[Il gestore - A.
A. Ianniello -
sarà di seguito indicato come “Aai”, e Paolo
Broccoli come “PB”. La mia risposta all’intervento di
Paolo Broccoli, a sua volta, sarà segnata con “Risposta gestore” = “Rg”.
Di comune accordo si è decisa la via di una conversazione. Non posso che
ringraziare Paolo Broccoli. Mi scuso per
la lunghezza del post, ma si erano inevitabilmente accumulate molte questioni che richiedevano
una pausa di riflessione.
Nessuno dei due ha il benché minimo interesse in
eventi di cronaca o in preoccupazioni di bottega di un qualsivoglia genere. Se
qualche riferimento si farà a cose di cronaca recente, o a personaggi noti, ciò
sarà solo ed unicamente in relazione
ad un discorso più generale.
Vi è
tutto il tempo per leggerselo, il lungo post, anche a pezzi.]
Aai. Una prima domanda è
questa: qual è, a tuo avviso, il significato del blog, al di là del continuo
aggiungersi di temi, che, tra l’altro poi, è la natura di un “blog”, ch’è una
forma fra diario ed articolo su
giornale, o su rivista. In un blog, infatti, è bene non superare la
lunghezza dell’articolo “lungo” – da rivista, per intenderci –. Non sempre - “personalmente” - ho
seguito questo saggio consiglio, ma – gestendolo – mi son reso conto che così
funziona. Infatti, “Medium Is Message”, come diceva illo tempore M. McLuhan.
PB.
Il blog è uno strumento di comunicazione universale, ed è utilizzato in forma
tanto privata quanto pubblica. Per esempio, Trump ha comunicato “al mondo” che
aveva intrapreso un’azione nei confronti della Corea con un blog, così come le
grandi strutture internazionali di e-commerce comunicano le loro disponibilità per
mezzo di un blog o di mezzi simili ad esso. E soprattutto, le strutture
istituzionali – in Italia, per fare un esempio, è accaduto a politici ben noti,
ma non solo loro – han preso ad usarlo, per cui la politica non è più un fatto pubblico cui tutti partecipano, ma prende una forma
unidirezionale. Anche la relazione con chi gestisce la comunicazione è
anch’essa, ormai, unidirezionale, cioè il “produttore” di comunicazione non ha gli stessi mezzi di chi
recepisce la comunicazione stessa. Chi
viene “eliminato” dalla comunicazione, dunque, comunicazione che resta una
relazione fra soggetti privati ed istituzionali?
Ad esempio: la figura
che da questi processi, ormai trentennali,
viene messa in crisi – come “ruolo” - è la figura dell’ “intellettuale”. Chi era, dunque, “l’intellettuale”? Gramsci
così lo definisce: “Non esiste una classe indipendente d’intellettuali, ma ogni
gruppo sociale ha un proprio gruppo d’intellettuali o tende a formarselo”.
Che significato ha tutto ciò? Come fenomeno profondo e tendenza stabile?
Di
fatto, è la verifica
“storica” di chi afferma, ormai da ben
due secoli (Nietzsche), che è definitivo
il tramonto della teologia politica che ha governato il mondo per venti secoli, in base al qual paradigma
la “Città degli uomini”, per essere governata da leggi che valgano per tutti, ha
bisogno di fondamenti universali, sine Deo
nulla potestas (cap. XIII della Lettera
ai Romani di San Paolo). Ovviamente la potestas
può esser sia il logos,
sia “Dio”, o entrambi …
La crisi -
prevista illo tempore da Nietzsche -,
la Grande Crisi, è irrisolta …
Rg. Non posso che esser d’accordo sui
due punti, davvero centrali: che
la crisi sia irrisolta, che
definitivamente – definitivamente –
sia tramontata la “teologia politica” che, attraverso molte modifiche però, ha
sostanzialmente mantenuto inalterato il suo “nucleo
fondante” nel corso di ben venti
secoli. Dunque a me fan ridere le “facili, troppo facili” soluzioni da due
soldi, o anche meno, che han libero corso nei “nostri” tempi, poiché dimostrano
una totale incomprensione di quel che in
gran parte è già successo. Al
contrario, l’esserne consapevoli è il primo passo, solo il primo però, e non
garantisce alcuna “soluzione a costo zero”, sia detto ben chiaramente … Qualcuno
– anni fa – ha paragonato la crisi dell’Europa occidentale all’esplosione di
una supernova, il che
è vero, ma noi veniamo dopo che
tutto ciò sia successo, è sempre bene ricordarselo
…
Aai. Seconda domanda:
crisi del linguaggio e democrazia, della democrazia come “paradigma” (oggi
“para-dogma” – direi …) e non come
“tecnica” del voto – la
“sovranità” com’esempio (per far riferimento direttamente alla crisi politica
attuale) –, cosa puoi osservare al riguardo. Tra l’altro, questo tema si è
strutturato come centrale nel blog “al di là” dell’ “espressa intenzione
originale” di chi gestisce il blog stesso: è interessante sottolinearlo. Voglio
dire: è una cosa che “sta nell’aria”, come suol dirsi, un sottotema
sottotraccia che sta nella nascosta trama del “nostro” mondo – quando si dice
“nostro” virgoletto sempre, mi fa ridere questa dichiarazione d’appartenenza,
visto che non hai nessuna reale possibilità di “aver voce in capitolo” (quello
della cattedrale, da cui deriva il modo di dire) – …
PB.
Il lavoro che stai facendo, da anni, è, a mio avviso, riconducibile a una della
questioni fondamentali della civiltà occidentale - divenuta universale -, cioè il
lavoro è un lavoro di filologia, e
che cos’è, la filologia? La filologia come “categoria” (Begriff =
concetto, idea)?
Heidegger così la
definiva: “Passione per la conoscenza di ciò che è espresso in parole”. Questo
problema accompagna l’uomo da sempre,
ma oggi è divenuto qualcosa di diverso, di più forte, di più centrale; per esempio: “Abbiamo smarrito
il significato delle parole (vero
vocabula rerum amissimus, Catone in Sallustio)”, (Ivano Dionigi, Prefazione
a M. Cacciari, Filologia e filosofia, Bononia
University Press, 2015).
Il primo problema che
si apre, in relazione al tema “filologico” del blog, è quello del rapporto con
il passato, e, per via filologica, s’indaga sui termini fondamentali del
lessico europeo e sulla crisi della rappresentazione di questo lessico nel
“tempo reale” (“Oggi”), vale a
dire: che cosa sono – realmente –
“economia”, “democrazia”, “politica” e, soprattutto, “sovranità” Oggi. Carl Schmitt così definiva la sovranità, ed è bene soffermarcisi: “Sovrano
è colui che decide sullo stato d’eccezione” (da Teologia Politica).
Secondo problema, non dei minori: esiste una sovranità
popolare? … Tutte le costituzioni liberali sono fondate sul principio che la
sovranità è fondata sul popolo: è ancora così? Qui non si può non far
riferimento alla tematica del “corpo”, la sovranità s’incarnava nel “corpo” del
“Re”, il che ci fa subito capire come la sovranità occidentale non sia
nient’altro che la “secolarizzazione” di concetti religiosi, vale a dire, fuor da
giri di parole, di teologia politica, questo è -, espressa dal detto classico: Le Roi est mort. Vive le Roi. Ma il popolo, il “corpo” popolare? Il “corpo”
elettorale, è un “corpo” …?
Il terzo problema è la
relazione, diretta ed ineliminabile – due facce della stessa medaglia -, fra
sovranità ed “origine”, il problema della sovranità è: qual è la “fonte” della
sovranità? Il “popolo”?
Sapientia
vero ubi invenitur (Iob
28, 12, dalla Vulgata). Il popolo ha
sostituito Dio, e poi, nel marxismo – non altrettanto in Marx, dove andrebbero
fatte delle precisazioni, ma andremmo troppo lontano – la classe sostituisce il
“popolo” come referente “generale” della sovranità, anche se la “lotta di
classe” in realtà Marx la media da Ricardo ed è “la fine della politica” il suo
vero interesse. Oggi resta fermo e centrale che il problema non è più - in
alcun modo - quello delle forme
della sovranità, ma della sovranità tout
court.
Rg. Senza dubbio alcuno, la parola è
sempre stata una mia preoccupazione fondamentale. Come amo dire (ma è una
citazione dalla Theologia Deutsch),
il diavolo sa esattamente che cos’è bene, è che il bene lui non lo ama, questo è il punto; tu la parola la devi amare, non basta conoscerla, ed allora con difficoltà potrai sopportare
che il significato della parola stessa venga smarrito, come dice Dionigi, ma io
direi ben di più: che venga sgualcito, rimosso, alterato, in definitiva obliato
a favore di un uso del tutto strumentale della parola stessa, e questo a me –
“personalmente” – spiace in maniera fondamentale, spiace in maniera forte. Quindi
hai centrato il tema esplicito
più rilevante di questo blog
(l’altro, implicito, è quello della sovranità, ma su di esso tornerò fra
breve).
Voglio qui solo
ricordare due termini super abusati, la “democrazia” e la “libertà”, che son
termini divenuti come delle condanne o delle maledizioni. A tanto siamo giunti
nell’alterazione … Insomma, nei “nostri” tempi la parola non è amata, è un
“fatto” meramente “tecnico” e strumentale. Poi, senza dubbio, l’altro tema esplicito del blog è quello del rapporto
con il passato – tra l’altro, legato “a doppio filo” con la filologia, non a
caso -, anzi: il blog è nato dalla preoccupazione per questo rapporto in un
posto che nega il suo passato, nel Sud d’Italia, dove si è definitivamente diffuso
un atteggiamento d’indifferenza verso il proprio passato, dove si è sempre –
per principio – “figli di un dio minore”, perennemente sul banco degli imputati,
dove “giustificarsi” è un obbligo non scritto più cogente delle leggi di
Norimberga e più inevitabile di un secondino in un gulag staliniano.
Venendo al tema della
“sovranità” – e ricordando come questo tema sia stato dibattuto fra Carl
Schmitt e Leo Strauss – questo è, invece, il tema implicito che, sottotraccia, si è venuto strutturando per tutto il
blog; già intitolarlo a Federico II di Svevia disegna un orientamento, seppur
implicito, sin dal principio: come nel gioco degli scacchi, le mosse di
apertura condizioneranno l’intero seguente sviluppo della partita. E, a questo
punto, posso dir esplicitamente che la “causa occasionale” scatenante fu
quando, molti anni fa, ormai, lessi quest’illuminante frase di M. Yourcenar a
proposito della lunga, complicata gestazione di un suo famoso libro: “L’esser
vissuta in un mondo in disfacimento mi aveva fatto capire l’importanza del
Princeps”.
La frase, poi, si è “fermentata” nel tempo.
Quel che a noi manca è
il princeps, che sia un individuo o
un collettivo, un gruppo, non cambia il punto. Di più, non ci può esser “princeps” oggi, perché la sovranità è alterata in maniera definitiva. La sovranità popolare è un “effetto ottico”, in pratica. La modernità termina nella fine della forma stato che ne ha
segnato l’aurora (però non à la
Boehme, cioè non consurgens), o, se non proprio nella fine,
quanto meno nel suo indebolimento strutturale.
Il corpo: una tematica infinita, e qui non si può non far
riferimento al classico I due corpi del
re, di Kantorowicz.
Esiste un corpo elettorale? No. Il popolo, è un corpo come il “Re”, le Roi est mort, vive le Roi? Nemmeno. Il
popolo è un corpo simulato, è il corpo elettorale n’è la costruzione
artificiale cibernetica, per questo il sondaggio è centrale nell’interrogazione
del “corpo” elettorale.
Per tornare a noi,
nessun dubbio che quel che avviene in Occidente - a riguardo della sovranità -
sia la “secolarizzazione” di una sovranità sacra
- in origine -, fermamente,
fortemente, decisamente, assolutamente “irradicata” nella teologia politica, e senza il benché
minimo dubbio sulla proprio “legittimità”, - della teologia politica intendo -:
una teologia politica, infatti, che dubitasse di sé, per ciò stesso non sarebbe
più teologia.
E tuttavia, e tuttavia la
secolarizzazione cambia qualcosa d’irreversibile, di forte. La sovranità del
“Re” è duplice, visibile ed invisibile; quando, invece, si pone che la
sovranità è del (o nel) “popolo” si riduce la sovranità
alla sua sola dimensione visibile.
In tal modo, si è indebolita
in modo decisivo la sovranità stessa: la piena diffusione, la “proliferazione”
della sovranità, è il preludio al suo eclissarsi, che poi, piuttosto, è un
mascherarsi. Noi siamo guidati dalle decisioni di chi non conosceremo mai, ed è
un semplice fatto questo.
Quel che dici su Marx è
corretto, in realtà Marx aveva in mente la “fine della politica”, esattamente
questo, ed è questo il suo lato “utopico” e “apocalitticista”, che si è
riverberato solo in qualche momento
della Rivoluzione russa, ma come “evento” in cui “la classe nega se stessa” (Baudrillard)
per rilanciare al sistema la sfida ad essere o a non essere. Quando – inevitabilmente – ha dovuto dare forma
ad un sistema politico, ha fatto la fine, altrettanto
inevitabile, che non poteva non fare, ed oggi non è altro che una forma di “neonazionalismo”,
come lo chiamo. Un iter obbligato, dove già la Cina di Mao reclamava una sua
“specificità”, per poi giungere ad una sorta d’amalgama fra comunismo e
nazionalismo; infine, il nazionalismo sarebbe stato fatto proprio dalla Russia
stessa, che tanto criticava la Cina in altra epoca, ed è Putin e il “neonazionalismo”,
tanto super valutato nell’Europa piccola piccola. La super valutazione si fa
solo per l’usato, che “lor signori illustrissimi” se ne rendano conto, se ne
son capaci, e non lo credo affatto …
E veniamo ad un altro
termine, che si è ritrovato sempre più spesso in questo blog: economia.
L’economia è un sistema di simulazione di massa. Attenzione: non siamo giunti a
tal sistema per caso, ma per mantenere inalterata la finalità del sistema stesso, quando il tasso di profitto
inevitabilmente scenda: il “virtuale” consente possibilità di profitto
incomparabilmente superiori a qualsiasi profitto ottenibile con la produzione e
la vendita di beni concreti. Il passaggio del sistema capitalistico
nell’irreale è un passaggio obbligato.
Noi non siamo mai davvero usciti dal ’29, la spinta al consumo, inevitabile se vuoi mantenere in vita il
sistema e vuoi far sì che almeno una parte delle merci sia venduta, obbliga il
sistema al passaggio nell’irreale. Altrimenti andrebbe in stallo e sarebbe
costretto a modificare la sue finalità: in tal caso, però, sarebbe un altro
sistema di relazioni sociali. Questo cambiamento di finalità nel capitalismo è
semplicemente impossibile, sotto il
manto della libertà individuale questo è il sistema più potente, più cogente,
più restrittivo, più autoreferenziale che la storia abbia mai visto: solo che i
suoi lacci son trasparenti, perfettamente mimetizzati con il colore delle cose;
non li vedrai mai, salvo che in controluce, e chi vuole stare in controluce …
domanda retorica …
Il potere più grande,
la macchina triturante di usi, costumi, mentalità, quel che schiaccia tutto, è circolare:
A > B > A > B … ad libitum,
se lo fai su di un computer, il computer va in default, come si dice – questo è
il default, questo è ciò verso sui stiamo andando – e cioè entra in una spirale
senza fine. Quest’autoreferenzialità è stata mascherata in vari modi, ed ancora
lo è, da finalità aggiunte ad esso,
che niente hanno a che spartire con la sua ragion d’essere: ma il tempo
s’avvicina che il nucleo centrale, lo “hard kernel” come dicono gli
informatici, venga fuori …
Aai. Terza domanda: la
tecnica governata dalla scienza (“Dio è morto” e il vero ruolo della tecnica),
questo è un altro tema - sottotraccia - che nel blog fa
emerger qua e là le sue venature, per tosto inabissarsi in scure “Acque
d’Autunno”, per parafrasare Chuang-tzu
– in una sua vecchia traduzione, che oggi farebbe storcere il naso a molti, ma
che, invece, rimane affascinante –, ma stiamo divagando. Puoi dir qualcosa,
qualche tua osservazione.
PB.
La tecnica come “dono degli dèi”, il Prometeo platonico,
è in stretta relazione con la politica, che, pur con tutte le sue magagne, resta
la forma più alta del “fare” umano, in quanto la politica è anch’essa una
“technè”, un’ “arte”, e non una
scienza … Ora, che cos’è la tecnica, oggi:
“Tutte le grandi forze che oggi dominano il pianeta (cristianesimo, islam,
capitalismo, comunismo, populismo) configgono fra di loro e si servono della
tecnica per raggiungere i propri scopi. Proprio perché nessuno di queste forze
può fare a meno della tecnica, la tecnica è destinata a prendere il
sopravvento. E il problema non è rassegnarsi o reagire” (Emanuele Severino). Continua
così, sempre lo stesso Severino: “Un intellettuale che dicesse cosa fare
sarebbe patetico, non si tratta di mostrare ai popoli cosa fare, ma mostrare
che cosa sono destinati a volere”.
Il lavoro che stai
facendo è pertinente a questa valutazione, il problema non è “la” soluzione, ma
è rifletterci. Infatti, non è un nodo gordiano, non
puoi risolverlo con la violenza, perché è una visione, una fede, al
Dio cristiano abbiamo dato un altro volto: “In
God We Trust”, “è il denaro che definisce le relazioni fra gli uomini”,
dice Cacciari.
Rg. Infatti il dollaro è centrale per
la scritta “In God We Trust”, che non può esserci su nessun’altra moneta. Qui la mia risposta
non potrà esser estesa come lo è stata per la questione della sovranità, in
quanto bisognerebbe davvero esser consapevoli di com’è nata la preponderanza
della scienza-tecnica in Occidente e, di qui, nel resto del mondo. Per quanto
anch’io sia convintissimo che questo tema sia decisivo, posso qui solo dare una serie di riferimenti frammentari, in quanto un pieno loro
sviluppo richiederebbe una forma meno breve del blog, agile sì, ma limitato;
inoltre, occorrerebbe sempre capir bene fino a che punto spingersi. Son temi
dove si necessita la vera “comprensione” – che non è il mero capire con la sola
mente, ricordava Gurdjieff -, inoltre avrei difficoltà nel render conto di
ricerche cui ho dedicato interi anni. Qual è la differenza tra due che, pur
parlando dello stesso tema, il primo pare acqua sul vetro di una finestra e
l’altro lascia traccia: che nel secondo caso non vi è solo la mente, il
“mentale”, ma vi è il “retroterra” che il secondo ha portato sul tema, e che il
primo non può avere. Ecco la differenza fra gli artisti o in qualsiasi altro
campo dell’umano scibile o agire. Ecco la vera
differenza tra le persone.
Voglio solo far
osservare che – potrei far riferimento, fra
degli altri, ad un autore che impressionò il recentemente scomparso Marco
Capuzzo Dolcetta -, le
radici della tecnica sono lontane, profonde: Colli ne ha intravisto qualcosa,
ma non basta. Devi porre questo a
confronto con il passo di Wallerstein, da me più volte citato, dove smonta
l’idea che il capitalismo sia nato dalla “classe borghese” ma, invece, dai
proprietari terrieri, che erano un misto della classe aristocratica e di quella
borghese che era ascesa alla nobiltà, la cosiddetta “noblesse de robe”, come suol
dirsi. Attenzione che qui siamo ad un
punto decisivo davvero: la “democrazia” è la sostituzione dei valori borghesi ai valori aristocratici –
Baudrillard docebat –, invece il
capitalismo nasce da una commistione fra la classe aristocratica e la parte superiore
della borghesia; ecco spiegate le differenze dei due gemelli democrazia e
capitalismo, due gemelli dalle relazioni non sempre concordanti.
La classe aristocratica
– ed anche quella ecclesiastica a misura che provenisse da quest’ultima, e ne
proveniva in misura non indifferente – in “certe”
sue componenti …, faceva
riferimento a cose cosiddette “ermetiche”, nel cui retroterra, per almeno parziale
“sovversione” tuttavia, sono nati quei germi che avrebbero portato alla
modernità nell’ “autunno del Medioevo”, e qui si situa la radice delle seguenti polemiche fra Evola e Guénon, sullo “statuto” di
questi temi e sulla loro reale influenza, non avendo pienamente ragione del
tutto né l’uno né l’altro, ma più Guénon si è avvicinato. Purtroppo, ripeto,
queste cose richiedono un lungo studio e “pluridisciplinare”, si direbbe oggi, se
si vuol evitare la pedissequa ripetizione inutile. Per esempio: se tu ti vai a
studiare – come qualcuno ha fatto – che cosa era chiesto alle “forze sottili”
evocate tra la fine del Medioevo e la prima fase dei tempi moderni, questo ti
dà un indizio preciso della classe sociale
d’appartenenza della maggior parte dei “maghi” cosiddetti, per lo meno in
Europa centrale ed occidentale, in quella specifica
epoca di passaggio … A questo punto, di nuovo, si pone il dibattito fra Evola e
Guénon sulla “classe aristocratica” e la sua “rivolta” in ambito
“tradizionale”, e cioè vi è un dibattito interno che è difficile far capire fuori, della serie: l’osservatore
dall’esterno nota una lotta intestina, ma gli sfugge fatalmente la posta in
gioco. Infatti, devi esser consapevole di quel mondo, almeno indirettamente, per
poter davvero capire la posta in gioco di una polemica interna, che è il punto
decisivo; e qui mi debbo fermare, perché è oggettivamente difficile, non soggettivamente eh – oggettivamente -, far capire queste
cose. Occorrerebbe davvero costruirsi un linguaggio atto alla bisogna. Ma ci
porterebbe davvero troppo lontano.
Quel che qui ho appena
detto, però, risponde a quel che tu hai sollecitato indirettamente, cioè perché
non si parla nel blog più approfonditamente di tali temi: perché il rischio di
generar equivoci ci sta, ma non è comparabilmente possibile controbattere agli
equivoci. La causa è sempre la stessa: la parola, il linguaggio. Vi è,
comunque, un “nodo” grosso qui (o forse un nastro);
soltanto questo voglio far balenare, ma la bianca balena presto s’inabissa nelle
oscure sorgenti da cui proviene.
Il punto che tu poni al
centro della discussione, tuttavia, rimane decisivo: è vero, tutte queste
“forze planetarie”, d’Occidente come d’Oriente, senza
distinzione, competono per la
tecnica, non con la tecnica stessa, e cioè quest’ultima si rafforza per mezzo di
tutti coloro che la usano. Solo che la tecnica è, a sua volta, la “maschera” di
qualcosa che ha un’ “altra” origine, che il mondo moderno stesso non può capire, ed è la lezione di
Guénon, sta tutto qui, alla fin fine.
Quanto al ruolo
dell’intellettuale, quest’ultimo poteva avere il ruolo di “capopopolo” solo e
soltanto in un determinata fase – trapassata – del sistema-mondo, quindi, su questo, Severino ha molto
ragione. Il punto, a mio avviso, sbagliato in lui è che il ruolo
dell’intellettuale non può esser neppure quello di mostrare ai popoli “che cosa
sono destinati a volere”, in quanto, essendo, per lo stesso Severino, un
destino, “mostrarglielo” non ha proprio alcun senso: avverrà comunque. Il divenirne consapevoli qui non ha
potenziale sbloccante. Se poi sia un destino assoluto – lo è stato, de facto, storicamente parlando -, il discorso sarebbe lungo e ci porterebbe
lontano anche questo. Partiamo dal fatto incontrovertibile che questa direzione
storica ha comunque vinto, tutte le forze storiche del pianeta vogliono la
tecnica per perseguire i propri obiettivi ma, così facendo, perseguono gli
obiettivi della tecnica, su questa questione Severino ha
ragione. Il punto è che la tecnica si
nutre delle forze storiche, consumandole,
e il loro consumo non può essere senza fine. “La scienza deve alla macchina a
vapore più di quanto la macchina a vapore non debba alla scienza” (Anon), ovvero: “Ha fatto più il
capitalismo per la tecnica che la tecnica per il capitalismo”; rimane però altrettanto vero che la tecnica
necessita del capitalismo per auto-nutrirsi e sviluppare senza fine i suoi obiettivi,
che sono uno solo: aumentare senza fine le proprie capacità di realizzare obiettivi.
Che il ruolo
dell’intellettuale sia sostanzialmente finito è stato ammesso anche dallo
stesso Heidegger nell’ultima conversazione, così come la necessità, per la filosofia,
di aiutare a ripensare il tema della tecnica e che questo è l’unico “fare” che
– oggi - la filosofia può fare, gioco di parole voluto.
Ed è verissimo che non si tratta di un “nodo gordiano”, non vi è nulla da
tagliare, la violenza del ‘900 - che però aveva una sua componente dinamizzante
totalmente persa -, non è
assolutamente capace di modificare il meccanismo di fondo: la ragione vi è
semplice, che la violenza organizzata comunque ha bisogno dei mezzi che solo la
tecnica può offrirgli.
La ragione alla radice l’hai
detta molto bene tu, più
esplicitamente di Severino e di Heidegger: il capitalismo, il sistema economico
e tecno-scientifico che formano un “reticolo” di relazioni “ciberneticamente
auto-regolantisi”, è, in definitiva, una fede, un sistema di credenze; ma
la filosofia, io aggiungo, non è
atta a combattere una “fede”, un
insieme di credenze cui la gente si
affida. Dando ad esso sistema il consensus.
Ecco perché né “l’intellettuale” né la filosofia possono alcunché su questo
qualcosa. Lo si è visto, in breve e davvero sunteggiando una materia molto
complessa e “magmatica”, ma l’ho detto: se la struttura della scienza non l’ha
fatta la scienza, in ogni caso questa stessa struttura non può in alcun modo
aver dato la forza espansiva a questa stessa struttura: vi è “circolarità”
logica, ovvero autoreferenzialità, in altre parole. Qualche forza, di un
qualche genere (approfondire il punto, come ho detto, ci porterebbe lontano),
ha messo “in moto” tutto ciò; e poi si è ritirata. Per parlarci chiaro: non può
esserci “la” soluzione, ma solo il suo contrario – la dissoluzione, la dis-soluzione.
Che non possa esserci “la”
soluzione mi pare attestato sia da Severino che dallo stesso Heidegger il quale,
nell’ultima intervista, quasi prendeva le distanze da molto di ciò che aveva cercato
di realizzare nella sua vita filosofica, riservandosi ambedue, però, la
“cittadella” della filosofia che avrebbe come scopo di “mostrare ai popoli a
cosa son destinati” (Severino), oppure, in modo più sfumato come l’ultimo
Heidegger, avrebbe un “ruolo” solo preparatorio.
Dopo aver ribadito – e
su questo mi trova concorde – che il nazismo fu l’ultima protesta contro il
mondo tecnico (un ultimo “sussulto” del politico, così lo interpreta pure
Baudrillard, aggiungendovi, però, la nota parodistica)
ed insieme il definitivo scatenamento della tecnica (si noti solo quante
invenzioni sono state sviluppate partendo
dall’ “accelerazione” impressa dal regime hitleriano), così continuava l’ultimo
Heidegger: “la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione
dello stato attuale del mondo. E questo non
vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci potrà salvare. Ci resta, come unica
possibilità, quella di preparare (Vorbereiten
[corsivo in originale]) nel pensare e nel poetare, una disponibilità (Bereitschaft [corsivo in originale]) all’apparizione
del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio
assente, noi tramontiamo)”.
L’intervistatore dello “Spiegel” incalzava Heidegger perché si spiegasse per
bene; Heidegger quindi precisava che scopo della filosofia era quello di
“preparare questa disposizione a tenersi aperti per l’avvento o la contumacia
del Dio. Anche l’esperienza di questa contumacia non è che sia nulla”.
E già in quell’epoca – alla domanda su che cosa avesse preso il posto della
filosofia –, così rispondeva: “La cibernetica”.
Vi è un altro passo
interessante, laddove l’intervistatore ricordava a Heidegger come lui avesse
detto che la democrazia ed altre cose del genere erano “delle cose a metà”;
Heidegger gli rispondeva che non si stava riferendo specificamente alla
democrazia. Poi aggiungeva un frase che la dice lunga sul problema: “Quanto al
merito, io le chiamerei anche delle cose a metà, in quanto non vedo in esse
alcun effettivo confronto col mondo tecnico: infatti dietro di esse, a mio parere, sta
sempre la concezione che la tecnica sia nella sua essenza qualcosa che l’uomo
ha in mano. Ma questo, secondo me, non
è possibile. La tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare”;
questo è un punto decisivo.
Mentre allora la
posizione di Severino, pur apparentemente “salvaguardando”, in forme ridotte,
la posizione dell’ “intellettuale” – “disorganico” -, tuttavia non apre alcun cammino, la posizione dell’ultimo
Heidegger, pur non potendosi affatto
dimenticare tutto il suo “precedente”, però apre
un cammino.
Direi che possiamo
“andar oltre” Heidegger, a questo punto, e dobbiamo dire che se oggi il “pensiero”
(o la filosofia), pur ridotta sovente a mera ancilla scientiae modernae, può avere un suo ruolo specifico, esso – il “ruolo” – sta
precisamente nel dover esser
aperti all’ Adveniens. E questo Che l’ “Ad-veniens” ad-venga – o non -:
si badi bene a questo punto …
Quest’ “apertura” non è un optional,
è un must, per usare molto ironicamente il linguaggio della pubblicità. Senza quest’apertura
son d’accordo con Heidegger: il “pensiero” è inefficace, “la filosofia è alla
fine”, se, per filosofia, non
intendiamo il solo riflettere sul passato – fatto comunque utilissimo in ogni caso – ma, invece, l’esercitare
un’influenza diretta sulla società, e proporre rimedi (il nietzscheano filosofo
come “medico della civiltà”) o l’aver “voce in capitolo”, perché queste ultime
cose, pur un tempo possibili, oggi non lo son più affatto.
La via è questa, oggi. E porta fatalmente fuori dal pensiero occidentale,
ma pure da quello orientale
“classico”, che piaccia o non. In
quanto un Adveniens che “ti telefoni”
e ti dica sia quando si manifesti, sia, soprattutto, le modalità della sua “finale”
apparizione, per ciò stesso non sarebbe più “l’” Adveniens.
Non posso che terminare
citando le parole – “finali” in un senso molto particolare, non in senso “temporale” - degli Atti, “Ogni speranza nella nostra
salvezza era ormai perduta” (At, 27-20),
dove ci si riferisce alla nave che trasporta Paolo a Roma e che naufraga presso
Malta, “l’isola delle api” il significato del suo nome: “Le Api” ricordate da
Mar Solomon in un suo antico scritto, il bue “Api”, il sacrificio che porta
oltre, il “passaggio al limite” ovvero il “salto” di qualità, non di quantità
eh. La salvezza viene quando la si pensi ormai perduta: allora viene. Ma la
“nave” deve sparire … Ora però, questa è fiducia ovvero “fede”; eh sì, solo una
fede si oppone ad un’altra, una filosofia, per quanto ottima, non potrà mai
farlo
…
Aai. Quarta domanda: il
problema del legame con la tradizione, e cioè la questione degli “eredi” e dei
“figli”; insomma la relazione con la tradizione, è un tema grandissimo: l’aver
negato questo legame è la “crisi del
mondo moderno” e dell’Occidente in particolare, in specie negli ultimi decenni:
sta tutto qui. Di questa vera e propria negazione
della **propria** storia, che ha impestato l’Occidente per e da
decenni, Caserta è sommo esempio,
nella sua relazione con i monumenti del
passato che, nel bene come nel
male, “insistono” sul suo territorio: la storia non è affatto sempre un “bene”,
essa non si sceglie, ma ci capita “in sorte”, come un’eredità per l’appunto.
Questo “taglio” del sentire la
continuità con la tradizione, è un punto decisivo: la “malattia mortale”
dell’Occidente oggi è proprio e precisamente questa.
PB.
Uno dei temi davvero centrali del blog è il passato: il passato, anche se
dimenticato, non è mai morto, e non
vi sarà mai innovazione – in nessun senso – se non in relazione alla tradizione. Tutto ciò
apre l’enorme questione del rapporto con “l’eredità” e
del legame fra “padri” e “figli”, lato
sensu intesi. Diceva Goethe, “il passato devi comprenderlo per possederlo”.
Oggi il passato è solo un fare economico
e non una conoscenza.
Nessun
governante, oggi, sa
cosa porta sulle proprie spalle e - soprattutto
– da quali contrasti è stato prodotto. Eppure il ‘900 ha prodotto
“un nuovo concetto di Dio” (Hans Jonas) dopo
Auschwitz.
La sovranità infatti nasce con questo concetto: “L’uomo deve
obbedire solo alle leggi che si dà”, ma questo
è il borghese, ed è nello statuto di questa stessa
borghesia che l’individuo e i suoi bisogni siano posti al centro e non possa esistere alcun “bene comune”
che non sia nient’altro se non delle mere parole.
Per concludere: la “silloge” che tu proponi per una rivisitazione dei giudizi espressi nel corso degli anni, necessariamente entra in conflitto con la
povertà di linguaggio della politica, che appare “sprovvista” di fronte ai
“perché” della fase attuale che definiamo “globalizzazione”; avviene come un
corpo umano che, di fronte ai prodotti di laboratorio, che ogni giorno vengono
posti in commercio, non avendone avuto conoscenza nel corso della sua – del
corpo - evoluzione, non sa rispondervi, e va in crisi …
Rg. Concludo anch’io questa
conversazione “andata oltre”, forse troppo, non senza, però, averti ringraziato
per aver saputo “centrare” il detto – e il non detto – di alcune questioni
fondamentali, così colpevolmente obliate oggi, e nulla più di questo colpevole
oblio “segna” la “fine dell’Occidente” in
toto, non dell’ “italietta” e dell’ “europina”, come le chiamo. Ben altro è
entrato in crisi, prima che tali zero paressero chissà quali grandi cose: prima
che ruggissero i topi non solo di leoni non se ne parla da secoli, e questo è
comprensibile, ma di semplici gatti non v’è traccia.
Fermo restando che
condivido la gran parte delle osservazioni fatte a questa mia quarta domanda, voglio
solo sottolineare le tue affermazioni sul cosiddetto “bene comune” che,
semplicemente, non può esistere nella e per
la borghesia, in quanto attenterebbe alle sue basi fondanti. Il “bene comune” non è in agenda. Le finalità sistemiche
per esso non hanno alcun posto, poi che “tu” – un “tu” qualsiasi -, credendo in
certe cose, voglia dare ad esso un posto, nessun problema dice il sistema, quel
che conta – e su questo il sistema è ferreo – è che la finalità centrale
sistemica non sia mai, in alcun modo, messa in questione, non dico “attaccata”,
soltanto e semplicemente messa in questione, nulla di più, nulla di meno. Il
che la dice lunga sul processo di “normalizzazione” trentennale cui siamo stati
sottoposti e sul suo straordinario successo.
Sul resto, è così, il
linguaggio mi divide - in modo molto
profondo -, dalla politica attuale, sprovvista di risposte, direi di
più: sprovveduta, in ritirata nel profondo, e tanto più soccombe alla deriva,
tanto più starnazza sulla sua presunta forza. Tutti questi discorsi che
non riescono a produrre una visione son etimologicamente osceni (= “portano
sfortuna”), e lo notava già Baudrillard negli Anni Ottanta: insomma è una
deriva ormai lunga.
E questa deriva non è,
però, “a costo zero”, ma si paga:
manca infatti l’ energia del
“politico”: la “sovranità” è
altrove. Al massimo, la politica è amministrazione, spesse volte pessima.
La
politica, invece, non può essere meramente amministrazione.
Per aver la luce
necessiti di un “anodo” e di un “catodo”, sennò non puoi avere luce: come il
“buco nero” nel paragone di Baudrillard illo
tempore – se i “buchi neri” esistano
davvero non mi pronuncio -, vi è tanto moto, tanto calore, ma nessuna luce, “dove non vi è più
nessuna luce, fuor da quella sinistra accesa dall’accelerazione della sua
stessa caduta”. Nessuno
propone, o proporrà mai, una visione diversa, e dunque non ci può essere l’energia politica. Ma questa era la tesi
di Francis Fukuyama illo tempore, che
tanto scalpore all’epoca provocò, ma ci si dimenticò del fatterello che
Fukuyama ricollegava la “fine” dell’ “ingegneria sociale” – come la chiamava
lui, Baudrillard avrebbe invece parlato più
radicalmente di “fine del sociale” tout
court – al nietzscheano “ultimo uomo”: e non
è certo una buona cosa, non è la
“globalizzazione felice” della e nella quale si sono
illusi tanti, troppi, e - in particolare - nella residuale
“sinistra”, che, per questo, è del tutto
ineffettuale. La globalizzazione non
è stata un pranzo di gala e neppure un pomeriggio d’estate al centro
commerciale … Piuttosto, tutta la storia è entrata in un “non luogo”, è
divenuta un “non luogo”, la politica stessa è un non luogo a procedere.
Che la
politica sia sprovvista di risposte ai “perché” della globalizzazione è un
destino, e nasce dall’aver considerato l’orizzonte mentale della
globalizzazione stessa un destino, paradosso finale …
Il tuo paragone col
corpo che non sa rispondere ai prodotti di laboratorio è assai calzante, ma
così torniamo al punto centrale: la
questione della sovranità e del “corpo” della sovranità stessa, del “Re”,
qualunque sia poi la forma “concreta”
del “Re” stesso. Ebbene questo ci riporta al fatto che il “corpo” sociale, e,
dunque, quello elettorale, oggi, non può avere lo stesso grado di realtà
del corpo del “Re” in senso teologico-politico classico.
E questo è dovuto anche al fatto che il corpo del “Re” lo si è ridotto al
visibile, finché, quando il corpo visibile – ormai unico “grado di realtà” –,
vien alterato da forze “esterne” macchinico-sistemiche,
diventate quasi un golem, il corpo va
in crisi. Preme sottolineare come il tipo, la natura e la qualità, della crisi stessa, sia inusitato: per questo nessuna
terapia, reale o presunta, pare funzionare, niente pare ormai esser capace di
controllare la deriva e, dunque,
“chi frena” non può esserci, anche nel senso che Heidegger dava all’ esserci. Questo spingerebbe direttamente a varie considerazioni
“sparse” sulla crisi dell’Impero romano e ai vari studi da me fatti a tal proposito,
il che però ci porterebbe lontano. Preme osservare, tuttavia, che questo è il
“quadro generale” dove e nel quale quegli studi hanno senso.