NB. La forma è vecchio style, con le sottolineature e senza i corsivi, un po’ da ciclostile politico.
Ho quindi lasciato gli errori.
Le parti “datate” son tolte, e segnate così:
[...].
Ho anche voluto lasciare il carattere (courier new) da vecchio ciclostile.
E’ molto importante la memoria, il ricordare certe cose...
Dunque: a futura memoria.
Sottolineo il passo, che si leggerà di seguito: “Naturalmente, l’Italia
facendo parte dell’Europa, pone il suo peso non molto rilevante a
favore dell’Europa,
ma come attivo
partecipante, e non
come oggi, e cioè un passivo vagone della Germaniopa. L’Italia,
proprio perché non ha una vera
classe dirigente, per fare semplicemente parte della lotta
geoeconomica e per
non essere esclusa
dal novero dei paesi vitali, accetta il suo ruolo passivo nella
Germaniopa. E questo e molto sbagliato perché l’Europa non
è la Germania.
Nessuno nega l’importanza centrale
della Germania, ma il punto è che il predominio della Germania e la
sua egemonia di fatto, pur essendo la realizzazione, in forma blanda
e indiretta, del pangermanesimo, non
coincidono affatto
con il predominio dell’Europa nella contesa geoeconomica globale.
Questo è il punto, e il non averlo ben capito è la causa principale
della crisi europea.”
PARTE
III°
1.
I “fanatici” della
democrazia, cioè i fanatici di una particolare
interpretazione della libertà, sono un’aggressiva setta. Per loro
tale interpretazione va imposta
all’intero globo, e ci stanno riuscendo. Però allora la libertà
che fine fa? Per loro c’è una sola “vera” libertà: quella che
concepiscono. Il resto è non senso. Ma è questa libertà imposta
vera possibilità di libertà? Evidentemente no. In Occidente tutti
si lamentano del fanatismo islamico: ed a ragione si può parlare di
fanatismo laddove si concepisca solo
il proprio modo di vedere, non riconoscendo ad altro alcun posto. Non
è fanatismo invece il riconoscere l’altro tuttavia scegliendo il
proprio modo di vedere. I fanatici della democrazia (democratisti)
non riconoscono l’altro: perciò son fanatici. Come ogni fanatismo
provocano un sacco di guai, che non
vedono: non possono infatti; per vederli dovrebbero per lo meno
distaccarsi un po' dalle proprie vedute: ma è per l’appunto ciò
che il fanatismo non consente.
Naturalmente, e qui ci
ricolleghiamo con il punto 3 della parte I°, il democratismo
occidentale moderno vien fuori dall’individualismo. Il democratismo
è in crisi di successo perché l’individualismo è in crisi di
successo (la crisi di successo è quando un qualcosa ha successo e
vince, ma risulta incapace poi di gestire il suo successo, che gli
sfugge di mano). Così, per il democratismo l’individuo, concepito
come un cosiddetto “atomo individuale”, è alla base. Per questo
però non può risolvere il problema della decadenza dell’Occidente
moderno.
Poiché pone l’individuo,
considerato come un atomo, alla base, delega
allo stato il
resto. Questo è il meccanismo perverso. Laddove lo stato è debole
tutto va male
. Inoltre, in un mondo che funziona così, basta indebolire lo stato
che tutta la società affonda. Questo è proprio quel che è successo
con il disimpegno liberalista iniziato con gli anni ‘80. Prima si
lega tutto ad un sol filo, poi lo si taglia: il lampadario cade a
terra in mille pezzi. Diabolico non è vero?
Ma il punto è che nella
fase precedente si è dato allo stato un ruolo che non gli competeva.
Difatti la chiave della faccenda è che ci devono essere altri
collanti oltre
l’individualismo a tenere assieme la società. Ed è questa
chiave che coloro i quali son barricati nel fanatismo del
democraticismo non vogliono vedere. Per questo
essi non riusciranno mai
a capire le società non occidentali.... e nemmeno la propria!
Se difatti le società
occidentali sopravvivono (male!) è per il residuo
di collanti precedenti, erosi sempre più dall’individualismo di
massa, cioè dalla massificazione. Solo per questo residuo le società
occidentali non precipitano nel rinselvatichimento (alla Yahoo) e
nella barbarie, che tuttavia non fa che diffondersi sempre più. La
nostra non è forse l’epoca in cui si esaltano i cannibali? E non è
questo un segno molto chiaro?
“La tradizione culturale
liberale che si è sviluppata dopo la Seconda Guerra Mondiale affermò
che gli esseri umani erano giunti a questo stato perfetto dove ognuno
sarebbe stato più ricco se fosse lasciato fare le sue cose e
fiorire. Non ha funzionato e dubito che lo farà. Certe cose di base
sulla natura umana non cambiano. L’uomo ha bisogno di un certo
senso morale del bene e del male. Vi è una tale cosa chiamata male,
e non è il risultato dell’essere vittima della società. Tu sei
proprio un uomo malvagio, incline a fare cose cattive, e devi esser
fermato dal farle. Gli
occidentali hanno abbandonato una base etica per la società,
credendo che tutti i problemi son risolvibili grazie ad un buon
governo, cosa che noi nell’Est non abbiamo mai creduto possibile”
(“Culture is Destiny” intervista al SM di Singapore in Foreign
Affairs, March-April ‘94, p.112, sottolineature mie).
Non si potevano dir le cose
più chiaramente. Proprio questo falso modo di pensare ha contribuito
a far sì che lo stato fosse concepito come ciò che risolve ogni
problema. Questa diffusa illusione è il frutto maturo e venefico di
tutto un modo di pensare sbagliato. Poi, basandosi su di una versione
di questo modo di pensare nel campo economico, in nome di una
malintesa “libertà”, si è iniziato a colpire lo stato stesso: e
la crisi è precipitata. Ma la radice della crisi stessa non è in
ciò che l’ha precipitata.
Tutto ciò serve a far
vedere come concretamente
“destra” e “sinistra” si dian la mano. Ambedue si trovano
d’accordo, poi, nell’abbandonare una base etica per la società.
Quest’ultima basa vien considerata in maniera schizoide e sbagliata
solo da correnti estreme e solo per cose particolari, tipo il
populismo di destra, che usano questa base solo legata con il
razzismo ed i resti del comunismo, che la usano legata solo a certi
aspetti della vita economica. Di conseguenza, si sfruttano
certi residui, ma, proprio come tutti gli altri gruppi e movimenti
politici occidentali, si è abbandonata una base etica per la
società.
In conseguenza di questa
sbagliata visione, in Occidente, ma sempre più ovunque, “Il
governo dice datemi un mandato popolare e risolverò tutti i problemi
della società” (ibid., p.114). Naturalmente, ciò non accade; anzi
è rarissimo che un gruppo politico riesca anche solo a mantenere una
piccola parte del suo Programma.
Non esiste governo che possa
risolvere tutti i problemi, né rimedio per tutti i mali (Panacea) di
una società. “Governi verranno, governi se ne andranno. Ma questo
dura. Noi cominciamo
dalla fiducia in sé.
Nell’ Occidente oggi è l’opposto” (ibid., sottolineatura mia).
Sì, questa è la chiave:
da qui bisogna iniziare. Questo è il punto fermo.
E l’Italia deve ripartire da qui.
In ogni altro modo invece,
non si andrà da nessuna parte, perché non sono i programmi che
danno la fiducia in sé, ma è la fiducia in sé che forma e coagula
un programma. Ma tale fiducia non può che formarsi oltre
la visione attualmente dominante. Per cui, siamo contrari alla
visione, che ha radici lontane, che ha dominato dopo la seconda
guerra mondiale, sia nella sua variante di destra che di sinistra.
Solo così è possibile ritrovare la fiducia.
Non è un caso se una certa
visione genera negatività. Né si può uscire da quella negatività
da un giorno all’altro: “I mali che si sono andati accumulando
per anni non possono essere spazzati via in un attimo” (Huitang).
Né m’illudo che si possa ridare una base etica per la società
senza che una base spirituale
non si sia prima formata e radicata,
e so che ad una cosa simile si può contribuire, con essa si può
collaborare, ma non
si può né generare né iniziare: è opera più che umana. Epperò,
star fermi come un bove al macello è altrettanto sbagliato.
D’altra parte, alla
domanda dell’intervistatore seguita all’affermazione di LKY sul
fatto che gli Occidentali hanno abbandonato una base etica per la
società: “E’ tale fondamentale cambiamento nella cultura
irreversibile?, LKY risponde: “No, è come l’oscillazione di un
pendolo. Penso che tornerà indietro. Non so quanto tempo ci metterà,
ma c’è già una sferzata indietro in America contro le fallite
politiche sociali che sono sfociate in gente che urina in pubblico,
nell’offensivo chiedere l’elemosina in pubblico, nel collasso
sociale” (ibid., p.113).
E il pendolo ha appena
iniziato a tornare indietro.
Quando l’intervistatore
pone a LKY la domanda su che cos’avrebbe fatto se fosse stato
americano, il SM di Singapore risponde: “Cosa farei se fossi
americano? Primo, dovete avere ordine nella società. (...) Poi le
scuole (...). Poi dovete educare rigorosamente ed istruire un’intera
generazione di abili, intelligenti, ben informate persone che possano
essere produttive. Partirei con le cose di base, lavorando
sull’individuo, guardando nel contesto della sua famiglia, dei suoi
amici, della sua società. Ma l’Occidentale dirà che fisserò le
cose in cima. Una formula magica, un grande piano. Agiterò la
bacchetta magica e ogni cosa funzionerà. E’ una teoria
interessante ma non un metodo provato” (ibid., p.114).
[...]
Cinque livelli: 1) ordine
nella società; 2) educazione; 3) indirizzare l’ambizione di
individui e famiglie; 4) dare importanza al “contesto” in cui
vive l’individuo, che l’influenza e che spesso lo deprime (la
società influenza l’individuo molto più di quanto l’individuo
influenzi la società: quest’ultima può far credere all’individuo
persino l’opposto di come sono le cose per mezzo di un
individualismo di massa); 5) last
but not least,
formare una burocrazia giovane, ben istruita, il nerbo
dello stato.
Il vero
scopo è arrivare a quest’ultimo punto, davvero un grande
lavoro, ma non di quella pseudo-grandezza che sta sempre in bocca dei
politicanti e che questi bestioni applicano a cose molto molto
piccole... Ma, per arrivare al punto N.5, bisogna iniziare dal punto
N.1: questa
è la cosa importante che ci differenzia dai programmi che cianciano
di “un grande piano”; il piano è grande proprio perché parte
dalle cose piccole.
Ora, è necessario che ci
sia chi vuole realizzare questi 5 punti, condicio
sine qua non perché
la serie di obiettivi momentanei
e particolari che
costituisce la Parte II si possa concretamente
realizzare. Detto altrimenti, la Parte II tratta degli obiettivi
particolari. Mentre i 5 punti qui enunciati sono la linea
politica generale
senza la quale gli obiettivi restano dichiarazioni di desideri e, al
tempo stesso, degli obiettivi troppo legati ad una situazione
particolare, passata la quale tali obiettivi particolari si
vanificheranno. I 5 punti di linea politica fortificano gli obiettivi
particolari, rendendoli concretamente possibili proprio perché li
distaccano da una situazione troppo contingente.
[...]
Cos’è la geoeconomia? Il
termine è di E. Luttwak, il quale lo ha coniato in parallelo con
geopolitica. La geopolitica è l’epoca che inizia, grosso
modo, con la
vittoria della Prussia sulla Francia nel 1870 e dura fino alla prima
guerra mondiale; “il modello mondiale di grande potenza era la
Prussia” (E.Luttwak: C’era
una volta il sogno americano,
Rizzoli 1994, p.103). In pratica, la contesa mondiale si
caratterizzava dalla spinta a conquistare territori, utili o non:
tutti gli stati vitali erano quelli che avevano tale spinta alla
conquista di sempre maggiore spazio. “La guerra e la pace non erano
cambiate, ma la diffusione globale della navigazione a vapore, delle
ferrovie e del telegrafo indicavano che il territorio poteva essere
controllato
come mai era stato possibile in passato” (ibid., p.107). Occorre
porre mente con attenzione al legame che allora c’era e c’è di
nuovo tra tecnologia e contesa mondiale, perché qui c’è un punto
nodale.
“La spinta alla conquista non era naturalmente un sentimento nuovo,
ma con poche eccezioni i conquistatori del passato avevano sempre
bramato territori non per se stessi, ma per ciò che contenevano”
(ibid.); ora, la spinta alla conquista di territori, di “spazi
vitali” come allora si diceva era la chiave per poter avere una
posizione nell’ambito della contesa mondiale.
Oggi, pur rimanendo la
questione territoriale al centro dei rapporti degli stati esclusi
dalla contesa mondiale, come rimane centrale
nei rapporti che gli stati che partecipano alla contesa mondiale
hanno con gli stati esclusi da questa contesa, e questo è un
punto fondamentale,
pur rimanendo la questione territoriale importante, si diceva, i
rapporti fra
gli stati che partecipano alla contesa non sono più regolati da
lotte territoriali (geopolitica), ma da lotte economiche
(geoeconomica). “Nella politica mondiale tradizionale, gli
obiettivi sono di assicurarsi e ampliare il controllo fisico del
territorio e di guadagnare influenza sui governi stranieri mediante
la diplomazia. Il corrispondente obiettivo geoeconomico non
è di raggiungere il massimo tenore di vita possibile per la
popolazione di un paese ma la conquista o la protezione di ruoli
appetibili nell’economia mondiale. Chi svilupperà la prossima
generazione di aerei di linea, computer, prodotti biotecnologici,
materiali avanzati, servizi finanziari e tutta la produzione di alto
valore di grandi e piccole industrie? I progettisti, i tecnici, i
manager e i finanzieri saranno americani, europei o asiatici? Chi
vincerà si aggiudicherà ruoli di controllo assai remunerativi,
mentre a chi perderà rimarranno solo le linee di montaggio (...).
Abbiamo già visto che quando gli impianti di montaggio si
sostituiscono alla produzione nazionale, l’occupazione locale di
manodopera manuale e semispecializzata può anche reggere, ma la
finanza e tutto il management di rango superiore vengono trasferiti
nei paesi di origine” (ibid.,;p.339).
L’Italia non è attrezzata
per nulla per la contesa mondiale geoeconomica, nella quale è o
perdente o semplicemente assente, pur essendo un paese molto
industrializzato. L’euromania delle sedicenti classi dirigenti,
cioè della borghesia italiana che ha fatto sì che l’Italia non
potesse accedere alla contesa mondiale, nasce da ciò: che questi
falliti sanno molto bene che l’Italia non è attrezzata per la
contesa geoeconomica; in parte essi stessi han voluto così, in più
gran parte sono stati un fallimento perché non sono stati capaci di
esprimere una classe dirigente che recuperasse quello storico ritardo
italiano e ponesse l’Italia in
quanto tale in
grado di partecipare alla contesa mondiale. Parlo di Italia, e non
di italiani o di certi gruppi di italiani.
[...]
Naturalmente, l’Italia
facendo parte dell’Europa, pone il suo peso non molto rilevante a
favore dell’Europa,
ma come attivo
partecipante, e non
come oggi, e cioè un passivo vagone della Germaniopa. L’Italia,
proprio perché non ha una vera
classe dirigente, per fare semplicemente parte della lotta
geoeconomica e per
non essere esclusa
dal novero dei paesi vitali, accetta il suo ruolo passivo nella
Germaniopa. E questo e molto sbagliato perché l’Europa non
è la Germania.
Nessuno nega l’importanza centrale
della Germania, ma il punto è che il predominio della Germania e la
sua egemonia di fatto, pur essendo la realizzazione, in forma blanda
e indiretta, del pangermanesimo, non
coincidono affatto
con il predominio dell’Europa nella contesa geoeconomica globale.
Questo è il punto, e il non averlo ben capito è la causa principale
della crisi europea.
L’Europa può
predominare nella contesa geoeconomica e sopravvivere alla contesa
tra esclusi ed inclusi nella geoeconomia se e solo se sviluppa le sue
molteplici energie e differenze. Trasformare le differenze
all’interno dell’Europa
(Occidentale e Centrale, non
dell’Est, che è escluso
dalla geoeconomia) in
un punto di forza e la chiave di volta del predominio dell’Europa
nella contesa mondiale che si farà sempre più dura.
La presenza di una classe dirigente in Italia che perseguisse
consapevolmente questi obiettivi sarebbe un fattore di cambiamento in
Europa e, di conseguenza, nel mondo. I paesi dell’Europa dell’Est
non possono essere fatti partecipi della contesa geoeconomica a causa
delle loro condizioni: sarebbero solo un peso (e lo sono già per la
verità). Devono diventare una zona cuscinetto rispetto alla Russia.
2.
Il paese che oggi è
considerato “modello è il Giappone, nonostante il crollo del
mercato azionario e immobiliare che si erano gonfiati troppo
artificialmente” (ibid., p.103). E soprattutto un’istituzione del
Giappone vien considerata come l’esercito prussiano: il MITI
(Ministry of International Trade and Industry). Ora, l’Italia ha
bisogno assolutamente di qualcosa di simile al MITI, beninteso
adattato
alle condizioni concrete dell’Italia.
Il MITI, cioè un centro
che organizzi l’intera politica industriale, è una necessità
vitale
per la contesa mondiale della geopolitica. Difatti, il merito
del Giappone è di aver dimostrato che la politica industriale è
necessaria. “E’ vero (...) che in diversi paesi europei,
soprattutto Francia ed Italia, c’è una lunga tradizione di
interventi statali in tutti settori imprenditoriali (...). Ma con il
collasso mondiale del socialismo, la tradizione della politica
industriale sarebbe in piena ritirata, se non fosse arrivato
l’esempio giapponese a confermarne la vitalità” (ibid., p.104).
Questo è un merito storico
del Giappone, senza il quale il modello americano sarebbe l’unico;
ed è un modello, Luttwak lo dimostra, che si autodistrugge giunto a
un certo punto. La differenza col socialismo è che il modello
socialista era meramente burocratico, mentre quello giapponese è
dinamico;
inoltre, nel modello giapponese lo stato non
è il proprietario,
ed è qui che si differenzia pure da quello “a metà” fra
liberalismo e socialismo tipico di Francia e Italia: lo stato in
Giappone interviene pianificando ed investendo secondo piani precisi
e direttive chiare, facendo così prosperare di più i settori
d’interesse “nazionale”, cioè utili per la contesa mondiale.
Il MITI a volte vien
idealizzato. In realtà, come tutte le istituzioni umane, ha commesso
errori. Se ciò che si chiede a un’istituzione è la perfezione, si
chiede una chimera. Se però la misura di un’istituzione è la sua
capacità di raggiungere gli scopi ai quali è prefissa, allora il
MITI ha avuto un grande successo. “Perché l’esperienza di molti
paesi, e non del solo Giappone, dimostra che la politica industriale
(...) funziona,
sia quando si creano industrie da zero sia quando se ne accelera la
crescita e il progresso tecnico. E’ vero che i risultati
complessivi devono essere inefficaci nei confronti del consumatore,
perché per qualsiasi giapponese sarebbe più vantaggioso usufruire
di una produzione spontanea e spesso di semplici importazioni, ma
devono essere validi dal punto di vista produttivo per il popolo
giapponese nel suo complesso, creando un’opportuna gamma di
desiderabili possibilità d’impiego” (ibid., p.117). La
differenza risiede per l’appunto negli scopi: se lo scopo è
servire il consumatore si ha che il sistema americano è migliore, se
lo scopo è servire il popolo allora è il sistema nipponico il
migliore. Il guaio degli Stati Uniti è quello che un tempo era pure
della morta Unione Sovietica: difendono un punto di vista pratico
come un fatto ideologico. E bisogna essere allucinati per difendere
non
un qualcosa di realmente
ideologico, ma una modalità di estrinsecazione come un fatto
ideologico! La politica industriale non
dinamica, come lo era nel socialismo, è vinta dalla dinamica
assenza di politica industriale. Ma quest’ultima è vinta dalla
politica industriale resa dinamica.
E’ quest’ultimo punto che brucia a molti americani.
L’innovazione del MITI non
è in realtà gran cosa, come non lo fu l’innovazione introdotta
dall’esercito prussiano. “Nei suoi meccanismi non sarebbe stato
possibile scovare una formula segreta che garantisse la vittoria, né
qualcosa di particolare che non fosse già stato fatto prima in un
modo o nell’altro da quartiermastri, addetti militari,
amministratori, vecchi lupi della guerra e giovani addetti di cui i
sovrani amano circondarsi nelle loro corti in tempo di guerra e che i
comandanti militari raccolgono per servirsene durante le operazioni
belliche. Tuttavia c’era effettivamente un nuovo elemento segreto
nell’instancabile sistematizzazione
di ciò che in precedenza era stato fatto solo a casaccio (...).
Istruire gli aspiranti
ufficiali in un’accademia militare permanente invece di contare
sull’istruzione di giovani cadetti condotta coi metodi più
disparati; scegliere quindi sistematicamente
per lo stato maggiore i graduati più dotati di capacità d’analisi,
pianificazione e comando; e distribuire questi pochi privilegiati in
settori permanenti del controspionaggio, reparti operativi, logistica
e mobilitazione, le cui funzioni erano anch’esse metodicamente
definite in modo da evitare sovrapposizioni e da risultare ben
chiare” (ibid., p.111, sottolineature mie).
In tale sistematizzazione,
metodicità e pianificazione era la “novità” dell’esercito
prussiano come oggi è la “novità” del MITI. Ed è proprio
questo ciò di cui l’Italia ha urgente bisogno. Da notare che come
allora c’era un gruppo di funzionari particolari e ben addestrati,
così oggi vi è un simile gruppo di funzionari privilegiati al MITI.
Anche, se non soprattutto,
questo va imitato intelligentemente, cioè bisogna far la stessa
cosa, però adattata
ai bisogni ed alle concrete esigenze dell’Italia.
Quest’accenno ad un gruppo
di funzionari privilegiati è molto importante, perché la nuova
classe dirigente dà forma a tale nuovo stuolo di funzionari che, a
sua volta, entra più o meno a far parte della classe dirigente, così
rafforzandola.
Ma il tema della burocrazia
ci porta oltre. Difatti: “La geoeconomia costituisce l’unico
possibile sostituto ai ruoli militari e diplomatici del passato. Solo
invocando gli imperativi geoeconomici questi burocrati possono
imporre la propria autorità sugli imprenditori e sugli altri
cittadini in genere” (ibid., p.343). Vale a dire che senza
geoeconomia gli stati perderebbero la loro coesione, oggi. “Perché
senza di essa, sul palcoscenico della vita internazionale regnerebbe
solo il commercio, sottoposto all’indiscusso controllo
d’imprenditori ed aziende. Grazia alla geoeconomia, invece, si
potrà far sentire di nuovo l’autorità dei burocrati di stato”
(ibid., p.344). Bisogna vedere se questi burocrati son collegati ad
una classe dirigente: questo è il punto
chiave dove
l’impulso dato dalla classe dirigente si trasmette all’apparato
dello stato e quindi all’insieme della nazione, orientando
quest’ultima.
E come trasmettere l’impulso
alle masse? Con la fiducia:
è il senso di fiducia che fa sì che le masse siano mosse nella
direzione della leadership.
Così: un coagulante
per la classe dirigente, un obiettivo
per la burocrazia, un sentimento
per le masse: ecco
che i conti tornano.
Per le masse il sentimento
di fiducia:
è questo il biglietto da visita ed il messaggio; il resto ad esse
non interessa né può interessare. L’incapacità
di dare
questo sentimento e di diffonderlo è sempre il segno dell’assenza
di tale fiducia in coloro i quali vogliono esercitare la funzione di
leadership. Difatti: come si può dare ad altri ciò che non si ha in
sé?
Occorre dunque che la classe
dirigente abbia fiducia
in sé per poterla
poi dare ad altri, e quindi diffonderla tra le masse. La capacità
reale
di fondare una leadership è quella non solo di dare direttive, ma
pure di dare fiducia alla leadership in modo da coagularla; poi la
classe dirigente la diffonderà.
[...]
3.
[...]
“Charles Malik, un
brillante statista libanese, in occasione di un discorso al Dartmouth
College nel 1951 disse: ‘Le sfide che il mondo occidentale deve
affrontare sono essenzialmente tre: la sfida del comunismo, quella
dell’ascesa dell’Asia e quella dei fattori interni di
disgregazione’. La prima sfida è stata affrontata. La seconda
incalza ora l’Occidente e in particolare l’America” (R.Halloran
“Il Rinascimento asiatico”, in Sol
Levante. L’Asia alla conquista del Ventunesimo secolo,
Indice Internazionale - Le Monografie di Internazionale, p.19).
In realtà, ho sempre
pensato che la sfida meno
decisiva sia stata quella del comunismo, che in sostanza condivideva
con l’Occidente moderno lo stesso bagaglio mentale: ne è una
versione “moderata”, per così dire. Ha generato molti danni
proprio col suo pretendersi
radicalmente alternativo. Ma gli altri due punti son le sfide
realmente radicali,
tali cioè, non
da sostituire una versione dell’Occidente moderno con un’altra,
ma di sostituire l’Occidente moderno tout
court.
Ora, la “soluzione finale”
data al problema minore
del comunismo ha
allontanato
l’Occidente dalla soluzione dei due altri problemi che sono al
contrario maggiori e radicali.
Questi due problemi maggiori
stan portando e porteranno l’Occidente moderno alla fine. L’unica
è far sì che si sviluppi una cultura globale oriental-occidentale,
ma non sono coloro i quali oggi dirigono a poterlo fare, né la
cultura “ufficiale”, né la scienza moderna, né la tecnologia
informatica, né le reti di trasmissione dati.
[...]
4.
Un paese senza regole, una
società senza regole, come l’Italia, è destinata a regredire
nelle brume della storia. Dove uscieri e bidelli sono alla testa non
c’è testa: l’Italia è come un corpo senza testa che si agita
nella sua scomposta e terribile agonia, convulsioni provocate sia da
correnti galvaniche, sia da correnti dall’esterno immessevi.
Bisogna “attaccare” la testa sul corpo, còmpito non
certo facile, perché da quasi trent’anni (dalla strage di piazza
Fontana nel ’69 per dare una data simbolo) è in pratica senza
testa. Non che questa testa sia sparita da un giorno all’altro: il
taglio, iniziato nel ’69, è stato completato nel ’78 (con
l’assassinio di Moro, altra data simbolo): gli anni ’80 sono
stati gli anni dei delinquenti e dei lestofanti al potere, salitivi
grazie al voto spinto di classe dirigente ormai generatosi. Nel ’92
inizia l’inevitabile crollo giudiziario a causa della mutata
situazione storica e del fatto che non si può rubare per sempre,
tutti i processi, buoni o cattivi, trovando il loro termine, che è
pure il loro punto di non ritorno ed il loro punto di inversione. Con
gli anni ’90 c’è il confuso tentativo di uscir fuori, ma non si
trova nessuna leadership.
La nuova testa, invece,
bisogna che si “attacchi” al corpo in
breve tempo. Se
ciò accadrà, i fremiti convulsi cesseranno, anche se la nuova testa
non deve mai e poi
mai far l’errore
di pretendere che il vecchio corpo gli obbedisca immediatamente: “I
mali che si sono andati accumulando per anni non possono essere
spazzati via in un attimo” (Huitang). Piccoli consigli, piccole
verità, ma di esse chi sale dal basso, chi è “nuovo”, si
dimentica troppo spesso: è l’errore classico dei rivoluzionari di
ogni sorta. Ma una “rivoluzione” altro non è se non un
cambiamento immediato di direzione,
di senso
di marcia, e non,
come troppo spesso si malintende, l’ottenimento
di un nuovo stato.
E’ un diverso
cammino con una differente orientazione. Per l’Italia l’avere una
classe dirigente cosciente di sé in pratica è
una rivoluzione, cioè un netto
cambiamento di direzione. Quindi, la rivoluzione non
coincide affatto necessariamente con l’illegalità e le barricate o
le manifestazioni di piazza. Queste ultime possono esserci senza
che si abbia nessun
nuovo corso: e in tal caso parleremo di rivolta o rivolte che
l’Italia ha già.
Queste son le cosiddette “rivolte elementari”, che non
sono la “rivoluzione”, cioè l’emergere d una nuova classe
dirigente. Questa perniciosa confusione tra insurrezione e
“rivoluzione”, nel senso reale
del termine, è tipica di un modo di pensare ottocentesco,
modo di pensare che infetta l’aria del Novecento come un cadavere
in putrefazione. Un fantasma si aggira per il mondo: il XIX° secolo,
col suo modo di pensare sbagliato, cioè democrazia liberale più
tecnica. Questo modo di pensare risulta sbagliato perché gli
ideologi del secolo scorso ritenevano che il suo predominio avrebbe
dato ordine
al mondo, mentre quel che succede, e non
può essere diversamente, è l’esatto
contrario. Spiegar
bene perché ci porterebbe lontano, perché il male è alle radici
di quelle pseudo-idee (cioè: democrazia liberale più tecnica); ma,
leggendo tra le
righe del
programma, si può avere la risposta (che ho dato più chiaramente in
qualche mio altro scritto).
Fatto sta che anche i
Bolscevichi non identificavano insurrezione con rivoluzione; difatti,
sebbene le “idee” che i Bolscevichi portarono avanti erano in
tutto e per tutto ottocentesche
(e si è visto poi la fine che han fatto con quelle pseudo-idee),
quindi banali e figurative, manchevoli e semplicistiche, facili e
riduttive, tuttavia le modalità
con le quali hanno risolto il problema del salire al potere sono
novecentesche.
Già essi stessi non identificavano più insurrezione, cioè rivolta,
con rivoluzione (cfr. il più importante capitolo di L. Trotskij:
Storia della
Rivoluzione Russa,
Newton 1994, capitolo che è in pratica la chiave
dell’intero libro, uno dei pochi scritti di storiografia marxista
che non si esaurisce nella scolastica ripetitiva e sterile, capitolo
intitolato “L’Arte della Rivolta”, pp.381-404 del vol. II; c’è
tutto lì).
La rivoluzione russa, come
fatto tecnico, la famosa presa del Palazzo d’Inverno (oggi non c’è
un Palazzo, e chi vi è rimasto dentro è uno zombie), fu fatta senza
colpo ferire; e
parlo della Rivoluzione d’Ottobre, non
di quella di Febbraio, che invece fu una bella insurrezione, una
bella rivolta “elementare” popolare, ma che non portò nessuna
nuova classe dirigente al potere. Qualcosa di simile è avvenuta in
Italia mutatis mutandis con l’epoca dei giudici; ed abbiamo anche
il tribuno del popoli Bossi. Per una legge che si verifica sempre
quando c’è una serie di rivolte popolari “elementari” senza
una direzione, e questa rivolta vince, allora “la vittoria di
questa doveva inevitabilmente consegnare il potere nelle mani di quei
partiti che fino all’ultimo momento avevano contrastato la rivolta”
(ibid., p.382). Così
è stato in Italia: da manuale.
La speranza è caduta sul “l’uomo che risolve”: Berlusconi, che
ha, come era prevedibile, fallito, mentre la Lega è costitutivamente
incapace di “fornire” una leadership. La palla è passata alla
sinistra che, sebbene meno disastrosa del centro-destra, è
altrettanto
incapace di formare una classe dirigente: questo è di nuovo il loro
punto di caduta e rimane il punto focale
dell’intero problema Italia.
Ma non si può attendere per
sempre, perché “i compiti obiettivi (...) si aprono una strada
nella coscienza delle masse umane viventi, la modificano e creano un
nuovo rapporto di forze politiche.
Le classi dirigenti, come
risultato dell’incapacità, rivelata
all’atto pratico,
di condurre il paese fuori
dal vicolo cieco,
perdono la fede in se stesse, i vecchi partiti si scompongono, si
instaura una lotta accanita di gruppi e di cricche” (ibid., p.386,
sottol. mie). L’Italia oggi, dal 1993! Il vicolo cieco è dato
dall’Europa e dal Trattato di Maastricht del fatidico 1992: o
l’Italia continua nella sua politica antinflattiva che però sta
generando molto malcontento e quindi arriverà necessariamente ad un
termine, oppure l’Italia viene esclusa dal primo turno di chi entra
in Europa con rilevanti conseguenze interne. Il centro-sinistra
purtroppo ha scambiato l’Europa per gli U.S.A. dell’epoca della
guerra fredda: vogliono che l’Europa aiuti l’Italia. Non hanno
capito niente: le politiche antinflattive che la Germania ha imposto
all’Europa non lasciano spazio. Concepire la politica economica
come strumento contro l’inflazione è stata la tendenza che han
portato avanti gli USA dagli anni ’80, tendenza che è sempre stata
di supporto all’ascesa dello SPM perché ha avuto lo scopo,
raggiunto, di glaciare la società, di metterla
in una solida gabbia di ferro.
Solo che negli USA degli anni ’90 hanno pensato di dare delle vie
d’uscita per evitare l’implosione. Tale ingabbiante tendenza, che
ha riportato illusoriamente la lancetta a prima della prima metà
degli anni ’60, a prima del ciclo espansivo,
è ferreamente
imposta dalla Germania, serva dei gruppi che si appoggiano alla
Bundesbank, all’intera Europa, e non solo alla parte orientale
(perché l’Europa dell’Est o è sotto l’egemonia russa o lo è
sotto quella tedesca). Quindi questa gabbia è stata imposta anche
all’Europa occidentale. Qui si vede che manca pure una leadership
europea e qui si vede la mancanza del contrappeso storico
che la Francia sempre ha rappresentato nella storia europea. Se ci
fosse stato un De Gaulle non saremmo dove siamo. Ed il bello è che
il massimo del pesante influsso tedesco si ha quando la Francia è
governata dal neogollista Chirac!
L’inflazione è come il
colesterolo: c’è quello buono e quello cattivo. Lo studio di David
Warsh della London School of Economics ha dimostrato che l’inflazione
“buona” è aumentata tutte le volte che l’economia occidentale
si è sviluppata. Questa gabbia, nient’affatto
solo economica, in cui han chiuso l’Europa è una gabbia di morte.
Né sarà la moneta unica a far sì che l’Europa resista ai poli
americano e pacifico: è una battaglia già persa in partenza. Ed a
nulla serve buttar giù la manodopera europea per far concorrenza a
quella asiatica: pure questa è battaglia persa. L’unica per
l’Europa è comporre le sue differenze per trasformarle in forze
dinamiche: solo così c’è una chance in più rispetto agli altri.
Ma per far ciò l’ennesimo tentativo della Germania di egemonizzare
l’Europa deve essere sconfitto. E
non è certo facile.
Un’Europa asservita agli interessi della sola Germania è molto
debole.
Perché, se la rivoluzione
russa, come atto
rivoluzionario, è stata piccola cosa, l’insieme della rivoluzione,
come fase
storica, è stato sanguinoso? Perché spesso le rivoluzioni nella
fase preparatoria, sviluppano molta più energia di quella che ci
vuole per abbattere un certo regime; tal energia essendo stata
richiamata vuole
il suo sfogo. Ecco perché ciò che in realtà è molto importante,
oltre a conoscere il momento
e quindi lo stato psichico della nazione in generale, è conoscere la
consistenza
effettiva del regime contro cui si va. Per esempio, la rivoluzione
iraniana sviluppò molta più energia di quella necessaria per
l’abbattimento del regime dello shah: di conseguenza tal energia si
deviò nella guerra.
In Italia oggi i moti son
troppo slegati fra loro, ed inoltre è più un problema sviluppare
le energie che svilupparne troppe, considerato il freddo carattere
degli Italiani, la loro scarsa compattezza, e, soprattutto,
il fatto che il dominio mondiale dello SPM esige
società glaciate, ibernate. Perciò, si
percorre la strada della riforma,
nel senso reale
del termine, che è affine
a quello di rivoluzione (=sostituzione della classe dirigente con
un’altra), ma è completamente
slegato dall’insurrezione, dalla rivolta. E’ chiaro che tali sono
le intenzioni, e che poi, a decidere, è sempre il concreto gioco
delle forze, per cui una riforma fallita può trasformarsi in
rivoluzione se si lega con una rivolta. Quest’ultima, però, di
per sé non
genererà mai
né rivoluzione né riforma.
5.
Questo discorso sulla natura
della rivoluzione può essere approfondito con l’aiuto di Arnold J.
Toynbee, storico inglese delle civiltà. Dice Toynbee: “Una fonte
di disarmonia tra gli istituti di cui si compone una società è
l’intrusione di nuove forze sociali - attitudini, emozioni, idee -
che il complesso degli istituti esistenti non era in origine
destinato a contenere. L’effetto distruttivo di questa incongrua
giustapposizione di nuovo e di vecchio è sottolineato in una delle
più famose sentenze (...) [di] Gesù: ‘Nessuno mette un pezzo di
panno nuovo in un vestimento vecchio, perché la toppa porta via del
vestimento, e la rottura si fa peggiore. Parimenti, non si mette vino
nuovo in otri vecchi - altrimenti gli otri si rompono e il vino si
spande e gli otri si perdono; ma si mette il vino nuovo in otri
nuovi, e ambedue si conservano’ (Mt., IX, 16-17).
Nell’economia domestica da
cui l’immagine è presa, si capisce che il precetto può osservarsi
alla lettera; ma nell’economia sociale il potere che hanno gli
uomini di ordinare a volontà le loro faccende su di un piano
razionale è assai limitato, giacché una società non è, come un
otre o una veste, la proprietà di un singolo, ma il terreno comune
d’azione di molti; e per questo motivo il precetto, che è di senso
comune nell’economia domestica e di pratica saggezza nella vita
dello spirito, è in cose sociali un consiglio di perfezione” (A.
Toynbee: Le Civiltà
nella Storia,
Einaudi 1950, pp. 364-365).
Così, mentre l’intrusione
di nuove forze dinamiche dovrebbe rimodellare l’intero edificio, la
vis inertiaæ
interviene, e capita che o il funzionamento della vecchia macchina
soffoca le nuove forze o queste ultime invadendo la macchina vecchia
ne rompono in piccola o gran parte taluni ingranaggi.
“Per tradurre queste
parabole in termini di vita sociale, le esplosioni delle vecchie
macchine che non reggono alle nuove pressioni - o lo scoppio dei
vecchi otri che non reggono al fermentare del vino nuovo - sono le
rivoluzioni che a volte toccano agli istituti anacronistici. D’altra
parte, le gesta funeste delle vecchie macchine che hanno retto allo
sforzo di servire ad un’azione per cui non furono mai fatte, sono
le atrocità sociali che genera talvolta un anacronismo istituzionale
‘duro a morire’.
Le rivoluzioni possono
definirsi come ritardati,
e proporzionalmente violenti, atti
di mimesi.
L’elemento mimetico è ad esse essenziale;
ciascuna rivoluzione ha riferimento a qualcosa che è già accaduta
altrove, ed è sempre manifesto, quando una rivoluzione si studi nel
suo ambiente storico, che lo scoppio non
sarebbe mai avvenuto da solo
se un gioco precedente
di forze esterne
non l’avesse così suscitato”(ibid., p.366, sottol. mie).
L’Italia è in questa
situazione: la forza esterna che la spinge verso lo scoppio è la
pressione dell’Europa. Perché, è vero che l’Italia è stata la
prima
nazione europea nel muoversi verso il modello decentrato che
l’informatica ha imposto al globo, mentre la sua classe politica si
è impantanata in un vecchio modello (causa recondita).
E vero che il vuoto di classe dirigente ha spinto ladri lestofanti ad
occupare quel vuoto (causa palese).
E’ ancora vero che la fine dell’egemonia sovietica e dell’URSS
ha poi fatto crollare i lestofanti (causa dinamica).
Ma tutto ciò senza
il ‘92 e la crisi economica e la pressione costrittiva dell’Europa
e dei criteri del Trattato di Maastricht (causa scatenante),
non sarebbe
sufficiente. La
causa scatenante è proprio la chiave
di quel gioco di forze esterne di cui parla Toynbee senza la quale
non c’è rivoluzione.
“E’ evidente che, ogni
volta che l’esistente struttura istituzionale di una società venga
sfidata da una nuova forza sociale, tre
risultati alterni sono possibili: o un armonioso assestamento della
struttura alla forza, o una rivoluzione (che è un assestamento
ritardato e discordante), o un’atrocità. E’ pur evidente che
tutte e ciascuna di queste tre alternative possono verificarsi nelle
diverse sezioni di una stessa società (...). Se gli assestamenti
armoniosi predominano, la società continuerà a svilupparsi; se le
rivoluzioni, il suo sviluppo si farà sempre più arrischiato; se le
atrocità, possiamo diagnosticare un crollo” (ibid., p.367, sottol.
mia).
Quindi: tre
possibilità, che non
si escludono necessariamente, ma delle quali una
dovrà
predominare. Noi si cerca di lavorare per la prima
eventualità, ma non si esclude la seconda, perché uno scoppio, cioè
un cambiamento brusco
e non armonioso di rotta, pure dà una possibilità di sviluppo alla
società. Solo l’atrocità sociale, per dirla con Toynbee, genera
il crollo, e tale atrocità nel complesso si è già in parte
compiuta quando all’implosione della vecchia e corrotta classe
politica si è risposto proponendone una che è la figlia diretta
della prima; e si stacca da ciò solo il delirio à
la Cola Di Rienzo
della Lega di Bossi: niente di buono.
Detto altrimenti: si
cercherà di fare il massimo perché la prima eventualità si attui,
ma non
escludiamo la seconda, mentre continuare così, cioè con la terza
eventualità, implica il crollo.
Nota finale: i passi citati
di Toynbee fan parte del capitolo dedicato al fallimento
dell’autodeterminazione
e cos’è il fallimento dell’Italia se non il non
essere riuscita ad auto-determinarsi?
Questa mancanza però, ha profonde radici storiche nel passato
dell’Italia, dal XVI secolo in poi. E’ dunque una cosa vecchia e
profonda che in fine è venuta fuori: è tutta una via che non è più
percorribile. Un fallimento nell’autodeterminazione che ha radici
così antiche è ora che si inizi a risolverlo. E che una nuova e
diversa via sia presa.
Andrea
A. A. Ianniello
Febbraio-Marzo 1997 A.D.