“La
storia vissuta e la storia ricordata sono due cose affatto diverse”
(J. Christopher Herold, Vita di Napoleone,
Il
Saggiatore, Milano 1967, p. 381).
“Questa
problematica riaffiora nell’opera di Spengler. In
Il tramonto dell’occidente Spengler ricopia, letteralmente,
l’analisi
simmeliana: dalla rottura dell’
organizzazione
tribale, all’affermarsi, come massime
potenze,
del Denaro e dello Spirito [geist, in
tedesco,
che
non è lo “spirito” come cosa oltra-mentale -
ma
è la potenza della mente e della civiltà umane; nota mia].
Ma
ciò che in Simmel concludeva un tentativo di
afferrare
la sostanza contraddittorio-negativa irrisolvibile
della
Metropoli, appare qui come nuovo,
perfettamente
risolto, ordine spirituale”
(M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di
Sombart, Endell, Scheffer e Simmel,
Officina
Edizioni, Roma 1973, p. 47).
“Le
fortune dell’individuo sono sempre state legate allo sviluppo
della
società urbana: l’abitante della città è l’individuo
per
eccellenza. I grandi individualisti che criticarono la vita
delle
città, come Rousseau e Tolstoj, in realtà avevano
le
loro radici intellettuali nelle tradizioni urbane; la fuga
di
Thoreau nei boschi fu concepita da uno studioso della polis
greca
più che da un contadino”
(M. Horkheimer, Eclissi della ragione,
Sugar
Editore, Milano 1962, p. 161).
“L’individuo
cristiano emerse dalle rovine della società ellenistica.
Si
potrebbe pensare che, di fronte a un dio infinito e trascendente,
l’individuo
cristiano sia infinitamente piccolo e indifeso; che egli
sia
una contraddizione in termini, giacché il prezzo della
salvezza
eterna è la completa rinuncia a se stessi.
In
realtà, l’aspirazione all’individualità fu immensamente
rinvigorita
dalla dottrina che la vita sulla terra è
solo
un interludio nella storia eterna dell’anima”
(M. Horkheimer, Eclissi della ragione, cit., p. 166).
“‘Ho
parlato d’idea e una idea può seminare il caos
solo
nel cosmo immaginato dalla mente umana’ …”
(L. Malerba, Il fuoco greco, Mondadori Editore,
Milano
1990, p. 19).
“Quando
scesero le ombre della seconda sera, ero sfinito.
Mi
fermai di fronte al vagabondo e lo fissai negli occhi.
Non
mi notò, ma riprese il suo solenne andare.
Allora
rinunciai all’inseguimento, e rimasi estasiato
a
contemplarlo. ‘Questo vecchio’, dissi dopo una lunga
riflessione,
‘è il tipo e il genio del delitto profondo.
Egli
non vuol essere solo. E’ l’uomo della
folla. Seguirlo
è
inutile, perché non saprò mai niente di lui e delle
sue
azioni. Il peggior cuore del mondo è un libro ancor
più ermetico dell’ Hortulus animae [Hortulus animae,
cum oratiunculis aliquibus addictis, di Grünninger] e forse è
una
grande misercordia di Dio che
es lässt sich nicht lesen [esso non si lascia leggere]”
(E. A. Poe, “L’uomo della folla”, in
Le belle bandiere, maggio 1981, p. 6).
“L’uomo
bianco era molto malato. Si teneva a cavalcioni
sulla
schiena di un selvaggio dai capelli lanosi,
dalla
pelle nera”
(J. London, L’Avventura, Casa Editrice Sonzogno,
Milano
1966, p. 9).
E “l’uomo ‘bianco’” è oggi, senz’alcun dubbio,
molto ma molto super malatissimo … Tenersi “a cavalcioni” non è che aiuti molto
…
Come si è già detto in un post
precedente (Para Docks,
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/03/para-docks.html), oggi
proprio, in questa tale situazione, in cui ci sarebbe gran bisogno di
“visione”, non è casuale che “certe” cose le si veda ben meno di “altri” tempi, quando se n’era
più lontani. Probabilmente a ciò non son estranei problemi “ciclici”
ricollegabili all’aspetto “qualitativo” del tempo, per cui certe cose non si
possono compiere o vedere in qualsiasi ed in ogni tempo (di ciò tratta un
interessante commento al recente post su Barbault, commento cui si è risposto e
corrisposto: probabilmente, si era nella “mini
‘età del bronzo’” del più vasto “Ciclo umano e cosmico” in cui ci si ritrova [1]).
Ma veniamo a noi.
Sempre in relazione a tali temi, è “cosa
buona e giusta” ricordarne altri, di temi, specialmente afferenti al tema del “pro jectum”, che oggi - com’è noto anche
ai bambini, ormai - latita con un silenzio assordante, indubbiamente degno di
Dante.
Rileggendo certi testi a molti anni di
distanza è inevitabile vederli e
concepirli per ciò ch’essi non potevano all’epoca essere: “in vista di” altro.
La letteratura della “crisi” fra
Settanta e Ottanta, e con punte fino alla prima metà dei Novanta, prima che il
1994 segnasse la “data” della cosiddetta “globalizzazione ‘felice’” - per
alcuni - diciamo stabile, si produsse una “letteratura”, la letteratura della “crisi”, che è interessante
rileggersi, nel senso qui sopra appena detto.
Veniamo ad un termine che, in quell’epoca,
fu molto sottoposta a critica, l’epoca dell’ “eclisse della ragione” - ma con
la gigantesca illusione di poter “riprendersi”
dalla “crisi” stessa, grosso errore -. E’ come si è detto: a
distanza si vede di più, si vede meglio, ma - in compenso - si ha l’illusione di
poter risolvere la crisi stessa. E questo nasce dal sottostimare la crisi. La
sottostima nasce, a sua volta, dal fatto che esci fuori casa e, tutto sommato, le
cose vanno, “la nave va”, mentre oggi la
nave è quasi incagliata.
Tutto ciò rientra nelle “determinazioni qualitative del tempo” (R. Guénon),
ovvero quel ch’è possibile in un determinato momento non lo è necessariamente
in un altro.
Corollario: non è che gli organismi istituzionali siano “riformabili”
utilmente in ogni momento, come ci dimostra la storia dell’Impero romano.
Altro
corollario: veder le cose non coincide con l’agirvi su; non solo, ma spesso si
nota che, quanto più si è attanagliati da un processo - per di più “critico” -
e tanto meno si ha libertà d’azione. Questo è vero tanto nella vita individuale
quanto in quella più che individuale;
anzi, in quest’ultima è ancor più vero.
“Lo
sviluppo non vuole felicità, bensì sviluppo e nient’altro”; con questa
citazione di Nietzsche (da Aurora) si
apriva un vecchio articolo di Asor Rosa,
iniziava il lungo, e non ancora del tutto concluso, divorzio dalla politica,
che però è andato molto in là come divorzio dalla politica che “non dà la
felicità”. Criticando l’idea del “progetto”, Asor Rosa l’equiparava ad una “giustificazione ideologico-protettiva”,
o a “Progettualità = ineffettualità”.
Di seguito a questa constatazione di crisi e d’impotenza, lo stesso Asor Rosa
sarebbe stato condotto a posizioni più radicali.
Già in quell’epoca era possibile vedere
la “deriva” in cui siamo pienamente, e senza speranze (ovviamente all’epoca era
considerata un’eventualità da cercare di
evitarsi, cosa del tutto impossibile, vista l’ “ineffettualità” quasi
completa delle “sinistre”): “Tutto sta, in conclusione, nel ritenere maggiormente
auspicabile e possibile […] una politica di aggiustamenti, a basso profilo progettuale, piuttosto che una politica di
cambiamento, d’innovazione e di più ampio respiro. Alla radice di tale opzione
c’è però soprattutto il non rendersi conto che non siamo soltanto in una
situazione negativa di guerra di tutti contro tutti, ma anche in una condizione
del tutto inedita, che consente ed esige modificazioni profonde dell’esistente”.
Insomma: quel che abbiamo avuto ed ancor abbiamo, con l’interessante differenza
che, grazie ai sistemi di comunicazione di massa ed ai “social”, questa
politica di “basso profilo progettuale” si spaccia per chissà quale “gran cambiamento” … Che, poi, ci sia resi conto di essere “in una condizione
del tutto inedita” è stato chimerico - e questo non è ancora sensus communis nel 2016
(!!) - e, di conseguenza, nessuna “modificazione profonda dell’esistente” è
avvenuta se non l’arrocco delle classi digerenti, la chiusura a riccio delle
lobby dominanti. La conseguenza è stata la caduta e la crisi delle classi
medie: poco male, perché si sfogheranno nei vari populisti e contro la
cosiddetta “immigrazione”, e, quindi, nessun pericolo “sistemico” verrà ai da
tale lato. Di nuovo, in quel tempo si poteva veder chiaro a riguardo della
direzione che le cose avrebbero preso.
Che ad alcuni non piaceva quel che s’intravedeva
dietro l’angolo, è certo, ma che lo si potesse intravvedere - o addirittura
veder distintamente - è palese.
Nel suo intervento Cacciari parlava di “‘Equivocità del termine” di progetto.
Le considerazioni di Cacciari erano alquanto radicali, come nel suo periodo
cosiddetto “negativo”, di attenzione al “pensiero ‘negativo’”, cosa che poi lui
stempererà moltissimo, divenendo ben
poco radicale, fino a tempi assai recenti, con il libro del 2013 di “teologia
politica” in cui recupererà certi temi,
constatando che “il potere che frena” dell’epistola paolina 2Tessalonicesi non esiste più:
il che è vero, ma le radici non son
oggi, non son ora, son già presenti - in
nuce -, e seppur lontanamente, in questo vecchio articolo.
Come sempre, Cacciari iniziava con l’etimo
del termine, considerato da lui, per l’appunto, “equivoco”: “Pro-durre e
pro-getto sono termini solidali […]. Il progetto pre-vede, per così dire,
questa futura presenza [produttiva], ne dispiega in anticipo i tratti. Ma
nel progetto, appunto, non ci si limita ad ‘ideare’ tale presenza, si mostra
anche con quali mezzi e per quali vie esso sia effettivamente pro-ducibile. L’accento
del progetto è dunque quello dell’anticipo, della previsione e della concreta
produzione”.
Riferendosi, poi, all’etimo tedesco di Ent-wurf, aggiunge che qui “è avvertito
lo strappo del ‘lancio’, non la sua
eventuale carica prefigurante, predittiva”.
Il “pro-getto”, da evento produttivo e predittivo, diventa un qualcosa di
rischioso, inserisce un elemento di “rischio” che ci dà un indizio esatto a
riguardo dell’ eclisse contemporanea della progettualità. Quest’aspetto non deve
però, occultare l’altro aspetto, produttivo e, soprattutto, predittivo: “L’essenziale
del progetto consiste nella parola anticipatrice. […] Il progetto - in questo senso
- appartiene integralmente all’epoca del logos”.
Di qui la sua crisi, irreversibile, sostituita, però, non dalla percezione dell’assenza,
che ancor ancora sarebbe catartica, ma da una miriade di simulacri di progettualità, e a iosa.
Vi è una storia del “progetto”, assenza,
ascesa, successo ed eclisse attuale, ma per dispersione, che si è, a sua volta,
eclissata in sparizione, non per crollo.
“L’enfasi progettuale è la tonalità
particolare di un’epoca del Politico. Corrisponde, anzi, piuttosto, a uno
strappo decisivo nella sua storia. In esso si afferma l’idea, lentamente e
attraverso drammatiche contraddizioni, che le forme del potere sono costruzioni
artificiali, la cui durata, la cui capacità di resistenza, è direttamente
proporzionale all’efficacia con cui sanno anticipare-governare l’imprevedibile,
l’irruzione (la cui possibilità è in sé ineliminabile) del caso. La virtus della
durata contro la tyche dell’evento: uno scontro che finirà con l’ammettere solo
programmi, che si rinnova
incessantemente, senza mai trovare la
Soluzione. E’ soltanto equivoco parlare di progetto, e di progetto politico, dove
fonte e senso del potere appaiano, invece, davvero onto-teologicamente fondati.
Progetto accade soltanto lì dove ci si strappi
da un simile presupposto. Dunque, la comprensione che la respublica christiana
ha di sé è essenzialmente anti-progettante, in quanto il suo significato consiste
nel tenere l’unità e l’ordinamento
generale dell’Eone, fino al suo compimento, contro ogni seduzione: se-ducere è lanciare
il potere oltre il suo fondamento, tentarne giustificazioni meramente etico-mondane.
Qualsiasi autorità tradizionale ha una visione diabolica del progetto, più in generale ancora: di quella
incoercibile dimensione pro-gettante che sembra propria del comprendere stesso.
Il progetto diviene termine-chiave soltanto di un’epoca di razionalizzazione e
di secolarizzazione del Politico”.
La fine del
progetto - per mezzo della sua
diffusione ovunque, della sua parcellizzazione e polverizzazione (e già ben intravisto
da Baudrillard nel suo Dimenticare
Foucault, Cappelli, Bologna 1977!!)
-, la Fine del “Progetto” di “per sé”
attesta che l’epoca della “razionalizzazione
e di secolarizzazione del Politico” (Cacciari) è finita.
Per sempre.
Le seguenti considerazioni di Cacciari
sulla politica “come mito”, considerazioni - in parte - riprese nel suo ultimo volume, meritano di essere riportate:
“E’ come se la demitizzazione della grande
forma politica tradizionale, che lo Stato moderno opera, afferrasse nella
propria febbre critica il suo stesso progetto, ciò che il suo stesso progetto
pensa: la possibilità concreta di superare il divenire, di porlo come stato. Il progetto vuole pensare questa
possibilità in forma razionale-scientifica”.
Vediamo, però, la sin troppo famosa, e fumosa, e furiosa, “razionalità tecno-scientifica”
sempre più col fiato grosso, sempre meno capace di prevedere. Anzi: “più
intensamente si esprime nel progetto la volontà di fare-stato, più il progetto è progetto di grande forma politica (e
quindi più violento lo stacco rispetto al suo passato), maggiore la funzione
del mito al suo interno”.
Tale funzione “mitica” è ovvio che oggi sia del tutto atrofizzata: non
può esser diversamente, in effetti.
La qual cosa non significa che non possa e
non debba esserci del “mitico”, tanto più che, correttamente, già in quei tempi,
Cacciari scriveva “Per la critica dell’idea
di secolarizzazione”.
Ed anche questo si è realizzato, in forme assai degenerative, ma non la mito-storia.
A questo punto, si possono trarre delle
prime conclusioni: la “sinistra” ha perso perché inefficace.
La progettualità è
discesa nei “programmi” sempre scritti “a matita”, e dunque sempre rivedibili -
e passi che siano “rivedibili”, è inevitabile, ma che ogni volta sia sempre “l’ultima parola”
fa ridere, anzi piangere -; ma oggi, ed ecco la crisi del progetto, crisi
irreversibile, la “tyche” sorpassa sempre più, e sorpasserà sempre di più, la “virtus”
della durata.
Quel che si vede è che la “virtus” della
durata non c’è quasi più, manca - ed è evidentissimo ormai - la possibilità di
fronteggiare la “tyche” degli “eventi”.
Terza conseguenza, che nasce dalla
semplice somma delle due appena dette: che, in una tale situazione, vi sia “il
potere che frena” è semplicemente sognare, pura chimera; in una situazione tale
non ci può affatto essere alcun “potere
che frena”.
Punto e basta.
La Soluzione può venire solo
fuori dai “programmi”, al di là dei
progetti e della Politica. Deve, insomma, possedere un cambiamento “qualitativo”
al suo interno, né può darsi come una mera “somma” di cose già esistenti. Ma,
si è visto, tutto lo “sviluppo” è stato un “blindare” il Sistema, un blindare
sistemico che ha fatto sì brindare
tanti, ma sul campo ha lasciato le macerie del legame sociale.
Ci vuole il Mythos. Ma, come ben si sa, il mythus è realtà pericolosa e che lo
sviluppo storico tende a rifiutare,
per cui, lo si è visto nella “mito-storia”,
quella del mythus può esser solo irruzione, sulla “lunghezza d’onda” e
con la “figurazione mythica” del Puer eternus e non del Pater, come giustamente osservava, già illo tempore, E. Jünger.
Non vi sono, in effetti (proprio per poter
evitare l’ ineffettualità delle “sinistre”)
molte altre chance.
NOTA DI COMMENTO
[1]
Che il “cosmico” e l’umano, dunque anche il “sociale”, siano separati, è la
“pietra miliare” della modernità, il suo fondamento vero, che ora vacilla
sempre di più, a fronte di un mondo naturale sempre più attivo.
La modernità, invece, nel suo lungo
sviluppo, non avrebbe potuto esserci senza una fase di “calma”, tutto
considerato, del mondo naturale. Ovviamente, non certo di “stasi”, che non esiste, ma senza dubbio di “calma”.
Sia detto per inciso, su questo punto si
situa la “faglia” che ci differenzia anche rispetto a qualche decennio fa: la
stabilità che avevano - e non solo “sociale”, bensì anche “cosmica” - noi,
semplicemente, non sappiamo che cosa sia più, e viviamo in un perenne, ormai, “stato di emergenza” (Virilio), ma
“globale” (http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/03/lo-stato-di-emergenza-virilio-ma-globale.html).
“Niente di grande
di straordinario
d’imperiale o di principesco:
soltanto un modesto blocco
di pietra
su ciglio della massicciata.
La gente ti chiede
la strada
per non perdersi lungo
il cammino
a ciascuno
tu mostri la strada
e la lunghezza del cammino.
Non è poco
mia piccola pietra
e non potrò dimenticarti!”
(Ho Chi Minh, Diario dal carcere,
Garzanti Editore,
Milano 1972,
p. 53).