giovedì 8 luglio 2021

Una (NON) breve OSSERVAZIONE (sulla Cina)

 

 

 

 

 

 

 

“… la società dell’informazione e dello spettacolo non è altro che la realizzazione radicale della doxacrazia sulla quale si regge l’Occidente”.

A. Corneli, L’arte di vincere in Sun Tzu, L’Arte della guerra, Guida editori, Napoli 1988, p. 59, corsivo in originale, grassetti miei. In Occidente, la democrazia è, de facto, “doxacrazia”,ed   è a questa che si vuole che il mondo si sottometta.

 

 

Sarà il caso di analizzare l’ambivalenza – nel senso della dialettica e al tempo stesso della doppiezza – di Mao. E’ noto che se si giustappongono tutti i suoi scritti ufficiali di prima del 1969 – articoli, discorsi, conversazioni registrate al tempo della fondazione della Repubblica popolare – è possibile fargli dire tutto quel che si vuole. […] E’ una doppiezza in parte spiegabile con la propensione alle finte  e alla astuzie della politica, ma fondata […] su un controllo completo degli apparati di sicurezza”.

F. GODEMENT, La Cina dopo Mao in Storia del marxismo, vol . 4 Il marxismo oggi, Einaudi editore, Torino 1982, p. 263 (“marxismo oggi” dell’ “oggi” di ieri …).

 

 

In guerra come in politica, Mao si è sempre mosso all’attacco dei suoi avversari, ogni volta spingendo una parte contro quella più debole, ma sempre cercando di evitare che il controllo del potere cadesse completamente nelle mani di una sola fazione, attento a non infrangere quest’essenziale equilibrio. Mao, oltre che un teorico marxista, è anche un conoscitore profondo della cultura cinese antica, tanto d’aver composto un’intera raccolta di poesie modellate sullo stile arcaico. Quando riceve i suoi ospiti nello Studio del crisantemo fragrante, tappezzato di preziosi testi antichi, ripete spesso il motto di Wei Zheng, consigliere del grande imperatore Tang Tai Zong: «Ascolta le due parti e vedrai la luce, credi ad una sola e resterai nelle tenebre». Il suo non è solo gioco politico, abile lotta per l’egemonia; è una visione «dinamica» del potere, non certo comune nei regimi comunisti del dopoguerra: è una forma di democrazia. Una democrazia limitata comunque al Partito comunista e alle anime che lo compongono, dalla quale la società «esterna» rimane esclusa”.

M. SOTGIU, La Coda del Drago. Vita di Deng Xiaoping, Baldni&Castoldi, Milano 1994, p. 14, corsivi miei.

 

 

«La massima contenuta nell’opera del grande teorico militare della Cina antica, Sun Wu Tzu, “Conosci il nemico e conosci te stesso, e potrai combattere cento battaglie  senza pericolo di sconfitte”, si riferisce alle due fasi: lo studio e l’applicazione; si riferisce sia alla conoscenza delle leggi di sviluppo della realtà oggettiva, sia alla determinazione, sulla base di queste leggi, delle nostre azioni intese a vincere il nemico. Non dobbiamo sottovalutare il valore di questa massima.

La guerra è la forma suprema di lotta fra le nazioni, gli Stati, le classi, i gruppi politici […]. Indubbiamente l’esito d’una guerra è determinato soprattutto dalle condizioni militari, politiche, economiche e naturali delle due parti. Ma non è tutto. E’ anche determinato dalla capacità soggettiva che le due parti hanno nel dirigere la guerra. Uno stratega non può sperare di ottenere la vittoria oltrepassando i limiti imposti dalle condizioni materiali oggettive, ma su questa scena egli può dirigere la rappresentazione d’imprese magnifiche, piene di suoni e colori, di forza e grandezza».

MAO TSE-TUNG, Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina (dicembre 1936) in Opere scelte vol. I, Casa Editrice in Lingue Straniere, Pechino 1969, p. 203, corsivi miei. (*)

 

 

E’ un peccato che la gloria sovrumana del suo secolo  Gengis Khan – abbia teso l’arco soltanto contro le aquile!

Mao Tse-tung”.

In M. Hoàng, Gengis Khan, Garzanti Editore, Milano 1992, p. 307, corsivi in originale.

 

 

 

Questo libro intende essere una sorta di contraltare al Libretto rosso di Mao Tse-tung, la raccolta di pensieri del tiranno comunista cinese. Tra le due opere esistono tuttavia alcune differenze: la prima […] è che il libro di Mao fu scritto dall’autore stesso, mentre questo su Žirinovskij no; in secondo luogo il color nero del fascismo (o nazionalscialismo, come lo definisce Žirinovskij) sostituisce il rosso del comunismo […]. Mao Tse-tung e Žirinovskij hanno tuttavia un elemento in comune: nessuno dei due teme la potenza distruttiva delle armi nucleari, o, per esser più precisi, entrambi hanno voluto dare l’impressione di non averne paura. […] Da quel vecchio saggio dell’èra moderna qual era, Mao Tse-tung ebbe a dire nel 1955: «Il bluff atomico degli stati Uniti non può certo spaventare il popolo cinese. Il nostro paese conta seicento milioni di abitanti e un territorio grande 9,6 milioni di chilometri quadrati. Quel po’ di armi nucleari che gli Stati Uniti posseggono non possono distruggere il popolo cinese. Se anche gli Stati Uniti disponessero di armi più potenti e le usassero contro la Cina, se anche facessero un bel buco sulla Terra o la riducessero in frantumi, per quanto grandi possano essere le ripercussioni di un tale atto sul sistema solare, esso sarebbe pur sempre una vicenda di poco conto per l’universo». Mao aveva sicuramente idee molto originali”. (**)

Introduzione degli autori a G. FRAZER – G. LANCELLE, Il libretto nero di Žirinovskij, Garzanti Editore, Milano 1994 , p. 21, corsivi in originale.

 

 

«Credo che per una migliore comprensione degli avvenimenti mondiali futuri [all’epoca …!!] sia molto importante avere una chiara visione degli scopi perseguiti dalla Cina: i motivi che spingono questa nazione al dominio del “vuoto asiatico” non provengono soltanto dalla pressione demografica. Per la Cina si tratta di una lotta di riconquista, di recupero di territori che le vennero strappati con la forza in passato. Qualsiasi spiegazione del comportamento cinese che tenda a sostenere che questa nazione cerchi di conseguire un dominio mondiale, non è solo […] allarmistica, ma si basa su una profonda ignoranza del vero spirito cinese, caratterizzato in tutta la sua storia da una permanente tendenza a chiudersi in se stesso. (N.d.A.) [Il che, però, non toglie che la Cina stia sviluppando una politica economica di tipo espansivo che, di fatto, intacca il poter economico degli Stati Uniti d’America, ma, chiaro, non è una politica di “dominio mondiale” in senso politico]».

Ayocuán, Il risveglio della montagna, Tre Editori, Roma 1996, p. 220, in nota, mie osservazioni fra parentesi quadre; edizione originale del libro: 1 9 6 8. (*****)

 

 

 

 

 

 

La “questione cinese” andrebbe discussa con ben altro tempo a disposizione, con ben più profondità (considerato il cumulo di sciocchezze che si usa sentire, proprio analisi sbagliate nei presupposti [NB]), ma – per gli scopi presenti – ci si limiterà qui solo ad un breve appuntino. Un appuntino sul tema di Mao Zedong, il quale, tra l’altro, pur partecipando al primo Congresso del PCC nel 1 luglio del 1921: “Il 1° luglio 1921 Mao Tse-tung prende parte al I Congresso del Partito, ma non vi svolge alcun ruolo di rilievo”, J. GUILLERMAZ, Storia del Partito comunista cinese (1921 - 1949), Feltrinelli Editore, Milano 1973, p. 275), cominciò però ad emergere davvero solo nel 1927 e nel 1928 (cf. ivi, p. 274 e sgg. (***)), e in relazione proprio alla questione militare.

Ecco perché qualche passo da una recentissima pubblicazione credo sia giusto riportarlo. Soprattutto, son d’accordo con il giudizio dell’autrice, quando afferma: “Dal pragmatismo alla prigione dell’ortodossia”, L. DE GIORGI, Mao Zedong, Quaderni de La Gazzetta dello Sport, RCS Mediagroup, Milano 2021, p. 139, grassetti in originale. Senza dubbio, è così, e tal processo di “chiusura” lo notava già Guillermaz illo tempore al proposito de “le illusioni di un capo [Mao Zedong] la cui visione rivoluzionaria ha finito per prevalere sulle realtà nazionali  [chiaramente alludeva alla “rivoluzione culturale” cosiddetta, cioè alla “resa dei conti” tra l’ala “sviluppista” e quella strettamente stalinista in senso economico: in apparenza, vinse Mao, in realtà, perse]”, J. GUILLERMAZ, Storia del Partito comunista cinese (1921 - 1949), cit., p. 499, miei commenti fra parentesi quadre. Poi, le “realtà nazionali” avrebbero preso il sopravvento: non è un caso, è il sistema della “neo-democrazia” cui pensava il Mao pragmatico dell’inizio (****), non più quello dogmatico della parte finale, quello che succede al fallimento del cosiddetto “Grande Balzo in avanti” ovvero l’importazione del modello stalinista, del tutto disadatto alla Cina. Tuttavia, il pragmatismo non era scomparso dalla mente di Mao, così si riavvicinò agli USA, in senso antisovietico, cf. L. DE GIORGI, Mao Zedong, cit., pp. 113-114. Ritornò così – seppur parzialmente – a quel pragmatismo, che del resto aveva teorizzato nella sua filosofia della prassi, pragmatismo che doveva essere alla base dei suoi maggiori successi, e non penso solo alla Lunga Marcia («Essa ha ispirato lo stesso Mao Tse-tung: “L’Armata rossa non teme la Lunga Marcia./ Diecimila fiumi, mille monti non son niente./ I Cinque Picchi son piccole onde,/ Il grande Wu Mong è una zolla di terra che si calpesta./ Erano tiepide le rocce dove si rompeva il Fiume della Sabbie d’oro,/ Erano ghiacciate le catene di ferro del ponte della Tatu./ Passato il monte Mien con mille piedi di neve,/ La gioia di tutta l’armata fu immensa”. A dire il vero, trasferimenti di quest’ampiezza – dodicimila chilometri – e di questa durata – un anno – non erano stati rari nel passato fino all’epoca moderna. Meno di cento anni prima l’avventura T’ai-P’ing aveva condotto Shih Ta-k’ai, uno dei generali del “Re Celeste”, fino allo Szechwan, attraverso l’itinerario che seguiranno i comunisti cinesi. Nel 1927 e nel 1928 […] parecchie armate attraversarono il continente o quasi. Alcune armate nazionali lanciate all’inseguimento dei comunisti […] faranno altrettanto cammino che i comunisti. […] Il merito dei capi della Lunga marcia e in particolare […] di Mao Tse-tung e di Chu Teh fu più quello di sopravvivere che di marciare; e questa sopravvivenza è stata dovuta soprattutto al loro talento politico e militare», J. GUILLERMAZ, Storia del Partito comunista cinese (1921 - 1949), cit., p. 283, corsivi miei), ma pure alla guerra in Corea che, a mio avviso, fu davvero un capolavoro.

Difficile che oggi si riesca solo ad immaginare quanto stava inguaiato l’esercito cinese al tempo, con l’ “aiuto” del cosiddetto “alleato” russo che già temeva – in una relazione d’amore-odio – l’ascesa della Cina nel movimento comunista internazionale dell’epoca. Tra l’altro – proprio in relazione alla guerra di Corea – “Gli USA videro nella Cina rossa l’incarnazione delle sue paure più profonde”, L. DE Giorgi, Mao Zedong, cit., p. 81. Son tornati a vederla …, cioè la “Cina rossa” (rosa, ormai) come l’incarnazione del “pericolo giallo” … la paura che vi sia un “potere asiatico” sul quale si possa esercitare un’influenza, sì, ma solo fino ad un certo punto, poiché ha sue regole – erroneamente prese per “incomprensibili” – che non si lasciano ridurre a quelle occidentali: di qui l’ossessione di porre la “democrazia” (liberale) in Cina. La realtà è, però, tutt’altra: vero che hanno “loro regole”, tuttavia non sono affatto “incomprensibili”!

 

Mao è cinese perché per lui son più importanti i fattori umani della guerra rispetto alle armi (il fattore tecnico), armi che, ovviamente, sono importantissime, però mai fuori dell’elemento umano.

Il rifiuto del partito di fare i conti fino in fondo con i passaggi drammatici del periodo segnato dalla sua figura, con le tragedie della carestia o della Rivoluzione culturale, non ha impedito che, almeno in modo non ufficiale, il mito di Mao abbia dovuto confrontarsi con la durezza e il dolore causato a tanti da scelte improvvide se non addirittura scellerate. […] E’ difficile dire che cos’avrebbe pensato Mao Zedong nel modo in cui il suo mito rimane in Cina, e dalla stessa Cina di oggi. In parte ne sarebbe soddisfatto, in parte perplesso. Le testimonianze su cosa pensasse di se stesso e della sua impresa, poco prima della morte, ci dicono che, alla fine, era soprattutto orgoglioso di aver sconfitto i giapponesi e cacciato Chiang Kai-shek dalla Cina, un po’ come il suo stesso partito ama ricordarlo. Alla fine, si vedeva soprattutto come un uomo che aveva vinto una guerra”, ivi, p. 156, corsivi miei. E, in realtà, questo è stato, alla fin fine.

 

 

 

Andrea A. Ianniello

 

 

 

 

(*) Mao amava spesso citare frasi proverbiali o espressioni prese da romanzi popolari: «Quando, come in San Kuo Yen Yi, si dice: “Aggrotta le sopracciglia e ti verrà in mente uno stratagemma”, o quando più comunemente si dice: “Lasciatemi riflettere”, ci si riferisce al momento in cui l’uomo opera con la sua mente, servendosi dei concetti, per formare giudizi e trarre deduzioni. Questa è la seconda fase della conoscenza», Sulla pratica (luglio 1937) in ivi., p. 316, corsivi in originale. In nota del traduttore si legge: “San Kuo Yen Yi (Romanzo dei tre regni), celebre romanzo storico scritto da Lo Kuan-chung (fine del XIV e inizio del XV secolo)”, ivi, p. 328, corsivi in originale. In realtà, quella di Mao è tutta una filosofia della prassi, in questo come Marx. La differenza, però, sta nel fatto che Marx fa comunque appello alla dialettica di Hegel, mentre in Mao la dialettica hegeliana maschera quella “autoctona”, cosa peraltro dallo stesso Mao detta in modo esplicito nelle conversazioni della parte finale della vita, dove criticava i marxisti cinesi dicendo che erano “filosofi stranieri” e lui, al contrario, un “filosofo indigeno” … Venendo al termine “realtà” (pratica), in nota – però al primo testo citato, quello sui Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina – si legge: «In cinese “Shihchi” (realtà) serve a indicare sia la realtà nel senso proprio della parola, sia l’attività degli uomini, la pratica. Nelle sue opere il compagno Mao Tse-tung usa spesso questa parola nel suo doppio significato», ivi, p. 266, in nota finale. 

Per una frase di Mao Zedong sul non affondare, cf

http://content.time.com/time/magazine/article/0,9171,988161,00.html.

Autore dell’articolo è il sinologo J. Spence, che paragona Mao a Shang Yang. Ma ecco un passo da tal libro: “Si dice pertanto: «La gran regola d’un esercito è la prudenza». Stimando le forze del nemico ed esaminando le proprie schiere,  si può sapere in anticipo se vi sarà vittoria o sconfitta”, Il libro del Signore di Shang, Adelphi Edizioni, Milano 1989, p. 205. In nota a pie’ pagina si legge: “Cfr. Sun-tu, cap. III, 18 (Giles, p. 24): «Donde il detto: “Se conosci il nemico e conosci te stesso non dovrai temere il risultato di cento battaglie. Se conosci te stesso, ma non il nemico, per ogni vittoria ottenuta subirai anche una sconfitta. Se non conosci né il nemico né te stesso, correrai rischi in ogni battaglia”»”, ibid., corsivi in originale. In altre parole, secoli dopo, Mao cita lo stesso passo “riassunto” dall’autore del Libro del Signore di Shang (più tarda rielaborazione da un originale). Questo perché a Sun-tzu [Sunzi] non interessano le armi, ma invece il conflitto “in sé”, come tale.

 

 

(**) Copertina cf.

https://2.bp.blogspot.com/-snuQyD5ddsk/V8qDGCoN3WI/AAAAAAAAAP8/yHX5krCrXZcRpFxWz6XdnmZDMKjPZjgdgCLcB/s1600/G.%2BFrazer%2B-%2BG.%2BLancelle%252C%2B%25E2%2580%259CIL%2BLibretto%2BNero%2Bdi%2BVladimir%2BZhirinovskij%25E2%2580%259D%252C%2BGarzanti%252C%2BMilano%2B1994%2B-%2BPrefazione%2Bdi%2BBarbara%2BSpinelli.jpg

Il testo citato termina dicendo che la cosa più probabile sarebbe stata che qualcuno avesse estratto alcune parti dal ristretto “Mein Kampf” di Žirinovskij per realizzarne delle parti: ed ecco … Vladìmir Putin!, sul quale scrissi – molti anni fa ormai – un articolo, cf.

https://associazionefederigoiisvevia.files.wordpress.com/2014/03/il-e2809clibretto-neroe2809d-il-caffc3a8-30-dicembre-2003-anno-vi-n-48-274.jpg.

 

 

(***) Divertentissimo leggersi qualcosa – nel testo di Guillermaz, del 1973 in Italia, ma in Francia del 1968 – al riguardo d’un nome che, poi, sarebbe divenuto famoso, com’era giudicato all’epoca: “Teng Hsiao-p’ing, uno szechwanese, anch’egli formato in Francia, sarà incaricato dei compiti di propaganda e di stampa e, contemporaneamente, della direzione del giornale Stella rossa”, ivi, p. 280, corsivi in originale …

 

 

(****) “La neo-democrazia è il regime che al momento attuale [scritto nel 1968, ma, con un importante cambiamento, rimane così ancor oggi], e ancora per lungo tempo [ha, su tal punto, avuto ragione l’autore citato] è più appropriato alla Cina. Esso non corrisponde né a quello delle repubbliche occidentali controllate dalla classe borghese [al qual modello tanto vorrebbero che la Cina si adegui, ma il punto decisivo sta in tal quesito: hanno le borghesie “nazionali” cinesi la forza per poter controllare le grandi “masse asiatiche” del loro paese?], né a quello delle repubbliche sovietiche proletarie [che c’erano all’epoca: punto, questo, molto importante, la differenza tra la Cina e le repubbliche sovietiche – tutte – e punto tanto sottovalutato, proprio spesso non capito, da parte occidentale, che, de facto, equivalgono il modello cinese a quello sovietico, quando non è mai stato così, e i dirigenti cinesi glielo fan credere: si tratta sempre dell’ “arte della guerra”]. La repubblica neo-democratica consisterà nell’unione fra quattro classi ‘antimperialiste’ […] rappresentate dal proletariato, dalla classe contadina, dalla piccola borghesia e dalla borghesia nazionale [si osservi questo punto: a differenza dal vecchio modello sovietico – con qualche parallelo solo in Gramsci – qui la “borghesia nazionale” partecipa, dunque, all’edificazione del nuovo stato, vi hanno un ruolo fondante, già in Mao!, e ricordiamoci che Mao era colui che aveva relazioni col Kuomintang (il Partito nazionalista) nella sua componente di “sinistra”; dunque la cosiddetta “svolta nazionalistica” cinese (della quale il recente discorso di Xi Jiping è solo l’ultima manifestazione in termini di tempo)]. […] In una repubblica neo-democratica anche l’economia dev’essere neo-democratica [ecco cos’è cambiato!]”, J. GUILLERMAZ, Storia del Partito comunista cinese (1921 - 1949), cit., p. 406, corsivi miei, miei commenti fra parentesi quadre. Dunque Mao teorizzava – dunque perché sorprendersi, allora, lo sviluppo successivo? – che una parte della borghesia stesse con il Partito. Come può sorprendere lo sviluppo successivo se sta in una parte, chiaro: una parte, delle stesse cose che Mao pensava? Lo diceva ancora in uno scritto del 1957, cf. MAO TSE-Tung, Delle contraddizioni tra il popolo, Einaudi editore, Torino 1957. Che dunque il tumultuoso “sviluppo” cinese non sia successo prima non è derivato proprio per niente dalle idee di Mao sulla neo-democrazia, quanto piuttosto dal processo d’irrigidimento di cui – giustamente peraltro – ha parlato De Giorgi nel suo recente scritto citato qui sopra. Ed è derivato dal fallimento della sua politica di stalinizzazione, del tutto sbagliata per il popolo cinese, politica stalinista, di nuovo, effetto del suo irrigidimento, non del suo lato pragmatico, quello dal quale derivarono, però, i suoi maggiori successi. Ma non perdiamo il punto decisivo: la borghesia nazionale è stata cooptata dal Partito, ecco la profonda “differenza” cinese, rispetto alla Russia o ad altri regimi “comunisti”. Del resto, lo stesso Mao iniziò come nazionalista: era vicino al Guomindang “di sinistra”, e, da giovane, non a caso, scrisse In onore degli Han (gli “Han” sono i “cinesi”, come li chiamiamo noi, e cioè l’etnia cinese, non necessariamente ogni abitante del territorio cinese, però).

 

 

(*****) Questo testo è stato citato altrove, in questo blog, cf.

https://associazione-federicoii.blogspot.com/2018/01/hitler-e-il-bon-questione-ovviamente.html.

 

 

 


 

[NB] Certe cose occorrerebbe – quanto meno – leggersele, anche se, oggi, è difficile che siano viste senza grosse, spesse lenti distorcenti. Comunque, a scopo esegetico ricreativo, voglio qui citare un passo di Marx, il quale, da buon discepolo di Hegel, comunque credeva nel fatto che l’Europa (“l’Occidente”) dovesse “risvegliare” la Cina dal suo lungo “torpore” cosiddetto, ma, comunque manteneva un punto di vista critico, che tanti altri non avevano, non avevano affatto (di qui la sorpresa verso la sorpresa che tanti occidentali provano verso l’ultimo discorso di Xi Jinping – in pratica, quel che accadde nel sec. XIX gli occidentali non l’hanno mai “realizzato”, come non fosse mai stato fatto – per cui, per quanto l’espansionismo cinese NON SIA mai territoriale in quanto tale, ma piuttosto ECONOMICO, lo scopo di tutto quel che han fatto non era quello di “realizzare” presunte “leggi storiche” che Marx avrebbe “scoperto”, ma piuttosto di far tornare la Cina nel novero delle grandi potenze!). Ma ecco il passo, tratto da degli articoli sulle – infami, peraltro – guerre dell’oppio: “Londra, 20 settembre 1859 Un’altra guerra civilizzatrice attende la Cina sembra, per la quasi totalità della stampa britannica, ormai scontato. Ma, dopo il consiglio dei ministri di sabato scorso, si è assistito ad uno strano cambiamento di tono proprio in quei giornali che più gridavano sangue. In un primo tempo il «Times» di Londra aveva tuonato contro il duplice tradimento — dei Mongoli codardi, che adescarono quel bonhomme dell’ammiraglio inglese falsando con astuzia le apparenze e mascherando le loro artiglierie, e della Corte di Pechino, che con più raffinato machiavellismo incoraggiò gli scherzi di cattivo gusto degli orchi mongolici. Curioso a dirsi, sebbene ribollendo di passione il «Times» era riuscito ad espungere dalla ristampa delle notizie originarie tutto ciò che parlava dei poveri Cinesi votati allo sterminio. Distorcere i fatti può essere l’opera della passione; mutilarli sembra piuttosto l’opera di un freddo raziocinio. Comunque, esattamente il 16 settembre, alla vigilia della riunione di gabinetto, il «Times» vira di bordo […]. «Temiamo» scrive «di non poter accusare di tradimento i Mongoli che resistettero al nostro assalto ai forti del Peiho» [corsivo di Marx]; ma, subito dopo, attenua una così sgradevole ammissione ripetendo l’accusa alla «Corte di Pechino» di aver rotto premeditatamente e con perfidia un «trattato solenne»”, K. MARX – F. ENGELS, India. Cina. Russia, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 180, corsivi in originale. Interessante anche questo passo: “Completiamo le parole del sig. Mitchell con la descrizione fatta da Lord Elgin dei contadini nei quali s’imbatté durante il viaggio sullo Yangtzekiang: «Ciò che ho visto m’induce a ritenere che la popolazione rurale della Cina è in genere parca e soddisfatta. Ho faticato molto, sebbene con risultati mediocri, per ottenere notizie sull’estensione delle fattorie, sul regime di proprietà della terra, sulle imposte ed altri soggetti affini. E ho concluso che, per la maggior parte, essi ricevono dalla Corona in usufrutto completo, contro versamento di canoni annui non eccessivi, i lotti di terreno sui quali lavorano, e che queste condizioni di vantaggio, completate da una solerte applicazione, soddisfano largamente i loro modesti bisogni di cibo e di vestiario.» Questa stessa combinazione di attività agricola e industria casalinga ha ostacolato per molto tempo […] l’esportazione di manufatti britannici nelle Indie Orientali; ma qui tale combinazione si basava su di un regime di proprietà che gli Inglesi, come supremi proprietari fondiari, furono in grado di corrodere ed infine distruggere, convertendo con la forza una parte delle comunità autosufficienti dell’Indostan in pure e semplici farms riservate alla coltura del papavero, del cotone, dell’indaco, della canapa e di altre materie prime, da scambiare contro i prodotti finiti britannici. In Cina essi non detengono ancora – e non è probabile che abbiano mai a conquistare – questo potere”, ivi, pp. 191-192. Si osservi, dunque, che, ancor nel mezzo del XIX sec., la crisi dell’Impero non era così terribile: se ne deve dedurre che sia stato l’impatto dell’Occidente industrializzato a far precipitare il crollo; inoltre, Marx vide giusto: gli Inglesi – mai! - avrebbero raggiunto in Cina il potere (economico!) che avevano raggiunto in India. Se uno si legge questo materiale, se uno si studia le condizioni della Cina nel 1921 (cf. J. GUILLERMAZ, Storia del Partito comunista cinese (1921 - 1949), cit., pp. 21-28), e lo stato di oggi, può rendersi conto … La questione cinese non trova proprio alcuna luce se non ci si pone bene in mente che la Cina non è andata direttamente alla fase cosiddetta “comunista” – diciamo nazionalistico “socialistizzante” – ma è passata prima per la fase della repubblica borghese liberale, ma tale fase in Cina è stata un fallimento: questo è il punto decisivo. Tra l’altro: “Tra il 1850e il 1864 una terribile scossa lacerala dinastia fino alle fondamenta dell’Impero; si tratta della ribellione T’ai-p’ing, la prima delle rivoluzioni cinesi, ispirata — almeno parzialmente — dall’Occidente e, per i comunisti cinesi,quella da cui nascono tutte le altre rivoluzioni, compresa la loro. Le guerre contro le potenze occidentali o occidentalizzate si moltiplicano. Spedizione franco-inglese del 1860, guerra franco-cinese del 1885, guerra cino-nipponica del 1894-’95. tutte, e soprattutto l’ultima, impegnano la Cina controvoglia in un’imitazione dell’Europa. Un’imitazione che vuol essere esclusivamente tecnica; ma la produzione e la messa in opera dei mezzi materiali si rivelano subito inseparabili da una certa evoluzione  delle idee, dei costumi e dei sistemi. Riformatori e conservatori ricominciano una dura battaglia, che era già iniziata male nel 1898 con la sconfitta dei primi malgrado il sostegno dell’imperatore Kuang Hsü. Le spedizioni dei Boxers del 1900 e l’ingiurioso spettacolo di una guerra tra russi e giapponesi per il controllo della Manciuria cinese nel 1904-1905 decretano la rovina dea dinastia, delle vecchie istituzioni, delle dottrine tradizionali. Il palazzo imperiale cade nel 1911, quasi senza resistere”, ivi, p. 12, corsivi miei.

Sulle guerre dell’oppio, davvero “clash of civilization” ben più che col mondo islamico!, cf.

https://asiapacificcurriculum.ca/sites/default/files/2019-02/Opium%20Wars%20-%20Background%20Reading.pdf.

Furono un “clash of civilization” e la Cina perse; oggi, occidentalizzata, presenta il conto … Interessante lo “sciovinismo scientifico”, P. K. Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1980, p. 43. “Questo atteggiamento durò fin al 1954, quando”, ibid. Anche: “”, ivi, p. 182. Nonostante il “relativismo”, specie di autogol, l’idea di fondo di Feyerabed è giusta: studiare “la scienza [moderna] come fenomeno storico e non come l’unico modo ragionevole di accostarsi al problema”, ivi p. 251, corsivi miei, osservazione mia fra parentesi quadra. Feyerabend fa direttamente riferimento al carattere “ineguale” dello sviluppo storico, cf. ivi, p. 120, e alla filosofia della prassi di Mao, in particolare al Sulla Contraddizione (1937), cf.. ivi, p. 121, in nota a pie’ pagina.   

 

 

 


 

(PS)

Il carattere “guo” è fra quelli realmente ideografici, e non ideofonetici – come sono la gran parte dei caratteri cinesi, provvisti d’una parte ideografica e di una fonetica – e si scrive con l’essenziale per formare una “nazione”: un limite, cioè un confine, con dentro un’alabarda ed una bocca. Una nazione deve avere dei confini, una lingua comune, una difesa comune: senza uno di questi tre elementi, non c’è “nazione”. Vi è un altro modo di scrivere “guo” [pr. Quò], ed è sempre con il confine, ma dentro c’è il carattere, ideografico e molto antico, di giada, carattere che, a sua volta, si scrive dal carattere “wang”, “re”, cioè un asse verticale che unisce tre tratti, uno superiore, uno centrale, uno inferiore (il re è il “Mediatore” fra Cielo e Terra, “mediatore” rituale, chiaro), più un trattino. In pratica, quest’ultimo è il residuo di un tratto che denotava lo “scrivere”, poiché la giada era – in pratica – il sigillo del “re” come Mediatore-fra-Cielo-e-Terra.

 

 

 

 

 

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