venerdì 24 ottobre 2025

FRASI 10

 

 

 

 

 

 

 

Una massima giapponese recita: Kantan na mono yoku sho o seisu (“L’equilibrio tra la vittoria e la sconfitta dipende spesso da questioni semplici”). […] Ciò non significa che sia sufficiente praticare solo le tecniche elementari”[1].

GICHIN FUNAKOCHI, Karate Dō Nyūmon, Edizioni Mediterranee, Roma 1999, Prefazione all’edizione inglese di Motonobu Hironichi, p. 9, corsivi in originale.

 

40. Vivere senza infelicità

Disse Huitang:

Le cose trascurate per lungo tempo non possono essere ripristinate in un batter d’occhio.

I mali che si sono andati accumulando per anni non possono esser spazzati via in un attimo.

Non ci si può divertire sempre.

Le emozioni umane non sono perfette.

Non si evita la sventura cercando di sfuggirla.

Chiunque insegni ed abbia capito queste cinque cose, potrà vivere senza infelicità.

lettera al maestro Xiang”.

Lezioni di Zen. L’arte di comandare, Edimar, Milano 1996, p. 46.

 

Il nemico ammassato è peggiore del nemico diviso.

Affrontare il nemico con lo yin è meglio che con lo yang”.

I trentasei stratagemmi, a cura di G. Casacchia, Guida editori, Napoli 1990, p. 55, corsivi in originale.

 

Bisogna dire che le pseudo-scienze [questo giudizio è UN ERRORE: scienze “NON MODERNE”, questo sì ch’è più giusto] basate su tali concetti, molto diffuse in Cina, contenevano dottrine utili che non potevano essere considerate semplice superstizione. Centinaio di precetti collegati alla teoria yin-yang garantivano buoni risultati (come dimostra […] la medicina cinese) e molti di essi potevano essere spiegati facendo riferimento alla scienza occidentale [che in realtà non “spiega” proprio niente, perché si tratta di una diversa mentalità che non può essere “ridotta” a quella della “scienza occidentale”]. Le corrispondenze yin-yang hanno fortemente influenzato l’immagine culturale della guerra e i metodi di lotta. La guerra provoca distruzione e morte ed è, dunque, chiaramente governata dalla forza yin, ma ha bisogno d’una certa durezza e di armi affilate. Perciò, la stagione adatta è l’Autunno, dominata dall’energia mistica [“sottile” direi meglio] del Metallo. La sottile Arte della Guerra era anche identificata con l’Acqua, che è essenza della forza yin, col color Nero e con la notte che è il tempo più favorevole. La guerra era perciò un’arte «nera», segreta, e il suo principio di base era che «il molle vince il duro» (come l’acqua sgretola la pietra). Chiunque la praticava doveva esser «molle» e «mite», doveva, come l’acqua, adattarsi alle circostanze, ma, con manovre nascoste e segrete, doveva anche creare «fratture» nel campo avversario ed indebolirlo poco alla volta, usando le stesse forze del nemico per distruggerlo. Doveva colpire solo nei punti più deboli dove non c’è resistenza, e solo al momento propizio.

Con queste manovre segrete, la vittoria della giustizia era assicurata, come il trionfo della forza yang segue il culmine della yin, e come la pace risulta dalla guerra e la Primavera nasce dall’Inverno. L’espressione simbolica della lotta[2], dell’Acqua e dell’Inverno erano i Guerrieri Neri: il serpente nero[3], che lotta contro la tartaruga[4], può essere sconfitto solo con un morso ben assestato”.

Ivi, Introduzione di K. Gawlikowski, p. 20, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre.

 

Lo yin è dentro lo yang, non è opposto ad esso. Il massimo dello yang è il massimo dello yin”.

Ivi, p. 47, corsivi in originale, grassetti miei.

 

Ben presto il governo veniva trasferito a Canton, mentre Mao Tse-tung poteva ironizzare sul vuoto che ormai circondava Nanchino, la “Città di Pietra”, ricordando una poesia della dinastia Yuan:

Dall’alto della Città di Pietra,

si vede il cielo basso sul paese di Wu e di Chu,

in un vuoto immenso dove niente ferma lo sguardo.

Nei punti strategici celebri sotto le Sei Dinastie[5],

soltanto le montagne verdeggianti si ergono come mura.

Là dove le bandiere nascondevano il sole,

là dove le aste dei vessilli di guerra arrivavano alle nubi,

le ossa sparpagliate sono bianche come la neve.

A nord del Fiume, ed anche a sud

quanti eroi caduti!’”[6].

J. GUILLERMAZ, Storia del Partito comunista cinese 1921/1949, Feltrinelli Editore, Milano 1973, p. 465.

Si tratta del cap. XXIX ricordato nel commento al testo sugli “Stratagemmi” qui su ricordato.

 

A questo punto si fece avanti un uomo risoluto: - […] I segni son chiari. Il vostro antenato ha catturato un drago nero. Da tempo, nel Qin il primo mese comincia alla decima luna, l’ultima dell’inverno. Il vostro governo è quello delle leggi e dei castighi. Voi avete vinto con la spada. Il vostro regno non può essere che quello dell’acqua. Infatti l’acqua corrisponde all’inverno, stagione dei castighi! - D’altronde, - rincarò un cortigiano, - la sua cifra è anche l’emblema numerico del cielo. - Giusto! - approvò l’Imperatore, stanco.

Così fu deciso che il decimo mese sarebbe stato in tutto l’Impero l’inizio dell’anno. Ogni cosa avrebbe avuto origine nel primo giorno della decima luna. In questo giorno le delegazioni dell’Impero sarebbero venute alla capitale a porgere i loro auguri, render conto della loro amministrazione e ricevere le nuove direttive. Per quanto riguarda vesti, abiti, pantaloni, tuniche, stendardi, bandiere e cavalli, doveva dominare il nero. Sei era il numero corrispondente all’inverno. Divenne unità legale di misura. I cappelli ufficiali dovevano essere di sei pollici. Lo scartamento delle ruote dei carri fu portato come regola a sei piedi, il passo a sei piedi. La carrozza imperiale fu tirata da sei cavalli neri o un multiplo di sei. Il Fiume giallo fu ribattezzato «Virtù dell’acqua». Fu deciso che i supplizi sarebbero stati applicati con maggior rigore ancora, che il governo sarebbe stato inflessibile, che nessuno poteva sperare in una qualsivoglia clemenza del sovrano”.

J. LÉVI, Il grande imperatore e i suoi automi, Einaudi editore, Torino 1986, pp. 195-196, corsivo in originale, grassetti miei[7].

 

Chi sa far muovere l’avversario lo costringe ad adattarsi alla propria disposizione, e gli offre qualcosa che non può non prendere. Lo fa muovere con la speranza d’un vantaggio, e con le truppe lo attende al varco”.

SUN TZU, L’arte della guerra, Newton Compton editori, Roma 1994, p. 40,, corsivi e grassetto miei[8].

 

Anche quando sei impegnato in combattimento contro un avversario […] leggi nella sua mente. Se t’impadronisci della varie tecniche del ritmo, potrai vincere in qualsiasi circostanza. Devi discernere molto bene questo. […]

Se tu pensi solo a parare, a colpire, ad incrociare a resistere o a sfiorare, non riuscirai mai a concentrarti […] Se si prende a paragone una battaglia campale, le posizioni degli eserciti corrispondono alle posizioni dei scherma. Tutto può essere un mezzo per vincere in battaglia. Legarsi ad una sola posizione è da evitare”.

MIYAMOTO MUSASHI, Il libro dei cinque anelli, Edizioni Sannō-kai, Padova 1984, pp. 45-46[9].

 

Soprattutto devi evitare il pericolo, gli attacchi, affrontare le forze nemiche solo con la massima prudenza, e …”.

G. LEBLANC, Le confidenze di Arsenio Lupin, Feltrinelli Editore, Milano 2025, p. 11, corsivi in originale.

 

 

 

Se si pensa di sfuggir del tutto alle “suggestioni” si rischia di NON vedere quelle più grosse, cautelandosi e difendendosi da queste ultime … cioè le più pericolose. Senza contare che, poi, cambieranno nel corso del tempo le suggestioni: dunque NON SI commetta l’errore di credere di “averla sfangata” una volta per TUTTE … perché così non è affatto.

Serve una vigilanza continua, nondimeno: un eccesso di vigilanza porta inevitabilmente ad uno stato di tensione continuo che, oltre a non esser buono per la salute, fa scendere la soglia dell’attenzione, quindi – volendo far bene –, alla fine si fa male … Occorre quindi modificare anche il proprio “atteggiamento di fondo” per così dire.   

In tal senso, un utile consiglio potrebbe – chissà – esser quello che segue: È inutile ripetere che per il samurai il guerriero ideale aveva come ultimo fine la morte e che la sua prima preoccupazione era che il modo in cui vi giungeva non fosse sfiorato dall’onta del disonore. Di conseguenza, ingaggiare battaglia con superficiale idea della morte era considerato controproducente. È psicologia spicciola, come ognuno di noi ha potuto sperimentare. Tanto più possiamo apprezzare le esortazioni rivolte da Uesugi Kenshin[10], uno dei grandi comandanti del XIV secolo, ai suoi uomini: «Andate sul campo confidando nella vittoria e tornerete a casa senza ferita alcuna. Affrontate la battaglia decisi a morire e vi ritroverete sani e salvi; il desiderio di sopravvivere alla battaglia vi porterà alla morte. Lasciate la vostra casa convinti di non rivederla più e la rivedrete: se pensate di tornare, non ritornerete»”, R. STORRY, Samurai. I guerrieri aristocratici, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1978, p. 49, corsivi in originale, grassetti miei, mie osservazioni fra parentesi quadre.

Come ha sottolineato una delle più importanti autorità moderne dello Zen, «uno che sa lottare è in genere un’asceta o uno stoico, ha cioè una volontà di ferro. Se necessario, lo Zen la può fornire». Da tener presente è anche l’estrema importanza che lo Zen attribuisce all’intuizione, mentre rifiuta l’intelletto razionalizzante e verboso. Di regola la mente di un guerriero non è molto portata alla speculazione metafisica o al dibattito filosofico, da cui rifuggono coloro che praticano lo Zen. Questa dottrina rivela la sua essenza nell’azione, mentre si perdono forza ed immediatezza quando se ne tenti una spiegazione e un’analisi. Lo Zen è un po’ come andare in bicicletta, cosa che in teoria sembra difficile, se non addirittura impossibile: solo che non è alla portata di tutti [come l’andar in bicicletta, nota mia] e, talvolta, forse di nessuno”, ivi, pp. 44-46, corsivi in originale, grassetti miei, mie osservazioni fra parentesi quadre.

In pratica: è come “mettere a fuoco” cioè si cerca, si ricerca, ma il “focus” viene ottenuto improvvisamente immediatamente. Si ha come un accumulo che – una volta raggiunta la “massa critica” – dà l’inevitabile risultato. E così è anche per la consapevolezza delle suggestioni …

Una parte importante del tirocinio zen tendeva a liberare lo honshō, cioè il vero carattere della persona. Non era tanto un processo di costruzione, quanto di eliminazione di qualsiasi elemento estrinseco, fino a raggiungere lo stato di mu, ‘nulla’, ‘vuoto’, ‘non essere’: condizione in totale disaccordo con la fede cristiana, che sottolinea invece il totale pericolo in cui l’anima si trova quando è lasciata inerme […] ma molto simile, invece, se non identica, alle pratiche meditative esoteriche note allo Shintō. Questo legame tra Shintō e Zen è così argomentato dallo studioso Fujiwara Chikao: «Un’infarinatura di Buddhismo zen è necessaria per la comprensione della cultura tradizionale giapponese nel suo insieme […] Ma pochi son coscienti dell’innegabile fatto che il Buddhismo raggiunse l’apice del suo sviluppo sotto la pressante influenza dello Shintō, che costituisce il nocciolo del modello culturale giapponese [molto vero, nota mia]. Lo Shintō dava al samurai una connotazione locale, il Confucianesimo un codice etico[11], lo Zen ne forgiava lo stile in pace e in guerra. Questa ‘triplicità’ tipicamente giapponese non fu mai armoniosa: la bilancia pendeva a favore dell’uno o dell’altro secondo la moda, il periodo storico, le tradizioni locali[12], l’estro personale»”, ivi, p. 48, corsivi in originale, grassetti miei, mie osservazioni fra parentesi quadre. In pratica, però, parlano di due cose diverse: non è tanto “lasciare l’anima inerme” quanto un “vuoto” che apre alla pienezza.

 

Andrea A. Ianniello

 

 

PS

Ecco le cose che ricordo d’aver trovato interessanti  nello scorrere un libro intitolato, mi pare, Ichigon hōden, in cui sono raccolte le parole di venerabili saggi:

Quando si è in dubbio se fare o non fare una cosa, è meglio astenersene.

Colui che tende alla vita futura non deve possedere neppure un vaso di miso.

Ed anche per i testi e le immagini religiose, è futile averne di preziosi.

Chi si è ritirato dal mondo è bene che organizzi la sua vita in modo di non sentir la mancanza di nulla, anche se nulla possiede.

Le persone d’alto rango dovrebbero comportarsi come se fossero d’umili origini, i saggi come stolti, i ricchi come poveri, i capaci come incompetenti.

Colui che vuol seguire la Via del Buddha non ha altra strada da scegliere che questa: dar riposo al corpo ed astrarsi dalle cose di questo mondo: è la via maestra.

Oltre a queste, altre cose interessanti v’erano, ma più non le ricordo”, KENKŌ, Ore d’ozio, SE, Milano 1993, pp. 65-66, corsivi in originale. Il “ricordo” è tutto: è RI-COR-dare

 



[1] Il senso del termine “tecnica” (cioè waza) in Giappone non è lo stesso che in Occidente: “La parola tecnica può implicare il pensiero razionale (ad esempio, le tecniche matematiche). Tuttavia un waza è per definizione un riflesso condizionato. L’impiego dei termini giapponesi impedisce al lettore d’inserir eventuali idee preconcette nel testo”, F. LOVRET, La via della strategia. I segreti dei guerrieri giapponesi, Edizioni Mediterranee, Roma 2009, p. 19, in nota, corsivo in originale, grassetti miei.

[2] La “lotta” è - per Mao - il modo di “riduzione” della “contraddizione” la quale altro non è se non l’espressione “sociale” della relazione cosmologica yin-yang, cf.

https://associazionefederigoiisvevia.files.wordpress.com/2019/01/dialettica-yin.pdf

[3] In questo momento siamo nell’Anno del Serpente … 

[4] Ricordo la tartaruga di Karakorum, la capitale di Gengis Khan, per esempio, tra le poche vestigia rimastene, cf.

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/82/Turtle-Karakorum.jpg 

[5] 220-589 d.C.

[6] Ricorda un po’ Il Deserto dei tartari, di D. Buzzati, o – almeno – talune scene del film omonimo.

In ogni caso: distese senza fine, di cui si parla pure in un precedente post, in nota, cf.

https://associazione-federicoii.blogspot.com/2025/10/frasi-9.html 

Quanto ad oggi, possiamo ben dire che: la – symbolica! – “Fortezza Bastiani” è vuota! E basta un pungo di – sempre symbolici – “Tartari” per prenderla …

Tra l’altro, il film – omonimo – è dell’ormai lontano 1976 … L’anno prossimo saran passati ben cinquant’anni e l’interpretazione che oggi se ne può dare oggi è ben diversa da quella del libro e del film originali. Non più – dunque – “una metafora del senso della vita” come qualcuno ha scritto, né un’ode all’attesa, che pure c’è nel film, attesa che ha valore in sé stessa, che pure ha in sé stessa il suo premio ed il suo valore: tutto questo c’è – nessun dubbio a tal proposito –; ma oggi vediamo le cose BEN DIVERSAMENTE, ben diversamente. Per noi – OGGI – NON è più questo “IL” sensus eminentior, ma è la metafora del mondo in dissoluzione nel quale viviamo, mondo che basta una piccola cosa perché cada, cioè perché – in termini corretti – la sua strutturale crisi raggiunga il “punto d’indecibilità” come lo si è chiamato qui “in tempi non sospetti” ed illo tempore.

[7] In realtà, i Qin [Ch’in] eran diversi all’inizio: “Ma non soltanto in quel libro è narrato un caso simile. Nel passato mentre un giorno il duca Mu di Ch’in stava nel tempio ancestrale, entrò un genio che si pose alla sua sinistra: aveva il volto di un uomo ed il corpo d’un uccello [proprio come i geni di Babylonia!], un vestito a tre spacchi, il comportamento corretto [MOLTO INTERESSANTE quest’osservazione!].

Al vederlo il duca si ritrasse spaventato, ma il genio gli disse: “Non aver paura! L’imperatore del Cielo garantisce la tua luminosa virtù [NB] e mi ha dato l’incarico di conferirti una longevità [NB] di nove decine di anni, di render prospero il tuo regno ed abbondante la tua discendenza che non finirà mai”. Il duca Mu di Ch’in s’inchinò rispettosamente con la fronte a terra [“kow tow”] e disse: “Oso chieder il tuo nome, o genio”. Quello rispose. “Sono Kou-mang”. Se accettiamo come prova ciò che il duca Mu di Ch’in vide personalmente, come possiamo mettere in dubbio l’esistenza degli esseri soprannaturali?”, Il Libro del sublime Mo-tzu, Gian Marco Bragadin Editore, Milano 1996, pp. 278-279, mie note fra parentesi quadre. In nota, il traduttore (F. Tomassini) scrive: “In realtà il testo dice: Il duca Mu di Chêng, ma il commentatore riferisce l’episodio al duca Mu di Ch’in (659-621). Kou-mang, nominato appresso, era il genio tutelare degli alberi nei mesi primaverili”, ivi, p. 289, corsivi in originale. Ch’n, come detto, è solo un’altra traslitterazione di Qin, parliamo dunque dello stesso stato “combattente” da cui partì la prima unificazione dell’Impero cinese. Ora, in quel tempo, le famiglie nobili – esattamente come spesso anche in Occidente – prendevano il loro nome dallo stato e dalla zona di nascita e che gestivano. Tutte le dinastie cinesi un tempo prendevano il nome d’un luogo, solo a partire dalla dinastia mongola Yuan presero come nome un titolo astratto. Tra l’altro, gli Yuan diedero inizio alla carta moneta, detta per  l’appunto in cinese lo “yuan” cinese, dal quale viene il giapponese “yen” che altro non è se non la pronuncia “nipponizzata” dello stesso termine fonetico, una resa fonetica migliore che in italiano, dove lo si pronuncia: “ywan” quando invece “yu” = ü (la “u francese”) ed “a” qui è la “a inglese” di “man” o “land” (che “gl’itagliani” pronunciano: è [non é, che oggi gl’itagliani riescono persino a confondere, usandole senza distinzione!]) per cui si dovrebbe pronunciarlo – “italianizzandolo” – esattamente come in giapponese: cioè “yèn”. Poi vennero i “Ming” (luce) e i “Qing” [Ch’ing] (chiaro, puro).

Il Mo-tzu [Mozi] è senza dubbio il meno noto fra i “Classici” cinesi, ed è anche, nel testo giunto son ora,  piuttosto frammentario, perché si son persi vari capitoli, che son frammentari; tuttavia, è anche il mio preferito: ciò perché riecheggia degli aspetti della religiosità popolare cinese, che poi sarebbero stati “purificati” dal culto confuciano – culto ufficiale –, mentre il Taoismo ne darà poi una sua versione “filosofizzata” per così dire; però a me interessava il culto popolare, non quello reso “filosofico”, men che meno quello filtrato dal “filorientalismo” di una parte del XX secolo. Come si vede, proprio il Mo-tzu [Mozi] fa trasparire temi che, in seguito, sarebbero entrate in ciò che noi – OGGI! – si chiama: “religione popolare cinese” cioè un sincretismo di varie credenze, basato tuttavia sul “culto degli ‘spiriti’” tuttavia, e cioè quel che vediamo citato – apertamente, non indirettamente, come nei Classici confuciani – da Mo-tzu. (In Cina il testo d’un pensatore prende il nome di quel pensatore stesso, dunque Mo-tzu l’individuo e Mo-tzu il testo)

Il “sovrano” in realtà – giunto al limite del dominio della legge “giusta” – non si sarebbe proprio dovuto interessare del governo: “al limite”, sarebbe giunto – per paradossale che possa sembrare agli “occidentali” – al wu-wei famoso … Secondo i “legisti” cinesi, diversamente dai confuciani, il giusto governo non era dunque quello d’un sovrano giusto, ma quello d’una legge giusta …

[8] Altra traduzione: “Nella battaglia caotica e fragorosa, le truppe che manovrano ordinatamente, muovendosi circolarmente su se stesse, non possono essere vinte. Ciò che sembra confusione […] postula ordine e disciplina, ciò che sembra viltà, postula coraggio; la debolezza postula la forza.

Commento del letterato Tu Mu, funzionario della corte imperiale: «Vuol dire che, se uno intende simulare disordine per ingannare il nemico, deve in realtà essere molto ben disciplinato; soltanto così può fingere confusione. Chi desidera apparir debole per rendere il nemico audace ed impudente, dev’essere in realtà fortissimo; soltanto così può simulare debolezza. Se si vuol fingere vigliaccheria, per indurre il nemico ad avanzare con vana baldanza, si dev’essere molto coraggiosi: soltanto così può simulare timore». 

Ordine e disordine dipendono dall’organizzazione; coraggio e viltà dalle circostanze; forza e debolezza dalle disposizioni. Così, il generale esperto induce il nemico a muoversi, e ad assumere un certo schieramento. Lo adesca con qualcosa che il nemico è sicuro di prender e, attirandolo con l’illusione di un piccolo vantaggio, gli tende un’imboscata con ingenti forze”, SUN TZU, L’arte della guerra, Baldini & Castoldi Dalai editore, Milano 2011, pp. 38-39, corsivi in originale.

Altra versione: “Pertanto un comandante qualificato a neutralizzare un nemico in movimento sostiene false impressioni; secondo tali impressioni il nemico sarà portato ad agire.

Egli sacrifica qualcosa affinché il nemico possa cadere in trappola. Brandendo delle esche egli lo terrà in movimento; poi, con un drappello di uomini scelti, fingerà di attenderlo”, L’arte della guerra, RL Gruppo Editoriale, Santarcangelo di Romagna (RN) 2009, p. 21. Vi è la vecchia versione di R. Padoan, che ha un’ ottima Prefazione, davvero “al punto” ma la traduzione al contrario è troppo verbosa: gira troppo intorno alle cose, il che la lingua cinese NON CONSENTE affatto. In cinese devi venire al punto, mentre credo l’italiano sia tra le lingue che più consente di “menar il can per l’aia” e gironzolare intorno alle cose SENZA MAI venir al punto, cosa che la lingua cinese non consente mai. Per questo i cinesi hanno sviluppato mille modi per blandire, per girare intorno alle cose negli atteggiamenti, perché la loro lingua non glielo consente di fare se non in modo minimo: devi venire al punto. La versione di T. Cleary, al contrario, riecheggia abbastanza bene la stringatezza del teso cinese originale. La lingua cinese, diceva J. Gernet, è una lingua per dare ordini, messaggi brevi, chiari e forti, non per letterature varie; poi è divenuta, inevitabilmente, linguaggio di civiltà ma tal “imprinting” originale gli è rimasto. In cinese la lingua dev’essere potente, o non essere. La natura letteraria vien ottenuta come si vede nei Classici cinesi: si torna e ritorna - più o meno -, con varie differenze, su temi simili o correlati, di volta in volta dandone un aspetto diverso: poi alla fine – alla fine! – ne verrà fuori un quadro generale, ma solo in una visione complessiva. Son messaggi netti, “frasi fatte”, “cartelli” come dico, non bisbigli, men che meno l’italica verbosità “pervadente”, la malattia dell’ “HYPER” AGGETTIVAZIONE, dei “PAROLONI” a IOSA, che c’è nella lingua italiana.

Nella lingua cinese l’efficacia dell’effetto voluto – tutto sommato – supera la verbosità che invece predomina in italiano, l’effetto retorico vano e inutile, insomma.

Ma continuiamo il passo dall’ultimo testo, ch’è interessante: “Il bravo comandante mira al fine della combinazione di energie e non chiede troppo agli individui. Qui risiede la sua capacità di scegliere gli uomini giusti ed utilizzare i due metodi verso l’obiettivo.

Quando egli applica il metodo dell’energia combinata i suoi soldati si comportano come se fossero tronchi rotanti o macigni. Perché è nella natura del tronco o delle pietre di rimaner immobili quando si trovano su d’un piano e muoversi quando si trovano su d’un declivio; se sono squadrati restano in attesa, ma se son rotondi rotolano verso il basso. In conclusione l’energia sviluppata dai buoni combattenti è paragonabile all’attimo in cui una pietra rotonda precipita da una montagna alta mille piedi. Così potenti son coloro che compiono l’impresa”, ibid.; si tratta – come si legge a p. 1 – della versione italiana della vecchia traduzione di L. Giles, dell’ormai lontano 1910 Il volumetto è “corredato” da un’ampia Bibliografia. Insomma: “Come una macina di pietra contro delle uova …”. Questo è il “potere” …

[9] In esergo vien ricordato il significato di “Sannō-kai”: “Le Edizioni Sannō-kai si fregiano dell’insegna ideografica del dio shintoista Sannō che dimora sulla vetta del sacro monte Hiei. Dio guerriero ed androgino il «Gran Kami delle vette», il «Signore della Montagna» si trasforma in freccia rutilante che viene rappresentata che viene rappresentata dall’ideogramma san (= yama = montagna) sovrapposto all’ideogramma ō (che i cinesi leggono wang): Re, Signore, Dominatore”, ivi, corsivi in originale, grassetti miei.

[10] 1530-1578 d.C.

[11] In Giappone il Confucianesimo è – soprattutto – etica: cioè non ha quelle venature religiose che ha conservato in Cina e Corea. Nonostante ciò, si ricorda un tempio, un unico tempio, dedicato in Giappone a  Confucio e ai suoi discepoli.

[12] Molto importanti in Giappone, ma direi che ciò vale per tutta l’Asia orientale: le “varianti locali” vi hanno un peso enorme, talvolta.

 

 

 

 

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