doveva abolirla, per lo meno ufficialmente, il che significa solo questo: che in larga parte della fase crescente della modernità (secc. XVI-XVIII) il sistema dei rapporti sociali – “salariati” – moderni coesisteva con sistemi premoderni. Il che, poi, porrebbe il problema dell’oggi: come si spiega il ritorno dei sistemi premoderni nella fase finale della modernità, cioè la “nostra” epoca.
Arriveremo – per chi vorrà seguirci sull’arduo (mi rendo conto) sentier – a capire i “meccanismi” fondanti del capitalismo e della modernità, la cui nascita ha preceduto il capitalismo ma, poi, s’è incarnata in quest’ultimo. Si capirà perché i moderni non capiscono la schiavitù come istituto, si capirà perché i postmoderni non possono che far risuscitare tale istituto, sotto altri nomi, ovvio, e perché non possano che non capire la ragione del perché tal fenomeno “resuscitativo” accade né possano opporcisi. Basterà fare “due più due” dell’analisi che seguirà, trarne cioè le conseguenze, atto di “tirarne le conseguenze” che chi scrive non farà per il lettore. Qui ci si limiterà al solo aspetto analitico, niente di più, niente di meno. Le conseguenze sull’attualità le trarrà – sempre che lo voglia eh – il lettore, ben sapendo che, se uno capisce certe cose, le cose cambiando per lui, e solo per lui (o lei). Il mondo invece continuerà imperterrito sulla sua strada. Si è detto che il mondo postmoderno (o, meglio, tardo moderno) non può capire perché le cose vadano in questa direzione, men che meno può “farci” qualcosa. Quindi la cosa può avere solo un mero valore di conoscenza, e stop.
E veniamo, finalmente, al punto.

Lo schiavo. Lo statuto dello schiavo è analizzato dalla teoria marxista retrospettivamente, a partire da quello del lavoratore salariato. Questi non dispone del suo lavoro, né del prodotto del suo lavoro, ma della sua forza-lavoro, ch’egli può alienare (mentre non aliena la persona di cui essa è la proprietà). Lo schiavo, invece, non dispone né dell’uno né dell’altra. Esso risulta così definito, in funzione di questa distinzione fra lavoro e forza-lavoro (che si svilupperà in seguito), come la somma, alienata al padrone, dei due elementi. La specificità dello schiavo risulta allora, per deduzione, nel fatto che la sua forza-lavoro è proprietà del padrone. Ma questa è solo una ricostruzione analitica. Visi riuniscono due elementi che in un’epoca successiva si presenteranno separati; ma non ne consegue che questa somma renda conto dello stato anteriore – poiché la differenza radicale consiste precisamente nella non-separazione dei due elementi, e ciò che sorgerà da questa separazione in poi non è leggibile in anticipo, a meno di compiere un abuso di potere analitico. Ecco ancora manifestarsi, attraverso la griglia lavoro/forza-lavoro, la presunzione dell’economico. La relazione simbolica padrone/schiavo concepita come un conglomerato primitivo, il cui nucleo ‘reale’ sarà tratto in luce dal filo della storia (di fatto, dal filo del modello teorico che imporrà questo principio di realtà). Questa procedura si lascia sfuggire tutto ciò che viene scambiato nella relazione padrone-schiavo, e che non si riduce affatto all’alienazione-sfruttamento di una forza-lavoro.
Il fatto che lo schiavo non sia separato dal padrone come libero lavoratore implica ad un tempo che neanche il padrone sia – nella stessa misura – separato dallo schiavo come libero proprietario [e qui sta Hegel, con però la gigantesca differenza che Baudrillard non vuol recuperare “dialetticamente” la relazione] (o datore di lavoro) [cioè il “proprietario” non è un “datore di lavoro”, si sta capendo?]. Nessuno dei due possiede lo statuto di individuo [punto decisivo], che preveda la libertà individuale dell’uno rispetto all’altro [e qui torniamo a Hegel: il suo recupero “dialettico” della relazione padrone-servo sta proprio nella sua (di Hegel) necessità di riconciliare la libertà individuale borghese con la relazione padrone-servo che Hegel, che non era stupido, ben si rendeva conto non poter essere letta nell’ambito della categorie borghesi e “produttive”; quel che Baudrillard ci sta dicendo qui è che tale “riconciliazione” non è possibile: si sta capendo la radicalità della questione?]. Nessuno dei due è contrapposto all’altro in quanto tale [“in quanto tale” è un modo di dire marxiano, a sua volta mutuato da Hegel: qui Baudrillard sta dicendo che “non si dà” (tanto per parlare in “filosofichese”) dialettica nella relazione fra padrone e schiavo] – il che corrisponde alla definizione di alienazione. Esiste fra essi una relazione di reciprocità. Non nel senso moderno e psicologistico della relazione bi-univoca fra due soggetti individuati [e cos’è il postmoderno se non la centralità della reciprocità??, e, aggiungeva Baudrillard ormai più di quarant’anni fa!!, questa rientra nella relazione “individuata” che non si può attribuire ai modi ed ai mondi premoderni], rientranti cioè nel contesto individualismo/altruismo che circoscrive la nostra morale [e che viene usato, per esempio, per cercare di “capire” il fenomeno migratorio, non “capendone” nulla però]; nel senso, piuttosto, di un obbligo, di una struttura di scambio e di obbligo, in cui ancora non esiste la specificazione dei termini dello scambio come soggetti autonomi, né quel particolare tipo di partizione che noi conosciamo, il contratto (economico o psicologico) [esattissimo, è così: non esisteva, né poteva esistere, il “contratto”]. Qui il livello è quello del simbolico: non soggetti autonomi dello scambio [riflettano i moderni su questo punto], né quindi oggetto dello scambio (forza-lavoro, cibo, prestazione) autonomizzabile come merce [l’ “enigma della merce”, diceva Marx: per dir meglio “l’arcano” della merce[1]: una relazione “symbolica” non è una “merce”, ecco “l’arcano” del mondo “tradizionale” vero, non la sua parodia “nazionalistica”, cioè moderna, perché nei mondi “tradizionali” veri lo scambio non può, per principio, esser “totale”, vi è un limite alla radice: il che implica che un moderno non abbia la più pallida idea di cosa sia un “sistema symbolico” mai pienamente modificabile secondo i “desiderata” individuali; magari lor signori ne leggono, ma sta solo nelle loro menti, individuali per definizioni, dunque non han portata sociale reale, salvo fantasmi e vestigia sparse, che, sì, ci sono, ma sono insufficienti alla bisogna: di qui la vanità e il fallimento di ogni opposizione al “mondo moderno” tentata su basi “tradizionali”, presto “tradottesi”, oh quanto “modernamente”!!, nel vecchio surrogato “nazionalismo”, che è come il loglio per il frumento[2]]; ma una struttura duale, in cui non sono in gioco né l’astrazione del valore né l’identità immaginaria dei soggetti [il “valore” è dunque un’astrazione; l’ “identità” – famosissima oggi – è ancora pienamente moderna, in quanto postula individui separati, che, poi, noi faremmo “interagire”].
Il libero lavoratore trova a sua volta la sua identità nello specchio della sua forza-lavoro [di nuovo, “identità”, che si ritrova solo nel suo statuto di forza-lavoro, cioè senza lavoro non ha identità il “libero” lavoratore: ma qui si evidenzia la sua schiavitù profonda da quel System che lo definisce come – appunto – forza-lavoro: questo punto ha conseguenze vastissime, che si lascia al lettore, sennò qua si dovrebbe scrivere un intero libro, che, poi, nessuno leggerebbe, ah ah]. La proprietà di quest’ultima [della forza-lavoro, cioè] – la sua ‘liberazione’ in quanto lavoratore – significa il suo accesso all’individualità privata [decisivo questo punto], cioè all’alienazione [marxiana]. E’ alienato non perché vende questa forza-lavoro, ma perché ne è il proprietario [di nuovo, punto decisivo], ne ‘dispone’ come di un suo bene [idem]. Cosami permette infatti di disporre di me stesso se non la ‘privazione’ (il diritto dell’individuo privato degli altri, da essi isolato)? Privilegio esorbitante, che non ha mai coinciso con quello del padrone sullo schiavo [di nuovo: idem]: infatti è solo al tempo del commercio degli schiavi, quando cioè lo schiavismo è recuperato da un’economia mercantile [ed è il tempo del libro la cui copertina è riportata qui sopra], che il padrone ‘dispone’ dello schiavo fino al punto di poterlo alienare come una merce qualsiasi [per la verità, il modo borbonico della copertina di qui sopra non è ancor a quel livello: infatti sì, lo schiavo può esser alienato a piacimento del padrone, ma, ed ecco il punto, in cambio di un qualcosa di simbolico, per i tempi: la sua conversione al Cristianesimo, quindi non era ancor pienamente “mera merce”, ma i nuovi schivi di oggi, al contrario, lo sono]. Quando si analizza questo stadio stiamo già analizzando l’economia mercantile e non è il carattere specifico della schiavitù [punto metodologicamente rilevante]. Lo schiavo, o piuttosto la relazione padrone/schiavo, è originariamente inalienabile; nel senso che né il padrone né lo schiavo sono alienati l’uno all’altro, né lo schiavo è alienato a se stesso come il libero lavoratore, che dispone, a titolo privato, della forza-lavoro [nei mondi premoderni la proprietà esiste, ma il suo “statuto” è diverso].
Così, la ‘liberazione’ è dovunque caratterizzata come il processo di interiorizzazione della separazione, di un’essenza soggettiva astratta (in questo caso la forza-lavoro) sulla quale viene sancita l’identità del soggetto. Lo statuto dello schiavo non rientra in quest’ordinamento: egli è vincolato, e la sovranità del padrone non è affatto la trascendenza del potere come noi la conosciamo; è un dominio personale, che non si confonde per nulla con lo schema del padrone/soggetto e dello schiavo/oggetto (che rappresenta la nostra forma di scambio razionale e contrattuale, in cui ogni soggetto è oggetto per l’altro [decisivo, di nuovo]). Qui il dominio, a differenza dell’alienazione e dello sfruttamento, non conosce l’oggettivazione del dominato, ma un obbligo [idem], che comporta sempre una relazione di reciprocità [ma non “individualistica”, come s’è detto prima].
Noi tendiamo a reinterpretare la relazione di schiavitù (o di servaggio) in rapporto alla nostra configurazione economica e a quella, psicologica, del soggetto e dell’oggetto, come il male massimo dello sfruttamento e dell’alienazione. Consideriamo il passaggio al lavoro salariato come una ‘liberazione’ e un progresso storico oggettivo. Questa prospettiva partecipa ancora di un’illusione della razionalità umanistica occidentale, che si incarna, nel corso della storia, nello Stato politico astratto, che, istituendosi, taccia d’irrazionalità tutte le forme anteriori di dominio”[3].
Morale della favola, una conseguenza la traggo io per il lettore – mene scuso sin d’ora –: si va verso lo schiavismo universale come fenomeno commerciale. Quel che vediamo, le nuove “corvée”, hanno questa natura profonda: il ritorno di uno schiavismo in un’economia mercantile di scambio totale. Vi è da chiedersi se, però, un simile quadro di riferimento mentale sarà sufficiente per un’opera così vasta. La mia risposta è: un chiaro no; ma ciò implicherebbe delle ulteriori considerazioni, che allungherebbero un post già sin troppo lungo, per cui le si lascia a chi vorrà farle.

Altra conseguenza: quello della copertina di qui sopra è uno stadio intermedio, dove la schiavitù è già fatto mercantile, ma conservava, tuttavia, un lato ancora “symbolico”, ed eccone il lato interessante.










Andrea A. Ianniello
























[1] Cf.  
http://blog.petiteplaisance.it/karl-marx-1818-1883-larcano-della-forma-di-merce-a-prima-vista-una-merce-sembra-una-cosa-ovvia-dalla-sua-analisi-risulta-che-e-una-cosa-imbrogliatissima-piena-di-sottigliezza-metaf/.
[2] Quando un system symbolico collassa, per una qualsiasi ragione, non lo puoi sostituire con delle elaborazioni individuali, per quanto eccelse. Il che dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che in tutta questa questione vi è dell’ “altro”, del ben “altro” ….  
[3] J. Baudrillard, Lo specchio della produzione, Multhipla Edizioni, Milano 1979 (quaranta anni fa, ormai!!), pp. 85-87, corsivi in originale, miei commenti fra parentesi quadre.











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