mercoledì 24 febbraio 2021

Altra questione importante … [da un vecchio frammento, del **2004** …]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Altra questione importante.

 

Negli scritti trovati sul web e riportati nella sezione “Discussioni”, si critica Guénon e si dice che non si sa bene da dove lui abbia tratto le date cicliche, che non corrispondono con quelle a tutti note nei Testi Indù.

 

Ebbene, una serie d’osservazioni importanti s’impongono.

 

1. Da un lato, le corrette date cicliche son sempre state occultate e, se Guénon si è deciso a renderle pubbliche, è per ragioni gravi. Ecco che la prudenza non si oppone necessariamente all’esplicitezza.

 

2. Tali date derivano da qualcosa di preciso. Se si osserva bene, la data centrale dell’articolo sui cicli (il primo in Forme tradizionali e Cicli cosmici) è la Precessione degli Equinozi, ben nota dall’antichità (ed anche gli autori de Il Mulino di Amleto vi hanno imbastito su tutta una serie di teorie).

 

3. Come si giunge alla data 6.480, in luogo di 432 con più o meno zero, ed è quest’ultima che trovasi nei Testi Indù.

 

Ora, la durata del ciclo di Precessione è di (32x72)x10 = 25.920.

 

La metà del ciclo di Precessione è 12.960, cioè il “Grande Anno” degli antichi. Quindi, Guénon parte dal ciclo di Precessione degli Equinozi.

 

Se facciamo 25.920/6 abbiamo 4320, cioè il numero base dei cicli indù.

 

Se facciamo 25.920/12 abbiamo 2160, che è la durata di un’ èra zodiacale, cioè la durata dell’apparire il sole al punto vernale (=21 marzo) in una determinata Casa zodiacale, connessa con [la] costellazione che la nomina [le dà il nome]. Quelle dello Zodiaco sono le Case, non le Costellazioni: di qui l’incomprensione di chi critica lo Zodiaco affermando che le Costellazioni più non corrispondono con i segni, che sono le Case (segno = Casa). Di qui alle cosmologie cosiddette “gnostiche” delle “Case celesti” dalle quali liberarsi il passo è breve; tali cosmologie nascono nell’ultima fase della cosmologia e della filosofia greche (quella ellenistica), dove il Cosmo si negativizza e da esso bisogna liberarsi. Le Case zodiacali sono gli strumenti dell’eimarmènê, il kýklos tês genèseôs, insomma il samsâra.

 

Ora, gli Yugas, le “ère”, cioè in greco aiônes, gli “Eoni”, quanti sono? Forse sei?

 

Ma nient’affatto. Son quattro.

 

Si faccia dunque 25.920/4, e si otterrà, precisamente, il numero 6480. Esso è la “durata” del Kali-Yuga.

 

Ottenuto questo, tutto il resto diventa facile da calcolarsi.

Difatti, le proporzioni fra gli Yugas [sono] precisamente quelle indicate dalla Tetrakýs dei Pitagorici. Essa dà 10, ma come somma consecutiva di 4, 3, 2, 1.

 

Cioè: 4+3+2+1 = 10.

 

Vale a dire: la durata del Ciclo totale (di “una umanità, il Manu-ântara = Manvântara) è la durata del Kali-Yuga moltiplicata per 10. Cioè: 64.800.

 

 

 

 

 

Osservazioni conclusive.

 

Sottolineo due cose, come ho più volte fatto, ma è certo che l’importanza decisiva di tali cose è passata poco osservata.

 

I) E’ la durata di un’umanità, cioè: gli antichi, Greci, Babilonesi, Indù, Romani, Celti, ecc. ecc., insomma proprio tutti, [pensavano] che al termine di un Grande Anno il Kosmos fosse rinnovato da una catastrofe ciclica, che veniva concepita come un “Diluvio” (quello che distrusse Atlantide) oppure come un “Gran Fuoco distruttore” (le due cose sono la stessa cosa vista da due lati: sarebbe lungo spiegare come, ma voglio solo suggerire che le due cose sono meno diverse di quel che sembra, potremmo chiamarle differenti negli effetti ma non nella causa …).

 

Ciò è accaduto con la fine dell’Atlantis. Qui però è qualcosa di più, nel senso che le altre “catastrofi cicliche” le ha vissute questa stessa umanità, mentre, al termine di questa ventura non vi sarà più questa umanità.

Non è cosa da poco

 

Quindi, il Regno dell’Anticristo necessariamente sarà qualcosa di particolare.

 

Questo mio sottolineare quest’ultimo punto pare in contrasto con il fatto che sempre ho ripetuto: “la fine dei tempi sarà soft …”. Non lo è, a parte perché ho descritto che la prima parte del Regno dell’Anticristo sarà, sì, soft, e però sarà seguita dalla seconda parte, quando vi sarà una necessaria “præcipitatio”, che non lo è – si diceva – soprattutto perché il mio sottolineare l’essere “soft” del Regnum Antichristi deriva dal fatto che noi, quando si pensa a tali cose, è naturale si vada con la mente (direi di più: con l’immaginario), ad Adolf Hitler.

 

Indubbiamente, vi è una ragione, perché Hitler, seppur malvagio, fu osannato dalle folle ed apprezzato dagli statisti esteri, con poche eccezioni (soprattutto Churchill). Qui vi è un parallelo, ma finisce qui: il resto è (e sarà) del tutto differente, l’Anticristo non essendo tanto uno statista né un capo di partito o un “capopopolo” (come suol dirsi), ma un “maestro”, che spingerà altri a [se del caso] commetter delitti ed efferatezze (nella seconda fase).

 

 

La seconda cosa da sottolineare la pongo distinta.

 

II) Che noi ciò che conosciamo son i riflessi, nel Kali-Yuga, dei precedenti Yugas.

 

Difatti, vi è un’età dell’Oro, una dell’Argento, del Bronzo, del Ferro, nell’età del Ferro tutta. Se noi si calcola, infatti, la durata del Kali-Yuga, secondo Guénon, che ebbe ragione – mi spiace per l’incomprensione di molti –, ebbene tutte le tre ultime ère zodiacali a noi note vi sono contenute: èra dei Pesci (la nostra), dell’Ariete (quella delle civiltà preclassiche, egizia, cinese antica, babilonese, ecc.: le basi della civiltà), e del Toro (le prime civiltà: egizia dell’Antico Regno, çatàl Hüyük, ecc.). Dietro non sappiamo molto, e quel che [ne] sappiamo, anche dei primi tempi del nostro Yuga, si riduce a molto di leggendario. Se dovessimo ricostruire quelle mentalità avremmo degli ostacoli insormontabili, anche da parte di uomini “religiosi” e “tradizionali” di OGGI.

 

Il fatto è che vi è l’ultima, e difficilmente sormontabile, “‘barriera’ della storia”: quella del VI secolo a.C., secondo Guénon.

 

Ed anche questo va sottolineato.

 

 

F. C.’ [2004, da me rivisto ieri,

rovistando caoticamente

tra vecchio material.

Andrea A. Ianniello]

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 22 febbraio 2021

Una nota

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una piccola osservazione. Sempre in G. Galli, “Hitler e la cultura occulta”, RCS Libri, Milano 2013, si parla – nel cap. 15, pp. 185-201 – della relazione fra Jünger e Gurdjieff per la salvezza di Parigi dalla distruzione pianificata da Hitler. Ora, si sa di molti viaggi di Gurdjieff a Vichy: e qui si potrebbe aprire una “parente” – diceva qualcuno) – su questi temi, la Francia occupata e le relazioni con i nazisti, molto più diffuse di quel che non si creda, ecc. ecc. (il libro di Mackness e Patton, più volte ricordato, ne parla), ma **non è** importante qui (anche se, sul testo di Mackness e Patton si vedrà di tornarci su).

Tali visite sono testimoniate dai giovani che facevano da suoi – di G. – “aiuti”, sia F. Peters che N. Stjernvall, quest’ultimo essendo una figlio naturale dello stesso Gurdjieff (avrebbe poi adottato il cognome del suo padre adottivo, un discepolo di Gurdjieff, il dottor de Stjernvall). Essi, pur non divenendo mai effettivamente “discepoli”, tuttavia ne trassero giovamento ed impararono qualcosa, soprattutto in relazione al “ricordo di sé (stessi)”, che, però, traduce solo in parte la frase russa da cui deriva l’espressione. Ebbene, qui è importante capir bene i tempi: tali viaggi erano per andare a “svagarsi” – si sa dello humour, a volte molto pesante, anche “piccante”, di Gurdjieff, come si sa delle sue “allegre” tavolate “rabelesiane”, sempre con un significato, tuttavia –; e si sa come di tanto in tanto, anche in relazione alle sue gravi preoccupazioni, avesse l’esigenza di “cambiare aria”[1]. Vichy, nessun dubbio, era una località termale piuttosto nota. Dunque nessun problema. Ora, però, de Stjernvall testimonia di un episodio particolare: “Un giorno, mentre Valia e io discutevamo come al solito in cucina, G. I. [Gurdjieff, chiamato “alla russa” con il nome e il paronimico] ci comunicò che ci avrebbe portato a Vichy. Ovvero, ci offriva qualche giorno di vacanza, facendoci cambiare aria. Con mio stupore, eravamo solo in tre alla partenza, G. I. al volante, Valia al suo fianco e io dietro. Gurdjieff aveva una straordinaria memoria visiva e si orientava molto bene se si trattava di luoghi o città che aveva attraversato altre volte. Arrivammo a Vichy senza incidenti e Gurdjieff ci depositò davanti all’hotel che aveva scelto per noi, avendo egli deciso d’installarsi altrove. Vichy non era affatto grande. Per divertimento, Valia e io andavamo alle terme e c’introfulavamo fra gli ospiti delle cure. Eravamo seduti su una panchina pubblica a chiacchierare allegramente e a scherzare, non ci annoiavamo. In quel momento, vedemmo passare G. I. con l’aria piuttosto accigliata, le mani nel soprabito leggero, il cappello floscio in testa. Ci lanciò uno sguardo strano e non si fermò per niente, si astenne da qualsiasi commento. Si annoiava proprio, era chiaro! Ci domandavamo, Valia e io, che cos’avesse spinto George Ivanovich a venire fin lì e a imporsi un soggiorno così scialbo e inutile. Ancor adesso non l’ho ben capito!”, N. de Stjernvall, Daddy Gurdjieff. Alcuni ricordi inediti, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, pp. 62-63, mie osservazioni fra parentesi quadre[2]. Si notino le circostanze del viaggetto: a sorpresa e con solo i due attendenti alla cucina. Vi era, evidentemente, un altro scopo oltre al solo “svagarsi un po’” …

Attenzione che l’episodio è avvenuto dopo quello ricordato da Peters, in quanto l’andare a Vichy, ricordato da quest’ultimo, accadde nel tempo del Prieuré, fine anni Venti (il Prieuré fu poi gradualmente chiuso dal 1931 al 1933, in corrispondenza con la fine dell’opera “pubblica” di Gurdjieff e l’inizio della divulgazione della sua opera di scrittore, che già era iniziata prima, in parte: e si tratta di quei cambiamenti, ricollegabili all’elezione di Hitler, che G. Galli ricorda nel testo citato qui sopra). De Stjernvall, infatti, dice con chiarezza: “Quando arrivai da lui per la prima volta nel 1937, non persi certo tempo nel familiarizzare con quella casa”, ivi, p. 51, corsivo mio. Si tratta dell’appartamento a rue des Colonels Renard, Parigi[3].

Dunque che cos’era, in effetti, andato a fare Gurdjieff a Vichy quella volta? Quel che de Stjernvall considera solo un effetto della “noia” non potrebbe, al contrario, esser l’effetto di contatti che non avevano dato il loro esito?

Si potrebbe anche ipotizzare che Gurdjieff avesse dei contatti, al momento relativamente poco importanti, ma che poi si sarebbero dimostrati più importanti nel momento in cui si trattava di evitare che Parigi fosse – inutilmente, peraltro – distrutta. E qui, sulla salvezza di Parigi, la sua relazione, probabilmente indiretta, con Jünger (che conosceva Gurdjieff e il suo “lavoro”, come si po’ leggere in Avvicinamenti) non è un’ipotesi peregrina.

 

 

 

 

 

Andrea A. Ianniello

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cf. F. Peters, La Rasatura del Prato e la Costruzione di Sé (Alla scuola d Gurdjieff), L’Ottava Edizioni, Milano 1986, pp. 157-170, dove si parla del viaggio a Vichy, ma siamo nei tempi del Prieuré, frequentato da Peters dal 1924 al 1928. Lo stesso Peters, tra l’altro, attesta che Gurdjieff frequentava anche altre località termali, come Evian.

[2] Tra l’altro, de Stjernvall riporta l’episodio ricordato anche dallo stesso Peters: gli orecchini che Gurdjeff fece restituire ad una donna del suo seguito – la madre di de Stjernvall, in realtà – la quale glieli aveva prestati nella lunga fuga ed avventurosa fuga per il Caucaso, scappando dalle conseguenze della rivoluzione russa: cf. ivi, pp. 29-40. Questa fuga è ricordata nelle pagine finali, cf. ivi, pp. 60-95. Interessante una sorta d’Appendice, dove de Stjernvall traduce i ricordi che sua madre aveva di Rasputin, e la predizione – poi dimostratasi vera –, da parte di quest’ultimo, sul atto che la madre di de Stjernvall avrebbe avuto un figlio, da lei tanto desiderato. Questo resoconto è molto interessante, poiché ci fa vedere Raspùtin – accento sulla “u” – com’era davvero, da parte d’un testimone oculare, mentre noi abbiamo molto materiale di seconda mano. In una nota, al testo di sua madre, de Stjernvall scrive: “Grigori Novikh era il suo vero nome. Era stato soprannominato Rasputin per via dei suoi costumi dissoluti. Rasputin deriva dalle parole russe rasputzvo (depravazione, lussuria) e rasputnik (libertino, vizioso). Aveva davvero meritato il suo soprannome!”, ivi, p. 101, corsivi in originale.

[3] Per delle immagini, cf.

http://www.4c.com.br/gurdjieff_maps_photos.htm.

 

 

 

 

 

 

venerdì 19 febbraio 2021

“Sovranità” – al tempo stesso sussistente – ma evanescente …

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“L’idea fondatrice di ogni progressismo ha un’aria di grande ragionevolezza e si compendia in poche righe annotate da Hugo nel 1830, data fausta del ragionevole progressismo: «La repubblica, secondo me, è la società sovrana della società; che si protegge, guardia nazionale; che si giudica, giurie; che si amministra, comune; che si governa, collegio elettorale». Che cosa pretendere di più evidente, convincente, lineare? Di qui la sorpresa, l’inerme sbigottimento, quando la società divenne, nel secolo successivo [il XX, lo scorso secolo], finalmente «sovrana della società» e subito si svela essere non già una democrazia o una repubblica, come sperava Hugo, ma una teocrazia sperimentale, i cui primi sacerdoti-ingegneri si chiamano Lenin e Hitler. Seguirono poi tanti altri, più ligi all’anonimato aziendale [fino al dominio dei CEO e del mondo finanziario, in particolar modo in Occidente, meno altrove, ma “tutta la Terra” è sotto il dominio finanziario, aziendale]. Tutto questo sembra dipendere da un meccanismo insondato della mente per cui la parola sovranità trascina dietro di sé il corteo di tutti gli dèi. E, se gli dèi non possono più esser nominati, si trascinano dietro soltanto l’Inquisizione nel nome di Dio che ora è il nome di essa stessa [si veda la deriva dei paesi islamici: questo è]. una sovranità disincantata non può esistere, come l’aritmetica non può non contenere proposizioni indecidibili. Tutto il futuro politico” dipende dall’indagine su tal teorema della sovranità, che è ancora ben lontano dall’apparir evidente, convincente, lineare”[1]. Frasi del lontano 1983: a quel tempo – illo tempore – potevasi ancor pensare ad un “futuro” politico: non ve n’è più alcuno. Ma il problema posto da Calasso rimane intoccato, dopo tanti anni. Per questo tutto gli appelli al “popolo” non posson che portare ad una rafforzamento del dominio “aziendale” globale. Per questo qualsiasi tentativo di allentare i lacci li rende sempre più stretti, e chi a parole nega, di fatto, afferma quel dominio che crede – crede – di “criticare”, cosa che qui si è detta proprio fino a staccare.

Tutto questo nasce da un fatto: che la sovranitànegata nella sua dimensione sacrale – rimane nel sottofondo, e che quest’ultima (sovranità), dunque dalla politica (e dall’inesistente cosiddetto “popolo”), è passata nel mondo della finanza, che, però, è un mondo di simulacri. Per questo il simulacro della sovranità domina il mondo di oggi. Ma il simulacro è un’immagine, l’immagine non è irreale – come s’è detto più volte – perché “inesistente”, ma solo perché è una realtà seconda, l’immagine non è la cosa rappresentata (e torniamo alla crisi – strutturale – della rappresentanza), ma – in teoria – dovrebbe rimandare (cioè: far riferimento) alla cosa “rappresentata”. Sennonché arriva sempre un momento in cui, dando sempre maggiore potenza (Macht) al sistema tecnico, il simulacro non fa riferimento più alla “cosa” (das Ding an sich, “la cosa o sé”) bensì ad un altro simulacro: comincia la fatale deriva, ingovernabile, dell’autoreferenzialità[2].

Tornando a noi: o la sovranità la si smaschera nella sua natura profonda – che continua quindi ad aver effetto, ma nascostamente (ed allora una critica reale dei meccanismi fondanti del potere contemporaneo, meccanismo ormai post politici, può darsi) – oppure si continua a non volerla vedere “then” – come dicono gl’informatici – la sovranità continua nei suoi effetti, nascosti, “traslando” a dei soggetti non più “politici” in senso stretto, ed ecco la deriva che, per lo meno a partire dall’inizio della ristrutturazione sistemica – che solo comincia dagli anni ’70 del secolo scorso –, non ha fatto che accrescersi, per giungere ad oggi. oggi, quando si straparla di pseudo critiche, senza mai – ma davvero mai – riuscire ad andare “un pochettino” più in profondità nelle cose, nei fenomeni. “Fenomeno” significa: “ciò che appare”; ciò-che-appare non è mai altro se non un effetto. Ora, qual è la causa dell’effetto? Domandina semplice semplice. Criticare solo gli effetti non ha proprio alcun senso.     

 

 

 

 

 

 

 

Andrea A. Ianniello

 

 

 

 

 

 

 



[1] R. Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi Editore, Milano 1983, pp. 394-395, corsivi in originale, miei commenti fra parentesi quadre.

Sull’errore del “sociale” – alla radicecf.

http://associazione-federicoii.blogspot.com/2019/02/una-breve-recensione-della-prefazione.html,

e cf.

http://associazione-federicoii.blogspot.com/2018/12/step-3-40-anni-fa-di-nuovo-allombra.html.   

[2] Nel post precedente, cf.

http://associazione-federicoii.blogspot.com/2021/02/la-manica-non-esiste.html,

si è detto che – partendo dall’autore, apprezzato da Hitler (anche da Nietzsche che, però, poi, lo criticherà del famoso Die Welt als Wille und Vorstellung (si noti che, per Heidegger la tecnica è: “In-Stellung” – stesso termine, preposizione diversa …), cioè “Il Mondo come volontà e rappresentazione” –, per Hitler, non c’era “rappresentazione” (di conseguenza, quando lo si equipara ai populisti si fa un paragone solo parzialmente calzante, poiché i populisti reclamano sempre una “vera” rappresentanza della “politica” rispetto al sedicente “popolo”), c’era solo la volontà. Punto. Questo è il nazionalsocialismo come bewegung, movimento. Un movimento perenne dove la volontà distrugge la volontà nella perenne ricerca del Wille zur Macht, la “volontà di potenza”, come diceva Hitler ad un allibito Rauschning (che non capiva e men che meno condivideva), come, per altri versi – stavolta condividendolo! –, ha più volte scritto l’ambasciatore cileno M. Serrano. Ma questo è un qualcosa che i “cervelli liberali” (Jünger) non potranno mai capire, ingolfati come sono dall’idea di rappresentanza, tant’è che manco riescono a vedere il passaggio del sistema nel mondo “simulacrale”, “simil sacrale”, per loro questo non esiste. In un passaggio – illuminante – da un vecchio libro di Baudrillard, citato da qualche parte in un passato post, vi si leggeva di due scenari dove la reazione sistemica, tanto all’evento reale quanto all’evento simulato, era la stessa. Identica. Ciò significa che il sistema non sané può – distinguere fra evento simulato ed evento “reale”, per esso tutto è, sempre, “reale”. Tanto il vero che il falso son sempre “veri”. Questo è un punto cieco di non piccola entità! …