martedì 16 aprile 2019

Marx **NON È** un “nostro” contemporaneo














Si è svolta, il pomeriggio del 9 aprile scorso, martedì, nella libreria Feltrinelli di Caserta, la conversazione organizzata da Liberalibri dal titolo “Karl Marx contemporaneo”, con Paolo Broccoli, Salvatore Del Prete, Pasquale Iorio, Mario Nocera, Alfredo Omaggio, Sergio Vallante, moderatore A. A. Ianniello.
Avrei dovuto fare un intervento anch’io ma, poiché il Coordinatore dell’Associazione Liberalibri, Enzo De Rosa, per impegni vari non poteva esser presente sin dall’inizio, ho fatto il moderatore.
Nella presentazione iniziale, ho posto l’attenzione su due punti: come prima cosa, niente incontri fra “combattenti e reduci”, cioè il punto centrale è cosa possa interessare di Marx oggi; e, secondo punto, il ritorno d’interesse per Marx dopo gli effetti della crisi cominciata negli anni 2007-2008, per effetto dei mutui “subprime” – che non ne sono stati la causa, ma solo il detonatore. Ribadivo – ma l’osservazione in pratica è passata inascoltata – che Marx era, in ogni caso, un uomo dell’Ottocento. Con ciò volevo dire che non si può seguirlo letteralmente, per questo motivo, peraltro chiaro ed ovvio. Altra mia osservazione: le crisi sono legate strutturalmente alla natura del capitalismo, ed è quest’aspetto di Marx quello che è tornato al centro dell’attenzione dopo l’inizio della Seconda Grande Crisi del capitalismo (crisi non ancora del tutto passata), dopo il 1929, quella degli anni 2007-2008 e seguenti. Scopo di Marx era d’individuare la ragione “scientifica” – non alla Saint Simon, non “desiderata” o perché il capitalismo è “cattivo” ed “amorale” – per la quale il capitalismo dovesse finire.
Quindi la domanda diventava: che aspetti di attualità, di contemporaneità ci son ancora in Marx? Oggi?
Ed ecco la domanda iniziale.  
In breve, riassumiamo gli interventi.

Iniziava Paolo Broccoli, che sottolineava la natura “rivoluzionaria” del capitalismo, secondo Marx (il Marx de Il Manifesto), che sostituisce sempre la sua fase precedente, che ha raggiunto il consenso globale ed è l’unico sistema che sussista. E che, da un po’ di tempo, ha iniziato a produrre i bisogni per poter funzionare. Questo è un punto decisivo. Ha poi precisato che la gran parte degli scritti di Marx sono stati editi dopo la morte, ed anche nel corso del XX secolo, mentre in vita era noto soprattutto per Il Manifesto e il Primo Libro de Il Capitale. Inoltre, occorre distinguere con attenzione fra Engels e Marx. Faceva poi dei riferimento a Machiavelli per il Marx politico, considerando Machiavelli, per certi aspetti, più radicale di Marx. Quanto alla “lotta di classe”, così famosa che spesso la s’identifica con Marx, in realtà Marx n’è stato come il divulgatore, ma non è una categoria interpretativa da lui costruita. L’ottica di Marx è, e rimane, critica, vagliare le cose, sottoporle a critica, era proprio al centro del suo pensiero, per tutta la vita.
Seguiva Pasquale Iorio che si limitava a dare due esempi di testi recenti su Marx, proprio per attestare questo ritrovato interesse, anche da parte di non maristi, precisava. Personalmente, direi soprattutto da parte di non marxisti, perché troppo spesso i marxisti residui o ex tali, si limitano a citare Marx, senza un discorso critico, inevitabile invece.
L’intervento del professor Vallante si riassumeva nel porre il problema del capitale variabile, nel quale andrebbe posto anche la natura, gli animali, ecc., per cercare d’impedire che la logica stringente del capitalismo continui nel saccheggio della natura. Precisava tutto ciò con esempi concreti, sul plusvalore che si forma in una ricercata commercializzazione di un prodotto agricolo a paragone di bottiglia di vino imbottigliato “fai da te” da un contadino, questo per dare un’idea di cosa sia il plusvalore. Precisa inoltre, efficacemente, che il problema che si era evidenziato dall’epoca di Marx era che il ciclo M>D>M>D (merce > denaro > merce) di Marx era divenuto, nel prosieguo del sistema capitalistico, D>D>D>D … ad libitum. Il problema del fallimento della tesi marxiana della “caduta tendenziale del saggio di profitto” nasce appunto dal postulato di Marx per il quale il capitale era, appunto, “fisso”, si poteva moltiplicare solo per mezzo della merce, la merce necessitava la sua trasformazione in denaro e, per far questo, il capitale aveva la necessità della forza-lavoro. Quando si è passati da M>DMD a D>D>D>D, aggiungo io questo, la necessità sulla quale si basava la coerenza scientifica di Marx pian piano si è persa.
Del Prete invece ribadiva la visione marxiana come ancora valida: capitale fisso, capitale variabile e il plusvalore, sull’individuazione del quale vi era, per lo stesso Marx, forse il suo maggior contributo da studioso. Il capitale variabile è il lavoro (che è legato alla determinazione di una cosa molto importante per Marx: il valore lavoro, la determinazione del valore passa per il lavoro, ma è qui, forse, una delle più grosse cantonate di Marx). Ad obiezioni che gli facevo, cioè la tendenza alla sparizione del lavoro, lui diceva che non può darsi una tale eventualità perché rimane il capitale variabile, il capitalismo non può sostituire il lavoro. Gli rispondevo che questa è tuttavia la tendenza, che Marx, appunto, non è in grado di spiegare. A latere si può dire che vi son limiti fisici nel raggiungere tale scopo, ma non concettuali.
Detto con secca esattezza: per il capitalismo il “lavoro” non esiste come tale, esso si riduce ad una condizione che occorre “pagare” e che si può cercare di ridurre sempre di più. Ovviamente Achille non raggiunge mai la tartaruga, ma vi si avvicina sempre più. Sono cose un po’ difficili d’accettare, lo so … Tutto il problema nasce dalla distinzione fra capitale fisso e variabile, nemmeno questa inventata da Marx, ma da lui resa centrale, dalla quale deriva la sua idea d’ “inchiodare” il sistema ai suoi limiti, dalla quale deriva, in senso logico e dunque “scientifico”, che tale sistema possa – ed anzi debba – esser superato da qualcosa di superiore: la società senza classi. Che il sistema debba incepparsi va dimostrato, se si vuol fare “scienza” e, purtroppo, non è dimostrato.
Terminava facendo riferimento al famoso “esercito di riserva” di marxiana memoria, come necessità del sistema per avere manodopera a basso costo.
Mario Nocera poneva il problema delle diseguaglianze così enormi, e si chiedeva se Marx potesse dare un contributo, pur con i suoi limiti, alla diminuzione del problema. Gli rispondeva Broccoli con una frase di Marx, per il quale finché non c’era una necessità impellente di risolvere un problema, quel problema non si poneva proprio. Detto in altri termini: finché c’è consenso sistemico, il problema non si pone.
Detto – da me, ovviamente – in modo brutale: il capitalismo funziona benissimo con il massimo di disuguaglianza e con la gente che muore di fame. Che ci sia questa gente qui non è un problema per esso come sistema. Può essere un problema per determinati individui che vivano in regime capitalistico ed abbiano altre idee per le quali non possano accettare una tale diseguaglianza, davvero enorme, la massima della storia.   
Il professor Omaggio discuteva sostanzialmente, del Marx filosofo, allievo della sinistra hegeliana, ed in rapporto “dialettico” con Hegel. Marx è un maestro di critica, soprattutto, concetto che qui ritorna, e come tale va ricordato. Altri aspetti da lui ricordati son più vicini a Engels, ha poi ricordato A. Del Noce, per il quale (come G. Gentile, peraltro) la filosofia centrale di Marx è una filosofia della prassi, in ciò diversamente da Engels, che al contrario era più vicino al positivismo. Ed è questo Marx positivista quello che, poi, è venuto fuori ed ha riscontrato successo, con il germe della sua stessa fine, una volta che il “meccanicismo” positivistico della “fasi” à la Auguste Comte per una qualche ragione si fosse “inceppato” o bloccato. Rimane, a suo avviso, la lezione del Marx critico.

Veniamo al mio intervento, che avevo preparato, ma che non è stato detto. Qui di seguito non vi è quel che avevo pensato, cioè l’intervento preparato, ma semplicemente traggo spunto dall’incontro per inserire alcune delle considerazioni che avevo pensato di dire.
Il capitalismo si basa sullo scambio diseguale, che costituisce dei “cerchi” attorno ad un centro, sempre molto ridotto e composto da pochi. Fra i cerchi vi è quello della “classe media” (secondo Wallerstein, mai più del 15%) che, se cresce nei paesi detti oggi “emersi”, deve recedere nei paesi di più antico sviluppo capitalistico. In altre parole: trattasi di una parte fissa, così come lo è l’1% che ha sempre dominato il sistema capitalistico. Questo è un fatto strutturale. Marx non ne comprendeva pienamente la natura, però non errava nel postulare la natura fissa del gruppo dominante – che possiamo anche chiamare classe – il sistema. Si può entrare, a rotazione, in un tal gruppo, ma la sua quantità rimane fissa. Questa è la differenza con i domini aristocratici: che c’è una tale rotazione, non facile eh, non semplice, ma, per lo meno teoricamente, possibile[1]. Ma ciò dimostra che trattasi di sistema, perché la quantità è fissa. Detta in altro modo: le basi non possono cambiare.
Capitale fisso o variabile: esiste solo il capitale, punto. Dal punto di vista del capitale, così è; e se tu fai i soldi producendo merce oppure producendo “prodotti” finanziari, cioè solo denaro che si moltiplica, la finalità rimane identica. Il problema è la finalità.
Né c’è differenza tra lavoro “produttivo” e non produttivo, la corvée per esempio, il lavoro “servizio”, caratteristico degli ordinamenti pre-capitalistici, secondo Marx. Quel che si vede anzi è la progressiva trasformazione del lavoro “produttivo” in lavoro “servizio”. Al limite – ma è un limite fisico, non concettuale, va ribadito – il lavoro sarà del tutto sostituito, sappiamo che è impossibile la totale sostituzione (che peraltro era il sogno dei Babbage), ma rimane che quella è la tendenza. Perché? Perché il lavoro non esiste per il capitalismo, la distinzione fra capitale fisso e variabile è stata usata da Marx per il suo fine, la dimostrazione scientifica del fatto che il capitalismo s’incepperà, ma il capitalismo non l’ha mai accettata. Tutto è capitale fisso, tutto è capitale variabile; dal variabile al fisso al variabile, questo dev’essere il ciclo. Nel quale il lavoro non ha posto: esso è solo una condizione da “pagare” per poter massimizzare i profitti. Se se ne potesse fare a mano, lo si farebbe. Ciò è fisicamente impossibile, ma rimane come tendenza. Lo scopo rimane l’eliminazione del lavoro, la sua sostituzione con delle macchine, un tempo, quello di Marx, meramente meccaniche; da un bel po’ di tempo elettroniche ormai, cambiamento non solo quantitativo, ma qualitativo.  
L’esercito di riserva. Temo debba rimanere esercito, che non esercita né mai eserciterà. Tranne una parte che viene a far parte del cerchio che sta dopo quello della “classe media” e tuttavia prima dell’ultimo cerchio – che chiamo gli “esclusi” – il resto è appunto escluso, fuori. E non succede nulla? E non succede nulla, nessuno organizzerà mai – per lo meno con modalità politiche (e moderne, clavis …) – gli esclusi. Non nel capitalismo e nemmeno ciò accadrà da parte dei “critici” del capitalismo. La ragione è molto interessante, ma ci porterebbe troppo lontano, aprendo un altro fronte di discussione, mentre qui vorrei almeno dire qualcosa di non confondente chi, eventualmente, si ritrovi disperso fra queste sparse paginette digitali, digitali ma non da bere (un tempo il “digitale” era tipo un “cicchetto” o uno “shottino” di oggi). Diciamo che il sistema ha il consenso, anche perché sa mutare, tuttavia senza mai perdere le sue finalità, punto importante, che Marx accettava in teoria (ecco il senso che il capitalismo è “rivoluzionario”), ma non in pratica. Perché, ci si potrebbe chiedere. Perché in sostanza era un uomo dell’Ottocento, ecco perché: cioè gli mancavano fatalmente delle esperienze di mutazione concreta del sistema. Ecco perché semplicemente riportare delle frasi di Marx non ha senso. Diverso è riflettere su di lui perché è stato quello che ha cercato, pur non riuscendoci, una visione complessiva del sistema capitalistico, cosa che rimane il suo merito fondamentale.
Basta il capitale, fisso o variabile che sia. Il capitale diventa denaro e il denaro diventa altro denaro. Quando il ciclo s’intasa, ecco la crisi, necessaria per eliminare degli attori dal mercato e sostituirli re-iniziando a fare la stessa cosa, sempre la stessa cosa, l’unica che il sistema sa e può fare. Stop. Tutto ciò basta. Marx ha complicato le cose, occorre invece semplificarle.
Basta il lavoro, produttivo o servizio che sia, anzi meglio la continua trasformazione del lavoro da produttivo (ed operaio, perché questo era, per Marx) in lavoro servizio, ulteriormente sostituibili, il più che ci sia, dalle macchine elettroniche e digitali.
Basta il valore di scambio. Anzi, il capitale non riconosce il valore d’uso – anche “rivoluzionario” delle “classi oppresse” – dunque la “natura” non ha posto in esso, salvo come materia prima per farne altro. Se tu hai un bel terreno, che dal punto di vista della “natura” è ottimo, ciò nel sistema capitalistico vale zero. Se lo trasformi in un’attività – per esempio, un agriturismo – tu hai la possibilità di accumulare un profitto: sei nel capitalismo.
E tu puoi vedere paesaggi, libri sacri, benessere, o automobili o cacciaviti: è lo stesso per il capitalismo, dunque l’inserire i dati naturali nel suo interno non ne può cambiare in niente le finalità di fondo.
Si potrebbe dire: ma pure prima c’era la ricerca del profitto. Vero, ma non era l’unica finalità, ecco la differenza. Vi era il valore di scambio e quello d’uso, quest’ultimo essendo qualitativo, per cui l’acqua è diversa dal petrolio, l’acqua serve alla vita, mentre il petrolio non serve alla vita. Ma la prima ha un basso valore, le trasformazioni che puoi fare del petrolio, in benzina o altro combustibile, lo rendono ben più adatto dell’acqua allo scambio, che è l’unica cosa che conta nel capitalismo, lo scambio diseguale, per principio, per struttura, non dimentichiamocene.
Il consenso è globale. La globalizzazione non è altro che l’estensione a tutto il globo di questo sistema, “potentizzato” da questa semplificazione di cui s’è detto proprio in termini estremi, giusto per farsi capire. Meglio semplificare per farsi capire che complicare, facendo non capire del tutto.
Ora Paolo Broccoli aveva fatto un’osservazione en passant nel suo interevento iniziale: cioè che, in questa lunga fase di consenso totale al sistema capitalistico, il vero problema è proprio l’assenza di una resistenza che rischia di enfatizzare le debolezze strutturali del sistema.
Se n’è parlato dopo la fine dell’incontro, e gli ho detto che non vi è nulla che possa controllare la crisi del sistema una volta che la sua natura del tutto e completamente auto referenziale si inceppasse, cioè una volta che la crisi – strutturale nel capitalismo – venga poco o mal gestita dal “pilota automatico” che lo (il capitalismo, intendo) dirige.
Possiamo dire qui, al di là di tutto, che lo scopo di quel che rimane dei “critici” del capitalismo ha “deciso” – mettiamola così, ma senza “complottismi”, per favore – di spingere il “sistema” nella e sulla sua china fatale … mettiamola così …  


















Andrea A. Ianniello











[1] Se poi andiamo a vedere, constateremo che certe famiglie, certi gruppi sociali tendono a mantenersi nell’1%, dal quale si esce più per crisi all’interno di tali gruppi che per una sfida dall’esterno. Quindi è all’interno della gentry e della “noblesse de robe”, piuttosto che della sola borghesia, che si è sviluppato il capitalismo, la cui implementazione ha richiesto poderosi sforzi finanziari, cui han partecipato anche degli stati, che è nato il capitalismo. Si tratta della famosa “recinzione delle terre” da Marx considerata il passo precedente allo sviluppo del capitalismo vero e proprio. Ma chi poteva farlo, nel concreto storico di quella situazione e di quell’epoca? Ecco la prima domanda-chiave; la seconda viene di conseguenza: erano tutti “borghesi”? Basta fare un’analisi dei dati, e si troverà la risposta … Si richiedeva, inoltre, già l’esistenza di un sistema di credito efficiente, tale da poter supportare uno sforzo d’indebitamento come quello che ha dato inizio al capitalismo, ed anche qui, se si studiano queste cose, si ritroverà la risposta … Ma occorre liberarsi dei “paraocchi moderni” … e qui sta il punto vero …   






1 commento:


  1. Se noi semplifichiamo il Marx ottocentesco, gli togliamo le “ubbie” del XIX sec., accettando le critiche fattegli da Baudrillard, e, dal punto di vista sociale, accettando Wallerstein, **si può spiegare il capitalismo** nella sua **radicalità**, ma occorre fare le premesse dette, forse in modo troppo semplice (dunque saranno sottostimate) qui sopra: fine del lavoro produttivo; inesistenza del valore d’uso e della “natura” (ovvero di qualsiasi aspetto “qualitativo” nella natura e nell’uomo); accentramento in un gruppo ristrettissimo, sin **dall’inizio** (Wallerstein); inesistenza dell’esercito di riserva, ma invece esercito di esclusi, che, però, vogliono “entrare a ‘fare parte’” del gioco. Ma non possono, perché le quantità dei cerchi concentrici dello scambio, nel capitalismo, sono **fisse**: non il capitale “fisso” è tale, cioè fisso, immodificabile – **sommo** errore di Marx – quanto, bensì, le percentuali della scala sociale nel capitalismo, queste sì, sono fisse, cioè immodificabili. Pertanto – e se si guarda bene tutta la radice della crisi è qui, oggi – è nell’impossibilità di accogliere gli ****esclusi**** che c’è, oggi, la Grande Crisi. Eccone il motore per nulla nascosto, tuttavia **non riconosciuto** come tale (cioè fatto sostanziale oppure analizzate come il vecchio “esercito di riserva” marxiano: “summus error” di nuovo), a causa di tonnellate di analisti **del tutto** errate, sbagliate alla radice. Che “si fa” con questa massa, ecco il crescente problema. Non certo i “sinistrati” mentali la possono indirizzare; le “destrucole” non sono altro se non l’espressione delle declinanti classi medie dell’Occidente, ansiose di serbare quel po’ che gli rimane, o delle appena sorte classi medie nei paesi ormai “emersi” (India, Cina, Brasile), o risorte in parte: la Russia (ma, in tal caso, è la “volontà di potenza” della Russia che riemerge, quella degli zar e dei soviet in certi loro periodi, con l’appoggio delle classi medie un po’ risorte lì); ma il caso russo è un po’ particolare, anche se rientra nel clima generale.
    Nessuno dei due può nulla, in tal senso, per rispondere alla domanda qui formulate. Chi lo farà? E potrà farlo rimanendo sul piano “Politico”? La risposta a quest’ultima domanda è semplice: assolutamente no!!










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