domenica 17 settembre 2017

Venti anni fa, togliersi qualche “piccolo Sasso Lino”, DALLA SCARPA – **NON** dalla carpa (“ALLA POLACCA”, JÜNGER) – …











Voglio qui riportare dei vecchi passi di ben vent’anni fa.
Per togliermi qualche “sassolino dalle scarpe”? Ovvio che sì. Per quale altro scopo, infatti? I giochi son fatti, ormai … o, forse, or sempre
Ricordiamoci che nel 1998 – ormai diciannove anni fa – entrava in vigore l’area Euro, che non è la causa dei mali in atto: semplicemente, li ha fatti esplodere, che è diverso. Chiaramente preciso di non esser contrario all’Europa unita, solo di esserlo se vi è la sola guida tedesca, ecco tutto. Dunque, pur avendo sempre avversato l’Euro (= il marco mascherato), non mi ascrivo al battaglione dei protestanti anti Euro. Vanno conservate indipendenza di pensiero e di posizioni. Vi aggiungo un passo – peraltro riportato in nota (n°33) ad un post precedente
Nella forma qui di seguito presentata, presenta una piccola variante, in quanto è dell’anno prima del 1997, cioè del 1996, e poi fece parte dello studio dell’anno successivo (sempre al 1997), il 1998 intendo. La variante è una frase, riportata in calce in un altro post in questo blog, alla quale avevo (nella forma del 1998) aggiunto un’altra frase, ma di altro scritto, sempre di vent’anni fa, che doveva trattare certe particolarità architettoniche nipponiche, durante i riti per l’incoronazione del sovrano (non “imperatore”) nipponico, avvenuti nel 1990.
Il discorso sarebbe troppo lungo, ma, comunque, ci si limita qui a ricordare che, in questo blog, si seguono anche le questioni architettoniche, a misura ch’esse abbiano un aspetto symbolico.




Veniamo ai passi da riportare, con l’unico scopo di “a futura memoria”, cioè uno scopo storico.



1997. ‘Quel che Toynbee stesso notò come segue: “La vittoria della Chiesa cristiana nell’Impero romano non sarebbe avvenute se i Padri della Chiesa, da San Paolo in poi, non si fossero esercitati, durante i primi quattro o cinque secoli, a tradurre la dottrina cristiana nei termini della filosofia ellenica […]. Le istruzioni del Vaticano ai missionari gesuiti in Cina paralizzarono un’impresa di questo genere” (A. Toynbee, Le civiltà nella storia, Einaudi editore, Torino 1950, p. 550).
  E’ nel non aver compreso questo punto che, a mio avviso, quei seguaci non hanno individuato il bandolo della matassa. Difatti, c’è un’altra difficoltà: il pensiero moderno dell’Occidente non sente la necessità, che però i tempi a gran voce invocano, di modificarsi per unirsi a tipi di pensiero differenti senza rinchiuderli nelle proprie categorie (libertà/totalitarismo, democrazia, ecc.).
Non può esser dunque l’interlocutore.
E invece vediamo troppo spesso i rappresentanti di tradizioni extraeuropeo tentar d’ingraziarsi o di usare il pensiero dell’attuale minoranza dominante, con il risultato che tende a venir fuori un sincretismo non simbiotico, ma caotico e confuso.
Al contrario, quegli stessi rappresentanti rifiutano di confrontarsi con gli elementi che nella tradizione dell’Occidente sono gl’interlocutori naturali. Nella storia le tradizioni straniere autentiche hanno sempre galvanizzato quel che Toynbee chiama “proletariato interno” (Toynbee usa il termine in senso assai diverso dal significato sociologico del termine): ecco, ciò manca totalmente oggi.
L’incapacità dei rappresentanti, occidentali come orientali, delle tradizioni autentiche dell’Oriente, di operare tale giunzione, è davvero enorme, incredibile, assordante nel suo silente rumore (ma bisogna esser “giusti d’orecchio” per sentirlo).
Una delle concause di tale incapacità è ch’essa richiede un’opera veramente creativa. Ora, la creatività è un dato d’inizio, non un punto d’arrivo: o c’è o non c’è.
E qui casca l’asino.’



1997 [2]. Questo discorso sulla natura della rivoluzione può essere approfondito con l’aiuto di Arnold J. Toynbee, storico inglese delle civiltà. Dice Toynbee: “Una fonte di disarmonia tra gli istituti di cui si compone una società è l’intrusione di nuove forze sociali - attitudini, emozioni, idee - che il complesso degli istituti esistenti non era in origine destinato a contenere. L’effetto distruttivo di questa incongrua giustapposizione di nuovo e di vecchio è sottolineato in una delle più famose sentenze [...] [di] Gesù: ‘Nessuno mette un pezzo di panno nuovo in un vestimento vecchio, perché la toppa porta via del vestimento, e la rottura si fa peggiore. Parimenti, non si mette vino nuovo in otri vecchi - altrimenti gli otri si rompono e il vino si spande e gli otri si perdono; ma si mette il vino nuovo in otri nuovi, e ambedue si conservano’ (Mt., IX, 16-17).
  Nell’economia domestica da cui l’immagine è presa, si capisce che il precetto può osservarsi alla lettera; ma nell’economia sociale il potere che hanno gli uomini di ordinare a volontà le loro faccende su di un piano razionale è assai limitato, giacché una società non è, come un otre o una veste, la proprietà di un singolo, ma il terreno comune d’azione di molti; e per questo motivo il precetto, che è di senso comune nell’economia domestica e di pratica saggezza nella vita dello spirito, è in cose sociali un consiglio di perfezione” (A. Toynbee: Le Civiltà nella Storia, Einaudi editore, Torino 1950, pp. 364-365).
  Così, mentre l’intrusione di nuove forze dinamiche dovrebbe rimodellare l’intero edificio, la vis inertiaæ interviene, e capita che o il funzionamento della vecchia macchina soffoca le nuove forze o queste ultime invadendo la macchina vecchia ne rompono in piccola o gran parte taluni ingranaggi.
  “Per tradurre queste parabole in termini di vita sociale, le esplosioni delle vecchie macchine che non reggono alle nuove pressioni - o lo scoppio dei vecchi otri che non reggono al fermentare del vino nuovo - sono le rivoluzioni che a volte toccano agli istituti anacronistici. D’altra parte, le gesta funeste delle vecchie macchine che hanno retto allo sforzo di servire ad un’azione per cui non furono mai fatte, sono le atrocità sociali che genera talvolta un anacronismo istituzionale ‘duro a morire’.
  Le rivoluzioni possono definirsi come ritardati, e proporzionalmente violenti, atti di mimesi. L’elemento mimetico è ad esse essenziale; ciascuna rivoluzione ha riferimento a qualcosa che è già accaduta altrove, ed è sempre manifesto, quando una rivoluzione si studi nel suo ambiente storico, che lo scoppio non sarebbe mai avvenuto da solo se un gioco precedente di forze esterne non l’avesse così suscitato” (ivi, p. 366, corsivi miei).
  L’Italia è in questa situazione: la forza esterna che la spinge verso lo scoppio è la pressione dell’Europa. Perché, è vero che l’Italia è stata la prima nazione europea nel muoversi verso il modello decentrato che l’informatica ha imposto al globo, mentre la sua classe politica si è impantanata in un vecchio modello (causa recondita). E’ vero che il vuoto di classe dirigente ha spinto ladri lestofanti ad occupare quel vuoto (causa palese). E’ ancora vero che la fine dell’egemonia sovietica e dell’URSS ha poi fatto crollare i lestofanti (causa dinamica). Ma tutto ciò senza il ‘92 e la crisi economica e la pressione costrittiva dell’Europa e dei criteri del Trattato di Maastricht (causa scatenante), non sarebbe sufficiente. La causa scatenante è proprio la chiave di quel gioco di forze esterne di cui parla Toynbee senza la quale non c’è rivoluzione.
  “E’ evidente che, ogni volta che l’esistente struttura istituzionale di una società venga sfidata da una nuova forza sociale, tre risultati alterni sono possibili: o un armonioso assestamento della struttura alla forza, o una rivoluzione (che è un assestamento ritardato e discordante), o un’atrocità. E’ pur evidente che tutte e ciascuna di queste tre alternative possono verificarsi nelle diverse sezioni di una stessa società […]. Se gli assestamenti armoniosi predominano, la società continuerà a svilupparsi; se le rivoluzioni, il suo sviluppo si farà sempre più arrischiato; se le atrocità, possiamo diagnosticare un crollo” (ivi, p. 367, corsivo mio).
  Quindi: tre possibilità, che non si escludono necessariamente, ma delle quali una dovrà predominare.
Noi si cerca[va, e senz’alcun barlume, seppur mini minimo, di successo] di lavorare per la prima eventualità, ma non si esclude la seconda, perché uno scoppio, cioè un cambiamento brusco e non armonioso di rotta, pure dà una possibilità di sviluppo alla società. Solo l’atrocità sociale [che poi è ciò che si sarebbe realizzato!!, nota mia], per dirla con Toynbee, genera il crollo, e tale atrocità nel complesso si è già in parte compiuta quando all’implosione della vecchia e corrotta classe politica si è risposto proponendone una che è la figlia diretta della prima; e si stacca da ciò solo il delirio à la Cola Di Rienzo della Lega di Bossi: niente di buono. [Solo “in parte”, all’epoca, oggi, al contrario: Mission Accomplished; ed oggi stiamo entrando ancora in un’altra fase, la fase che segue al crollo; nota mia]
  Detto altrimenti: si cercherà di fare il massimo perché la prima eventualità si attui, ma non escludiamo la seconda, mentre continuare così, cioè con la terza eventualità, implica il crollo [che, poi, è ciò che si sarebbe realizzato, nota mia].
  Nota finale: i passi citati di Toynbee fan parte del capitolo dedicato al fallimento dell’autodeterminazione e cos’è il fallimento dell’Italia se non il non essere riuscita ad auto-determinarsi? Questa mancanza però, ha profonde radici storiche nel passato dell’Italia, dal XVI secolo in poi. E’ dunque una cosa vecchia e profonda che in fine è venuta fuori: è tutta una via che non è più percorribile. Un fallimento nell’autodeterminazione che ha radici così antiche è ora che si inizi a risolverlo. E che una nuova e diversa via sia presa [nulla di più lontano dal vero, l’Italia stoltamente, “italianamente”, ha perseverato sulla via che doveva strozzarla, finché giunse la sera, come il secondo dei due gatti di Castaneda, quello che leccava la mano che doveva strozzarlo; nota mia].

                                                                                  Andrea A. Ianniello
Febbraio-Marzo 1997 A.D.







Appendice


1998. ‘Interessante quanto afferma A. Toynbee nel suo Le Civiltà nella storia, uscito in Italia nel 1950  ed in Inghilterra (nella sua forma completa) dal 1933 al ‘39! Dopo aver criticato (giustamente) la dicotomia antico/moderno nata con la civiltà ellenistica e la periodizzazione antico-medievale-moderno nata da categorie ellenistiche, giustamente critica l’equazione ellenistico = occidentale. Distingue giustamente fra Ellenico ed Occidentale come due  civiltà. Operata questa distinzione, propone questa corretta periodizzazione per la civiltà occidentale: “Abbiamo perciò:
Occidentale I (‘Età Oscura’), 675-1075;
Occidentale II (‘Medio Evo’), 1075-1475;
Occidentale III (‘Moderno’), 1475-1875;
Occidentale IV (‘Postmoderno’), 1875- ?”
(Toynbee, op.cit., p.68).
  Quindi Toynbee fa iniziare il “postmoderno” nel 1875!
E, a mio avviso, con ragione: trattasi di una grande intuizione. Tra l’altro, il periodo realmente moderno, quello di un dominio mondiale occidentale ordinato intorno alla centralità dell’Europa, termina col 1875.
L’Occidentale IV è il periodo dell’emersione delle idee del XIX sec. (Democrazia liberale più tecnica applicata all’economia, cioè capitalismo, ché questo è il capitalismo) e del loro potenziale distruttivo. L’Occidente prosegue nel cammino iniziato nell’Occidentale III, ma così, se continua ad estendersi, comincia a soffrire di contraccolpi sia politici (guerre mondiali prima e seconda) che a livello culturale.
  Ma, se queste categorie son valide per l’Occidente (che si è progressivamente trascinato con sé, nelle ultime sue due fasi, l’intero globo), ciò significa che il vero post-moderno (= superamento del moderno) non è più occidentale. Il postmoderno, come lo s’intende oggi, momento di massima diffusione e insieme di crisi del moderno, andrebbe chiamato tardomoderno: allora ciò che vien dopo andrebbe giustamente chiamato post-moderno. Poiché quest’ultimo è invece inteso nel senso di massima diffusione e crisi, ma non superamento, allora il vero  post-moderno sarà chiamato post-Occidentale o anti-moderno.
  Quando inizierà questa nuova epoca sarà detta: post-Occidentale od anti-moderna. Propongo, per la sua periodizzazione futura, di chiamarla: Globale I, Globale II, ecc..
  Come la Cina, anche questa futura unità potrà rompersi, ma, se l’idea di unità globale, che richiede l’apporto di culture non occidentali e della cultura sinica in particolare, metterà radice, non si potrà mai tornare all’epoca delle aree separate. Ci sarà un moto di espansione/contrazione all’interno del globo, ma l’unità di fondo resterà.
Come in Cina.
Non facciamoci [però] trarre in inganno da certi fenomeni superficiali: in realtà, finché le idee del XIX sec. Non saranno realmente superate, ed in teoria e non solo de facto (dove già lo sono), non sarà possibile nessuna ibridazione, ibridazione che implica la nascita di un terzo figlio dai due, ma diverso da entrambi. Questa cultura “ibrida” sarebbe anche la salvezza di molte altre cose che non si vedono, cose sulle quali sarebbe lungo parlare (non è questa la sede adatta, pur avendoci alluso).
  Il pericolo delle cose “ibride” è fare “né carne, né pesce”, ma ciò solo e soltanto quando non si genera un terzo, e la relazione, per un motivo o per un altro, resta sterile. Bisogna precisare, allora, che la cultura ibrida è il frutto della relazione fra due culture, non è la relazione, il rapporto fra esse due.


Le cose trascurate per lungo tempo
non possono essere ripristinate in
un batter d’occhio.
I mali che si sono andati accumulando
per anni non possono essere
spazzati via in un attimo.
Non ci si può divertire sempre.
Le emozioni umane non sono perfette.
Non si evita la sventura
cercando di sfuggirla.
Chiunque insegni e abbia capito
queste cinque cose,
potrà vivere senza infelicità.
(detti di Huitang, maestro cinese
di Zen[Chan])’.








Dal fievole, remoto passato immemorabile,
Testi son trasmessi in mille, diecimila tomi,
Elucidando insegnamenti buddisti e non.
Astruse, oscure, indistinte
Son centinaia d’opinioni e teorie,
Ognuna proclamando d’esser la Via finale.

Copiando e recitando fino alla propria morte
Come si può penetrar nella Fonte Ultima?

Non so, comunque pondero.
Il Buddha, credo, non si dava pensiero di ciò.
Ebbe compassione delle menti malate
Insegnò loro a prender erbe medicinali come fe’ Shen Nung.
Fuor dalla compassione, mostrò, a chi s’è perso, la direzione,
Come fece il Duca di Chu nel costruir la rosa
[dei venti simbolica (la rosa),
(il) pa-kwa (bagua)].

Ma gli uomini pazzi non percepiscono la loro follia;
Il cieco non è consapevole della sua cecità.
Nascere, rinascere, nascere ancora
Donde son venuti, non sanno.
Morire, morire, ancora morire
Dove alla fine vanno, non sanno”.
(Kukai, poema introduttivo alla
Chiave Preziosa per il Segreto Tesoro)











giovedì 14 settembre 2017

Tre Cannelle




Nel film “I Soliti ignoti” (1958, con anche Totò[1]), si vede Via delle Tre Cannelle. Ora, “Via delle Tre Cannelle oggi”, Wikimedia Commons, cf.  
Qui a destra è precisamente il punto da cui salgono su: è quella grata che si vede. 

Il resto: foto recentissime di Via delle Tre Cannelle, con anche il “nasone”, che dà acqua: alcune fontanelle sono state chiuse – evidentemente per risparmiare acqua -, altre continuano invece a funzionare. 



Qui prprio a sinistra, ci sta il “nasone” di Via delle Tre Cannelle. 


 Qui a destra ci sta la grata, che si vede nella foto che sta su Wiki Commons, ed il cui link è stato qui su riportato.
Questo è il “nasone” precisamente. 


Naturalmente tutti i tentativi di “bissare” quel film non furono molto felici, e men che meno quelli di usare la locuzione “I soliti ignoti” per vari programmi: tutte cose, a mio avviso, ben poco convincenti. Un solo film ha usato – ma nella traduzione italiana – una locuzione simile, ma con ben altro e diverso intento, e tuttavia con successo: “I soliti sospetti” (1995), di B. Singer. Quest’ultimo film, a sua volta, in questo labyrinthus ci citazioni multiple, reciprocamente rispecchiantisi, ha usato la nota frase di C. Baudelaire: “Il più bel trucco del Diavolo sta nel convincerci che non esiste”, nella forma, leggermente modificata, di “La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste”.  


Poi qualche foto sul percorso con il quale, a piedi e dalla Stazione Termini, ovviamente, si arriva quindi nella detta Via delle Tre Cannelle: Incrocio tra Via Nazionale (dove prima sta la Banca d’Italia e il Teatro Eliseo e Il Piccolo Eliseo) e Via 24 Maggio; uno scorcio di Via 24 Maggio; la piazzetta con a sinistra – non si vede – Santa Caterina a Magnanapoli[2] e la piazzetta di Largo Magnanapoli, dove son emersi, alla fine dell’Ottocento, alcuni frammenti delle antiche Mura serviane[3], davanti inizia via Quattro Novembre, a sinistra – si vede – il Museo dei Fori, molto interessante; la stessa piazzetta (si vede ora un pezzo di Santa Caterina a Magnanapoli a sinistra); infine, tetti di Roma: a sinistra, di nuovo, un frammento, della chiesa di Santa Caterina a Magnanapoli, la Torre delle Milizie (che fa parte del detto Museo), e, in lontananza, il Vittoriano, chiaramente ottocentesco. 















[1] In realtà, l’idea del film, regia di M. Monicelli, fu tratta da un racconti di I. Calvino, Furto in una pasticceria, contenuto in Ultimo viene il corvo, Einaudi, Torino 1949, in effetti, però, pubblicato prima su “l’Unità” nel 1947, cf.
https://it.wikipedia.org/wiki/I_soliti_ignoti, nelle note.  
[2] Cf.
https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Santa_Caterina_a_Magnanapoli.
Ora l’immagine di questa chiesa, con la Torre delle Milizie dietro e il Vittoriano a destra, in lontananza, cf.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/3/3f/Monti_-_Chiesa_di_S._Caterina_a_Magnanapoli_e_Torre_delle_Milizie_b.jpg/800px-Monti_-_Chiesa_di_S._Caterina_a_Magnanapoli_e_Torre_delle_Milizie_b.jpg
[3] Cf.
https://www.romasegreta.it/monti/largo-magnanapoli.html.  











giovedì 24 agosto 2017

Da “Il Fuoco greco”, di L. Malerba, “ET ALIUM”











“Il ‘fuoco greco’ era l’arma segreta dell’Impero Bizantino. Molto prima dell’invenzione della polvere da sparo, il ‘fuoco greco’ permetteva alle navi bizantine di lanciare per mezzo di lunghi tubi a sifone delle micidiali palle infuocate contro le navi nemiche. Questi proiettili di fuoco non si spegnevano a contatto con l’acqua e perciò vennero usati quasi esclusivamente nelle battaglie di mare. Il ‘fuoco greco’, inventato nel 672 dopo Cristo da un ingegnere siriaco di nome Callimaco, permise alla flotta bizantina di conquistare e conservare il dominio del Mediterraneo per più di cinque secoli, dal 673 quando venne usato per la prima volta dall’Imperatore Costantino  Pogonato contro la flotta araba, fino al 1221 quando i Mussulmani riuscirono a impossessarsi del segreto di fabbricazione e lo usarono a loro volta contro le navi dei Cristiani. Per cinque secoli si scatenarono intorno a questo segreto le spie dei popoli nemici di Bisanzio, ma anche quelle degli alleati. La formula venne custodita gelosamente, protetta da disposizioni severissime, per cui anche i cronisti di quei secoli, ad eccezione di Anna Comnena nella Alessiade, fanno solo rari e brevi cenni a quest’arma micidiale. Forse mai nella storia un segreto militare venne conservato così a lungo come quello del ‘fuoco greco’ la cui composizione, nota allora solo all’Imperatore e alle poche persone addette alla fabbricazione, non è stata tramandata ai posteri”[1].


“Il nuovo Imperatore sposò Teodora, figlia di Costantino VII e zia dei giovani Basilio e Costantino Porfirogeniti, di cui divenne il tutore. Uno dei primi gesti di Zimisce Imperatore, in cambio della solenne incoronazione nella Cattedrale di Santa Sofia, fu la revoca delle leggi che limitavano le proprietà monastiche. Zimisce concluse alcune campagne di guerra vittoriose. Combatté e sconfisse l’esercito bulgaro di Svyatoslav in sanguinose battaglie di terra e lo annientò definitivamente sulle rive del fiume Danubio usando, come aveva visto fare da Niceforo Foca, i micidiali proiettili del fuoco greco.
Combatté vittoriosamente anche in Siria e Terrasanta vincendo i Saraceni e stabilendo in vaste regioni la sovranità dei Bizantini. Nonostante le frequenti aggressioni dei barbari riuscì a conservare, e in qualche regione a estendere, i confini dell’Impero senza ricorrere a nuove imposte, ma piuttosto cercando di favorire i commerci e l’alleanza con Veneziani e Genovesi. Ristabilì buoni rapporti con l’Occidente concedendo come sposa a Ottone II [Sassonia 955 ca. – Roma 953] una propria cugina, bionda di capelli e con gli occhi eri come i suoi. Fu insomma, dopo essere salito al Trono con la frode e la violenza, un forte e abile Imperatore”[2]. La qual cosa – questa “duplicità” – non era per nulla infrequente nella storia bizantina.


“Di Zimisce Imperatore ci sono state tramandate le vittoriose imprese militari, le leggi contro le dogane commerciali e gli atti diplomatici che sancivano la pacificazione con l’Occidente, ma solo poche parole sono rimaste di lui nella memoria dei posteri.
A chi gli proponeva di ripristinare i banchetti filosofici rispose che non basta pensare, bisogna anche respirare.
E aggiunse che sono pericolosi i pensatori che nella vita non hanno respirato abbastanza.
Il suo primo e forse unico discorso Zimisce volle tenerlo, qualche settimana dopo l’incoronazione, nella Sala del Triclinio di fronte a tutte le Alte Gerarchie dell’Impero. Il Preposto dei Sacri Palazzi avrebbe preferito che la cerimonia avvenisse secondo la tradizione nella Sala del Trono, ma aveva accolto senza scomporsi la scelta di Zimisce e con ogni cura aveva predisposto tutto l’apparato inaugurale nella Sala del Triclinio.
Gli invitati parteciparono all’evento con l’emozione che unisce i sopravvissuti a una bufera. Nella Sala erano convenute, insieme alle Autorità della Corte, anche le Dame del Gineceo che avevano approfittato di questa occasione per sfoggiare le loro sete, i loro gioielli, le loro fantastiche acconciature. I rappresentanti di tutti gli Ordini avevano occupato i seggi assegnati dal Preposto secondo un rigoroso ordine gerarchico e i Domestici, in funzione di Guardia d’Onore, si erano schierati dotto il palco dal quale Zimisce avrebbe tenuto il discorso che inaugurava ufficialmente il suo Governo.
Finalmente il suono fragoroso della simandra aveva annunciato l’arrivo dell’Imperatore e i Silenziari avevano agitato le loro verghe d’oro per imporre il silenzio nella Sala. Sennonché una mano ignota aveva strappato i sottili fili di seta che ne avevano corretto l’acustica al tempo di Costantino VII. Zimisce pronunciò il suo discorso senza dar segni di turbamento nonostante la confusione delle parole che rimbalzavano contro le colonne e le pareti di marmo e si diffondevano nella Sala trasformate in suoni disumani. Accompagnò anzi con qualche gesto vigoroso del braccio i momenti culminanti di quel vano eloquio corrotto dagli echi e dalle risonanze. Gli uomini della Corte e le Dame del Gineceo, dopo qualche momento di sconcerto, seguirono il discorso con viva attenzione e in reverente silenzio, ma senza capire nulla”[3].


Andrea A. Ianniello






[1] L. Malerba, Il Fuoco greco, Mondadori Editore, Milano 1990, p. 3, corsivo in originale. Si vede come questo libro appena citato è di molti anni fa: usa troppo spesso le maiuscole … Di seguito, scrive “senonché” invece di “sennonché”, con due “n”, come si fa oggi …
[2] Ivi, pp. 251-252.
[3] Ivi, pp. 252-253, corsivi miei. Il potere – un tempo – era anche silenzio, l’aura di “sacertà”che ammantava la “sovranità”. Sul potere, cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/05/shi-il-poterecircostanze-dallintro-di.html. Sulla sovranità “occidentale”, cf. E. H. Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi editore, Torino 2012; e J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi Edizioni, Milano 1997 (comprata usata pochi giorni fa, con tanto di sottolineature …). Tra l’altro, vi è un passo su Lenin: “Esiste un libro di Hugo Fischer, nato come monografia su Lenin, che nel Biedermeier [movimento romantico della prima metà del XIX secolo, poi, di seguito, inteso in senso deteriore, come un romanticismo delle svenevolezze, di sentimentalismi ed idilli, un’estetica piccolo borghese insomma; nota mia] del secondo dopoguerra ha preso il titolo di Wer sind die Herren der Welt [Chi sono i signori del mondo?]”, ivi, p. 154, corsivi in originale. Due libro diversissimi, convergenti, però, sul tema della sovranità, che sta al centro di un dialogo su questo blog, cf.
Il primo autore, Kantorowicz, interessa direttamente questo blog, in quanto fu autore di una celebrata, ma talvolta mal intesa, famosa biografia di Federico II, cf. E. H. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Garzanti Editore, Milano 1981.
Il discorso su Taubes ci porterebbe lontano, basti dire, però, che, se alcune sue osservazioni son giuste (per es., quando comprende bene che Paolo si opponeva a Mosè o come interpreta il Napoleone di Hegel), altre del tutto errate o cose ben note (come il fatto che Paolo si opponesse al culto imperiale, non però all’ “imperatore” ed aver pensato quest’errore porta Taubes a commettere altri). Quel che conta – spazio per approfondimenti eventuali ce lo lasciamo avanti, se del caso – è che la sua posizione si poneva “dialetticamente” di fronte a quella di C. Schmitt e, dunque, della teologia politica”. Di quest’ultima, Taubes accettava l’idea che l’uomo “La posizione di Schmitt […], legata anzitutto al concetto di teologia politica, corrisponde al tipo della ‘rappresentazione’. A suo giudizio non vi è alcuna categoria ‘immanente’ [la democrazia, la “volontà” popolare, il “partito”, ecc., ecc.; nota mia] in grado di legittimare un qualsiasi ordinamento politico. Su questo Schmitt e Taubes (nonché il Paolo presentatoci da Tubes) sembrano d’accordo. Ma mentre Taubes (e Paolo) giungono alla conclusione che non vi è alcun ordinamento politico rappresentativo legittimo (solo legale) – ecco il punto di vista della ‘teologia politica negativa’ [quella di Paolo, secondo Taubes; nota mia] –, Schmitt non abbandona il postulato di un ordinamento politico rappresentativo legittimato dalla sovranità di Dio che esso rende visibile. Solo la verità, rivelatasi come volontà di Dio, è in grado di fondare che pretende di essere rispettata [e il cristiano Imperium questo è, nota mia]. E’ dunque possibile identificare il concetto di teologia politica con il postulato di questa rappresentazione, come ha fatto Eric Peterson nel famoso saggio”, Postfazione di W.-D. Hartwich, A. e J. Assmann in J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit. p. 229, corsivi miei. Il discorso sarebbe davvero lungo, e, al momento, non vedo alcuna istituzione sulla Terra – oggi, realisticamente – che possa consentire una discussione, vera, su questi tempi, peraltro decisivi. E spieghiamo perché siano decisivi: quel che Taubes non può spiegare è Costantino, e cioè che cosa cambia – e può farlo perché già presente in nuce in Paolo – dalla “teologia politica negativa” a quella “positiva” esplicitata da Schmitt. Questo è rilevante, perché oggi, venendo da una lunga fase di “secolarizzazione” di quella teologia politica – della quale Federico II è stato un grande rappresentante, ed ecco spiegato perché ho citato il libro di Kantorowicz, non certo per caso –, noi siamo giunti allo smembramento della sovranità nell’attuale crisi esiziale della rappresentanza, anche nella sua versione “secolarizzata”. Non stupisce, dunque, che questi temi oggi non abbiano alcuna cittadinanza – mo’ ce vo’ ‘sta parola … – in alcuna istituzione sulla faccia della Terra, oggi: se mai segno dell’ “esizialità” della crisi attuale si volesse cercare, questo sarebbe il più grande. Questo perché attesta quella che chiamo crisi “al buio”, senza visione, cioè totale: acido sulla carne viva, senza mediazioni di sorta. Ma pure senza consapevolezza, però.
Per fare solo un’ultima osservazione finale, su temi che ci porterebbero molto lontano, troppo lontano, non è nemmeno un caso che Schmitt sia stato nazista, e cioè un tentativo – del tutto distorto, è vero –  di “rivendicare” la sovranità, in un mondo in cui essa stava lentamente svanendo (era molto tempo fa, oggi essa sovranità è quasi svanita, in eclissi come l’ultima eclissi di pochi giorni fa, significativamente negli usa). Ora però, in relazione al nazismo, Canetti, nell’ultimo libro di quest’anno – citato in un post precedente – non riesce a comprendere la differenza tra i massacri indiscriminati dell’inizio della campagna all’est e quelli “scientifici”dell’Olocausto: questi ultimi non si spiegano con la sua teoria del “cacciatore” e del “sopravvissuto” (in Massa e potere, teoria cui accenna nel suo ultimo libro di citazioni e commenti). Significativo, a tal proposito, che il nome Hitler, pur presente in almeno un passo, cf. E, Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi Edizioni, Milano 2017, p. 299, se vai a vedere nell’Indice dei nomi per le lettera “H”, non lo trovi, cf. ivi, p. 399. Esempio classico di “rimozione”, ma pure d’ incomprensione dell’Olocausto “atto sacrificale diabolico” e non mero “rilascio” della “libidine di uccidere” contro cui tanto si scaglia Canetti, e che, senza dubbio, esiste per davvero nell’uomo, ma che non può spiegare l’Olocausto. Ma in tale incomprensione Canetti non è affatto solo, anzi, è in grandissima compagnia, e non da ieri, già nell’epoca della Seconda Guerra Mondiale. Sia detto en passant, uno solo capì davvero chi fosse Hitler: Churchill, e poté farlo perché aveva accesso ad informazioni “classificate” o particolari, parte delle quali è stata resa pubblica in seguito. Forse Canetti avrebbe fatto meglio a studiarsi Taubes, autore non presente fra quelli da lui citati nel libro appena riportato, o anche Schmitt, che però avrebbe probabilmente odiato …
Tornando a noi, il “nodo” della sovranità e della sua eclissi rimane intoccato nel mondo contemporaneo, e questo è grave, perché non ci consente di entrare in medias res, e ci fa continuamente girare in tondo, in pazzi giri inconcludenti. Ma tant’è, questa è la scena contemporanea.