martedì 3 ottobre 2017

**In margine** ad un’Anticipazione ….





Alcune considerazioni – in margine dell’Anticipazione dell’ultimo libro di R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi Edizioni, Milano 2017, da poco uscito, che segna il ritorno di Calasso a delle tematiche trattate in un testo su questo blog ricordato più volte[1]: La Rovina di Kasch, tra l’altro l’espressione “l’innominabile attuale” proviene proprio da quest’ultimo libro[2].
L’Anticipazione la si può leggere al link:
http://www.corriere.it/cultura/17_settembre_26/libro-adelphi-roberto-calasso-l-innominabile-attuale-da4facf2-a2c8-11e7-82cf-331a0e731b92.shtml.
In quest’ultimo articolo online, è l’autore stesso, Calasso, che parla del suo nuovo libro, chi meglio di lui può dunque riassumerne il senso? Ed infatti è sull’articolo che qui ci si tratterrà un po’, non ho letto il libro, ma, in ogni caso, mi pare che l’articolo stesso ponga comunque sul tavolo dei temi non certo privi d’interesse. Anche di questi ultimi, tuttavia, si farà qui un’inevitabile cernita, focalizzandosi soltanto su alcuni, e la cosa è inevitabile qui. Per esempio, su Burckhardt, dove le osservazioni di Calasso sono molto giuste: è infatti assai significativo che quei passi, da lui segnalati, siano stati espunti. Ci sarebbe da dire, però si andrebbe troppo oltre. Ma veniamo a noi.


La tesi iniziale di Calasso, nella sostanza, riprende quella alla base de La Rovina di Kasch: la società, senza più alcun “numinoso” cui poter far riferimento, ha “il culto di se stessa”, e questo è verissimo. Per Calasso, in ogni caso, è il “numinoso”, per così dire comunque presente (quali che siano le condizioni interne alla e della società), è il numinoso che sconquassa il mondo con la sua domanda inevasa: di qui, tante guerre di religione senza però “alcun dio” a combattersi, non dunque “lotta nei cieli”, ma solo sulla Terra, tra i “simulacri degli dèi”. 
Invece, a mio avviso, pur essendo quanto sostenuto da Calasso vero, è la debolezza strutturale di quest’autoreferenzialità il nodo vero, pesante, scorsoio, e non solo perché quel che Calasso chiama il “sollievo psichico”, dato radicalmente dalla società secolarizzata non può essere che temporaneo. Non è soltanto questo, ma è invece proprio la debolezza della struttura portante, dovuta sostanzialmente alla super prevalenza del diritto privato e dell’ottica privatistica su ogni altra ottica, che si sta manifestando sempre più evidentemente. Insomma, è “l’autoreferenzialità radicale”, che è caratteristica della società contemporanea, società che trascolora inevitabilmente nella sua contrazione su ed in se stessa,  e di conseguenza nel suo inevitabile collasso su se stessa. Si definisce collasso quel cedimento della struttura portante di qualcosa, nel nostro caso, cedimento della struttura portante della società.
Tale fase, va detto con chiarezza, segue ad una fase precedente, di “coalescenza”, fenomeno nel quale accade che particelle di un liquido, disperse nell’aria, si uniscano per formare brevi, passeggere entità relativamente più grandi, ma sempre, comunque, disperse in un mezzo.
In altre parole, fase nella quale si è verificato una sorta di “pompaggio”, di “bolla” non solo economica, ma pure mentale, di opinioni e di modi di vivere, di pensare, tutti dovuti proprio alla cosiddetta globalizzazione. Le due fasi, e non certo per caso, si ricollegano, necessariamente, s’implicano reciprocamente tra di loro, pur se, in apparenza, possano sembrare contrarie od opposte.  

Per cui, giunti qui, possiamo così rispondere a Calasso: la società secolarizzata crede solo a se stessa. Vero. Essa è del tutto e radicalmente autoreferenziale. Anche questo è pur vero. 
Ma ci crede ancora? Questo bluff della società secolarizzata sembra essere minato alla radice.
Non più, dunque, crede in se stessa, o, per lo meno, non con la stessa forza, senza il trasporto, senza sogno che non sia una costruzione virtuale, un simulacro; insomma: c’ha creduto, , ma ora non più. La società secolarizzata, dunque, credeva in se stessa. Questo “credere” non è più dunque un modello cui tendere, ma è invece un procedere che si perpetua per inerzia. Che non implica più alcun credere. Che può “funzionare”, senza che vi sia bisogno di alcun “credere”. Ma che, poi, è divenuto un “dogma” inespresso, e per questo inattaccabile, intangibile perché invisibile, un dato di fatto, un dato cosiddetto di “natura”, pur essendo invece un dato sociale, cioè storico.
Questo fatto – del non più credere “in se stessa”, ma del perdurare in questo stato indefinitamente, per inerzia – è, a sua volta, avvenuto per molte cause, ma una è stata quella implosiva non esplosiva –: la proliferazione di regole reciprocamente in contraddizione, che sanzionano, ma che, tuttavia, non sono sanzionabili; manca – in questa congerie confusa di norme tra loro escludentisi –, di un principio comune.
E se manca questo principio comune, ciò accade proprio a causa del fatto che la società secolarizzata non riconosce alcun valore fondante che non sia “situazionale”, vale a dire che sia una mera regola di funzionamento, e non un qualcosa che faccia riferimento ad una sostanzanon umana” (apaurusheya) di un qualsiasi genere – sulla cui natura nemmeno mi metto a discutere perché qui non è la natura in questione, ma il suo semplice, mero darsi –; e, a sua volta, questo mero fatto è una semplice conseguenza dell’anti-utopia alla base, alla radice, della scienza-tecnica moderna: la manipolazione totale, che, in tedesco, si può dire con due parole: Die Totale Verarbeitung, che vuol dire manipolare nel senso di elaborare, sì nel senso elettronico, e questo è molto calzante; ma si può usare questo stesso termine anche in relazione al petrolio (Erdöl, di genere neutro), altra cosa significativa non poco. Ma in tedesco si può dire “manipolazione” con un altro termine: Machenschaft, femminile anch’esso, che, tuttavia, significa soprattutto “manipolazione” come intrigo, in una parola: il famoso complotto. Dunque, “Verarbeitung” è la manipolazione di un qualcosa di dato, di una sostanza o di data elettronici, mentre il termine di “Machenschaft” si riferisce al manipolare gli uomini.
Come sempre, se il tedesco è molto più preciso, l’italiano è caratteristicamente ambiguo, per cui lo stesso termine si usa per la manipolazione di sostanze, come per la manipolazione di persone, cosa che si distingue, invece, in tedesco in modo chiaro.
Di conseguenza: Die Totale Verarbeitung ist Die Totale Machenschaft. Vale a dire, in italiano: “La manipolazione totale è l’intrigo totale”. Messa in altri termini, ancor più chiari: La manipolazione totale è il complotto totale.
Noi ci viviamo dentro in questo “qualcosa” qui, ed è fondamentale non cadere nella trappola di considerare questa costruzione, quest’emulsione, come “natura”, come uno stato naturale. Parlando poco tempo fa con amico che se n’intende di elettronica sui nuovi mezzi, ho sunteggiato il punto con una battuta: Hitler doveva mandare la Gestapo ad acchiapparmi, invece oggi sono io stesso che dico al sistema dove sto e che percorsi ho fatto. Tramite il telefonino si può, infatti, sapere dove sto e pure che percorsi abbia fatto sin ora. Il sistema “Safety Tutor” delle autostrade può memorizzare tutte le targhe che siano passate sotto uno dei suoi archi elettronici metallici. E questo è ancor niente, rispetto a quanto è già possibile.
Tutto questo i famosi “cantori della democrazia” e della “libertà” individuale di altri tempi l’avrebbero denunciato scendendo nelle piazze, avrebbero protestato contro il totalitarismo, detto “fascismo” o “comunismo” a seconda dei gusti, ma sarebbero stati concordi nel denunciare tutto ciò opponendocisi con tutte le loro forze. Oggi: silenzio tombale, anzi, proprio i “cantori della democrazia” e delle “libertà” individuali stan qui a spiegarci che è tutto per il nostro bene, per la nostra sicurezza. Se non si è consapevole di tali cose, si rischia davvero di fare solo chiacchiere[3] (ed è chiaro che, qui, non mi riferisco al libro di Calasso, ma si parla in generale, su certe “denunce” sulla “libertà”, denunce che, tuttavia, non essendo consapevoli della deriva in atto da decenni, approdano poi al nulla di fatto).  
Non vi è nulla di dato, si postula in base alla pratica – non è una teoria – della “manipolazione totale”, ed ovviamente tale postulato è tanto non razionale quanto il postulato contrario; tutto è positum, vi si sostiene, di fatto eh, non è una teoria. Tale pratica, in una prima fase, si è sviluppata per mezzo di organismi collettivi ed al loro interno; nella seconda fase, poi, per mezzo di “gruppi” d’individui, e, infine, anche per mezzo di singoli individui.
Tutto è positum da un soggetto, collettivo prima, di gruppo poi, singolo per finire.
La conseguenza è il disordine globale, inevitabile, oltre che strutturale. In tal senso, la nostra è tutto fuorché un’età di decadenza, con la “saggezza”, che “guarda dall’alto”, caratteristica di tali epoche, saggezza che anche Calasso non riesce a riconoscere, nel “nostro” mondo attuale: non ve n’è, infatti. Questo perché, in realtà, non trattasi di decadenza, ma di un processo di dissoluzione, dissolutio, che è qualcosa di ben altro, rispetto al processo della mera decadenza.

Questi temi sono riassunti in un passo, tratto da un libro ripubblicato più di dieci anni fa (nel 2003), ma che qui si riporterà nella vecchia edizione.
La data della pubblicazione della vecchia edizione la dice lunga sulla profondissima radice di queste cose; per tornare all’osservazione fatta in nota nel post precedente, e cioè che non si son fatti, davvero, i “conti” col pensiero negativo, che si è creduto, Cacciari tra gli altri, di poter superare per passare, poi, ad una fase positiva, senza però aver esaurito quei conti. Accade, non casualmente, che quei nodi rimangano lì.
E che si ripresentino, con un bel conticino, piuttosto ben salatino 
Stati di crisi si possono soltanto eliminare, non refutare. E’ stolto voler refutare il nichilismo. Soltanto ingenui o opportunisti si assumono questo compito. […]
Non conosco un testo che descriva più incisivamente lo stato di crisi del nichilismo della seguente ‘favola didascalica’ che tolgo da una molossica ‘Introduzione ai problemi del nichilismo’. ‘Una nave gigantesca attraversa la costellazione di Orione, ha le luci schermate, non è voluta da nessun Dio, ma nemmeno non voluta; non è accompagnata da nessun Dio, ma nemmeno ostacolata – diciamo pure: non è nota a nessun Dio. Nemmeno noi sappiamo di dove viene, ammesso che venga da qualche parte; verso quale meta si diriga, ammesso che si diriga verso qualche meta. Ci sono svariati motivi che inducono a pensare che sia superfluo nominare la nave, perché, presto o tardi, si sarà dissolta nelle tenebre, come tutte le sue simili, e dunque sarà stata soltanto come se non fosse mai stata. Tuttavia – e ciò che è l’ unica cosa della nave che ci è nota con sicurezza – tuttavia le pareti delle cabine sono tappezzate di regole che costituiscono l’ordinamento di bordo, cioè di regole che sono state sanzionate da qualcuno che a sua volta non è stato sanzionato; ma non si può negare che sono queste regole a permettere che a bordo la vita brulicante si svolga assolutamente senza intoppi. Si domanda: Queste regole sono vincolanti?’”[4].
No che non lo sono … Ah, che la vita “sulla nave” si svolga “senza intoppi” è oggi tutt’altro che vero, ed è del tutto falso. Ma ciò nasce proprio dal fatto che le regole non sono vincolanti. Né possono esserlo, lo sarebbero se e solo se ci fosse un “valore” superiore cui far riferimento, e se tale valore fosse riconosciuto socialmente: mancano ambedue le condizioni. Ed è questa, per l’appunto, la “caduta senza rumore”[5], processo nel quale siamo dentro.
Una nave ignota ad alcun Dio, in una parola, non può che perdersi. Vero che “il Dio” può anche ostacolare, vero, ma, come diceva Thoreau, “non si guadagna mai qualcosa senza perder qualcos’altro” …


Andrea A. Ianniello





PS. Sulla Germania del ’33 (1933, ovvio).
Infatti, ricordiamoci come può accadere il cosiddetto – cosiddetto … – “impensabile”: “‘Se dichiarerò guerra, Forster, allora nel bel mezzo della pace farò comparire a Parigi delle truppe. Indosseranno uniformi francesi. Marceranno in pieno giorno per le strade. Tutto è pronto fino all’ultimo particolare. Marceranno fino al quartier generale del comando supremo. Occuperanno i ministeri, il parlamento. Nel giro di pochi minuti la Francia, la Polonia, l’Austria, la Cecoslovacchia verranno private dei loro uomini guida. Un esercito senza stato maggiore. Tutti i capi politici saranno eliminati. Regnerà una confusione senza precedenti. Ma io mi sarò messo già da tempo in contatto con gli uomini che formeranno il nuovo governo. Un governo che andrà bene a me. Troveremo questi uomini, li troveremo in ogni paese: spinti ed accecati dall’ambizione, dalle liti di partito e dalla presunzione. Avremo un trattato di pace, prima che scoppi la guerra.
Ve lo garantisco io [e, senza offesa per nessuno, era esattamente nella posizione di poter garantirlo, in quanto poi almeno in parte l’ha fatto: voglio dire che non erano mere parole o minacce nel vuoto; nota mia], signori, che l’impossibile si avvera sempre. L’improbabile è la cosa più sicura. Avremo volontari a sufficienza, uomini come le nostra SA, silenziose e pronte al sacrificio. In tempi di pace porteremo i nostri uomini al di là del confine.
Gradualmente, nessuno vedrà in loro nient’altro che pacifici viaggiatori. Oggi, signori, non ci credete. Ma lo farò, una mossa dopo l’altra. […] Nessuna linea Maginot ce lo impedirà. La nostra strategia, Forster, consiste nel distruggere il nemico dall’interno, fare in modo che venga sconfitto da se stesso[6]. Ovvio che la cosa poi non si è verificata nei termini letterali delle confidenze ricevute da Rauschning prima del Secondo Conflitto Mondiale, e, però, si è verificata.  





[1] Cf. http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/07/linnominaile-attuale-da-la-rovina-di.html; anche cf.:
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/03/la-legittimita.html,
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/03/arcana-imperii-atque-legitimitas.html,
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/12/la-rovina-del-cash.html.    
[2] Cf. R. Calasso, La Rovina di Kasch, Adelphi Edizioni, Milano 1983, qualche annetto fa, o – come diceva qualcuno in vena di facezie – qualche “nanetto” fa. 
[4] G. Anders, L’uomo è antiquato, Il Saggiatore, Milano 1963, pp. 314-315, corsivi miei. 
[6] H. Rauschning, Colloqui con Hitler, Tre Editori, Roma 1996, pp. 11-12, corsivi miei. Ancora diceva: “‘Quando il nemico è demoralizzato, quando è prossimo alla rivoluzione, quando i disordini sociali incombono, allora è giunta l’ ora’”, ivi, p. 14, corsivi miei. Rauschning è stato molto criticato, nulla vieta però che vi siano anche delle “confidenzereali di Hitler a Rauschning.   

domenica 1 ottobre 2017

San Leucio – II – **In margine** alla presentazione d’un libro su San Leucio e sull’industria tessile meridionale





Padre Ubu: Controventraglia! Non avremo demolito tutto se non demoliremo anche le rovine! Ora, per questo, non vedo altro modo che equilibrarle in begli edifici ben ordinati”[1].

Sulla potenza. ‘Il sentimento di potenza che io considero come il quarto attributo dello spirito [geist] moderno, consiste nella gioia che si prova nel mostrarsi superiori agli altri. Se si analizza questo sentimento, si constata che esso […] altro non è che una confessione involontaria ed incosciente di debolezza; per il che, esso costituisce anche uno degli attributi della psiche infantile. Un uomo veramente grande, naturalmente e interiormente, non annetterà mai uno speciale valore alla potenza esteriore. La potenza non offre alcuna attrattiva a Sigfrido, ma esercita un’attrazione irresistibile su Mime. Bismarck non si è preoccupato mai oltre misura della potenza, perché l’esercitava naturalmente. E così un re perché la possiede, non le dà un prezzo esagerato. Ma un mercantuccio della frontiera polacca che fa fare anticamera ad un re, perché questi ha bisogno della sua assistenza pecuniaria, gioisce della sua potenza esteriore, perché manca di quella interiore. Un imprenditore che comanda a diecimila uomini e gode della sua potenza rassomiglia al bambino che è felice di vedere il suo cane obbedire al minimo cenno [questa è la radice della “mania” per i cani oggi, soltanto che il cane non obbedisce, tanta è la nullità di chi li possiede per esserne posseduto; nota mia]. E quando non sono né denaro né una costrizione esteriore a procurarci un potere diretto sugli uomini, ci consentiamo di esser fieri di aver asservito gli elementi della natura. Donde la gioia puerile che ci procurano le ‘grandi’ invenzioni e scoperte [questa la causa di tutte quella manie per la tecnica, tipiche di oggi: nota mia]. Un uomo dotato di sentimenti profondi ed elevati, una generazione veramente grande, alle prese coi problemi più gravi dell’anima umana, non si sentirà accresciuta per il fatto della riuscita di qualche invenzione tecnica. Essa non attribuirà che una importanza insignificante a questi strumenti di potenza esteriore. Ma la nostra epoca, inaccessibile a tutto ciò che è veramente grande, non apprezza che questa potenza esteriore, ne è lieta come un bambino e dedica un vero culto a quelli che la posseggono. Ecco perché gli inventori e i milionari inspirano alle masse un’ammirazione senza limiti’. Queste osservazioni appartengono ad un semplice libro di storia dell’economia. ‘Il Borghese’, di Werner Sombart. Ma meritano di esser riportate anche qui come oggetto di utile riflessione, per coloro che sono portati a cadere in equivoco quanto al concetto della vera potenza.
La psicanalisi ha un termine per designare la situazione indicata dal Sombart: supercompensazione. ‘Supercompensazione’ è, nel nostro caso, ogni bisogno della potenza che serva a nascondere a noi stessi una effettiva debolezza e a distrarci dal compito di davvero superarla”[2].

“La conversazione iniziava con ciò che lo interessava al momento, per esempio la parola ‘Raum’. Avevo mai pensato che parola sorprendente fosse questa? Il dittongo ‘au’ racchiuso fra ‘r’ e ‘m’? Egli, col bastone di passeggio faceva un ampio movimento come a voler disegnare un gran cerchio nell’aria. Che cosa mi veniva in mente? Schaum (schiuma) Frau (signora), Aue (riviera), Blau (blu). […] Sai, la lingua tedesca è (in questo) insuperabile! Mi veniva in mente il francese espace. Il latino spatium. Già, quest’ultimo è qualcosa di completamente diverso – è romano, mediterraneo – la ‘s’ delimita una zona – è separativo – mi veniva in mente la casa meridionale col suo patio, aperto verso l’interno, a proteggere gli abitanti dal mondo esterno. Raum (spazio) è lo spazio aperto sotto l’albero dove i duchi germanici radunavano i loro uomini. Apertura, ‘lealtà’, questo era. Ma come la mettiamo con la parola rom? Rom [la città di Roma] e raum sono simili, non trovavo anch’io?”[3].

“Questa casa ha una collezione di centomila libri,
ed un funzionario senza incarico che sta in ozio da mille anni”
(fine dinastia Qing, 1907)[4].

“Nella luce incerta del crepuscolo si scorge un pino possente
tollera paziente le nuvole disordinate che gli veleggiano intorno.
Il cielo ha creato la Grotta degli Immortali.
Dalle cime impervie sconfinato è il panorama”[5].




Problema molto grave dell’Italia – e del mondo – ma di Caserta in particolare, è l’assenza di visione: panorami ridotti, sfondi di teatro chiusi su. Manca il respiro, e tutto rimane rachitico.  


Ma veniamo a noi. 
Si è svolto, venerdì 22 settembre, nella sede della CGIL di Caserta, l’incontro di presentazione del libro, divulgativo, dedicato al tessile: M. Lautieri, Industrie manifatturiere e mondo tessile nell’Antica Provincia di Terra di Lavoro, Aletti Editore, Villanova di Guidonia (RM) 2016. Ha introdotto e moderato P. Iorio, dell’Associazione organizzatrice dell’evento, “Le Piazze del Sapere”, associazione che, usualmente, organizza nelle librerie le Presentazioni di libri, ma che, ha spiegato lo stesso Iorio, ha scelto la sede della locale CGIL proprio a causa del tema del libro stesso.
Non inizio neanche a specificare se sia corretto l’aggettivo di “antico” relativo a Terra di Lavoro che, se “antica”, non può identificarsi, dunque, con la Provincia di Caserta, tra l’altro l’unica Provincia d’Italia ad essere abolita, poi ricostruita con un territorio ridotto, ecc., ecc.. Il discorso sarebbe troppo lungo, e ci porterebbe fuori tema.
Questo libro è un prodotto divulgativo, che vuol essere tale, ma che ha l’intenzione di riportare l’attenzione su di un settore industriale, ormai negletto: la stessa Lautieri preciserà, nel corso della presentazione, che è stata spinta a scriverlo sia per il fatto che, lavorando nel tessile, si è sempre sentita dire che il Meridione non aveva industria tessile, cosa falsa, e il libro ne dice abbastanza, sia che San Leucio non fosse altro che una produzione di nicchia. Per contrastare tale idea, l’autrice ha scritto questo libro che, dopo le parti introduttive, si concentra su San Leucio, avendo l’autrice deciso di riportare, in Appendice, lo “Statuto” di San Leucio, completo: di quest’ultimo si trovano dei brani sul web[6], ma, ormai, è difficile ritrovarlo completo, salvo in belle edizioni di qualche anno fa[7].
Alla serata hanno partecipato anche G. Cerchia, che si è diffuso su alcuni temi strettamente storiografici, relativi al problema dello stato dell’industria nel Regno delle Due Sicilie nell’Ottocento e nella fase di passaggio all’Italia unitaria; su questi temi vi è tutta una storiografia, che ha prodotto anche recenti acquisizioni: sarebbe impossibile riassumerla qui, anche perché si necessiterebbe di “dati” strettamente quantitativi. Chi vi fosse interessato, perché non approfondisce da solo? Questo il suggerimento che si può dire: scoprirà che le cose non sempre sono come appaiono … Ma una tale differenza rilevante tra realtà ed apparenza, non è qualcosa che abbiamo verificato spesso? Domanda retorica …
Seguiva un lungo intervento di D. M. Lepore (del RAM), sul turismo. Concludeva, infine, l’autrice, com’è giusto nelle Presentazioni di libri. Non va, poi, dimenticato il ricordo di M. Pignataro, fatto dal figlio Giancarlo (d’Italia Nostra), e l’introduzione di C. Bernabei, della Segreteria provinciale CGIL. Ma, è ovvio, il tema centrale è stato il tessile, e le problematiche che, ancor oggi, esso suscita.
Infine – last but not least -, anzi, proprio all’inizio dei vari interventi successivi, vi era l’intervento di P. Broccoli, che tentava di porre al centro alcuni “nodi” più generali, e cioè di quelli che interessano in questo blog, per le questioni più particolari non essendoci né il tempo né lo spazio, né sarebbe giusto in questo blog.
Ben fatto il video iniziale, sul quale solo delle brevissime osservazioni. In primis, San Leucio non è stata l’unica esperienza di villaggio, cosiddetto “utopico”, relativo al tessile, tessile che, ricordiamocene, ha costituito l’ ossatura vera e propria della cosiddetta Rivoluzione industriale, sin dall’Inghilterra, e il campo principale iniziale per l’applicazione della tecnica all’industria = capitalismo; in secundis, i dati sugli occupati nel tessile nel Mezzogiorno dimostrano, al di là di ogni dubbio, che nella metà del XIX secolo il tessile era più sviluppato nel Sud che nel Nord; in tertiis, la fine del tessile meridionale si ebbe per due rilevanti motivi: 1) la fine della politica “protezionista”, che il Regno delle Due Sicilie aveva sul tessile meridionale, mentre il neonato Regno d’Italia (1861) non ne ebbe alcuna, privilegiando invece le manifatture settentrionali; e, di maggiore importanza, 2) il fattore monetario, il cambio della valuta. Infatti, se l’equivalenza tra la lira del Regno d’Italia e la moneta del Regno di Sardegna era 1 = 1, al momento dell’Unità d’Italia, e per altri stati preunitari fosse anche meno di 1 = 1, per la moneta del Regno delle Due Sicilie (il ducato) l’equivalenza con la lira era: 1 lira = 4,61 ducati. Come si può ben facilmente immaginare, le merci prodotte nel Sud, quindi anche il tessile, improvvisamente vennero a costare molto di più, quattro volte tanto. E poi, con un cambio così sfavorevole, era inutile buttare a terra il costo della manodopera, perché sarebbe stato impossibile recuperare il divario. Insomma, avvenne qualcosa di simile, mutatis mutandis, a ciò ch’è successo quando il cambio della lira con l’Euro è stato posto in modo così sfavorevole alla lira.   
Un’altra osservazione: il tessile riguardava tutto il Regno, e però “toccava” pure il Lazio meridionale dell’epoca, e il Frusinate, dunque una parte dello Stato della Chiesa. Va precisato che spesso lo stato tecnologico non era, però, al livello delle produzioni estere, inglesi in particolare (anche se Salerno veniva chiamata la Manchester del Sud, Manchester essendo il centro del tessile in Inghilterra), ma che le zone dove si ebbero delle innovazioni furono Terra di Lavoro e la Calabria cosentina. In ambedue i casi, le produzioni meridionali si difesero bene dalla concorrenza estera. In due parole: con altre scelte, si sarebbero potute salvare queste manifatture, per lo meno nelle ultime zone dette. Invece quel che accadde fu che l’industria tessile meridionale venne buttata letteralmente a terra. Risultato: la massiccia emigrazione dal Meridione tra la fine del XX secolo e l’inizio del XX. La crisi del tessile meridionale è stata la causa reale della successiva emigrazione; non dimentichiamo questo punto: il tessile meridionale aveva molto più addetti delle industrie navali meridionali. E il tessile meridionale aveva molti più addetti del tessile settentrionale nella stessa epoca. Due dati, questi ultimi, del tutto incontrovertibili, ma, come tutti i dati numerici, presi da soli, significano poco.

Come si è detto, l’intervento di P. Broccoli tentava invece di porre sul tavolo dei temi più generali, e cioè quelli che interessano in questo blog[8]. Il primo tema è stato quello della Mostra e dello studio, ormai datati a molti anni fa, su San Leucio (la copertina di questo studio, ve n’era un altro sulla rivista “Casabella”, in nota[9]). Non si può prescindere da quegli studi, ormai della fine degli anni Settanta e dell’inizio degli Ottanta. Ed anche questo tema lo si può trattare qui solo marginalmente, in quanto richiederebbe una lunga disquisizione, che non è adatta né al mezzo che si usa né agli interessi di chi eventualmente segua. Sempre memore del ben noto detto di M. McLuhan (“Medium is Message”), va ribadito che ogni mezzo espressivo ha la sua specificità, e, di conseguenza, non si lasci forzare. Non è mia intenzione, dunque, far vasi di forma quadrata: il vaso è tondo … Nel contesto di questo post, quel che va sottolineato è che il non tener conto di queste ricerche costituisce un limite non da poco del libro della Lautieri. Anche se quest’ultimo ha come scopo quello divulgativo, far riferimento a quelli che risultano gli ultimi studi davvero importanti su San Leucio avrebbe impreziosito il libro stesso. Ma queste sono state le scelte dell’autrice. Un’osservazione a margine è proprio quella di rilevare come questi lavori siano stati tra gli ultimi davvero incisivi su San Leucio, il che la dice lunga su Caserta e sul Sud.
Ma veniamo al secondo tema, e non da poco, sollevato da Broccoli: il tema dell’utopia, assente dall’Occidente da molto, ma davvero molto tempo[10]. Tale assenza non è casuale, di certo, ma è il compimento di un lungo ed accidentato iter.
P. Broccoli osservava, nel suo interevento, come i famosi “Statuti” di San Leucio iniziavano con la dichiarazione, piena e netta, del potere, “di origine divina”, del re. Soltanto dopo vi erano le leggi cosiddette “utopiche”, leggi nate a partire della monarchia, e non del potere che “nasce” in maniera “assembleare”, ovvero “democratica”, come dicesi oggi: titolare della sovranità è il monarca, non l’assemblea. E qui vi è una mia ricorrente, peraltro, affermazione, cioè che vi sono state più “modernità”, non una, e che il tragitto della modernità stessa si può esprimere così: dalla nascita unitaria, allo sviluppo di molte “varianti”, per tornare unitaria, al termine del percorso, dopo l’ ’89-’91.
Questa “riunificazione” – tarda – della modernità, però, non è certo un segno di vitalità, ma di crisi: nell’epoca della “tarda” modernità, cioè la modernità “realizzata”, si ha il massimo della sua potenza, e tuttavia si aprono crepe ogni dì; dunque, semplificando: massimo di potenza, minimo di “attrattività”. Tutti si lamentano senza poter far nulla – ovviamente -, in quanto cercano l’uscita dalla crisi della modernità in modo modernoE non può esistere, la cosa è tanto semplice quanto non vedibile dai nostri contemporanei.
Ma questo, complesso, discorso, fa sorgere due “snodati nodi”; 1) che cos’è la modernità: solo in base alle risposte date su questo punto si può procedere oltre la modernità; 2) la natura del capitalismo – i “misteri del capitale”, come dice qualcuno -: in base alla risposta che si darà su ed a tale quesito centrale si potrà procedere, di seguito, ad una risposta pure a temi più generali.
Al primo quesito, si è data risposta parziale, qua e , in questo blog – e, nel presente post, qualche spunto vi è nella nota n°5 –; e inoltre, risulta fuori tema rispetto al presente post. Il secondo quesito, al contrario, è centrale al tema in oggetto qui.

Come prima cosa, come fatto introduttivo, bisogna esser chiari su due cose, la prima ben ovvia, ma non la seconda: 1) l’artigianato non è l’industria, anche se quest’ultima – come “produzione in serie” –, senza dubbio, è esistita in altre civiltà, seppur in posizione “minore” rispetto all’artigianato[11]; il che porterebbe a chiedersi che cos’ è che ha fatto sì che “il” capitalismo abbia moltiplicato, e a dismisura, l’industria, applicandole la tecnica: non certo l’industria stessa può esser stato questo “qualcosa” (vi è “circolarità”, in tal caso, infatti); 2) poi, al centro del capitalismo, non da ieri, ma da sempre, vi è stata la finanza; essa, quindi, consente la massiva applicazione della tecnica all’industria, industria che già c’era prima, sì, ma quest’applicazione trasforma quest’ultima (l’industria) in un qualcosa di più potente – ed ecco la citazione iniziale, sulla “potenza” -: la tecnica “potentizza” (linguaggio omeopatico) l’industria, ma è la finanza che consente alla tecnica di poterlo fare. Questo, a sua volta, implica che soltanto con il capitalismo nasca il debito pubblico, che è un’assurdità in se stessa, se lo stato batte moneta: può un qualcosa essere in debito con se stesso, domanda retorica. Al contrario, invece, l’inflazione nasce da ben prima del capitalismo, tant’è che nella parte finale dell’Impero romano essa esisteva – l’inflazione – ben viva. Deduzione: il fenomeno del “debito pubblico” e il fenomeno “inflazione” son due phenomena di qualità e di natura differenti. Queste cose possono essere comprese soltanto dopo l’aver “misurato” le sconfitte dei quadri interpretativi dominanti. Infatti, soltanto confrontandosi con le cose si può acquisire vera conoscenza, non nozioni “imparicchiate” a memoria. Bisogna saper porre a critica i modelli ben noti, quando non funzionino più.


E veniamo, dulcis in fundo, al tema “chiave”, dopo questa, lunga, nota introduttiva: i cosiddetti “misteri del capitale”. P. Broccoli ha, più volte, notato (anche se non nel corso della Presentazione) come il capitalismo nel Sud sia stato o d’impianto statale, oppure si sia sviluppato a partire da investimenti esteri, per esempio le famose industrie tessili Egg a Piedimonte d’Alife (come si chiama oggi), dove, tra l’altro, vi è un piccolo, ma bel museo. Ricordiamo anche che Alife è tra le poche città ad aver conservato, almeno in gran parte, la cinta muraria romana.
Ma torniamo ai “nodi” di fondo (grund): cioè che non basta la “laicizzazione” della politica per far nascere il capitalismo, e dico nascere, non svilupparsi, che è altro discorso. E così torniamo a Weber, ed al suo – classico – testo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, “spirito”, in tedesco geist, che ha la stessa radice del termine inglese ghost, che però vale come “fantasma”, o “spettro”, eh sì, quello del “comunismo”, secondo Marx.
Tuttavia si è visto – in un altro post – come, in effetti, per Marx, il “fantasma”, lo “spettro”, il dybbuk, fosse la “merce”, che, secondo lui, non esisteva “in quanto tale”. Far capire però queste semplici cosettine ad un comunista d’antan, “vintage”, era semplicemente impossibile.
Per loro, vi era sostanzialmente al centro la riprovazione “morale” del capitalismo, che c’è anche in Marx, ma non era certo dove batteva il suo (di Marx) cuore. Di qui il fatto – incontrovertibile – che Marx detestava i “socialisti utopici” – cui almeno una parte del comunismo storico si è apparentato, dove però la mera logica della gestione del potere non abbia preso il sopravvento –, mentre Marx ammirava la “spietatezza” di Ricardo, lo “spietato” teorico delle “dure leggi” del capitale, “senza se e senza ma”. L’ambizione di Marx – il quale aveva del capitalismo la conoscenza che il meccanico può avere di un motore –, era quella di trovare dove “s’inceppava” il motore, per poter poi dire: il “comunismo” è meglio. Di qui derivava l’aggettivo di “scientifico”, poiché la critica seria non derivava da una riprovazione morale, ma dall’analisi del funzionamento del sistema stesso. Purtroppo, per lui, pur avendo trovato molti punti deboli, non riuscì però a far tornare indietro, sull’ “Isola dei morti”, le revenant che pure intravedeva esser tale, cioè uno “spettro” … Erede, com’era, del passaggio hegeliano dalla filosofia alla “scienza” (Wissenschaft), cosa che poi sarebbe sfociata nel risibile “scientismo” comunista – molto casertano (= baciare la mano che ti ucciderà) –, lo stesso Marx, però, si rendeva conto che la scienza non basta, che vi è dell’altro nel capitalismo. Il “comunismo” è “come” uno spettro, ma il vero “spettro” è il capitalismo, il “comunismo” avrebbe dovuto, quale spettro, opporsi ad uno spettro: si sa com’è andata a finire. I comunisti non son riusciti mai a capire che c’è un solo modo di scatenare la tecnica e di renderla “autonoma” – legge a se stessa, priva di qualsiasi cosa superire ad essa -, ed è il capitalismo. Il socialismo e il comunismo avevano dei valori cui la tecnica doveva sottostare, che fossero lo stato o la classe; e nemmeno il nazismo, con la razza, o i vari nazionalismi potevano.
Quel che rimane oggi della “sinistra” cerca di far propria la critica morale, di quelle di papa Francesco, dimostrando così, di essere residuale. Vi è infatti sempre stato un orientamento cristiano, cattolico, in particolare, vicino alle classi disagiate, che però ha sempre proposto una sorta di nuovo compromesso sociale, la qual cosa è legittima, da un punto di vista religioso. Il “nodo” è che il punto di vista religioso non è, ipso facto, politico. Altro indicatore della non rilevanza della “sinistra”, fatto che si sta manifestando persino nell’unica cosa che interessa le “democrazie” – le elezioni –, il che vuol dire che ormai la cosa è più che matura, sta nel fatto che la “sinistra” si “blindi” nella questione dei “diritti”. Quando il System è forte, concede; quando è debole, considera la “diffusione dei ‘diritti’” questione secondaria, e lo lascia ai marginali, ovvero alla “sinistra”, che non perde mai un’occasione per denunciare la propria marginalità, ora stando a rimorchio degli uni, ora stando a rimorchio di altri, sempre a rimorchio, mai capace di avere una sua agenda e di porla nel centro della discussione. Ponendo al centro una tale questione – dei “diritti” –, la “sinistra” non fa che attestare di essere rimasta ad una fase passata dello sviluppo sistemico: quella dell’ “universalismo moderno”, in crisi irreversibile. Del tutto dimentica di se stessa, la “sinistra” oblia come la sinistra “storica” si sia costituita in virtù della critica dell’ “universalismo moderno”, a sua volta nato dal convergere tra Rivoluzione francese e sviluppo capitalistico, quest’ultimo nato in Inghilterra.
E qui torniamo al modello interpretativo, giusto, proposto da Wallerstein – e ricordato varie volte in questo blog –, quando quest’autore sostiene che il capitalismo non è nato dalla rivoluzione borghese, ma, invece, dalla cooptazione di questa classe da parte di alcuni settori dei proprietari terrieri dell’Inghilterra, resisi consapevoli del fatto che lo sfruttamento dei produttori primari non poteva che far diminuire i profitti. Dunque, vi son “due lati” della “classe borghese”, o della gentry, per usare un termine più esatto. Dunque: non basta far parte della classe borghese perché nasca il capitalismo (= perché nasca il capitalismo, perché nasca, non perché si espanda, che è altro discorso, seppur ricollegabile al primo). Di conseguenza: il dominio borghese, cioè la “democrazia”, pur non ponendo alcun ostacolo al capitalismo ed alla sua espansione, non è sufficiente a far nasceredi nuovo … – questo sistema storico. Ed ora, chiediamoci: a Marx che cosa interessava di più? La Rivoluzione francese, e i suoi valori, oppure la recinzione delle terre da parte della gentry, fatto che diede inizio alla Rivoluzione industriale? Senza dubbio, Marx ebbe sempre grande interesse per la Rivoluzione francese, e tuttavia non riuscì mai a scrivere quella storia della Convenzione come avrebbe voluto, da giovane, scrivere[12]. Al contrario, scrisse, com’è ben noto, Il Capitale (“Das Kapital”) …: più chiaro di così
Il già ricordato Wallerstein, poi, dopo aver rielaborato uno degli schemi fondativi della storiografia sul capitalismo, proponeva dei “correttivi” alla crisi del capitalismo stesso, che già vedeva, tra venti e diciassette anni fa. Proponeva, come una possibile via d’uscita, quella di elementi di “socialismo” che le borghesie dominanti avrebbero potuto inserire nella civiltà capitalistica, con lo scopo di diminuire – o controllare –  i fattori dissolutori all’interno, e consentir così un passaggio meno “brusco” al processo, già in atto, della crisi sistemica. In ciò, Wallerstein era “gramsciano”, proponeva, cioè, un patto in cui le “classi subalterne” si legavano ad e collegavano con una parte delle classi dominanti, non con lo scopo dello sviluppo (Gramsci), invece con lo scopo di gestire la fase di transizione della crisi e della dissoluzione della civiltà capitalistica (Wallerstein), fenomeno in atto per lo meno dall’inizio degli anni Settanta. Naturalmente, niente, assolutamente niente di tutto ciò è accaduto; anzi, si è avuto lo sviluppo unico di un sol modello. Ma un tale insuccesso, a livello globale, è parallelo precisamente a quel ch’è successo nel Sud, laddove, per debolezze strutturali proprie, la borghesia è rimasta, nel profondo, compradora, “mediatrice” col capitale estero, o con lo stato, quando ancora investiva nel Sud. O con l’Europa.

Ora, domandiamoci: questo caso, in cui lo sviluppo capitalistico avviene o per intervento statale oppure per investimento straniero, è la norma o l’eccezione, nel sistema capitalistico. E’ la norma: il Sud è nella norma.
Il tumultuoso sviluppo della Cina così è avvenuto, per mezzo dello stato e per intervento straniero. Non troppo diversamente il Giappone nel XIX secolo, dove, tuttavia, la mano statale vi è stata molto più forte, in proporzione: le epoche cambiano, ed il mix d’interevento statale e di capitale straniero può cambiare, sia per nazioni sia per epoche. Ciò non toglie che così è avvenuto, ed avviene tuttora. Qui sta il “mistero del capitale”, capitale che, tuttavia, non è affatto misterioso, quanto al fenomeno della sua espansione: quest’ultima si sviluppa per mezzo del capitale straniero e/o dell’interevento statale: e/o, si badi bene. Il Sud non fa eccezione. Tu devi spiegare non come si espanda il capitalismo, ch’è chiaro, né perché tutti gli ostacoli crollino al suo cospetto, cioè al cospetto del dybbuk e del “revenant” che il capitale, in realtà, è; devi spiegare, invece, dove il sistema è nato, e perché solo lì è nato, e non altrove. E torniamo così a Weber, il quale non ci aiuta per niente a spiegare l’espansione del capitalismo, ma che, invece, rimane fondamentale per spiegare le ragioni della sua nascita, che sono inscindibili da una certa mentalità, nata solo in una parte dell’Europa occidentale, non tutta. E non nel Sud. Non la Spagna, per esempio, ma pure in Spagna vi è la differenza tra la Catalogna, un po’ come il nostro Lombardo Veneto, ed il resto – per fare un esempio. Non nell’Europa dell’Est – per farne un altro.

Temi non da poco, dunque. E non sta certo ad un blog approfondirli tutti, quanto, piuttosto, stimolare a che altri approfondiscano, sempre che vi siano interessati, ovvio.
Quel che può, ancora, segnalare un blog è un affanno ed una insufficienza profondi che suscitano tanti quadri esplicativi dominanti, che più non funzionano: sono insufficienti ormai. E son anche troppo parziali, troppo influenzati da idee dominanti, che anch’esse, a loro volta, più non funzionano, essendo in una crisi ancor più profonda dei quadri esplicativi dominanti.  


Andrea A. Ianniello







[1]Ubu incatenato” in A. Jarry, Ubu – Ubu Re – Ubu Cornuto – Ubu incatenato – Ubu sulla Collina, Adelphi Edizioni, Milano 1977, p. 108. Sulla patafisica, cf. A. Jarry, Scritti patafisici. La macchina, il tempo ed altri epifenomeni, :duepunti edizioni, Palermo 2009.
[2] In Introduzione alla magia, a cura del Gruppo di Ur”, vol. 2°, Edizioni Mediterranee, Roma 2011 (edizione originale 1972), pp. 281-282, corsivi in originale. Quest’opera contiene brevi saggi e articoli di valore anche molto differente: non tutto è valido allo stesso modo, ma nemmeno tutto è da scartarsi. In tale raccolta, infatti, si riflette spesso e volle tiri sul problema della potenza e sulla differenza tra quella interiore e quella esteriore. W. Sombart ha, tra l’altro, riflettuto profondamente sulla Metropoli: “Insomma: la Metropoli, per essere tale, deve essere sistema capitalistico nel senso complessivo: città della circolazione-riproduzione del capitale: Geist des Kapitalismus. Sia ben chiaro: Sombart afferma con ciò esattamente l’opposto del fatto che la Metropoli debba essere ‘città d’industrie’. Afferma che essa deve essere sistema perfettamente integrato allo sviluppo industriale-capitalistico, o, come prima dicevamo, servizio complessivo, politico-sociale, dello sviluppo. La Metropoli coordina, organizza, socializza le forme dello sviluppo. Questo è il dovere che la sua ‘vocazione terziaria’ deve espletare: centro di direzione politica dello sviluppo”, M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città si Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Officina Edizioni, Roma 1973, p. 37, corsivi in originale. La copertina di quest’ultimo libro (di Cacciari) la si può veder qui: cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/09/altre-immagini-dellepoca-di-federico-ii.html. Intanto, però, la chiave dello sviluppo, da molti decenni, ormai, non è più l’industrialismo, con tutte le conseguenze del caso. Tuttavia, è proprio grazie a questo spostamento di “focus” che la Metropoli è, oggi, planetaria, e il pianeta Terra un’enorme, disgustosa Metropoli. Sia detto per inciso, i “conti”, come suol dirsi, col pensiero negativo non sono stati fatti per intero, e nemmeno dallo stesso Cacciari, passato al suo periodo “positivo” ormai da molto tempo, positivo ma non “propositivo”, si giunge sempre ad una “non conclusione” in Cacciari, anche nel suo, pur bel libro, Il potere che frena, del 2013.
[3] N. Sombart, Passeggiate con Carl Schmitt, Prefazione di M. Krüger, Nota finale di S. Gajani, “Ogni uomo è tutti gli uomini” Edizioni, Bologna 2015, pp. 14-15, corsivi in originale. N. Sombart è il figlio di W. Sombart.
[4] In Lu Hsun [Lu Xun], Storia della letteratura cinese, vol. II, Editori Riuniti, Roma 1960, p. 184.
[5] Mao Tse-tung, Uno studio sull’educazione fisica. Tutte le poesie, a cura di R. Pisu, Sansoni, Firenze 1971, p. 93, datato: 9 settembre 1961. Interessante qui sottolineare che Uno studio sull’educazione fisica è della fase precedente alla fase marxista di Mao. Qui occorre fare una breve precisazione, in relazione alla “natura” della modernità, che in Cina, ben prima di Machiavelli, la politica si separa dalla religione, divenendo “etica”, cf. E. Erkes, Credenze religiose nella Cina antica, Edizioni di Ar, Padova 2005, pp. 90-91. Ed ecco, dunque, il motivo di queste citazioni iniziali, che non vi sono per caso. Un certo “iter” non è stato affatto proprio del solo Occidente, eppure solo in una parte di quest’ultimo si è sviluppato il capitalismo; deduzione: la “laicizzazione” del potere politico non è sufficiente a generare il capitalismo. Inoltre, una sorta di “Machiavelli cinese” lo si può legger qui, dove la politica si separa non solo dalla religione, ma pure dall’etica, cf. Il libro del Signore di Shang, Adelphi Edizioni, Milano 1989. E tuttavia, dopo questa separazione dall’etica, vi è una sorta di, non casuale, “ri-religionizzazione” del potere – se così può dirsi. Il libro del Signore di Shang è citato in
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/05/shi-il-poterecircostanze-dallintro-di.html, ivi nota (***). Lungo sarebbe il discorso, tuttavia, su paralleli e differenze tra Cina ed Europa in relazione al rapporto fra legge “naturale”, cosiddetta, e legge statuale, che poi è un nodo decisivo della “modernità”, nodo non più padroneggiabile oggi = la modernità è in crisi esiziale.
[6] Cf. https://it.wikipedia.org/wiki/Statuto_di_San_Leucio, che, per l’appunto, come detto qui sopra, ne presenta solo qualche breve brano. 
[7] Cf. Ferdinando IV, Origine della popolazione di S. Leucio, ristampa anastatica su carta amatruda di Amalfi in 399 esemplari di cui 49 in numeri romani e 350 in numeri arabi (quella che or ora consulto ha i numeri arabi), Edizioni Saletta dell’Uva, S. Leucio (Caserta) 2004. Questo è il testo che contiene la famosa legislazione di S. Leucio.
[8] Blog è contrazione di “web-log” = diario sul web – di seguito, diventa anche verbo, to blog. La parola nasce esattamente venti anni fa, nel 1997.
[10] Cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/10/cacciari-san-leucio-per-presentare.html.
[11] L’Italia è sempre stata un paese di artigiani, storicamente parlando, e l’attuale crisi dell’artigianato, già divenuto, nel corso del tempo, di “nicchia”, la dice lunga sul cosiddetto “nostro” paese. Tra l’altro, sia detto en passant, anche l’ antico Egitto è stato un paese d’artigiani; tutte le sciocchezze sul fatto che le Piramidi siano state edificate con torme di schiavi son ormai sciocchezze “hollywoodiane”, in quanto si sa che grossi gruppi di artigiani ed operai han costruito l’Egitto, i cui punto di forza era, proprio, per l’appunto, l’artigianato diffuso. Son infatti stati ritrovati resti della capanne dei lavoratori alle piramidi, come persino resti di ciò che mangiavano. In effetti, non si può capir l’Egitto senza quest’artigianato diffuso, e la sua indiscutibile maestria.
“‘… quel procedimento è un segreto: prima di conoscerlo bisogna aver fatto il proprio capolavoro’. ‘Che cos’è il capolavoro?’. Il vecchio vasaio si raccolse in se stesso, poi disse: ‘Il capolavoro è un’opera creata con l’anima, concepita col cuore, tenuta in gestazione nel proprio corpo, sentita a partire dalla pelle fino alle viscere … vissuta profondamente e portata dentro fino al momento in cui, come un frutto maturo, ti viene alla luce tra le mani’. […] ‘Ci vuole molto tempo per fare un capolavoro?’. ‘Ci vogliono intere generazioni per prepararlo; poi un uomo, che ne è l’erede, lo realizza’. ‘Come si fa a essere quell’uomo?’. ‘Bisogna ascoltare la voce muta degli Antichi, osservare la Natura, e tacere’. Il crepuscolo aggiunse silenzio a silenzio, il bambino sospirò , e disse: ‘Allora, se mi fosse riuscito il vaso quadrato, non sarebbe stato un capolavoro?’. Il vecchio dalla faccia rugosa sorrise: ‘Il capolavoro è stato quello di aver avuto l’idea! Poiché il tornio, rifiutando la terra che contrastava con la sua forma, ti ha mostrato la potenza nascosta del Neter [più o meno “divinità”, ma davvero grosso modo], in lotta col movimento. E così, il tornio ti ha insegnato la legge delle cose rotonde, che a scuola non avresti mai conosciuto realmente’. ‘Ma sei tu che me la stai spiegando!’. ‘Nient’affatto: una spiegazione entra solo nella testa; ma il tuo dispetto per l’impotenza d’imporre un’altra forma ti è entrato nelle dita, e questo ti resterà”, I. Schwaller de Lubicz, Her-Bak (Cecio), L’Ottava Edizioni, Milano 1985, p. 165, corsivi in originale, grassetto mio. Penso che queste parole abbiano un valore degno d’esser meditato. Quest’ultimo libro è interessante, perché vuol far vedere proprio quest’aspetto, così spesso così poco ricordato, e cui non si fa “mente locale”, dell’Egitto, per mezzo di un bambino, per mezzo “dell’innocenza divenuta cosciente”, cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/06/per-mezzo-dellinnocenza-divenuta.html. “Bisogna ascoltare la voce muta degli Antichi, osservare la Natura, e tacere” ... In tal modo si diventa gli “eredi”, ed erede è chi dispone del patrimonio a suo piacimento, senza cioè essere un ladro, ma legittimamente …
[12] Cf. F. Furet, Marx e la Rivoluzione francese, con un antologia di testi di Marx a cura di L. Calvié, RCS Libri, Milano 1989: “Marx non ha mai scritto un libro sulla Rivoluzione francese, ma in compenso ad essa ha dedicato molti commenti e numerose allusioni disseminate in tutta la sua opera”, ivi, Avvertenza di F. Furet, p. 7. La causa di tutto ciò sta nel fatto che il proletariato, secondo Marx, avrebbe dovuto liberarsi nei termini – “dialettici” – di ciò che criticava, il dominio borghese nato, appunto, con la Rivoluzione francese. Qui sta una delle “debolezze fondanti” lo stesso Marx, cf.
http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/05/andrea-ianniello-baudrillard-la.html.
Un testo, seppur datato, interessante, in relazione al tema del rapporto di Marx con la Rivoluzione francese, è quello di A. Cornu, Marx e Engels dal liberalismo al comunismo, Feltrinelli, Milano 1962.