Voglio qui riportare dei vecchi passi di ben vent’anni fa.
Per togliermi qualche “sassolino dalle scarpe”? Ovvio che sì. Per quale altro scopo, infatti? I giochi son fatti, ormai … o, forse, or sempre …
Ricordiamoci che nel 1998 – ormai diciannove anni fa – entrava in
vigore l’area Euro, che non è la
causa dei mali in atto: semplicemente, li ha fatti esplodere, che è diverso.
Chiaramente preciso di non esser contrario all’Europa unita, solo di esserlo se
vi è la sola guida tedesca, ecco tutto. Dunque, pur avendo sempre avversato
l’Euro (= il marco mascherato), non
mi ascrivo al battaglione dei protestanti anti Euro. Vanno conservate
indipendenza di pensiero e di posizioni. Vi aggiungo un passo – peraltro
riportato in nota (n°33) ad un post precedente
(http://associazione-federicoii.blogspot.it/2013/12/di-cose-gia-passate-che-hanno-avuto.html)
– del 1998.
Nella forma qui di seguito presentata, presenta una piccola variante,
in quanto è dell’anno prima del 1997, cioè del 1996, e poi fece parte dello studio dell’anno
successivo (sempre al 1997), il 1998 intendo. La variante è una frase, riportata in calce in un
altro post in questo blog, alla quale avevo (nella forma del 1998) aggiunto un’altra frase, ma di
altro scritto, sempre di vent’anni fa, che doveva trattare certe particolarità
architettoniche nipponiche, durante i riti per l’incoronazione del sovrano (non
“imperatore”) nipponico, avvenuti nel 1990.
Il discorso sarebbe troppo lungo,
ma, comunque, ci si limita qui a ricordare che, in questo blog, si seguono anche le questioni architettoniche, a misura ch’esse abbiano un aspetto
symbolico.
Veniamo ai passi da riportare, con l’unico scopo di “a futura memoria”,
cioè uno scopo storico.
1997. ‘Quel che Toynbee stesso notò come segue: “La vittoria della Chiesa
cristiana nell’Impero romano non sarebbe avvenute se i Padri della Chiesa, da
San Paolo in poi, non si fossero esercitati, durante i primi quattro o cinque
secoli, a tradurre la dottrina cristiana nei termini della filosofia ellenica
[…]. Le istruzioni del Vaticano ai missionari gesuiti in Cina paralizzarono
un’impresa di questo genere” (A. Toynbee,
Le civiltà nella storia, Einaudi editore,
Torino 1950, p. 550).
E’ nel non aver compreso questo
punto che, a mio avviso, quei seguaci non hanno individuato il bandolo della
matassa. Difatti, c’è un’altra difficoltà: il pensiero moderno dell’Occidente
non sente la necessità, che però i tempi a gran voce invocano, di modificarsi
per unirsi a tipi di pensiero differenti senza rinchiuderli nelle proprie
categorie (libertà/totalitarismo, democrazia, ecc.).
Non può esser dunque l’interlocutore.
E invece vediamo troppo spesso i rappresentanti di tradizioni
extraeuropeo tentar d’ingraziarsi o di usare il pensiero dell’attuale minoranza
dominante, con il risultato che tende a venir fuori un sincretismo non simbiotico, ma caotico e confuso.
Al contrario, quegli stessi rappresentanti rifiutano di confrontarsi
con gli elementi che nella tradizione dell’Occidente sono gl’interlocutori naturali. Nella storia le tradizioni
straniere autentiche hanno sempre
galvanizzato quel che Toynbee chiama “proletariato interno” (Toynbee usa il
termine in senso assai diverso dal
significato sociologico del termine): ecco, ciò manca totalmente oggi.
L’incapacità dei rappresentanti, occidentali come orientali, delle tradizioni
autentiche dell’Oriente, di operare tale giunzione,
è davvero enorme, incredibile, assordante
nel suo silente rumore (ma bisogna esser “giusti d’orecchio” per sentirlo).
Una delle concause di tale incapacità è ch’essa richiede un’opera
veramente creativa. Ora, la
creatività è un dato d’inizio, non
un punto d’arrivo: o c’è o non c’è.
E qui casca l’asino.’
1997 [2].
Questo discorso sulla natura della rivoluzione può essere approfondito con
l’aiuto di Arnold J. Toynbee, storico inglese delle civiltà. Dice Toynbee: “Una
fonte di disarmonia tra gli istituti di cui si compone una società è
l’intrusione di nuove forze sociali - attitudini, emozioni, idee - che il
complesso degli istituti esistenti non era in origine destinato a contenere.
L’effetto distruttivo di questa incongrua giustapposizione di nuovo e di
vecchio è sottolineato in una delle più famose sentenze [...] [di] Gesù:
‘Nessuno mette un pezzo di panno nuovo in un vestimento vecchio, perché la
toppa porta via del vestimento, e la rottura si fa peggiore. Parimenti, non si
mette vino nuovo in otri vecchi - altrimenti gli otri si rompono e il vino si
spande e gli otri si perdono; ma si mette il vino nuovo in otri nuovi, e
ambedue si conservano’ (Mt., IX,
16-17).
Nell’economia domestica da cui l’immagine è
presa, si capisce che il precetto può osservarsi alla lettera; ma nell’economia
sociale il potere che hanno gli uomini di ordinare a volontà le loro faccende
su di un piano razionale è assai limitato, giacché una società non è, come un
otre o una veste, la proprietà di un singolo, ma il terreno comune d’azione di
molti; e per questo motivo il precetto, che è di senso comune nell’economia
domestica e di pratica saggezza nella vita dello spirito, è in cose sociali un
consiglio di perfezione” (A. Toynbee:
Le Civiltà nella Storia, Einaudi
editore, Torino 1950, pp. 364-365).
Così, mentre l’intrusione di nuove forze
dinamiche dovrebbe rimodellare l’intero edificio, la vis inertiaæ interviene, e capita che o il funzionamento della
vecchia macchina soffoca le nuove forze o queste ultime invadendo la macchina
vecchia ne rompono in piccola o gran parte taluni ingranaggi.
“Per tradurre queste parabole in termini di
vita sociale, le esplosioni delle vecchie macchine che non reggono alle nuove
pressioni - o lo scoppio dei vecchi otri che non reggono al fermentare del vino
nuovo - sono le rivoluzioni che a volte toccano agli istituti anacronistici.
D’altra parte, le gesta funeste delle vecchie macchine che hanno retto allo
sforzo di servire ad un’azione per cui non furono mai fatte, sono le atrocità
sociali che genera talvolta un anacronismo istituzionale ‘duro a morire’.
Le rivoluzioni possono definirsi come ritardati, e proporzionalmente violenti,
atti di mimesi. L’elemento mimetico è
ad esse essenziale; ciascuna
rivoluzione ha riferimento a qualcosa che è già accaduta altrove, ed è sempre
manifesto, quando una rivoluzione si studi nel suo ambiente storico, che lo
scoppio non sarebbe mai avvenuto da solo
se un gioco precedente di forze esterne non l’avesse così suscitato” (ivi, p. 366, corsivi miei).
L’Italia è in questa situazione: la forza
esterna che la spinge verso lo scoppio è la pressione dell’Europa. Perché, è
vero che l’Italia è stata la prima
nazione europea nel muoversi verso il modello decentrato che l’informatica ha
imposto al globo, mentre la sua classe politica si è impantanata in un vecchio
modello (causa recondita). E’ vero
che il vuoto di classe dirigente ha spinto ladri lestofanti ad occupare quel
vuoto (causa palese). E’ ancora vero
che la fine dell’egemonia sovietica e dell’URSS ha poi fatto crollare i
lestofanti (causa dinamica). Ma tutto
ciò senza il ‘92 e la crisi economica
e la pressione costrittiva dell’Europa e dei criteri del Trattato di Maastricht
(causa scatenante), non sarebbe sufficiente. La causa
scatenante è proprio la chiave di
quel gioco di forze esterne di cui parla Toynbee senza la quale non c’è
rivoluzione.
“E’ evidente che, ogni volta che l’esistente
struttura istituzionale di una società venga sfidata da una nuova forza
sociale, tre risultati alterni sono
possibili: o un armonioso assestamento della struttura alla forza, o una
rivoluzione (che è un assestamento ritardato e discordante), o un’atrocità. E’
pur evidente che tutte e ciascuna di queste tre alternative possono verificarsi
nelle diverse sezioni di una stessa società […]. Se gli assestamenti armoniosi
predominano, la società continuerà a svilupparsi; se le rivoluzioni, il suo
sviluppo si farà sempre più arrischiato; se le atrocità, possiamo diagnosticare
un crollo” (ivi, p. 367, corsivo mio).
Quindi: tre
possibilità, che non si escludono
necessariamente, ma delle quali una
dovrà predominare.
Noi
si cerca[va, e senz’alcun barlume,
seppur mini minimo, di successo]
di lavorare per la prima eventualità,
ma non si esclude la seconda, perché uno scoppio, cioè un cambiamento brusco e non armonioso di rotta, pure dà
una possibilità di sviluppo alla società. Solo l’atrocità sociale [che poi è ciò che si sarebbe realizzato!!,
nota mia], per dirla con Toynbee, genera il crollo, e tale atrocità nel
complesso si è già in parte compiuta quando all’implosione della vecchia e
corrotta classe politica si è risposto proponendone una che è la figlia diretta
della prima; e si stacca da ciò solo il delirio à la Cola Di Rienzo della Lega di Bossi: niente di buono. [Solo
“in parte”, all’epoca, oggi, al
contrario: Mission Accomplished; ed oggi stiamo entrando ancora in un’altra fase, la fase che segue al crollo; nota mia]
Detto altrimenti: si cercherà di fare il
massimo perché la prima eventualità si attui, ma non escludiamo la seconda, mentre continuare così, cioè con la
terza eventualità, implica il crollo [che,
poi, è ciò che si sarebbe realizzato, nota mia].
Nota finale: i passi citati di Toynbee fan
parte del capitolo dedicato al fallimento
dell’autodeterminazione e cos’è il fallimento dell’Italia se non il non essere riuscita ad auto-determinarsi? Questa mancanza però,
ha profonde radici storiche nel passato dell’Italia, dal XVI secolo in poi. E’
dunque una cosa vecchia e profonda che in fine è venuta fuori: è tutta una via
che non è più percorribile. Un fallimento nell’autodeterminazione che ha radici
così antiche è ora che si inizi a risolverlo. E che una nuova e diversa via sia
presa [nulla di più lontano dal
vero, l’Italia stoltamente, “italianamente”, ha perseverato sulla via che
doveva strozzarla, finché giunse la sera, come il
secondo dei due gatti di Castaneda, quello che leccava la mano che
doveva strozzarlo; nota mia].
Andrea A. Ianniello
Febbraio-Marzo 1997 A.D.
Appendice
1998. ‘Interessante quanto afferma A. Toynbee nel suo Le Civiltà nella storia, uscito in Italia nel 1950 ed in Inghilterra
(nella sua forma completa) dal 1933 al ‘39! Dopo aver criticato (giustamente)
la dicotomia antico/moderno nata con la civiltà ellenistica e la periodizzazione
antico-medievale-moderno nata da categorie ellenistiche, giustamente critica
l’equazione ellenistico = occidentale. Distingue giustamente fra Ellenico ed
Occidentale come due civiltà. Operata questa distinzione, propone
questa corretta periodizzazione per
la civiltà occidentale: “Abbiamo perciò:
Occidentale I (‘Età Oscura’), 675-1075;
Occidentale II (‘Medio Evo’), 1075-1475;
Occidentale III (‘Moderno’), 1475-1875;
Occidentale IV (‘Postmoderno’), 1875- ?”
(Toynbee, op.cit., p.68).
Quindi Toynbee fa iniziare il
“postmoderno” nel 1875!
E, a mio avviso, con ragione: trattasi di una grande intuizione. Tra
l’altro, il periodo realmente moderno,
quello di un dominio mondiale occidentale ordinato
intorno alla centralità dell’Europa, termina col 1875.
L’Occidentale IV è il periodo dell’emersione delle idee del XIX sec.
(Democrazia liberale più tecnica applicata all’economia, cioè capitalismo, ché questo è il capitalismo) e del loro
potenziale distruttivo. L’Occidente prosegue nel cammino iniziato
nell’Occidentale III, ma così, se continua ad estendersi, comincia a soffrire
di contraccolpi sia politici (guerre mondiali prima e seconda) che a livello
culturale.
Ma, se queste categorie son
valide per l’Occidente (che si è progressivamente trascinato con sé, nelle
ultime sue due fasi, l’intero globo), ciò significa che il vero post-moderno (=
superamento del moderno) non è più occidentale. Il postmoderno,
come lo s’intende oggi, momento di massima diffusione e insieme di crisi del
moderno, andrebbe chiamato tardomoderno:
allora ciò che vien dopo andrebbe giustamente chiamato post-moderno. Poiché quest’ultimo è invece inteso nel senso di
massima diffusione e crisi, ma non superamento,
allora il vero post-moderno sarà chiamato post-Occidentale o
anti-moderno.
Quando inizierà questa nuova
epoca sarà detta: post-Occidentale od anti-moderna. Propongo, per la sua periodizzazione
futura, di chiamarla: Globale I, Globale II, ecc..
Come la Cina, anche questa
futura unità potrà rompersi, ma, se l’idea
di unità globale, che richiede
l’apporto di culture non occidentali e della cultura sinica in particolare,
metterà radice, non si potrà mai tornare all’epoca delle aree separate. Ci sarà
un moto di espansione/contrazione all’interno del globo, ma l’unità di fondo
resterà.
Come in Cina.
Non facciamoci [però] trarre in inganno da certi fenomeni superficiali:
in realtà, finché le idee del XIX sec. Non saranno realmente superate, ed in teoria e non solo de facto
(dove già lo sono), non sarà possibile nessuna ibridazione, ibridazione che implica la nascita di un terzo figlio dai due, ma diverso da
entrambi. Questa cultura “ibrida” sarebbe anche la salvezza di molte altre cose che non si vedono, cose
sulle quali sarebbe lungo parlare (non è questa la sede adatta, pur avendoci
alluso).
Il pericolo delle cose “ibride”
è fare “né carne, né pesce”, ma ciò solo e soltanto quando non si genera un
terzo, e la relazione, per un motivo o per un altro, resta sterile. Bisogna
precisare, allora, che la cultura ibrida è il frutto della relazione fra due
culture, non è la relazione, il
rapporto fra esse due.
“Le cose trascurate per lungo tempo
non
possono essere ripristinate in
un
batter d’occhio.
I
mali che si sono andati accumulando
per
anni non possono essere
spazzati
via in un attimo.
Non
ci si può divertire sempre.
Le
emozioni umane non sono perfette.
Non
si evita la sventura
cercando
di sfuggirla.
Chiunque
insegni e abbia capito
queste
cinque cose,
potrà
vivere senza infelicità”.
(detti
di Huitang, maestro cinese
di Zen[Chan])’.
“Dal
fievole, remoto passato immemorabile,
Testi son trasmessi in mille, diecimila
tomi,
Elucidando insegnamenti buddisti e non.
Astruse, oscure, indistinte
Son centinaia d’opinioni e teorie,
Ognuna proclamando d’esser la Via finale.
Copiando e recitando fino alla propria
morte
Come si può penetrar nella Fonte Ultima?
Non so, comunque pondero.
Il Buddha, credo, non si dava pensiero di
ciò.
Ebbe compassione delle menti malate
Insegnò loro a prender erbe medicinali
come fe’ Shen Nung.
Fuor dalla compassione, mostrò, a chi s’è
perso, la direzione,
Come fece il Duca di Chu nel costruir la
rosa
[dei
venti simbolica (la rosa),
(il) pa-kwa (bagua)].
Ma gli uomini pazzi non percepiscono la
loro follia;
Il cieco non è consapevole della sua
cecità.
Nascere, rinascere, nascere ancora
Donde son venuti, non sanno.
Morire, morire, ancora morire
Dove alla fine vanno, non sanno”.
(Kukai,
poema introduttivo alla
Chiave Preziosa per il Segreto Tesoro)