In relazione al commento
n°4 al post precedente (cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/03/ragionando-su-alcuni-link.html),
dove ricordavo una frase di Colli su Nietzsche, ecco che la si riposta qui di
seguito.
“Il miraggio dell’annientamento. Quelli
che attendono al catastrofe finale [corsivi miei], gli ammalati di febbre nichilistica [corsivi miei], quelli che si inebriano di sogni di distruzione [corsivi
miei] dovranno ancora attendere a lungo
[corsivi miei]. Nelle tenebre da cui
siamo avvolti è certo più facile che ladri e assassini spaventino e versino
sangue, ma il mondo non finirà tanto
presto [corsivi miei]. La violenza è
all’inizio delle cose, non alla fine
[corsivi miei]. Noi proveniamo dalla violenza, ma intorno a noi regna ormai la
mansuetudine. Della violenza rimane ancora la smorfia decorativa, il
geroglifico astratto. E se il mondo dovesse finire – momentaneamente [corsivo mio] – non
sarà in una deflagrazione [corsivi miei]”[1].
Sarà invece nella dissoluzione, “dalla
‘degenerescenza’ alla dissolutio” il “percorso”
dell’iter del mondo moderno, alla quale (dissoluzione,
che è un processo e non un singolo
momento o evento!!) però – Guénon docêbat
– non sufficit la “polverizzazione”
in cui siamo.
Da quanto testé detto
da Colli si evince chiaramente come lui non parlava per nulla di atti di
violenza individuali (“ladri e
assassini”, che, a quanto pare, hanno un quoziente medio d’intelligenza minore della media e, dunque, trattasi di
gente che non sa proprio capire la necessità
delle strutture regolari organizzate sociali) - che Dio solo sa quanto siano super
numerosissimi nei “nostri” famosi tempi -, ma delle “grandi violenze collettive”,
e qui torniamo alla “cecità verso l’Apocalisse”
(espressione di G. Anders, che però aggiungeva prima la parola “nostra”, che
sostituirei con “comune”, in quanto, “personalmente” in tale “nostro” non mi ci
vedo, questo “nostro” non è “mio” dunque). Infatti tutta questa gente che non sa proprio vedere il processo di “sfaldamento”
e disfacimento in cui e di
cui si vive, n’è totalmente incapace perché in testa c’ha la Seconda Guerra
Mondiale, o la Prima – simile a questa Terza per modalità “bloccate” e scarsa
dinamicità di movimento e sfondamento militari ma che n’è tuttavia ben differente
in molti altri aspetti -, e cioè una violenza collettiva immane. Ladies and gentlemen: Quell’epoca è finita, finita per sempre.
Punto e basta. Non tornerà. Non vi saranno repliche, non vi saranno nuovi
Hitler o Stalin ma nemmeno Mao, al massimo abbiamo “dittatorucoli” che
sostanzialmente commettono in serie violenza individuali, cui manca – e per principio
– ogni senso “apocalitticista” di “realizzazione” di una “dottrina definitiva”
che “deve” mutar “per sempre” le “sorti” dell’intera umanità e costruire un “mondo
nuovo”. Ma proprio per nulla, per nulla! Questa gente ha solo in mente
o il proprio conto in banca, che sia il più ricco possibile, oppure il
mantenimento del loro piccolo potere sulle loro proprie comunità etniche. Punto
e basta. Hitler che manda le sue divisioni in Russia per ricercare la “terra
originaria degli ‘ariani’” o Stalin (o Mao) che cercavano di “costruire” l’ “uomo
nuovo”, ma stiamo scherzando! I “dittatorini” di oggi hanno in mente le due
cose dette sopra: o il conto in banca; oppure il mantener il potere sulle loro proprie comunità etniche. Il che non
vuol dire – proprio per nulla – che i piccoli dittatori, i “piccoli tiranni”
dei nostri tempi, legali o non, siano “dolci di sale” e non commettano
violenze. Di nuovo: per nulla, per nulla; son violenti e pericolosi, ma la scala della loro violenza è minima. E’ l’ “ordine di grandezza”,
come si dice in matematica, che fa ridere, pur facendo senza dubbio piangere quanto
a violenze. Insomma, una certa quantità
di violenza fa parte della società, a quanto pare, ma la scala della stessa è
minima, individuale, al massimo etnica oggi – da qualche decennio, diciamo così
-, nell’ “epoca delle grandi violenze” non
era così, e forse Hitler lo tipizza meglio di tutti gli altri dittatori
novecenteschi. Il che farebbe sorgere una domanda – che ovviamente esula da
questo “picciol” post -: che cos’era il
“‘moltiplicatore’ di potenza”, e perché
si sia bloccato da una certa epoca in poi.
Dicendo tutto ciò, son
ben consapevole che quando Colli scriveva che la violenza era “all’inizio delle
cose”, lui alludeva al legame casuale originario
che si manifesta come necessità (anànke) che forza le cose ad esser quel
che devono essere. Ma ciò, nell’ambito sociale, non si manifesta certo come
violenza individuale che, affermando il principium
individuationis, per Colli – in questo seguiva la Scolastica – è secondario,
e dunque tale violenza è in definitiva illusoria. No, per lui era la violenza “grande”
che aveva l’ambizione d’intaccare i “legami originari”, e dunque necessitati, delle cose, e, per questo,
non era per ciò stesso non illusoria, ma, nel tentar l’impossibile, manifestava
una “traccia” del “sentire” che vi è una necessità e ch’essa è una forzatura (una “violenza”, nei termini
di Colli, una costruzione di costrizione,
si potrebbe dire). Al contrario, nella società dell’apparire, del visibile über alles, questa percezione della costrizione metaphysica si perde: credendosi “libero” - perché afferma la “sua”
individualità (che nemmeno è “sua”, tra l’altro) - ecco che l’uomo
contemporaneo è il più terribilmente
schiavo della necessità che ci sia mai stato sulla Terra. E n’è schiavo
proprio perché non può nemmeno percepire
la sua schiavitù = questo è “l’acme”, il klimax della schiavitù stessa, che
sei schiavo e manco te ne accorgi …
Parlando dei “tempi”,
appena prima Colli aveva scritto un commento, sempre ispirato a Nietzsche come tutto il libro, sulla “storia”.
“Lo sguardo di scherno
con cui oggi si considera il passato merita senza dubbio indulgenza, […] è
comunque un segno di reazione, un robusto sussulto contro l’indigestione
storica. Il bersaglio è offerto non soltanto dal passato monumentale, dalla
folla di condottieri e d’idee retoriche onde la storia è costituita, ma è la speculazione
stessa sul passato che è sentita oggi come qualcosa di superato, ammuffito […].
Non si crede più alla storia, perché si pensa sia meglio vivere la propria
vita; di conseguenza quello che viene insegnato sul passato lo si considera
come falso, una cosciente mistificazione […]. Ciò è degno di applauso, tuttavia con una riserva non trascurabile.
Perché tutto questo avesse un senso, bisognerebbe
già aver condannato il presente: è di qui
che comincia la grande diffidenza. Invece
è proprio su tale punto che naufragano tutti gli attacchi contro il passato, perché essi vengono condotti in nome del presente, e non solo del presente
come vita, ma del presente come intreccio
rappresentativo. Eppure il presente non esiste. E tanto meno l’avvenire”[2].
Altri tre passi, forse
interessanti.
“Criticare, attaccare i
grandi – Nietzsche e altri della sua statura – sapendo e dicendo nondimeno che
sono grandi, rende più elevata la nostra posizione, più acuto e perentorio il
nostro giudizio, e soprattutto dispensa dal guardare ai piccoli e ai vicini nel
tempo e nello spazio. Gli uomini grandi son appunto quelli che pretendono di
esser trattati severamente. Gli altri invece non devono essere trattati in
nessun modo. Il discorso è teoretico,
ovviamente”[3].
“Eccesso pedagogico. Non ha senso render pubblici, comunicare ad
altri mediante la scrittura e la stampa, i nostri giudizi su noi stessi. Possiamo,
dobbiamo averli, ma i giudizi su di noi che possono interessare pubblicamente
sono i giudizi degli altri su di noi. Questa ovvietà non sfuggì ai Greci, ma in
epoca moderna, dove chi ha buon giudizio non crede ai giudizi degli altri, si è
voluto insegnare agli altri anche il modo in cui noi stessi dobbiamo esser giudicati,
ciò accadde a Nietzsche e a Schopenhauer”[4].
“Il merito maggiore di Nietzsche,
rispetto alla sapienza presocratica, sta nell’aver divinato per il primo che
quello era il culmine del pensiero greco. Nietzsche vide la statura di quegli
uomini, ma non comprese le loro parole; vide che là c’era un santuario, ma non
riuscì a penetrarvi. Nonostante tutto, quel pensiero, meglio di Nietzsche, lo
riconobbero all’inizio del nostro secolo [Colli scriveva negli Anni Settanta del
secolo scorso, nota mia] personaggi decisamente minori, un certo Wolfgang
Schultz di Vienna, e magari anche Karl Joël di Basilea”[5].
Potremmo chiamar tutto ciò: il maggior vantaggio dei minori …
Andrea A. Ianniello
[1]
G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi Edizioni, Milano 1979 (la prima ed. 1974), pp. 163-164, corsivi in
originale, quelli miei son segnalati fra parentesi quadre.
[2]
Ivi, p. 163, corsivi miei.
[3]
Ivi, p. 162, corsivo mio. Ancora: “I
contemporanei stanno di fronte agli occhi di tutti: al filosofo tocca indicare
quello e quelli che non stanno di fronte a tutti” (ibid.).
[4]
Ivi, p. 164, corsivo in originale.