a. Una riflessione su Marx dopo 200 anni
Qui di seguito si
svolgerà, in breve, ma le questioni sono di una certa importanza – direi –, una
riflessione su Marx, a 200 anni di distanza, sulla scorta di un recente
articolo di M. Cacciari,
e di una riflessione relativa all’ultimo libro di M. Tronti.
Come prima cosa, non
condivido, affatto – come peraltro mi accade spesso –, quel che dice Cacciari
all’inizio del suo articolo (citato alla nota n°1, qui sopra), e cioè che
sociologi ed economisti dovrebbero tacere su Marx, a causa del fatto – cosa
verissima, però – che il discorso di Marx ha una sua sostanza teologica e
filosofica: non solo filosofica, ma teologica tout court. Ed è verissimo,
è assolutamente verissimo che Marx abbia questo lato, non ci può esser alcun
dubbio, al riguardo. Ma, ed ecco il limite, grosso, è che Marx – come peraltro
tipico della sua epoca – collega i due livelli: la sua concezione, anche – anche – teologica, si esprime per mezzo
dei crismi “positivisti” della sua epoca. Quindi, è impossibile che sociologi ed economisti tacciano di Marx. Forse
vogliamo dire che, seppur si parli di questo livello, non possiamo sottacere il
lato filosofico e teologico di Marx: in tal caso, son d’accordo invece. Può piacere o non, ma in Marx i due livelli son collegati.
Ma ritorniamo al punto,
all’articolo.
Secondo Cacciari, non è
tanto l’apparato economico di critica dell’economia (politica) il punto centrale in Marx, ma, invece, l’aver fatto dell’
“Economico” la categoria fondante il
punto vero. Per Marx, l’ “Economico” è come la tecnica per Heidegger, continua
Cacciari.
La dimensione
dell’Economico è ciò che deve dominare ogni cosa: questo è il capitalismo, per
Marx, e quando Cacciari ricorda questo, ha ragione.
Ma il limite di Marx, ed è
decisivo, è che, per lui, l’Economico è la produzione.
Dunque il lavoro
produttivo diventa centrale, ed esso deve esser liberato dal profitto
esercitatoci “su” da una certa minoranza. Il lavoro produttivo è frutto del
cervello, ma un cervello collettivo, dice Cacciari, e di tale frutto non si
deve fare necessariamente scambio, come invece obbliga il sistema capitalistico.
Il punto è un altro,
invece: che se tu, stando a dormire, accumulassi profitto (= che il capitale
iniziale si accresca) avrebbe lo stesso valore, nel capitalismo, che
se tu, per ottenere lo stesso profitto, te ne stessi a lavorare – tanto ma
tanto “produttivamente” – dalla mattina alla sera.
Non è il modo che
conta. Conta che il capitale si accresca.
Certo, nella storia ha
contato ed ancora conta, che la modalità produttiva sia non solo esente, ma dominante,
in se stesso, non è il punto decisivo. E infatti, i cosiddetti “servizi” oggi,
di fatto, consentono un accumulo del capitale molto prima e molto più
facilmente che con le vecchie modalità industriali.
Ecco perché la
cosiddetta “finanziarizzazione” è, in realtà, un destino, non un accidente di
percorso, e che tornare alla “buona” produzione non ha proprio alcun senso,
quando, invece, tutte le “sinistre” ancora rispettabili – non parlo di quelli
che sono servi del sistema – come massimo ideale hanno appunto quello di
“tornare” alla “buona” epoca dei canteri di Liverpool, delle navi che solcavano
i mari, all’epoca “eroica” del capitalismo, quando la classe operaia gli era
ancor molto necessaria. I cantieri
che erano indaffarati, gli oceani le cui rotte si aprivano, l’intera società come
attraversata da una voglia di fare, produrre, costruire, scambiare: l’epoca
eroica, che, senza dubbio, ha segnato l’Occidente in una parte della sua epoca
(e però solo in alcune parti “geografiche” dell’Occidente stesso: ricordiamoci
che il “Sud” non ne era parte se non
marginale); e però, da un certo
momento, tutto ciò si è inceppato, e non perché si sia fermato. Oh no: ma
perché ha preso tale una velocità, da essere ingovernabile, ed è questa la
causa strutturale della fine della politica.
Giusto invece che
Cacciari osservi che proprio la natura contraddittoria del capitalismo è la sua
forza, il fatto, cioè, che, per stare in equilibrio,
deve dynàmei (per usare un termine di
Marx) ricercare il punto d’equilibrio, in se stesso, però, introvabile.
Di conseguenza, la
crisi fa parte del capitalismo in modo sostanziale, ed esso, continua Cacciari,
procede per salti: è così. Ma i suoi “salti” hanno uno scopo ben preciso:
ridurre la contraddizione, senza però potervi riuscire mai.
Attenzione però a non
darlo per spacciato, a causa della sua contraddizione fondante: proprio il
fatto che non riesce a risolverla, tale contraddizione, gli dà uno spazio di
continua espansione e di continua resilienza, che è il modificarsi mantenendo i propri scopi.
Il capitalismo, sì,
opera per il suo superamento, senza però mai potervi riuscire. Questo perché
non è in grado di poter risolvere la sua contraddizione fondante, pur
tentandoci, anzi essendo costretto a
tentarvi, sempre. Quel che accade è che esso “riduce” la contraddizione, senza
poterla eliminare. Poi, questi mezzi, sin allora utili, diventano sempre meno
validi: si ha una crisi, con successivo sforzo di riduzione della
contraddizione.
Per Marx la
contraddizione sta nel fatto che la lotta è intrinseca nel capitalismo, anche
fra i capitalisti, non solo fra classe operaia e capitalisti, lo stesso
Wallerstein mantiene questa natura del capitalismo. Ma proprio questa lotta
interna non poco ne ha mantenuto la forza.
Il contrario, dunque.
La lotta mantiene il sistema.
E il voler eliminarne
la contraddizione per mezzo della lotta non poteva che fallire.
In tal senso, che un
conflitto – come lotta con un fine –
sia molto meno del conflitto caotico, e cioè il nostro presente, si deve
contare tra i segni positivi, ma è insufficiente.
Questo perché, come si
è detto, il sistema non ha la capacità di risolvere la sua contraddizione
fondante, anzi è una contraddizione ambulante, la sua natura profonda è contraddizione.
Se ne deve dunque dedurre che “qualcos’altro”
debba intervenire, a tagliare “il nodo di Gordio”.
b. Il “camaleonte” capitalismo
L’articolo di Cacciari
porta – nella versione cartacea
– una sorta di riassunto, che recita
così: “Il capitalismo è produzione
continua di merci e di consumi. La forza-lavoro, cosciente della sua funzione, si
fa autonoma. E scoppia la lotta di classe”, grassetto in originale.
Eh ma qui è un punto decisivo, del quale si parla nella
conversazione fra Cacciari e Tronti, il cui link è nella seconda nota a pie’
pagina. Quanto era “cosciente” della sua funzione, cioè della “classe operaria”,
la quale, come detto giustamente sia da Cacciari che da Tronti, non va intesa – come l’ “operaismo”
volgare” – come un insieme di operai, ma come il “cervello sociale” della
società (usa queste precise parole Cacciari).
E un tal gruppo era
minoranza già nel periodo di massima sua espansione: era un gruppo scelto ed
attivo (élite), anzi un’
“aristocrazia”, ovvero i migliori di
una società, gli àristoi. Quindi mai sarebbe potuta essere una
maggioranza, né la classe operaia è “democratica”, in tal senso. Si dà poi per
certo che, poiché la classe operaia è dentro il sistema capitalistico, è nella
migliore posizione di opporcisi. Questo, però, è stato vero solo fino ad un
certo momento: e il capitalismo non è terminato dopo che la classe operaia
aveva esaurito la sua funzione. Quindi, vi è dell’altro; e in quest’altro vi è
il decisivo, se la vittoria decisiva il capitalismo l’ha ottenuta dopo aver
fatto fuori la classe operaia, non gli operai singoli, come si è detto, senza
modificare i suoi fini (la resilienza).
E tuttavia, il sistema si
appresta, però, a far fuori anche questi ultimi, gli operai singoli, il più
possibile, e nella misura del possibile, se fosse possibile.
In teoria, il
capitalismo può star senza operai: li sostituisce con macchine. Non è
altrettanto vero, però, l’opposto: un operaio senza capitale non può esistere,
farebbe parte di una serie di “vecchi” legami sociali, secondo i marxisti (per
quel che mi riguarda, farebbe parte
di “altri” legami sociali, non di “vecchi”:
lo storicismo ha impestato Marx,
anche Tronti lo critica su questo punto); in altre parole, in teoria, un capitalismo
senza operai, può esistere.
Anzi è lo scopo.
Tornando alla classe
operaia, è chiaro il riferimento anche all’ Operaio
di Jünger, e Cacciari lo dice in modo chiaro, seppur tra le righe, in quanto
afferma che, per chi aveva questa concezione della classe operaia,
l’interlocutore non era per niente
il “progressista”, men che meno lo
era il “democratico”, ma il “grande” conservatore, come Weber, o i fautori
della rivoluzione conservatrice,
come Jünger, per l’appunto.
Non è casuale tutto ciò, ma nasceva invece da precise
premesse teoriche.
c. “Dove ‘Si’” è sbagliato.
Se non è vero che il
capitalismo ha altrettanto bisogno dell’operaio quanto l’operaio del
capitalismo, dunque si può, pian piano, ma in modo crescente, fare a meno degli operai, una volta che siano stati resi
dei singoli, e non più una “classe” che ha coscienza del suo ruolo. Infatti
l’idea capitalistica, al limite, sta tutta nel fare a meno del lavoratore: le
macchine da sole produrranno sempre di più. Ma cos’è questa “produzione”, a
questo punto, ci si potrebbe chiedere: è una emulsione perenne, che non ha
finalità = fine della politica = fine del contrasto, della lotta come
produzione.
La produzione è, a sua
volta, un mezzo, per il profitto.
Potenzialmente il
profitto è solo un differenziale che si accumula. Ancor più in profondità, è il
mezzo per accrescere il capitale iniziale. Il capitale non può non accrescersi:
deve accrescersi. Sempre.
d. L’ “autonomia” del “politico”.
Si fa riferimento ad un
vecchio scritto (del 1978) di Cacciari,
a dimostrazione non solo della lunga natura di questi problemi – cosiddetti “di
lungo periodo” – ma pure di quel che dice Tronti nel suo intervento (citato
su), cioè che gli eventi della fine del secolo scorso non sono stati, non dico
metabolizzati, ma nemmeno affrontati per davvero.
Ora però, già in quello
scritto il problema, in apparenza, era quello dell’ “impolitico” – nietzscheano
– sì, però anche quello dello “stato universale” del quale illo tempore già Hegel
parlava.
Che “stato universale”
han già, in parte, costruito?
E può esserci ordine
sotto il capitalismo, nel senso di un qualcosa che, da un puto di vista più
alto (politico …), dia una forma
alle cose?
Non può esserci.
Quel
che può esserci è una riduzione del conflitto perturbante a favore dell’esplosione di migliaia di conflitti non produttivi: questo può esserci.
Ma, è chiaro, che non può esistere alcuno spazio “politico”, in un “ordine” del
genere.
e. Il “conflitto” e le sue – ex
magnifiche – sorti: fine della modernità.
Il conflitto è alla
base della genesi dello stato moderno, con Machiavelli, ricordato dallo stesso
Tronti.
Fa parte della teologia politica – secolarizzata – della modernità
l’esaltazione del conflitto che produrrebbe, si sostiene, “avanzamento”
sociale, ed anche conoscenza.
Questo è finito.
Finito, e le “sinistre” non se ne
sono nemmeno accorte, attente com’erano ad avvicinarsi ai “nuovi” padroni, per
finire come utili, ancora per poco, servitori.
Il conflitto non solo è
del tutto incapace di “produrre” dissenso, ma è incapace di produrre ordine: l’
“ordine” sociale è assicurato da delle modalità non conflittuali, radicalmente non conflittuali.
Punto e non si torna
indietro.
Ora ciò non significa – proprio per niente – che non vi siano conflitti: è il contrario. Di conflitti ce ne son
molti, i conflitti sovrabbondano, ce n’è per tutti i gusti, ma, ed ecco il
punto vero, non sono produttivi, non sono
produttivi di alcunché. Ti fanno rimanere là dov’eri.
I conflitti non
producono ordine.
I conflitti confermano il disordine.
In una parola, il
conflitto non produce, tout court.
Il conflitto non
produce più. Il conflitto è stato necessario, ma, da un certo punto in poi, non
lo è stato più. Non lo è stato più da quando, come diceva tanto tempo fa
Baudrillard, il modello del lavoro non è stato più quello del lavoro produttivo, ma il lavoro servizio, e
cioè a prestazione. Le “sinistre” sono state fatte fuori da questo.
E qui torniamo al punto
già ripetuto: la fine del lavoro produttivo come modello per il sistema
capitalistico, lo si è già detto, ma, qui, si ricollega con la fine del
conflitto come produzione. Oggi, per avere la produzione, non hai più bisogno
del conflitto. E questo è forse una conseguenza “perversa” del capitalismo?
O è, invece, la
conseguenza precisa delle sue
premesse?
Andrea A.
Ianniello