Ulteriore
Commento
[del
19/12/2019].
Interessante notare come la “saga” di “Star
Wars”, cominciata nel Natale del lontano
1977, termini questo Natale, del
2019 (non ho visto il film e qui non m’interessa
l’aspetto “filmico”, quanto il suo valore di “signum”, segno di una mentalità): ben 42 anni fa … Termina così tutta una lunga fase importante
cioè la “quarantena espiatoria” dell’umanità. Un’altra data interessante è
quella cui s’è più volte qui alluso: il 1994.
Poi il 2011, quella della “Profezia
del ‘Re del Mondo’”, che termina nel 2029, il 2030 essendo una data che si
può desumere da varie fonti, così come il 2033 (sul 2030 cf.
Ogni data va sempre presa
“con beneficio d’inventario”, essa,
cioè, può esser solo indicativa,
segnando un “intorno”, un circa, poiché gli eventi hanno bisogno di una sorta di “zona d’esondazione”
per poter incasellarsi fra loro. Importante dunque, non sarà tanto il fissarsi sulle date
troppo precise, quanto piuttosto comprenderne i ritmi. Quel che conta davvero è il
ritmo degli eventi. Questo conta: e percepirlo, sentirlo, comprenderlo.
In tal senso, il “misurare” le mentalità e, dunque, il misurare i cambiamenti di tale mentalità,
qui ha un posto rilevante. Ora, nel 1977 uscì un altro importante film:
“Incontri ravvicinati del terzo tipo”. E
questo ci riporta alle tematiche
sugli “UFO” cosiddetti.
Nella “Nota Introduttiva” a J. Robin,
UFO, la grande parodia, Edizioni
all’insegna del Veltro, Parma 1984,
il suo estensore (che si firma con una sigla) commenta così l’idea di Robin di
una “discesa” dell’Anticristo (“A.”) da un “UFO” cosiddetto: l’ “Autore […]
giunge ad ipotizzare una futura ‘discesa’ antichistica presentata agli umani
sotto le apparenze di un clamoroso contatto con gli occupanti veicoli
extraterrestri. Da parte nostra, riteniamo che su quest’ultimo punto – e su
questo solo – sia opportuno avanzare qualche riserva. Se è evidente, infatti,
che l’impostura ufologica fa parte del vasto progetto antitradizionale i cui temibili trionfi son ormai sotto
gli occhi di tutti, è altrettanto vero […] che questa nuova mistificazione si
limita a recitare la sua parte di ‘segno dei tempi’ fra tanti altri, alcuni dei
quali ben più preoccupanti proprio perché meno clamorosi e pittoreschi [qui in
nota si parla degli allora famosi
“arancioni” di Rajneesh com’esempio di queste cose “più temibili”, un classico, notevole, ricorrente abbaglio “tradizionalistico” per cui
quel che costoro consideravano “terribile” si è svuotato mentre quel che loro
consideravano “pittoresco” è divenuto di grande importanza: non sarà che avete sbagliato qualcosina
nelle vostre analisi?? No - oh! – No! Gian
Mai!]. Non crediamo che l’Anticristo – sia esso un individuo ben definito,
o, com’è più probabile, un’entità
collettiva [ipotesi classica ma poco
verosimile] – possa instaurare il suo regno visibile sulla Terra in un modo
così clamoroso e ‘drammatico’: credere il contrario, sarebbe far torto alla sua
infinita astuzia”, in ivi, pp. 7-8,
corsivi in originale, miei commenti fra parentesi quadre. Qui l’ unica giusta osservazione è l’ultima, tutte le precedenti sono errate:
a distanza di tempo lo si può vedere chiaramente, il che non significa per
niente che il loro errore, pur evidente, venga invece accettato o anche soltanto
riconosciuto, molto meglio continuare per inerzia – nella nostra età super
inerziale che si spaccia per “cambiamento continuo” quando è “affogamento
continuo” – in vecchie posizioni, anche se nei fatti esautorate di senso. Così funziona
il mondo di oggi; e funziona molto ma molto ma super moltissimo malissimo,
perché proprio quest’inerzialità rende impossibile alcun – vero – cambiamento. Prima
di giungere alla giusta osservazione – per poi vedere se davvero Robin l’ha
intesa come dice l’autore della “Nota” – vediamo gli errori, non per dare
risibili “pagelline” ma per rimettere le cose nel loro posto. Come detto varie
volte, a me interessa sottozero se
Tizio o Caio siano “individualmente”
nella “ragione” o nel “torto”: affar loro, non
sta certo a me dire queste cose! Quest’orrenda “doxamania” occidentale! Che
cosa ridicola e, alla fin fine, stucchevole, noiosa. Chiunque può avere
qualsiasi opinione creda, ed dunque? Cosa cambia? Niente!! Quel che conta è,
invece, parlare delle posizioni, se queste ultime siano conformi alla
situazione reale o non. Questo conta davvero. Il resto non conta.
Dunque l’ “A.” – ben lungi dallo
“scendere da un UFO” – scenderà, sì, dal “cielo”, ma da un aereo di linea (come fece qualcun altro) … E non è affatto il movimento degli
“arancioni” né il “New Age” che gli sta facendo spazio, bensì il
“tradizionalismo”, cf.
Sorpresa, sorpresina … Certo che il “New Age” abbia fatto da “ariete da sfondamento”, nessun dubbio al riguardo, ma, ormai, è parte di una fase passata. Oggi è un’ altra fase. In essa i “dati” tradizionali vengono non
parodiati, ma riusati, come tali, in quanto tali, e focalizzati allo scopo –
come vide (ma incredibilmente “profeticamente” – mo’ ce vo’ –) Guénon illo tempore!!
– di far tornare ad uno stadio precedente della “deviazione
del mondo moderno”, come la chiamava Guénon, allo scopo di fornire una falsa soluzione
alla “Crisi del mondo moderno”, nel senso di un ritorno – impossibile –
ad uno stadio meno “avanzato” della stessa deviazione.
Dicendo questo, formalizziamo due assunti
– mai detti con tanto esplicitezza,
ma impliciti – del ragionamento di
Guénon: 1) che la modernità, essendo
“pura negatività”, cioè fondandosi su di un “no”, su di una negazione, non su
di un’ affermazione”, può, come tutte le cose solo negative (cioè basate su di
una negazione), finire solo e soltanto se il processo di negazione giunge
all’estremo e si rovescia (cosa comprensibile con un mini minimo di conoscenza
della dialettica yin-yang, non di quella hegeliana, sia detto per
inciso): e, si noti bene, che cos’è che han fatto i centri direttivi sinora è
stato di bloccare, deviare,
ammorbidire, cercare di controllare
(spesso non riuscendoci) la
negatività montante, che altro non è se non quel che, sociologicamente,
Baudrillard chiama un “processo implosivo”,
non esplosivo; 2) che il tentativo di
tornare ad una fase precedente della “deviazione moderna” è il “marchio”
dell’Anticristo. Quest’ultimo assunto, implicito ne Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi – parte finale soprattutto, vi son dei passi dove lui, qua e là, “confidenzialmente”, suggerisce –. al tempo in cui fu scritto il
libro (alla fine del Secondo Conflitto Mondiale!!), poteva non esser detto
esplicitamente. Oggi non ha più senso questo. Chiaro che tanti di coloro che l’han letto difficilmente penetrano nella “clavis”
del testo.
Ora però, vediamo se, davvero,
Robin abbia detto quel che l’autore della Nota
Introduttiva precedente citata gli
attribuisce. Robin parte (partiva)
dall’osservazione, contenuta ne Il Re del
Mondo di Guénon, secondo cui il leone è tanto simbolo del Cristo che
dell’Anticristo, cf. J. Robin, UFO, la grande parodia, cit., p. 101. “Analogamente, il 666,
‘numero della Bestia’, è anche un numero solare. Metatron – che nella Kabbalah è il paredro della Shekinah, la ‘presenza reale’ della
Divinità, in quanto ‘tramite celeste’ – è ‘l’autore delle teofanie nel mondo
sensibile’. E’ anche il ‘capo delle milizie celesti’, il che certo lo
identifica direttamente con Mikael
(il qual è come lui ‘l’angelo della faccia’), vale a dire San Michele. Per di
più, Il Pastore di Hermas identifica
il Cristo con Mikael, il che, ci dice
René Guénon, ‘non deve stupire quanti comprendono il rapporto esistente fra il
messia e la Shekinah’ [R. Guénon, Il Re del Mondo, cap. III]. In effetti, Malaki, ‘il mio inviato’, è anagramma di Mikael […] Ma – e questo ci riporta alle nostre considerazioni
iniziali sul carattere parodistico e invertito della funzione dell’Anticristo
[perché l’Anticristo ha una sua funzione,
per cui identificarlo con questo o quel personaggio che simbolizzano il male umano non ha alcun senso] – Mikael
rappresenta solo il volto luminoso di Metatron.
Poiché ogni simbolo è ambivalente, bisogna anche considerare l’ ‘ombra’ di Metatron, il suo volto oscuro. E questo
s’identifica con Samael, ch’è
chiamato Sâr ha-ôlam, ‘il genio di
questo mondo’, e dunque il Princeps hujus
mundi del Vangelo. Ora, anche Mikael
è chiamato Sâr ha-ôlam, ma
nell’accezione del tutto diversa, ed anzi radicalmente opposta, di ‘Principe del
mondo’ – e non più di questo mondo; il
mondo di quaggiù … Si può già comprendere tutto il vantaggio che la contro
iniziazione può trarre da questa quasi omonimia, affrettandosi, con quel
processo d’inversione dei simboli che le è connaturale, ad attribuire al ‘Re
del Mondo’ ciò che spettava in realtà al ‘genio di questo mondo’. Si comprende
pure perché la funzione propria di San Michele sia di vincere il drago e perché
nella tradizione islamica, se il ruolo del Mahdî
è di combattere l’Anticristo [si noti questo punto: di combattere], spetta solo al Cristo del Secondo Avvento (Seyyidnâ ‘Isâ) di ucciderlo [e cioè il
Cristo che ritorna, sì, ma in spiritu e “dai cieli” … ma
non da cieli “materiali” …]”, ivi, pp. 101-102, corsivi in originale,
mie osservazioni tra parentesi quadre (seguono considerazioni sulla “deformità” inevitabile dell’ “A.” nel senso d’essere zoppo o cieco, dove non son d’accordo con Robin, che qui, sì,
ha sbagliato, dove prende affermazioni
simboliche per cose concrete, anche
se vi è la possibilità – ma solo questa – che la deformità dell’ “A.” sia nascosta, nella forma del monorchismo di cui si dice che personaggi
particolarmente “malefici” sarebbero stati caratterizzati: ovviamente sono
cose, in tal ultimo caso, che nessuno, salvo un medico personale, può
testimoniare: rimarrebbe una deformità nascosta,
per cui la deformità “pubblica” tanto sbandierata
dalle varie leggende sull’Anticristo
– che sono, e rimangono, solo leggende e tali vanno considerate,
cioè non interpretate “letteralisticamente” – rimarrebbe
nascosta, ch’è il punto vero: una deformità pubblica ed esibita sarebbe una sorta di autodenuncia,
cioè un autogol, ridicolo pensare che un individuo
scaltro come l’ “A.” (per esempio quello dipinto da Luca Signorelli), commetta
una tale leggerezza: vero che il diavolo si tradisce sempre,
ma sta “nei dettagli”, mica nelle
pubbliche dichiarazioni!!).
Inoltre – altro punto di non secondaria importanza – quest’immediata
dichiarazione della propria devianza non
sola fa torto alla scaltrezza diabolica,
ma, di più, postula quel che oggi – per
ragioni ontologiche – non può
esserci, e cioè la piena e diretta manifestazione del senso nei segni esteriori, che cioè
questi ultimi – i segni esteriori – fungano
immediatamente da supporto al significato simbolico.
Al contrario, oggi ciò che può darsi è solo e soltanto una rappresentazione esteriore blanda. Per questo, il segno è oggi
sempre nascosto, cioè “occulto” in senso etimologico, segreto cioè, secretum.
Tutte cose molto interessanti
(e qui voglio solo dire en passant
che la parodia del Sanctum Regnum che
l’ “A,” vuol fare non è altro che la parodia del concetto “tradizionale” ma non
“tradizionalistico” d’ Imperium, e
cioè ciò di cui Federico II era rappresentante e, in questo blog, oh che strano!, parliamo di
lui!, no, ma questi sono cose del tutto
casuali …), però, in definitiva, Robin afferma quelle cose che gli sono
state criticate? Ecco il punto, che si diceva all’inizio di questa nota finale
seconda.
Leggiamo il passo: “Non ci
resta […] ormai, che far intervenire, nella nostra spiegazione del fenomeno UFO
alla luce delle dottrine tradizionali, quel personaggio il cui ruolo è
attestato in tutti i testi sacri. La teologia cattolica lo chiama l’Anticristo
e l’Islàm il ‘Messia menzognero’ (al-Masîh
ad-dajjâl). La ‘funzione’ di quest’ Antecristo
[corsivo mio] – che è anche l’Anticristo – è, come indica il suo nome, di precedere [corsivo mio] l’avvento del Cristo glorioso [corsivi miei] che deve
instaurare il Regno messianico, è sicuramente
di contraffare questo Secondo Avvento [corsivi miei] tentando di attribuirne le caratteristiche
essenziali alla sua Grande Parodia [corsivi miei]. E’ per questo […] che è
bene fare attenzione all’imitazione particolarmente
evidente della ‘Discesa’ simbolica del Cristo [miei corsivi], di cui si sa, secondo l’ Apocalisse [corsivo mio] (XIV, 14), che
appare ‘seduto sulla nube’. Ora, nell’esoterismo discosofico, destinato al
grande pubblico, è proprio dal cielo che
discende anche il Messia
extraterrestre [corsivi miei], ma da un cielo grossolanamente materializzato [corsivi miei]. […] sulla base di
tutto quello che abbiamo detto, si può comprendere che, per quanto concerne il
suo ‘avvento’, non sarebbe impossibile […] che egli discendesse da un disco volante,
se ci è lecito esprimerci in questo modo
[corsivi miei]”, ivi, pp. 99-101,
miei corsivi indicati fra parentesi quadre. Quindi Robin anche se dice in modo esplicito che “l’Anticristo ‘scenderà’
da un UFO”, ma come metafora del
fatto che scenderà in modo “grossolanamente
materializzato”. La cosa è chiara proprio
per la “riserva” che aggiunge (“se ci è
lecito esprimerci in questo modo [miei corsivi]”), che denota una “ellissi”, cioè un paragone che non dev’essere interpretato
letteralmente. Ed allora, se così stanno le cose, se quel che conta è in
sostanza il “grossolanamente
materializzato” e non l’ “UFO”, perché
non “discendere” da un normale –
oggi – aereo di linea? …
Solo quando le cose si fanno
“quotidiane”, solo quando non si
vedono, allora si può esser certi
del loro far parte definitivamente, ed irreversibilmente,
del mondo.
Terminiamo qui queste
considerazioni varie aggiunte al
presente post, nel quale vi è la
copertina di un libro dedicato a Raspùtin, guarda
caso … anche qui mera casualità eh …
[i]
Interessante come Solzhenitsyn facesse pensare ad Aleksandr Helphand – alias “Parvus”
– che Lenin, in poche parole, fosse un “raskol’nik”, uno “scismatico”; ma “raskol’niki” eran detti
i “vecchi credenti” da parte dei seguaci dell’ortodossia che seguì il patriarca
Nikon nelle sue riforme sul rito, quelle riforme che provocarono, per
l’appunto, lo scisma stesso. Dire “scismatico” in tal senso è come dire, in
italiano, “fanatico” o anche estremista. Solzhenitsyn giustamente non afferma che Lenin fosse “un agente
tedesco”, ma solo che, grazie a “Parvus”, poté verificarsi una congiunzione fra
interessi diversi ed anche opposti, ma verso un comune nemico. Molto ben scritto
è tutto il processo per mezzo del quale Lenin viene avvicinato da Helphand, che
ben conosceva ma dal quale lo separavano varie divergenze, e – tendendo conto
che Lenin dopo il 1905 era davvero ammuffito
in Svizzera e ben sapeva che la sua occasione (la rivoluzione del 1905) era definitivamente passata e svanita per sempre – il vero e proprio duello
dove Parvus lo voleva “arruolare” a favore della Germania e Lenin sì che ben
capiva l’occasione che gli si offriva, ma voleva poter aderirvi alle sue condizioni. Non alle condizioni di Helphand: e qui si vede il talento politico.
Parvus – grasso e ricco e che si era acquistata la cittadinanza tedesca –, pur
con quel suo “sangue behemotico” (A.
I. Solženicyn, Lenin a Zurigo, Oscar Mondadori Editore,
Milano 1990, p. 129, corsivo in
originale, “beghemòt” in russo è allusione al behemòt del Libro di Giobbe,
ma vale “ippopotamo”, come si dice
nella nota aggiunta dal traduttore a pie’ pagina del testo citato), proponendogli
l’alleanza già nel 1916, non si
aspettava quel rifiuto: “Parvus non ci capiva niente […]. Nonostante tutto,
venendo qui [da Lenin, in Svizzera], non avrebbe mai immaginato una cosa simile. Il grande irriducibile, il più estremista
di tutti i rivoluzionari [russi], sollecitato dalle migliori delle congiunture
e dalle più devote profferte di servizio, si rifiutava di fare la rivoluzione??”,
ivi, p. 183, corsivi miei, mie note
fra parentesi quadre. Il fatto si è che Lenin voleva entrarci alle sue
condizioni, ed inoltre dubitava della natura effettivamente “socialista” di
Parvus, peraltro ne dubitava con reale
ragione: “Ma era poi un socialista quello?”, ibid. Parvus allora tentò di
costruire dei suoi contatti in Russia, non riuscendoci, perché lui mancava
dalla Russia dal 1905, il vero motivo era quello, mentre Lenin, pur in un
esilio per niente dorato, vi ha mantenuto comunque dei contatti, delle
conoscenze, per quanto scarse. Ma la situazione maturava, così, alla fine,
Lenin riuscì a spuntare le migliori – per
lui – condizioni: e siamo alla vicenda del treno piombato famoso.
Fuori da ciò che
Solzhenitsyn chiamava la “giostra” delle interminabili polemiche fra
rivoluzionari al riguarda della rivoluzione detta “permanente”, Parvus è un
altro, diverso tipo di
rivoluzionario: “Il rivoluzionario di tipo nuovo, il rivoluzionario-milionario,
il finanziere-industriale, può permettersi di esprimersi più francamente: «La
rivoluzione mondiale è attualmente impossibile, non così un rivolgimento
socialista in Russia. Ed è proprio contro lo zarismo che devono coalizzarsi tutti i partiti operai del mondo!»”, ivi, p. 179, corsivo in originale. Ma,
oltre ai problemi fondamentali dell’entrare in un’alleanza temporanea il più
possibile alle proprie condizioni, Lenin non era neanche d’accordo
sull’alleanza di “tutti” contro lo zarismo. Per lui lo zarismo doveva cadere prima che si potesse aprire la porta
per un “rivolgimento socialista in Russia”, per dirla con l’appena citato passo.
Se, dal punto di vista dell’ “intrigo internazionale” – come si diceva un tempo
– Parvus vedeva meglio ed aveva i contatti giusti, dal punto di vista “sul
terreno” al contrario la vedeva giusta Lenin: il regime zarista doveva esaurire
tutte le sue possibilità, soltanto
dopo si poteva aprire una chance effettiva. E questo è vero un po’
per tutte le rivoluzioni coronate da successo, siano quella francese, quella
americana, quella russa, quella cinese o quella iraniana. Al contrario, ogni
qual volta i rivoluzionari – seppur certi di loro stessi ma senza un’analisi
concretamente efficace sul campo – si son mossi prima che il regime avverso
avesse esaurito tutte le sue possibilità, sono stati incoronati
dall’insuccesso.
Parvus ammoniva Lenin
sui suoi “lavori” in Svizzera: “«I vostri, qui in Svizzera, sono giochetti da
bambino »”,
ivi, p. 195, e nonostante già in quel
tempo Lenin avesse “occhi da malato”, ibid., non cedette. Questo perché sapeva una cosa che a Parvus non poteva
che sfuggire: “Parvus è forse mostruoso […] nella lontana evidenza tribunesca.
Ma i suoi occhi incolori e acquosi son irresistibilmente intelligenti, e questo
Lenin sa ben valutarlo. Ma doveva sfuggirli. Perché non sospettassero la
verità. Che cioè Lenin non era in grado di agire.
Poteva ogni altra cosa. Ma non questo: render più vicino quel momento e realizzarlo. E Parvus, coi suoi milioni, senz’altro
con carichi d’armi nei porti, con tutta una cospirazione organizzata, con in
mano le officine Putilov (sì, quelle sue bianche mani paffutelle, che ogni
tanto batteva l’una contro l’altra, e che tuttavia sapevano agire), Parvus continuava a inquisire: «Ma
ditemi una buona volta che cos’aspettate, Vladìmir Il’ič? […] Fino a quando
intendete ancor aspettare?» Lenin aspettava che succedesse qualcosa. Che un’onda propizia gettasse concretamente la sua
navicella nel già fatto. Come per uno
scherzo del destino, le idee nelle quali Lenin aveva basato la sua vita non avevano
potuto né mutare il corso della guerra, né trasformarla in guerra civile, né
spingere la Russia alla disfatta. La navicella giaceva nella sabbia come il
giocattolo d’un bimbo, in attesa di un’onda che non veniva mai … […] allora,
Vladìmir Il’ič […] Che cos’avete lassù concretamente, me lo dite una buona
volta? Cosa aveva? Era proprio a
questo che Lenin non poteva rispondere, e per un semplice motivo: che non aveva
niente. La Svizzera era su un pianeta e la Russia su un altro. Cosa aveva? … Un
minuscolo gruppo, cosiddetto partito, del quale non si sapeva esattamente chi
c’era e chi se n’era andato. Aveva … Il Che-Fare, Un passo-Due passi, Due
Tattiche. L’Empirocriticismo. L’Imperialismo. Aveva quella sua testa, per
fornire in ogni momento la risoluzione giusta all’organizzazione centrale,
dettagliate istruzioni ad ogni rivoluzionario, parole d’ordine esaltanti le
masse [era, insomma, un rivoluzionario “di professione”,
diversamente da Parvus in questo]”, ivi,
pp. 198-199, corsivi in originale, miei commenti fra parentesi quadre. E cioè
aspettava che qualcosa facesse crollare – da
dentro – il regime zarista, cosa senz’altro tattica, come dice
Solzhenitsyn (che vi vede, sbagliando, solo questo e che ammira, pur
criticandolo senza problemi, le capacità strettamente politiche di Lenin grande “tattico”), ma
pure strategica, cosa che, al
contrario, Solzhenitsyn non vede. Il crollo del regime zarista, infatti, era
ciò che non poteva invece accadere nell’unica rivoluzione a cui Lenin aveva
concretamente partecipato, prima di un’intera esistenza in esilio, in Svizzera
in particolare: quella del 1905. In quel tempo, lo zarismo aveva ancora delle
energie, residuali, sì, tuttavia ben
reali. La storia ci dimostra che le rivoluzioni avvenute con successo
l’han potuto realizzare solo quando dall’altra parte avevano un regime “cotto”,
o stracotto, che aveva esaurito tutte le sue interne possibilità. Dunque si
possono aver tutti i mezzi ed anche una situazione favorevole, se il regime
contro il quale ci si oppone – a torto o a ragione che sia, qui non importa –
non esaurisce le sue possibilità, non c’è niente da fare: la forza d’inerzia
dell’intera storia rema contro, piaccia o non. Ed un regime, qualsiasi, può
esaurire le sue interne possibilità solo se, da un lato, è molto debole e,
dall’altro, last but not least, non
intervenga un fattore dall’esterno.
Quest’ultimo punto sembra quello decisivo,
sembra il punto più aleatorio.
Discutendo della rivoluzione da lui più studiata – non quella cui aveva
partecipato (Russia 1905, che sempre commemorava) – e cioè la Comune di Parigi,
finalmente in Russia era scoppiata la rivoluzione: non riusciva a dormire, cf. ivi,
pp. 239-240, perché sapeva che – ora, sì – era giunto “il” momento , quello giusto. Ed allora i contatti con Parvus
potevano ritornare utili, allora, sì, che gli accordi – però il più possibile alle
sue condizioni – si potevano fare.
Poteva spuntare condizioni assai migliori proprio perché sia Parvus che l’alto
comando tedesco anche loro sapevano che il tempo giusto non poteva durare
chissà quanto. Qui Trotzky disse giusto: le rivoluzioni hanno fasi, ma il
momento giusto dura poco (il qual Trotzky parlò di alcuni aspetti interessanti
dell’ “arte dell’insurrezione”, cf. L.
Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Oscar Mondadori Editore, Milano 1969, vol. ii, pp. 1072-1073; e cf. ivi,
pp. 1081-1084).
Su Trotzky, cf.
La copertina del libro
di Walter è postata qui, cf.
“Questa legge
immutabile della lotta rivoluzionaria – e forse di ogni progresso umano – che non è mai stata formulata da nessuno e
che pur esiste, Lenin l’aveva potuta
costatare in diverse occasioni: ogni nuovo periodo fa emergere e ti avvicina
uno o due persone, proprio quelle che ti sono più congeniali in quel dato
momento, le più interessanti, le più importanti, le più utili proprio adesso, quelle che proprio oggi possono predisporre a […]
favorire gli scambi d’opinione e l’azione comune. Ma quasi nessuno è in grado di mantenersi a lungo in questa
posizione, poiché le situazioni mutano da
un giorno all’altro, e noi dobbiamo
mutare dialetticamente insieme a loro: mutare all’istante, o, meglio
ancora, precedendolo, proprio in ciò consiste il genio politico! Naturalmente
colui che dopo tanti altri capitava nel turbine di Lenin veniva immediatamente
trascinato nella sua azione, agiva nel momento indicato e con la prontezza
richiesta, non disdegnando alcun mezzo, e sacrificando anche i propri averi.
Naturalmente: perché non lo faceva
per Vladìmir Il’ič, ma per la forza imperiosa che attraverso di lui si
manifestava e della quale Lenin era solo
l’infallibile portavoce, colui che
conosceva sempre esattamente la verità
del giorno, che magari la sera non
era più quella del mattino. Ma non appena questi intermediari
s’incaponivano a voler fare di testa
propria, smettevano di capire l’importanza e l’urgenza del proprio compito, tiravano in ballo contraddizioni
intime e destino personale, altrettanto naturalmente
venivano tolti dalla strada maestra, allontanati e dimenticati, all’occorrenza
insultati e maledetti […] Si manteneva al suo fianco e procedeva insieme a lui soltanto chi intendeva correttamente la
causa del partito, e fintanto che
l’intendeva. Ma superata l’urgenza di un
compito contingente, se ne offuscava
di solito anche la comprensione, e
tutti quei collaboratori di breve momento
restavano irrimediabilmente
impiantati come biffe nella stupida gleba inerte ai margini della strada, e si
allontanavano, scomparivano alla vista, venivano dimenticati, salvo vederseli
talvolta correre incontro a precipizio, ormai fatti nemici, dietro a una nuova svolta [e così funziona il mondo, con questa “legge”, mai da nessuno formulata].
La vicinanza durava talvolta una settimana, un giorno, un’ora, una
conversazione, il tempo di una comunicazione, di un incarico: e Lenin sapeva
trasmettere sinceramente a ognuno di
loro il fervore e l’urgenza di una causa indeclinabile, rivolgendosi a ognuno come all’ uomo più importante del mondo; ma di lì a un’ora erano già tutti lontani ed estranei e di quello che erano
e significavano non gli restava
neanche il barlume d’un ricordo”, A. I. Solženicyn,
Lenin a Zurigo, cit., pp. 23-26,
corsivi miei. In realtà, ho anch’io più volte osservato una cosa del genere, un
tal fenomeno, nient’affatto solo nell’ambito della “lotta rivoluzionaria” – che
oggi praticamente non esiste più ed
è un mero rottame – men che meno in “ogni progresso umano”, ma sembra piuttosto
una ricorrenza “cosmica”, una “tendenza” cosmica “in quanto tale”, nel senso
che fa parte del Cosmo e della sua
struttura profonda, non
evidente.
Poi qui si vede chi è
“capo” non per via di elezione, o
ereditaria, ma “sul campo”: è
colui che sa trasmettere ad ogni uomo,
o donna, come a chi è il più importante
del mondo, in quel momento – in quel momento – …