“L’effetto
Beaubourg, la macchina Beaubourg, la cosa Beaubourg – come darle un nome?
Enigma di questa carcassa di flussi e di segni, di reti e di circuiti – ultima
velleità di tradurre una struttura che non ha più nome, quella dei rapporti sociali ormai
esposti alla ventilazione superficiale (animazione, autosuggestione,
informazione, media) e ad
un’implosione irreversibile in profondità. Monumento ai giochi di simulazione
di massa, il Centro funziona come un inceneritore che assorbe e divora tutta
l’energia culturale: un po’ come il monolito nero di 2001 […]. Tutt’intorno il quartiere gli fa da bastione –
intonacatura, disinfezione, design
snob e igienico – ma soprattutto mentale: è un macchina per fare il vuoto. Un
po’ come le centrali nucleari: il vero pericolo ch’esse costituiscono non è
l’insicurezza, l’inquinamento, l’esplosione, ma il sistema di massima sicurezza
che s’irraggia intorno a loro, il bastione di controllo e di dissuasione che si
estende, a poco a poco, su tutto il territorio; bastione tecnico, ecologico,
economico, geopolitico. Non importa il nucleare: la centrale è una matrice dove
si elabora un sistema di sicurezza assoluta”.
Di nuovo:
l’unico pericolo che in questo mondo tengano da conto è l’ “esplosione”, l’
“implosione” non è considerata come pericolo; vero che un’esplosione provoca
un’implosione, e viceversa: le due cose sono collegate senza dubbio. E
tuttavia, l’implosione non si conta nel novero dei pericoli: che un’intera
società si accartocci su se stessa non è considerato un’eventualità pericolosa:
in realtà non è proprio considerata un’eventualità, punto.
E, di nuovo:
“non importa il virus”, importa la sicurezza, assoluta. Il virus è, dunque, precisa metafora del nuovo stadio
sistemico: lo stadio del replicante …
Chiaro che il titolo
dell’ultimo post – “Effetto Covid”
(cf.
Ed ora, cosa, ecco la
vera domanda? Che cosa c’attende, visto che siamo al fallimento del vecchio
sistema?
Che non vuol dire, affatto, che non c’è più
niente, se non il “caos”, che, anzi, vuol dire che i gruppi dirigenti del
vecchio assetto, sostanzialmente, si mettono d’accordo con questa “nuova” fase.
Quest’ultima se, da un lato, realizza quanto divisato negli anni Settanta del
secolo scorso, d’altro canto porta necessariamente ad uno stato diverso: quando
realizzi qualcosa, devi andar oltre, sennò ti areni. Ed arenati già lo siamo … Quindi
non avrebbe gran senso voler arenarsi, quando invece l’uscire dallo stato di
arenamento, ma in che direzione,
il punto sta qui. Non in quella
nella quale la nave era orientata prima … Per la semplice ragione che si è arenata perché si è incagliata in bassi
fondali: e davanti a sé ha questi lunghi, vasti, bassi fondali. Ergo deve cambiare la direzione di rotta
se vuol evitare la rotta finale.
Si parla di
“riconciliarsi” con la “natura”, va bene.
Ma è una “direzione” o
un cammino obbligato per il sistema stesso, se vuol salvarsi, se vuol evitare
d’arenarsi ancora? La seconda che ho
detto. Quindi non è una scelta, è l’inerzia del sistema – fortissima – che
spinge in quella direzione per replicarsi. A questo punto, parlare di
“decisione” politica non ha senso: la sedicente decisione non è che un
simulacro. Che dev’esserci, sennò la nuda forza d’inerzia si vedrebbe troppo
chiaramente; ma ciò non toglie che nessuno “decide” un bel niente qui, quanto a
direzioni generali. Il fatto che queste ristrutturazioni non siano mai stata
fatte davvero sinora non è dovuto alla “decisione” di “chicche e sia”, ma è dovuta
all’inerzia del sistema stesso, il cui “peso” è difficilissimo a modificarsi e
tende a perseverare nella direzione presa. Ora, però, vi è una vera occasione, proprio
a causa della crisi strutturale, che tende a togliere di mezzo produzioni e
distribuzioni non conformi a tale “nuova” (sempre relativamente) direzione.
La cosiddetta “nuova”
direzione, però, renderà “quel che resta della società” più instabile ancora.
Accrescerà il processo d’implosione, è inevitabile.
La tecnica “individualizza”,
cioè separa (è “sethiana”), ed il
suo fine è sempre caricare ogni (relativa) unità individuale del massimo di
“capacità” (il “tu puoi” fatto proprio dal sistema della “Grande Prostituta”,
che abbiam visto alludere ad un termine, in ebraico, diverso da quello usato
per la comune prostituzione, ma, quando si è passati dall’ebraico al greco
(della koinè), queste differenze si
sono perse: il discorso è lungo e qui se ne può accennare solo). Che tal fine
sia un “limite” – cioè, in se stesso, inattingibile – non toglie che la
direzione, il senso di marcia, la tendenza dominante, sia, e resti, quella. In un vecchio testo di Severino (La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi Editore, Milano 1988) si diceva, per l’appunto, di una
tendenza “fondamentale”, che tutte le residue istituzioni del “nostro” tempo avrebbero
cercato di dominare la forza della tecnica, in se stessa – e in ciò vedeva
giusto – del tutto amorale, che doveva solo accrescere la sua capacità di
“realizzare scopi”, quali che fossero, “buoni o cattivi” (distinzione che non
riguarda la tecnica), ma, così facendo, in realtà ognuna delle istituzioni del
“nostro” tempo avrebbe solo accresciuto il potere della tecnica. Tutto ciò s’è
dimostrato giusto, nei fatti.
Vi era, però, un punto dove
Severino si sbagliava: e cioè in quel passo dove diceva che la tecnica poteva
risolvere tutti i problemi dell’uomo, e così non è. Gli mancava la percezione
del simulacro, della natura “seconda”, “simulacrale”, “simil sacrale” (e
torniamo al fatto che la Grande Prostituta non
è mero mercimonio: analisi sbagliate, riduttive, quelle che riducono
tutto ad un fatto “morale”), costruita e falsa fino all’estremo, come una scena
dietro cui non c’è niente: un gioco, un’apparenza, ma cui si conferisce forza,
una costruzione di crediti su crediti senza fine, un castello di carta, che
dico: di bit; gli mancava la percezione della natura illusoria del sistema, di tutto
il sistema.
Ora in tutto ciò: che
caspita c’entra il “popolo”? Ammesso che esista? Ed ovviamente altrettanto poco
c’entra la “classe”: tutte visioni che rimangono ben lontane dai termini –
peraltro molto, ma molto, ma molto radicali – della questione.
Noi siamo in presenza di
questioni radicali, fondamentali, sulla natura e sul destino del mondo moderno tout court (o anche “too long” … scherzo
…, e proprio perché scherzo ciò significa che la cosa è, in realtà, serissima: e lo è per davvero). Niente
che eluda il nodo fondamentale, nulla che non tocchi quel nucleo potrà mai aver
effetto, anche solo lontanamente. Saranno solo simulacri di decisione. Qualsiasi
analisi che non si confronti con i nodi fondamentali oggi è futile. Si limita
solo a riecheggiare un passato inevitabilmente tale: cioè passato.
So bene quale tiritera
costoro tentano di propinarci: è la critica alle “sinistre” (qualsiasi cosa siano
diventate oggi) perché tentano di mantenere il simulacro del “sociale” in vita,
peraltro pure molto male. E tale critica vien fatta in nome dell’inesistente
“popolo”, di una sostanza – che si può identificare con la “nazione” (creazione
del tutto moderna, ma credere che costoro possano percepire la contraddizione
in termini di questo fatto è chimera pura) – cui si dovrebbe far riferimento.
Cioè il richiamo ad uno stadio precedente sempre della modernità, quando si credeva
ci fosse una “sostanza sociale”, quando la realtà è che il “sociale” è una
costruzione “seconda”, non uno strato “primo”. Le società “tradizionali” non si
costruivano sul “sociale”, questo è il punto che non riescono proprio a
concepire. Le credenze “tradizionali” fanno parte di uno strato più profondo di
quello della “nazione”, che già è un po’ meglio di “popolo”, tuttavia. Le
società “tradizionali” non le puoi analizzare attraverso “precomprensioni” nate
da categorie moderne (che tra l’altro, per dire, secondo Baudrillard non
funzionavano bene neanche per analizzare le società moderne!), quindi la
“nazione” non ci spiega il passato premoderno. Punto.
Ed appellarsi a tal
passato per sostenere la “nazione” – che, ripeto, è già qualcosa in più rispetto
al “popolo”, amorfo – è un gioco delle tre carte. La destra cosiddetta
“estrema” non può capirlo, dunque son i più sfegatati difensori del sistema che
credono di criticare: infatti, agiscono, non a caso, sempre in senso
reazionario etimologicamente, vale a dire come supporto delle istanze di auto
regolazione cibernetica sistemica (quest’auto regolazione, infatti, è sempre
una reazione ad uno stimolo). Non possono mai fare altro. E non hanno mai fatto
altro: contenti loro … Ma venirci a dire di essere “alternativi”, ma via!
Andiamo! Su …[i]
La cosa involontariamente
ironica sta nel fatto che credono di “difendere” la “tradizione”, quando – nel
mondo effettivamente “tradizionale” – le “nazioni”, semplicemente, non
esistevano. Noi siamo qui dentro un blog intitolato, non a caso, a qualcuno che
le nazioni manco le concepiva, e che le avrebbe avversate, se vi fossero state
(ipotesi meramente scolastica, chiaro). Il discorso si farebbe molto lungo, a
questo punto, ma serve a dire ch’è possibile un mondo senza nazioni, non senza
popoli, ma questi son semplicemente le etnie. La sovranità non risiedeva certo in loro; neanche oggi, c’avrebbe suggerito Baudrillard, ed avrebbe fatto
alcune sue, fondate, obiezioni, dalle quali si sarebbe dedotto che la sovranità
“popolare” non può essere che un mero simulacro nel mondo dominato dal codice,
nel quale la realtà è “codificata”, nel quale una possibilità di esistenza
fuori dalle realtà “codificate” semplicemente non si dà. E questo è, senz’alcun dubbio, il totalitarismo più “totalizzante”
che sia mai stato totalizzato.
A questo punto, basta
proiettare questo fatto, l’impossibilità che si “dia” una realtà non
“codificata”, e lo si proietti oltre un certo limite, ed ecco che giungi a cosa
c’è qui fuori, che aspetta: ecco che lasci
i fantasmi del Novecento ed entri a cercar di capire la realtà dell’inizio del
XXI secolo, quella che c’è, ora. Se
si vuol farlo, si può, è perspicuo e fattibile, qui-ed-ora. E’ che molti non
vogliono proprio farlo: va bene, “così è se vi piace”.
Tuttavia le cose non
cambiano perché costoro si tengono attaccati al seggiolino: che l’aereo esca
dallo stallo e torni a volare, oppure cada giù a terra, non dipende dal tenersi
attaccati al seggiolino. Il destino dell’aereo influisce su quello del
passeggero attaccato al seggiolino, ma l’inverso non è altrettanto vero. Si
dirà: ma, vedi, il passeggero si tiene attaccato al seggiolino perché, sennò,
non saprebbe dove sedersi. Va bene, ma il caro passeggero dovrebbe anche sapere
che tutto ciò non c’entra niente con il destino dell’aereo, in questa metafora.
Né il posizionamento dei seggiolini sull’aereo ha niente a che fare con la
rotta dell’aereo e col suo funzionamento: non c’entra proprio niente.
Il problema del
posizionamento dei passeggeri, ne convengo, è importante, ma non serve a niente,
se c’è un problema con il combustibile, o se qualcosa fa andare l’aereo in
stallo.
I “complottisti” è come
se dicessero: la direzione dell’aereo non vuole che ci sediamo! Non è affatto
vero: alla direzione importa trasportare i passeggeri, senza i quali dovrebbe
chiudere il loro business. Men che meno vogliono distruggere l’aereo:
distruggere l’aereo = fine del business. E’ che l’aereo ha dei problemi,
capisci: ma non lo capiscono. Il problema è l’aereo, o la nave, in altra metafora.
Il problema è il sistema tecnico. “In sé”
…
Ma è impossibile anche solo
che lo immaginino. Quindi: le cose andranno per la loro strada e nessuno sulla
Terra potrà farci niente.
[Aggiunta (del 09/06/’20) Con “e nessuno sulla Terra potrà farci niente”
mi riferisco sempre in relazione alla “tendenza
fondamentale del nostro tempo” (Severino) e cioè la spinta verso una
tecnica sempre più forte, in pratica l’ unica
parte che si stia espandendo della civiltà di oggi. Sul se tutto ciò, quest’ulteriore
tecno mania, sia ideologia: che la tecnica “possa risolvere ‘tutti’ i problemi
dell’umanità” è ideologia, nel senso di giustificazione aggiunta sulle cose; ma
non è “ideologia” se s’intende che tale forza non sia una forza realmente
agente: lo è, lo è. Non però è una forza “reale”, al contrario: è una forza
dell’ “illusione”, una forza che “copre” la natura terrestre, costruendo una
sorta di “replica” tecnica – un simulacro – della natura terrestre]
Andrea A.
Ianniello
PS.
Tempo
fa, in questo blog, ci si chiedeva quando sarebbe stato raggiunto il “punto d’ indecidibilità”, così definito: quando,
qualsiasi sia la decisione che si prenda, non cambia niente.
Ci
siamo arrivati? Chissà. Si può dirlo?
Non so se possa dirsi,
ma, di certo, si può chiederselo. Di
certo, questa è la questione più importante, oggi. Infatti, solo dalla
risoluzione di tal problema può risolversi quello della “giunzione” fra ciò che
appartiene, tutto sommato, al mondo moderno ed alla sua perenne, inespiabile
decadenza senza fine, e ciò che viene da fuori di quel mondo.
Ed è questo di “fuori”
che necesse est per poter davvero
fuoriuscire, definitivamente, dal mondo moderno e dalla sua strutturale,
perenne, inespiabile, irrisolvibile
decadenza senza fine.
Di qui l’importanza di
capir bene questo “punto” dove si trovi, oggi.
[i]
Su questo rimando a qualche considerazione qui, cf.
Si tratta, forse, tra
le cose più “sentite” che abbia scritto in questo blog. Invito – vivamente – quei pochi cui fosse, per
davvero, rimasta un po’ di reale
indipendenza di pensiero, a rifletterci
su questo post … Il Novecento è stato, anche,
questo: non dimentichiamolo, è stato anche chi ha voluto, ma non ha potuto, mai
(mai), toccare certi “gangli
sostanziali”, certi “nodi”, e, non potendolo fare, non ha mai avuto altra
scelta se non quella di costruirsi degli strumenti critici, affilati come rasoi:
sì, la “lama del rasoio”, quella che ci proverà ognuno, la bilancia più
sensibile d’una piuma, perché, in realtà, **è**
una piuma …
A buon intenditor …