“Padre Ubu. Cornoventraglia! non avremo demolito tutto
se non demoliremo anche
le rovine! Ora, per questo,
non vedo altro modo che
equilibrarle
in begli edifici ben
ordinati”.
“Continuate pure, miei cari, umanità … […]
Continuate pure, miei cari, umanità, bravi borghesi
e giornalisti vergini … ⁂ Io son contro
tutti i sistemi, l’unico sistema accettabile è
quello di non seguirne, sistematicamente ⁂ […]
Io chiamo menefreghismo un modo di vita
seguendo il quale ciascuno resta quel
che è, pur sapendo rispettare la personalità
altrui […] L’arte è una cosa privata,
l’artista lo fa per se stesso; un’opera accessibile
è un prodotto giornalistico”.
Manifesto Dadà 1918
(101 anni fa)
“… se si va al fondo delle cose, […] testimonia che il
disordine
ha fatto irruzione nell’intero corso dell’esistenza e si è
a tal
punto generalizzato da far sì che noi viviamo in realtà,
si potrebbe dire, in
un sinistro ‘carnevale perpetuo’”.
Dunque ho acquistato la
ripubblicazione di J. Baudrillard,
All’ombra delle maggioranze silenziose o
la fine del sociale, Mimesis Edizioni, Milano 2019. Come ho detto in un precedente post (cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.com/2018/12/step-3-40-anni-fa-di-nuovo-allombra.html),
ho riacquistato da qualcuno, fra i pochissimi
che l’aveva disponibile, la vecchia edizione, la cui fine non so quale sia
stata, e il post qui sopra citato è la breve recensione-ricordo della vecchia
edizione del lontano 1978, dunque 40 anni dopo!! La presente ripubblicazione
avviene 40+1 anni dopo, e, come detto l’anno scorso, e com’è doveroso, è
accompagnata da una Introduzione, della quale qui tratterò.
Per il libro di
Baudrillard, non posso che consigliare di leggerlo, anche per la sua natura di pamphlet, agile, ma si potrebbe
sottostimarne l’importanza rilevante.
Ma qui, però – come già
detto –, si tratterà solo della Introduzione presente nell’attuale
ripubblicazione.
Per il resto, rimando
al post qui su citato.
Una sola frase
dall’originale voglio qui citare, quella presente, in grassetto – che qui
manterrò – sul retro della copertina: “Il
vuoto sociale è attraversato da oggetti interstiziali e ammassi cristallini che
vorticano e si aggregano in un chiaroscuro cerebrale. Questa è la massa,
assemblaggio sottovuoto di particelle individuali, di rifiuti del sociale e
d’impulsi mediatici: nebulosa opaca la cui densità crescente assorbe tutte le
energie e i fasci luminosi circostanti, per sprofondare definitivamente sotto
il proprio peso. Buco nero dove il sociale s’inabissa”.
Qui vi è la prosa,
densa e sentita, di Baudrillard, che “si accende”, rimuovendo il suo andamento
ironico e “patafisico”,
solo quando si parla di una dimensione “opaca” e auto referenziale, quando dà,
senza dubbio, il meglio di sé (probabilmente
questo è il più bel libro di Baudrillard, forse assieme ad America, che
ha delle scene – quest’ultimo libro – che ricordano “Paris, Texas”, il film,
con la musica di Ry Cooder,
dietro la quale musica c’è tutta la lezione del blues, ma rivisitata, espansa e
dilatata).
Difficile trovare frasi che “centrino” la dimensione “di massa” più di queste
di qui sopra, la metropoli tentacolare, vorticosa ed opaca. Probabilmente, solo L’uomo della folla di E. A. Poe, in letteratura però, non parliamo
di saggistica, riesce a fornire questo senso della massa, della perdita, della
dissoluzione.
Con la grossa differenza che la pagina di Poe
è greve, dietro di essa vi è la Londra piena di torme di ubriachi sciamanti
dopo essere stati sfruttati a dovere, tra nebbie, fumi e prostitute, un compendio
di degradazione umana alle soglie della bella città borghese, i bassifondi di
Londra attraversati, e ben conosciuti, da Holmes – a distanza – e dal dottor Jekyll (ben dentro, invece), o da Dorian Gray. Siamo al geroglifico,
nodo scorsoio, che signat la nascita del mondo moderno nel suo senso
pieno, e, dietro tutto ciò, ben poco visto, un “magismo” deviato (per chi vuole
approfondire, in nota finale[i],
per chi non è interessato: il resto del post rimane valido lo stesso).
Dietro Baudrillard,
invece, questo fondo oscuro manca: fondo che, al contrario, è ben visibile, per
esempio, in altri autori: ne parlò apertamente lo stesso Jünger.
In Baudrillard la
pagina è lucida, in tutti i sensi,
asciutta, ironica, saltellante, vivida: l’autore è al pieno della sua forma:
egli descrive le geometrie del caos.
Le guarda a distanza, sorride, irride le vecchie analisi “umanistiche”, ma non per questo partecipa di ed a quel
mondo, ma tenta di capirlo, come un antropologo
tra i “selvaggi”, cosiddetti. E questa sensazione di estraniamento – sì,
forse il termine più esatto è questo: estraniamento
– che la pagina di Baudrillard impone, pur venendo dentro le cose, è più
devastante di mille, dotte analisi delle scienze sociali, verso le quali si
mostra del tutto impietoso e gelido.
Le irride, in poche parole.
La modernità si vede
nel suo sogno, fallito, che ha
portato, sulla scorta dello “scatenamento”, all’emersione di una dimensione
oscura e passiva. Atto di accusa – definitivo – per ogni possibile tipo di
modernità, anche di “destra”, parole che vengono molto ma molto a proposito
nella “nostra” temperie storica.
Ma veniamo al punto. “A
poco più di dieci anni dalla scomparsa di Jean Baudrillard, si ripresenta al
pubblico italiano uno dei suoi lavori più belli: All’ombra delle maggioranze silenziose, ovvero la fine del sociale.
Il testo apparve nel 1978 come Cahier Quatre per i tipi delle Éditions
Utopie, una breve esperienza editoriale cui diedero vita alcuni dei più animati
e acuti partecipanti alla storia rivista ‘Utopie. Revue de sociologie de
l’urbain’. Pubblicata dal 1967 al 1978, fondata e diretta da Henri Lefebvre,
vivace figura di studioso, sociologo e teorico dell’urbanismo su cui in anni
recenti è tornata una forte attenzione [ricordiamo con piacere questo studioso],
la rivista ‘Utopie’ proponeva una lettura critica delle tendenze sociali e
politiche del tempo, richiamandosi fortemente all’esperienza delle avanguardie
storiche, a quella surrealista e dei situazionisti. Fra gli elementi che la
caratterizzarono, assieme a una prospettiva militante e impegnata
politicamente, vi era la volontà di condurre un dibattito aperto alle
contraddizioni e all’approccio polemico anche fra i suoi partecipanti. Sulle
pagine di ‘Utopie’ Baudrillard mosse i primi, decisi passi del suo percorso
intellettuale mettendo alla prova una serie di temi che avrebbero trovato
sviluppo nelle monografie più note. La critica alla sociologia e alle scienze
umane e sociali, al marxismo, al femminismo, alla ‘sinistra’ ufficiale e a
quella di ‘movimento’, così come all’ideologia dei consumi, al sistema dei
mass-media, alle tendenze dell’arte contemporanea e all’urbanistica, per non
citare che alcuni temi, trovarono sulla rivista ‘Utopie’ una prima occasione di
formulazione verifica, esplicitazione. […] E’ in tale preciso milieu che va
inserito questo breve, ma non semplice testo: un pamphlet pubblicato alla fine
dei turbolenti anni Settanta, mentre iniziava la risacca conservatrice che
chiudeva definitivamente gli anni rivoluzionari e contestatori iniziati con il
Maggio 1968, che di quel periodo e di quelle esperienze è anche preziosa
testimonianza. In Italia la precedente edizione per la casa editrice Cappelli
di Bologna, con la traduzione di Maria Grazia Camici, nella collana Indiscipline del cui comitato di
redazione faceva parte lo stesso Baudrillard, apparve nel 1978 in contemporanea
con l’edizione francese, per poi scomparire [non solo dal punto di vista
editoriale …!!] dai cataloghi editoriali [la temperie anni ’80 e seguire gli
era contraria, per ovvie ragioni]:
si tratta pertanto di un libro caduto nell’oblio [non per chi scrive], nella pur continua e costante attenzione
nei confronti del sociologo e filosofo francese nel nostro Paese, che ritrova la
luce della pubblicazione, a quarant’anni dalla prima edizione”.
A mio avviso, ciò è
accaduto perché trattasi di un testo molto
radicale.
In ogni caso, è
interessante la ricostruzione, breve, di Altobelli, nell’Introduzione, di quel
quadro culturale. Una scena culturale viva e vivida, niente a che spartire con la morta, defunta, scena dell’oggi. Ecco
cosa manca, e nel profondo, nella
scena di oggi: la “volontà di condurre un dibattito aperto”, perché i
dibattiti son solo chiusi, “a
prescindere” avrebbe detto Totò.
Qual è la relazione fra
i due temi presenti nel titolo, si chiede l’autore dell’Introduzione
(Altobelli) per prima cosa. “La relazione tra queste due ambigue, misteriose
proposizioni è indagata nel testo facendo ricorso a uno stile colloquiale, che
non esita a ricorre al sarcasmo e ai toni della polemica e della provocazione.
E’, in tal senso, un Baudrillard in grande forma quello che ritroviamo in
queste pagine: un pensatore che offre ai suoi lettori un testo magmatico,
‘attraversato da correnti e flussi’ come lo strano oggetto di cui si occupa.
Innanzi tutto, cos’è la
‘maggioranza silenziosa’? Già presente nel linguaggio politico anglosassone
almeno dall’Ottocento, l’espressione silent
majority è stata resa popolare dall’impiego che ne fece Richard Nixon in un
discorso del 1969.
Il Presidente sostenne
in quell’occasione che la ‘maggioranza silenziosa’ degli americani, che non
protestava, che non si esprimeva platealmente, era a favore della guerra nel
Vietnam. Estendendone e generalizzandone il significato, nell’interpretazione
di Baudrillard le maggioranze silenziose
diventano le masse che popolano i
moderni stati-nazione. E’ ‘all’ombra’ di questa maggioranza silenziosa che si
siede Baudrillard tessendo la trama di una riflessione avvincente, serrata,
intensa che conduce il lettore a una conclusione densa di
conseguenze misurabili su molteplici piani: la fine del sociale. Senza darne
una definizione precisa, il termine ‘sociale’ è impiegato da Baudrillard come
l’attributo che connota, forte della sua tautologica realtà, la società stessa.
Che cos’è il sociale, infatti, cui ci si riferisce in espressioni come lo
‘stato sociale’ [che negli anni di scrittura del libro iniziava a venir preso
d’assalto e messo in crisi], ‘assistenza sociale’, ‘politiche sociali’ e via
dicendo se non il ‘senso’ [che in realtà, poi argomenterà Baudrillard, non c’è] che la società offre di sé stessa in questioni particolari”.
In sostanza, le
“maggioranze silenziose” sono le “masse”, e il sociale è la rappresentazione
che la società offre di sé stessa, rappresentazione che dovrebbe aver “senso”,
ma, in realtà, non ne ha: le ragioni per le quali ci sono (stati) lo “stato
sociale”, c’è ancora (in parte) l’assistenza “sociale” ed altri fenomeni
“sociali”, sono autoreferenziali. La società stessa si definisce in modo
tautologico: la società c’è perché c’è il “sociale”, quest’ultimo c’è perché
c’è la società. In pratica, non vi è alcun senso in tutto ciò.
La ragione – profonda –
è la fine del mondo detto “tradizionale”
– da distinguersi attentamente dal
“tradizionalismo”, il vago desiderio di “ritorno” a quella situazione senza
conoscerla, men che meno comprenderla –, mondo dove la società non esisteva
“per sé stessa”, dandosi così essa, in tal caso, ed inevitabilmente, una definizione
tautologica; ma invece, la società esisteva per “Altro”, nel bene come nel
male, in ricchezza e povertà, con fasti e nefasti, in periodi di “avvicinamento” fra l’Altro e la società,
seguiti da periodi di maggiore o minor “allontanamento”
fra i due poli della relazione. Con la modernità, è nata una società che c’è
“per sé stessa”, una società “tautologicamente” fondata, cioè non fondata.
“L’elemento che
completa il quadro e determina le forme delle relazioni fra massa e sociale, fino
a condurlo alla sua fine, è rappresentato dai mass-media. Il motivo di questo
continuo e imponente ‘investimento’ di senso, di linguaggio, di denaro, di
tecnologia, etc. deriva dal fatto che il silenzio delle masse preoccupa, che la
loro inerzia infastidisce: lungi dall’essere ciò che le caratterizza in modo
neutrale, la non-partecipazione è un rumore che disturba la sinfonia del
sistema. Le masse non possono essere silenziose, soprattutto non devono esserlo
a modo loro: farle parlare, farle manifestare, farle muovere, farle partecipare.
I mass-media servono esattamente a questo: a dar loro la parola, a metterle al
centro della scena, a far esprimere la loro opinione, a mostrarle a sé stesse
come espressione convinta della modernità trionfante.
I risultati, però, son
diversi da quelli attesi. Sempre con immagini tratte dalla fisica è possibile
sostenere che ‘invece di trasformare la massa in energia, l’informazione
produce sempre più massa [ed ecco il
punto]. Invece d’informare come dice, invece di dare forma e struttura,
essa neutralizza sempre di più il “campo sociale”, crea sempre più massa inerte
e impermeabile alle istituzioni classiche del sociale, e ai contenuti stessi
dell’informazione’”.
Questo è un punto d’importanza decisiva,
nel corso dell’analisi di Baudrillard. Le masse “devono” essere mosse, “occorre”
farle “parlare”. Questo è una necessità del System per auto “securizzarsi”,
mascherando la sua vuotezza di
senso. Per mascherare la sua assenza
di senso. Ma i risultati non son mai quelli previsti: l’espressione
“convinta” della “modernità trionfante” (anzi: “Modernità”) non ci sta, latita. Quel che si ha è
un’espressione poco convinta, e del
tutto passiva, della modernità “trionfante”, il cui trionfo ne vien così sminuito, col risultato di non poter
mascherare più bene la vuotezza di senso che la tautologia definitrice della
modernità costituisce, definisce, statuisce ed esprime. Insomma, il vuoto di
senso appare comunque … che guaio! … Ed allora giù a voler farle parlare, a
forza; fino ai social. Ma il risultato è, di
nuovo, che il senso che dovrebbe balenare, s’inabissa ancor più, sempre di
più.
Un fenomeno tautologico
(A>B>A …) non smette d’esser tale perché lo si diffonde … rimane tale!
Segue poi la
ricostruzione del caso del 1977, del quale ho parlato nel mio post per i 40
anni di questo testo.
E qui lo scandalo da parte di vari intellettuali, anche su noti quotidiani, e
non fra i minori della scena francese dell’epoca: M. Foucault, F. Guattari, G.
Deleuze, J.-P. Sartre. Vediamo cosa ne dice l’autore dell’Introduzione. “A
parere del sociologo [Baudrillard], però, non c’è affatto da scandalizzarsi
perché quel che si è osservato in quell’occasione è un semplice effetto di
‘fissione’ e ‘neutralizzazione’ derivante dall’eccesso d’informazione che si è
fatta transitare a forza nelle masse e che si è tradotta infine in un risultato
opposto a quello sperato: un’indifferenza e un rifiuto generali ai richiami
della ‘partecipazione’. Riportando quest’osservazione ai nostri giorni, è
possibile comprendere perché quando l’opinione pubblica, vivamente sollecitata con
sondaggi e votazioni elettorali, con trasmissioni televisive e dibattiti, non è
quella auspicata da una parte dei centri del potere e della finanza – si pensi
all’ondata d’indignazione e stupore sui temi della Brexit, Trump, politiche
migratorie, moneta unica europea, guerre umanitarie etc. – il sistema imploda
letteralmente su sé stesso, giri a vuoto, ne ricerchi senza posa il motivo
[questo si può vedere nei cosiddetti “talk-show” o trasmissioni
“d’informazione”, dove si gira e rigira, tante interpretazioni fornite, nessuna che centri o c’entri, perché
dovrebbero rimettere in questione il modello fondante, “a monte”]. Su questo grande problema che anima la
discussione contemporanea, e in cui si rivendica un’aria di novità
introducendovi il tema ‘fake news’ che, a ben vedere, non ha niente di nuovo ed
è invece, nella logica culturale e simbolica, molto più vecchio e nient’affatto
peculiare dei nostri tempi, Baudrillard aveva già detto quasi tutto e si era
spinto molto più in là di molte interpretazioni recenti.
‘Si è sempre creduto –
è l’ideologia stessa dei mass-media – che sono i media a irretire le masse. Si è
cercato il segreto della manipolazione nella semiologia accanita dei
mass-media. Ma si è dimenticato, in questa logica naïve della comunicazione,
che le masse sono un medium più forte di
tutti quanti i media, che sono esse che li irretiscono li assorbono – o che almeno non c’è alcuna
prevalenza dell’uno sull’altro. Un solo processo è quello dei media. Mass(age)
is message”.
Quest’ultima osservazione
di Altobelli, dove Baudrillard, nel 1978,
si spingeva ben più avanti delle interpretazioni correnti oggi, nel 2019, la
dice lunga: ed è questa, a mio avviso, la “cifra” vera dell’agile ma sapido
libretto. Infatti, Baudrillard va oltre: mette in causa le scienze sociali tout court,
ecco un punto importantissimo.
Altra osservazione
davvero fondamentale dell’autore della Introduzione è quella sulla carica
“utopistica” di Baudrillard, ed è vero.
Personalmente direi che
tale carica si va perdendo e stemperando pian piano nell’opera dell’autore
francese, probabilmente anche per vicende personali, dove tutti gli spunti
“all’azione” – fondamentalmente patafisica,
situazionista e dadaista lato sensu intesa – che comunque Baudrillard
ha fatto, si son persi, per mancanza di interlocutori, sostanzialmente.
Il conservatorismo, lurida,
putrida, puzzolente, immonda, schifosa, oscena risacca conservatrice, ha
trascinato tutto seco (si sa che le risacche sono le più potenti), “sinistra”
ivi compresa, per non dire in primis. Ingenui credenti nella
modernità, li denota Baudrillard, in sostanza: verissimo. Nessuno ha
introiettato la simulazione che il “sociale”, in sostanza, è, più delle
cosiddette “sinistre”.
Non che le destre
abbiano capito mai niente, per carità, ma in loro il pragmatismo stempera la
credenza, che pure ci sta: ed ecco il “popolo”, la “nazione”, tutti simulacri;
non così le “sinistre”, i “sinistrati” mentali, come li chiamo. Ecco che il
lato utopico di Baudrillard è andato sempre più da
canto, ma esso è vivissimo
soprattutto all’inizio – ed ora è chiaro il perché, essendo stato collaboratore
della rivista “Utopie” – e cioè in questo testo come nell’altro, da me citato
in qualche altro passato post, intendo il testo su Foucault.
Qualcosa c’è, di tal
aspetto, anche ne La Sinistra divina,
degli anni Ottanta del secolo scorso, anch’esso notevole, anche se non raggiunge i fasti di questo libro (All’ombra); e, vi aggiungerei, almeno di
alcuni passi del su ricordato Dimenticare Foucault, pure tra i suoi migliori.
Poi senza dubbio lo
studio dei mass-media metterà sempre più “in sordina” quest’aspetto.
Ma vediamo cosa ne dice
Altobelli. “La riflessione di Baudrillard raggiunge in questo libro un punto
d’equilibrio – sul filo d’una riflessione sospesa sull’abisso del non-senso, ma
anche sui crinali dell’ironia – tra la più alta concettualizzazione e la
scrittura accademica e l’espressione […] per frammenti dei suoi libri
successivi […]. Si ritrova in questo testo ogni ingrediente del miglior
Baudrillard: l’originale capacità di analisi […], la sarcastica critica
all’esistente, l’attacco tagliente contro i quadri scientifico-disciplinari e
politico-culturali dominanti. Ma c’è qui, anche, il Baudrillard nascosto, il meno apparente, l’ utopista. Sebbene quest’aspetto della
sua personalità e del suo pensiero sia stato largamente trascurato o ignorato
negli studi”.
Per quel che mi
riguarda, invece, tal aspetto mi è sempre stato ben presente, per quanto col
tempo trascolora e sbiadisce sempre di più, ma non sparisce mai: è la carica nel voler “andar oltre”
l’esistente, e l’ho sempre visto com’evidente, ma è anche vero che Altobelli ha
ragione sul fatto che è stato trascurato. Ripeto, a mio avviso, ciò è dovuto alla
mancanza d’interlocutori, sostanzialmente. Tu le proposte le puoi fare, una,
due, tre, quattro, anche dieci volte;
poi ti stanchi, è una fatica improba proprio.
Tornando a Baudrillard
ed a questo suo lato “nascosto”, direi anzi che è stato l’unico pensiero “rivoluzionario”
della fine del secolo scorso, poi anch’esso “rientrato” nei ranghi (ma mai del tutto …) e, d’allora in poi, non
s’è visto più nulla.
E quel che oggi
spacciano per pensiero ““rivoluzionario”” fra tante virgolette, e cioè il
“torniamo al XIX secolo”, non è per niente tale. Non è rivoluzionario in alcun
senso, men che meno creativo, ma una spenta eco d’eco. Questa gente non ha la
più pallida idea di cosa sia “rivoluzionario”, manca loro – e del tutto – la
lezione delle avanguardie novecentesche, ben viva in Baudrillard, l’ultimo, in
tal senso, come, in parte, J. Cage è stato l’ultimo dei “provocatori” nello
stile delle avanguardie novecentesche. Si veda il famoso concerto a Milano – in
pieno Medioevo fa (e Medioevo non è
una categoria negativa, in questo blog) – dove, a fronte dei “giovani” attardatisi dentro prospettive
ottocentesche, “schiacciate” nel Novecento, lui “provocò” la scena con style dadaista.
Il canto del cigno. Quel
concerto fu il canto del cigno, in parte lo è anche questo breve saggio, ma con
un elemento di vitalità in più. Infatti, è ancor più grave di quest’oblio,
comunque colpevole, il fatto che oggi spaccino come cose “rivoluzionarie” cose
che non lo sono affatto. Più grave che non abbiano la benché minima idea della
lezione delle avanguardie novecentesche, del “dadà” in particolare. E si
considerino anche degli “alternativi” … E’ una lezione “che manca proprio
all’appello”, ed a “sinistra” ancor più che a “destra”, e quindi siamo al
fantastico (programma televisivo) …
Ma torniamo al tema di
base.
La critica – di fondo – è all’ingenuità “sociale”,
oltre che “socialista”, dei “progressisti” d’ogni
fatta e tipo: “Mettere in discussione il ‘valore d’uso’, nel suo supposto
significato ‘naturale’, vuol dire mettere in crisi una parte considerevole del
sistema e denunciare le profonde ingenuità dei progressisti e dei socialisti: ‘La
vera ingenuità è quella dei socialisti e degli umanisti di qualsiasi tipo che
vogliono che tutta la ricchezza sia redistribuita, che non ci siano spese
inutili, etc. Il socialismo, campione del valore d’uso del sociale, rivela una
totale incomprensione del sociale. Crede che il sociale possa divenire la
gestione collettiva ottimale del valore d’uso degli uomini e delle cose’.
Nell’insieme del libro
come nei suoi passi più belli e vibranti, Baudrillard svela l’insensatezza del
nostro sistema sociale [l’ insensatezza,
proprio questo rivela, ed è “rivoluzionario”]: la vuota, disturbante assenza di
un ‘senso’ – parola molto usata nel testo – al fondo del sistema sociale così
come esso è nel mondo e nel tempo lungo del capitalismo [il “tempo
lungo”, categoria storiografica]. Torna alla mente un brano molto noto di Max
Weber [con certezza noto a
Baudrillard e che si percepisce “tra le righe”] che non cessa di colpire la
nostra sensibilità: ‘L’odierno ordinamento capitalistico è un enorme cosmo, in
cui il singolo viene immerso nascendo, e che è a lui dato, per lo meno in
quanto singolo, come un ambiente praticamente non mutabile, nel quale è
costretto a vivere. Esso impone a ciascuno, in quanto è costretto dalla
connessione del mercato, le norme della sua azione economica’ [da L’etica protestante e lo spirito del
capitalismo, un libro che i presunti
“alternativi” dovrebbero leggersi e rileggersi; per certi aspetti, il libro di
Baudrillard è una “glossa critica” del libro di Weber].
La causalità storica
del venire al mondo – in questo mondo
e non in un altro come de Martino diceva, con fine sensibilità antropologica,
riferendosi allo ‘scandalo iniziale dell’incontro etnografico’ capace di
mostrare noi stessi nello specchio dell’Altro […] – è precisamente calata da
Baudrillard nella realtà storico-culturale del capitalismo occidentale e della
Modernità che n’è stata il frutto più maturo: ai suoi occhi, un frutto ormai
marcio [ed è così, leggendo il testo di Baudrillard si ha la netta impressione che lo considerasse marcio, stramarcio … quarant’anni fa!!,
ed oggi?? si rifletta su questo
punto, ben preciso]”.
Terminiamo con le
parole finali di Altobelli: “Interrogarsi sulla validità attuale delle sue
analisi, oggi, cercando di non tradirne lo spirito patafisico che le animava e la forte istanza contestatrice e
anticonformista, è senza dubbio il modo migliore per ricordare uno dei più
importanti pensatori del nostro tempo. Così inattuale
da essere il nostro contemporaneo più perfetto: il testimone”.
Non posso che
raccomandare – ma vivamente, anzi: vivissimamente
– questo breve, agile, sapido, rapido, succulento testo, non posso che
raccomandarlo in particolare – ma proprio in super particolar modo – ai
cosiddetti “alternativi” di oggi, che sognano d’ impossibili “ritorni” ed “insorgenze”, di neo nazionalismi (nazionalismo col
neo, ma senza neon, lampade al fluoro o, meglio, led, fastidiosissimi
fari la notte guidando, della serie accechiamo tutti, diamo troppo così non vi
sarà mai resistenza: questa la tattica del presente: abboffare da un lato, e
cure dimagranti al tempo stesso, dall’altro …). Questi vorrebbero “ricostruire”
il “legame sociale”, sotto i crismi delle “destre redivive”, con di fronte gli zombie delle “sinistre iper borghesi”,
che non san dire altro se non che “l’Europa c’ha dato la pace”, ma bastasse
questo!, a fronte del patto “sociale”
– mo ce vo’ – che è saltato!
Il patto sociale non
c’è più, a che serve dire queste cose … Mah! Solo che, in questa decadenza –
prevista quarantun anni fa da Baudrillard! – non si deve vedere l’
“inefficacia” della “socializzazione”, ma il suo destino ineluttabile. O,
almeno, questa è la lezione che Baudrillard ci ha lasciato, ed è ancora ben
viva, per lo meno in alcuni.
Per lo meno in me, o da
parte “di chi scrive”, se vogliamo usare qualche più sfumata espressione.
Per tornare alla carica
“utopica” che aveva quest’autore, nonostante tutto, quel che diceva era: fa’
saltare il gioco, confondi le acque, usa l’ottica “situazionista”, scopri la
falsità del “sociale”, non star lì a
difendere il “sociale”, in modo inevitabilmente perdente (La sinistra divina, anni
Ottanta!!). Ma non c’è stato da far niente: in lunghi quarant’anni non l’han mai capito, né oggi lo capiscono.
Ignoranza invincibile …
Non per questo le cose
cambiano o gli è riservato altro destino, come ognuno può vedere oggi; e
qualunque cosa facciano – qualunque, ma proprio qualunque – perdono sempre. Non
ne vengono fuori. Questa considerazione, per altra cosa evidentissima, non li
smuove.
E dall’altra canto, Neues Europa? Nuova Europa?
Ma quale Neues? “Nuova”?
Ma quale “Nuova”?
Altes.
Vecchia Europa. Vecchissima.
A quando la resa, mi chiedo altrove.
Non si rendono conto
d’essere accerchiati, a sud, e ad est, ed ora pure ad ovest. Rimane il nord, ma
vi sono i ghiacci, molto più sciolti d’un tempo, anche recente, anche rispetto
agli anni Settanta del libro di Baudrillard, ma sufficientemente ancora ghiacciati
da poter bloccare.
Tornando a Baudrillard,
è stato, senza dubbio, un illustre
patafisico, ma pure l’ ultimo dadaista
– assieme, in parte, con Cage – del
secolo scorso.
Andrea A.
Ianniello
Un libro di qualche tempo fa giustamente prevedeva questo: “Per il momento,
l’economia è ancora sufficientemente stabile non soltanto per assorbire la maggior
parte delle critiche, ma anche per sfruttarle a fini commerciali. Tuttavia, a
partire dal nazionalsocialismo, la spaccatura del mondo in razionale e
irrazionale non solo non è stata superata, ma si è addirittura acuita. Nulla
può escludere una nuova esplosione dell’irrazionalismo rimosso. Infatti, gli
‘spiriti vitali dell’inconscio’ sono ancora ‘banditi dalla casa della
modernità’, e potrebbero ritornare in periodi di crisi, precisamente ‘dalla
porta di servizio […]’”, R. Freund,
La magia e la svastica. Occultismo, New
Age e nazionalsocialismo, Lindau, Torino 2006, p. 169. Come noi sappiamo,
la “Grande Crisi”, dal 2008, ha dato la stura a tutto ciò. In realtà, tra
l’altro, detto libro, pubblicato in Italia nel 2006, è, nell’edizione austriaca
originale, del 1995, questo per dire
come certe cose ci sono da tempo. Sulla deriva “identitaria” e di destra, sia
detto en passant, vi è un interessante passo, a proposito del
fatato che i nazisti furono tra i più gradi scatena tori della tecnica ed
insieme “mettevano in guardi” contro la “modernità”: “Da una parte si
presentarono [i nazisti] come un giovane partito moderno, votato all’idea di
progresso, in contrapposizione al vecchio sistema di partiti: a ciò
corrispondono le attività economiche nella grande industria, nella costruzione
di autostrade, nella progettazione di città, nella tecnologia degli armamenti.
Dall’altra parte, si cercò nel contempo di comportarsi come ammonitori contro
il modernismo e come protettori di valori eterni, e in questo è riscontrabile
anche il forte parallelo con i nuovi partiti della destra attuale: ‘Allora come
oggi, i radicali di destra sono però anche moderni
in una seconda accezione, assai più
basilare. Essi sono la risposta reazionaria alle crisi della modernizzazione
industriale condotta con i mezzi della modernità, di questo paradosso vive
ancor oggi il radicalismo di destra. Esso trae profitto dalla crisi
dell’industrializzazione e contribuisce allo stesso tempo a spingerla
all’estremo”, ivi, p. 159, corsivi
miei, mie osservazioni fra parentesi quadre. E non è affatto un “paradosso”, ma il semplice, necessario effetto di
un grave, grosso errore d’analisi a monte.
[i]
Il discorso sarebbe lungo, ma qui di
seguito un passo da un libro, interessante da riportarsi, può fornire qualche
utile spunto. “Il Magus, o il Celeste Investigatore,
Sistema Completo di Filosofia Occulta, è un grosso volume, molto ben
illustrato, apparso a Londra nel 1801. Più ampio nei suoi interessi di quanto
non siano di solito i ‘Libri Neri’, si presenta come una vera enciclopedia
delle dottrine magiche, divise in diverse branche. Francis Barrett, che
raccolse e preparò per la stampa il materiale, viene considerato il vero
successore nel diciannovesimo secolo dei maghi di un tempo; suo scopo
dichiarato era quello di restituire allo studio dell’occultismo quella dignità
che la filosofia ‘illuminista’ del suo tempo gli aveva negato. Barrett fu il
primo fra gli studiosi di queste discipline che si preoccupò di raccogliere e
presentare in modo sistematico le opere degli occultisti dei secoli precedenti.
Fu accusato per questo di essersi limitato a copiare il Quarto Libro De Occulta Philosophia, l’ Heptameron, il Lemegeton ed altri manuali del genere, senza contribuire in nulla
di originale. Questo è vero solo in parte. Il fatto stesso di aver riunito in
un uico volume, di facile consultazione, degli insegnamenti in precedenza
dispersi e praticamente irreperibili, è merito tutt’altro che trascurabile. In
questo, fra l’altro, anticipò l’impegno d’illustri studiosi delle scienze
occulte, primo fra tutti Eliphas Levi, cui venne fatto leggere il Magus durante il suo soggiorno in
Inghilterra, e ne rimase fortemente influenzato”, J. Sabellicus, Magia
pratica, vol. II, Edizioni Mediterranee, Roma 1984, p. 153, corsivi in
originale.
Interessante questo
commento su il Magus, di Barrett: “Nel
Magus di Francis Barrett, nella sezione
dedicata al cerimoniale magico, vi è una pagina che è importante in questo
contesto. Questo libro, pubblicato circa il 1800, è un miscuglio di sciocchezze
superstiziose e di alcune fondamentali informazioni magiche, quasi nelle stesse
proporzioni [vale a dire: Barrett non
comprendeva ciò che raccoglieva].
Adesso vi sono nuove edizioni di tale libro e lo studioso serio non farebbe del
tutto male a procurarsene una copia, se sa separare il grano dal loglio [cosa
non facile, senza delle “chiavi” di lettura], che è [il loglio] abbondantemente
presente. Alcuni passi portano molta luce su molti degli apparentemente strani
nomi – quasi ebrei – che appaiono in alcune antiche invocazioni. L’ebraico, in
questo testo, è orribile. […] I nomi son copiato da studiosi che conoscevano poco
o nulla di ebraico,così che, dopo che l’originale fu passato attraverso una
dozzina di mani insipienti […], il prodotto finale assomigliò assai poco a
quello che era all’inizio”, I. Regardie,
Teoria e pratica della magia. Tecniche
cabalistiche, magiche e meditative, Edizioni Mediterranee, Roma 1983, p. 147, mie osservazioni fra
parentesi quadre.
Regardie di seguito corregge
le inesattezze in ebraico di Barrett, e sa di cosa parla: “Nel Libro dell’Esodo
vi è un peana di gioia marziale a Jehovah dopo la traversata del Mar Rosso, che
si è aperto al passaggio dei figli d’Israele e poi si è chiuso sugli Egiziani e
i loro carri, distruggendoli. Qui Egli è chiamato Eesh milcomah, Guerriero:
‘Jehovah è un potente guerriero; Jehovah è il suo nome!’. Ricordo nettamente
questo passo della Torah, che veniva
cantato quando, da fanciullo, attendevo alla sinagoga. Tutta la melodia e lo
stile del canto cambiavano trionfalmente
quando il cantore intonava: ‘Io canterò Jehovah perché ha trionfato
gloriosamente! … La tua mano destra, o Jehovah, è divenuta gloriosa nel potere;
la tua mano destra, o Signore, ha fatto a pezzi il nemico; … Chi è uguale a te
fra gli dèi, o Jehovah?’. (Le iniziali ebraiche di quest’ultima frase vennero
usate secoli dopo per formare il neologismo ‘Macabi’ [donde Maccabei]). Nessun ascoltatore poteva
fare a meno di sentirsi gelare il sangue nelle vene. Geburah, in una parola, è l’aspetto della creatività come energia. Tutti
i suoi simboli, da qualsiasi fonte provengano, mitologici o altro, si riferiscono
esclusivamente a questa nozione. Poiché è la quinta nel nostro schema, tutte le
figure a cinque punte, simboli, idee, eccetera, sono riferite ad essa”, ivi, pp. 88-89, corsivi in originale,
miei osservazioni fra parentesi quadre. La prospettiva di Regardie – che
rientra nella cosiddetta “riscoperta” del “magismo” della prima metà del XX
secolo (in realtà erede del XIX sec.,
come le prima due citazioni, di qui su, suffragano) – è in parte giusta, in
parte sbagliata. La parte giusta è dove lui parla della magia come scienza
“sperimentale” (e qui Guénon avrebbe approvato); la parte sbagliata è dove in
pratica equipara la “luce astrale” e “l’inconscio collettivo” di Jung (cf. ivi,
p. 62, ma lo accetta con più riserva, invece, a p. 69), quando le due cose solo in parte coincidono, son due
insiemi con una parte in comune, ma non son affatto lo stesso insieme.
Quest’errore va sottolineato, qui soltanto sottolineato, perché discuterne ci
porterebbe troppo lontano. Un’interessante osservazione, che qui c’interessa
(come blog) “a prescindere” (avrebbe detto Totò), la trae Regardie da un
rituale della “Golden Dawn”: “Vi sono molte rappresentazioni simboliche nella
parola ebraica pardes, che significa
paradiso ed anche giardino. Alcuni dei primi cabalisti riferirono le sue
lettere, Peh, Resh, Daleth, Samech, ai quattro fiumi che […] son
detti fluire dal Giardino dell’Eden. Per esempio, nella Golden Dawn, uno dei
primi rituali conteneva i seguenti
riferimenti: ‘[…] Phrath (Eufrate):
Terra, che scorre in Malkuth … Il
Fiume che esce dall’Eden è il Fiume dell’Apocalisse, le Acque della Vita,
chiare come cristallo, che procedono dal Trono ai due lati dell’Albero della
Vita, portando ogni sorta di frutti”, ivi,
p. 146, corsivi in originale. Al di là del senso, anche positivo, che ha l’Eufrate, nell’ Apocalisse di Giovanni simbolizzano quelle potenze che vogliono “il
dominio di Malkuth”, che vuol dire il Regno,
insomma: la Terra tutta. Il
dominio della Terra, non nel senso di “elemento”, ma nel senso di globo,
insomma.
Regardie ha fatto parte
della “Golden Dawn”, l’ “Alba Dorata”
ritornata in auge recentemente, sull’onda delle “mitologizzazione” della
politica, sulla quale metteva in guardia, già illo tempore, R. Freund, citato nella nota 16 (cf. ivi, pp. 135-137).
Sia detto “a chiare lettere”, seppur en passant, che il magismo è sempre
stato pericoloso, ma mai come oggi, per molti motivi; ed
è come giocare in Borsa: la cosa migliore è non farlo affatto. Se c’hai giocato
e t’è andata bene, ringrazia Dio, e tieniti da parte … Comunque, 1800, il
numero 18 che torna, la lama XVIII dei Tarocchi, intitolata la Luna, la “luce
astrale” cioè, tra l’altro quella Luna dalla quale, secondo Gurdjieff, ci
dovremmo liberare …