Cacciari
a San Leucio, per presentare “Occidente senza utopie”
Si è svolta il 30 settembre (2016) la presentazione del libro M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016, con la presenza anche di V. Vitiello (che è stato ordinario di filosofia teoretica all’Università di Salerno[1]). La presentazione si è svolta a San Leucio, questo “castello d’aspettative mai realizzate”[2], proprio perché il luogo, essendo collegato ad un “esperimento utopico” settecentesco, si presterebbe “mirabilmente”, com’è stato osservato, a trattare dell’utopia, che poi è il tema della serata. Sennonché, pensarla così significherebbe aver capito ben poco di quel che Cacciari, in dialogo con Vitiello, ha sostenuto nel presentare il libro.
Utopia.
La tesi di fondo di Cacciari
è, infatti, semplice: l’utopia nasce con Tommaso Moro, ed essa non ha niente a
che spartire con il sogno – quindi nemmeno con la letteratura “simil-utopistica”
ellenistica -, ma nasce dalla critica del presente,
critica che presenta un progetto per
il futuro: il progetto della
scienza-tecnica, del sapere-potere che deve
governare la società, ponendo termine così al dominio aristocratico proprio del
Medioevo (vedremo poi quanto valore dare a quest’ultima tesi). In tal senso,
quest’utopia si prolunga fino al Settecento ed agli inizi dell’Ottocento, fino
a Saint Simon, che Marx tanto detestava
(lo detestava proprio).
Di conseguenza,
l’utopia settecentesca di San Leucio rientra pienamente nell’utopismo nato in
Inghilterra con Tommaso Moro, utopismo che ha ricevuto il massimo sigillo nella
Nuova Atlantide (“New Atlantis”) di Francesco Bacone[3],
non a caso – continua Cacciari – inglese come Moro. Ora, quest’utopismo termina con l’inizio dell’Ottocento e
con la critica marxiana, dalla quale nasce il socialismo “scientifico” e fa
seguito al compimento dell’utopia, e
cioè alla realizzazione
dell’imposizione della scienza-tecnica – mai davvero scindibili, argomenta
Cacciari – come criterio centrale nella e della
società. Secondo Marx, infatti, gli utopisti non si son accorti delle contraddizioni che questa vittoria,
propiziata dall’illuminismo e che Marx assolutamente
condivideva, ha provocato nel suo massiccio “applicarsi” alla società. Infatti,
l’Occidente è stata l’unica civiltà dove la scienza-tecnica abbia raggiunto il
dominio assoluto e sia divenuta il
criterio normativo “modale” centrale di discrimine fra vero e falso; altre
civiltà hanno avuto un notevole sviluppo tecnologico, ma solo questa l’ha posto
al centro, e poi l’ha massicciamente applicato al sistema economico: ed è il
capitalismo divenuto dominante ovunque. E, d’allora in poi, nulla è cambiato in quest’aspetto, anzi,
il sistema si è rafforzato ed
espanso come non mai, generando altre contraddizioni. Qui si può criticare Cacciari
a misura che abbia sostenuto che Marx non pensasse che il capitalismo sarebbe
caduto per le sue contraddizioni interne: no, la pensava esattamente così; vero
è che, tuttavia, sosteneva la necessità d’una “soggettività collettiva” (la
“classe operaia”) che guidasse l’
“inevitabile” – per lui - processo di caduta del sistema capitalistico (ma su
ciò, mi son espresso più d’una volta in questo blog, considerando quel che di
buono, comunque, è rimasto di Marx e quanto, molto, sia ormai più che “datato”[4]).
Prima di addentrarci ulteriormente
nel groviglio di queste questioni, un’osservazione va fatta. Qui siamo, come
dire, nel discorso, ricorrente, della “crisi dell’Occidente” (fase di “crisi”
già da tempo superata, nel senso che
“l’Occidente” sta “più giù” della fase, ormai passata, della “crisi”[5]);
la particolarità sta nel porre al centro l’utopia, realizzata, dell’Occidente, e la sua fase attuale di svuotamento,
ovvero la crisi dell’utopia realizzata, crisi che si verifica proprio perché si è realizzata.
Questa è l’interpretazione
– convincente - che Cacciari dà del “Tramonto
dell’Occidente” di splengleriana memoria.
L’Occidente tramonta
perché ha realizzato la diffusione
su tutto il globo del sapere-potere e della scienza-tecnica applicata
all’economia (= il capitalismo). Ma l’Occidente è anche “altro”, continua
Cacciari, esso è contraddizione ed è profezia ed utopia: quella stessa
contraddizione che ha consentito alla scienza-tecnica, al sapere-potere di
potersi esprimere “in rottura” – apparente,
secondo Wallerstein - col sistema precedente, quella stessa contraddizione è
stata schiacciata dal prevalere quasi assoluto del sistema che fa del
sapere-potere della scienza-tecnica il suo punto centrale, direi il suo unico e
solo punto.
La tesi di Cacciari è
nota (e l’ho anche criticata in un altro post): è questa contraddizione l’Occidente,
è quest’oscillazione l’Occidente. E dunque, l’ “Occidente
senza utopia” è quello in cui, avendo predominato, in modo quasi assoluto e
pervasivo, questo modello del sapere-potere della scienza-tecnica più
capitalismo[6],
le basi complete dell’Occidente stesso si sono spente: il suo essere senza
utopia è come il suo essere senza profezia, dove la profezia è l’opporsi frontalmente al potere della situazione presente, qualunque esso sia
tal potere: qualunque.
In tal senso, il legame
con la storia della Chiesa è palese, ed ecco la ragione del primo contributo
nel libro Occidente senza utopie, a
firma di P. Prodi, dove si tratta di storia della Chiesa, non casualmente certo. La Chiesa, cattolica in particolare - ma
vale per tutte le religioni che si
fanno “Chiesa” e cioè istituzione -, vive di quest’oscillazione, di questo
pendolo, fra l’ istituzione, e la
fede, la convinzione, sin dal tempo
di Costantino (al quale ho dedicato un piccolo volumetto[7]).
I problemi, nel mondo
islamico, di nuovo non casualmente,
cominciano da quando l’istituzione del Califfato fu abolita da Atatürk nel
1924, nel 1923 si avevano gli Accordi Sykes-Picot – quelli che son saltati, di
nuovo non casualmente, nei nostri presenti giorni.
Oriente
ed Occidente.
Alla domanda sull’Oriente
e sulla Cina e l’India in particolare, fattagli dopo la Conferenza, Cacciari
rispondeva che in questi paesi la razionalità “gestionale” tecno-scientifica ed
il modello occidentale sono stati assunti in maniera quasi perfetta – in tal
senso, il “Tramonto dell’Occidente” è il compimento
dell’Occidente stesso -, ma non
tutto l’aspetto d’utopia e profezia e contraddizione dell’Occidente.
Tutto quest’aspetto è completamente non compreso in quei paesi,
ed è vera quest’osservazione.
Ma qui, tuttavia, si
può anche osservare che non è un
caso quest’effetto, e cioè che la Cina e l’India - ma più consapevolmente la
Cina - abbiano per così dire rispecchiato e rimandato indietro verso
l’Occidente la forza delle scienza-tecnica e del capitalismo tecno-globalizzato,
che l’Occidente stesso ha proiettato sull’intero globo. Si tratta di ciò che
altrove ho chiamato il “judo storico”, che, di fatto, ha distrutto l’Occidente,
in quanto ha fatto ritornare indietro questa forza, nel qual mentre
nell’Occidente stesso tale forza diveniva del tutto dominante e, quindi, poneva
termine a quel perenne stato di contraddizione che aveva dato all’Occidente il
suo stesso dinamismo. Sì, è un paradosso, è una contraddizione, ma la vita è
contraddittoria, non è affatto “razionalistica” nel senso dell’ Encyclopédie di Diderot e D’Alembert.
Quanto di questo “judo
storico” sia stato consapevole, è dubbio ed anche difficile da misurarsi.
Probabilmente, certi gruppi dominanti in quei paesi vi si son votati perché era,
in concreto, l’unica possibilità (di cui la “firma rimasta” è duplice: il
passaggio di una parte dei figli dei mandarini al “comunismo” cinese e
l’appoggio di certe società segrete cinesi a Mao Zedong; ancor prima, la
gestione del “Nuovo corso” (isshin)
Meiji dà degli spunti in tal senso, anche se meno consapevoli che in Cina, minore consapevolezza si vede anche
in India, ma i risultati son simili: la vittoria di un modello, mutatis mutandis, per adattarlo ad
esigenze storiche specifiche particolari).
Come un’altra critica
che può esser mossa a Cacciari può basarsi su quel passo di Wallerstein, da me
più volte citato, in cui si vede come una
parte delle classi dirigenti aristocratiche europee abbia supportato il
capitalismo, ovvero la massiccia applicazione della scienza-tecnica
all’economia.
Nel loro desiderio di
“razionalizzazione”, gli “utopisti” supponevano società “egualitarie” – in
varie forme – alla base di tale sforzo, quando invece il controllo di tale
tendenza “scientifica” da parte di settori delle vecchie classi dirigenti è ciò
che ha dischiuso all’Europa il dominio
del mondo. E questo è avvenuto in Inghilterra, e cioè nella nazione patria par excellence degli utopisti: non credo
sia casuale nemmeno questo fenomeno. Vi è stato, dunque, un solo modo storicamente comprovato - il resto è proiezione di “desiderata” – di “scatenare”
la potenza tecnologica (“tecnologia” = tecno-scienza come distinta dalla
scienza “pura” che non s’interessa di applicare le scoperte; ora, tutti sanno
che nella scienza moderna le scoperte si
devono applicare, in ciò ben diversamente dalla scienza greca o islamica,
che pure han generato quella moderna,
non dimentichiamocene!!).
Depistante è stata la
Rivoluzione francese, laddove la classe aristocratica, a causa degli enormi
privilegi (e costi) conferitigli dalla corona francese, e che non avevano
riscontro parallelamente in Inghilterra, privilegi pensati per legare, in una relazione di dipendenza, l’aristocrazia alla corona, dove la classe
aristocratica, si diceva, ha difeso l’ “ancien règime” a spada tratta piuttosto
che tentare di “cavalcare la tigre”, mentre in Inghilterra l’aristocrazia si è
mescolata ed ha controllato in parte
l’ascesa borghese, dando, tra l’altro, nascita alla cosiddetta “gentry”. In definitiva,
dunque, non solo a vincere è stata – symboliciter
– l’Inghilterra e non la Francia
della Révolution, ma, senza la
Rivoluzione industriale che applica la scienza-tecnica all’economia e,
conseguentemente (massicciamente), alla società tutta, la “resistibile ascesa”
della democrazia (ormai “maschera dell’oligarchia”, come recita un recente
libro di Zagrebelsky e Canfora) sarebbe stata impossibile. E, in definitiva, tra
i due principi, cede quello democratico, per ragioni strutturali.
Parallelamente a
quest’errore, un altro grosso limite dell’analisi di Cacciari è la comprensione
della “nascita della scienza moderna”, discorso lungo, cui si è solo accennato
qua e là[8].
Le due cose son legate, in quanto, appunto, il nodo centrale era: chi controlla
la scienza-tecnica? Il “bene comune”?
Naturalmente no, nient’affatto,
e difatti così non è certo andata; qui torna Machiavelli: il “potere” è una
cosa specifica, nell’epoca specificamente moderna legato al progetto
scientifico di “copertura” dell’intera Terra con l’ “installazione” (estranea) della tecnica, ma il potere
già esisteva prima. E la
strutturazione precedente – pur attraverso
poderose crisi – avrebbe reagito, controllando il movimento del “progetto”
scientifico stesso. E dimostrando – al di là di ogni ragionevole dubbio – che tale
sviluppo solo un comando “diffuso” da parte delle “aristocrazie del denaro” può
scatenarlo davvero, e non lo “stato”, il comando unico.
Chi controlla, e indirizza, per i propri interessi, l’applicazione “razionalizzatrice” della “economo-tecno-scienza”,
che è un tutto di tre parti che s’implicano? Che cosa mai sarebbe il sistema
presente senza i mezzi tecnici che consentano d’inviare informazioni a
distanza? Nulla di nulla, ma questo è vero sin dall’inizio: senza mezzi scientifico-tecnici
il capitalismo non avrebbe mai esercitato il suo dominio globale, per l’appunto.
Bloch
e Lukacs.
Nella nota a pie’
pagina n°5 ho brevemente ricordato qualche titolo sulla “decadenza e crisi”
dell’Occidente. Ma c’è stata un’epoca in cui questo tema divenne centrale:
dalla fine della Prima Guerra Mondiale (che di nuovo fu “pivotale”[9],
come in inglese dicesi) e, in misura del tutto particolare, l’epoca fra gli
Anni Venti e Trenta del secolo scorso, con una “coda” fino agli Anni Quaranta,
con i Cinquanta si cominciava a
costruire quel che qualcuno ha chiamato neo-capitalismo – terminato a partire
dalla fine degli Anni Settanta e con gli Ottanta, con la nascita del “turbo
capitalismo” o capitalismo “hyper” finanziario, “l’ipertesto del capitalismo”,
come lo chiamo in parte
scherzosamente, ma la cosa è serissima,
serissima davvero.
Per comprendere questo
secondo “anello” della discussione, va precisato quel che Cacciari ben spiega: dopo la “critica” marxista l’utopia non
può più essere tecnico-scientifica e “razionalizzante”, non può più partire dal
presente (come Moro o F. Bacon) per
progettare il futuro, ma deve far esattamente l’inverso: partire dal futuro – un futuro indeterminato – e
proiettarsi sul presente. Diventa
“escatologica” e recupera la carica “apocalittica”.
Nell’ambito della
scuola marxista, la polemica si sviluppò fra Ernst Bloch e G. Lukacs – e fa
piacere Cacciari ricordi queste polemiche – anche se Bloch è molto meno noto di
Lukacs[10].[i]
Nell’ambito della critica marxista all’utopia (per un socialismo “scientifico”), la polemica fra i due segnala, per Cacciari – ma è molto condivisibile, a mio avviso -, la “spaccatura” fra carica “utopica” e gestione dell’esistente in modo “scientifico”. La sostanza della polemica era questa: che Bloch accusava – giustamente, a mio avviso, sin da quando lo lessi, illo tempore – Lukacs che la sua sottolineatura, come la gran parte del marxismo, peraltro, delle contraddizioni interne al capitalismo non poteva generare la “rivoluzione” (il mythos della “rivoluzione”[11]), in quanto il capitalismo vive di contraddizioni, sono esse che lo spingono ad espandersi o a collassare, ma sempre a dinamicamente cambiare (il capitale – “das Kapital”, neutro – è dynàmei, “in potenza”, diceva Marx, non è mai una “cosa fissa”, ma è sempre “potenzialità” di espansione e profitto), e in questo Bloch vide giusto (mi fa piacere essere stato d’accordo con lui sin dal principio su questo punto, non su altri). Pertanto, lui, Lukacs, non avrebbe potuto essere se non subalterno al “sistema” oppure al servizio di qualche potere politico che, in nome della “critica” marxista, in realtà perseguisse dei classici obiettivi “di potenza”, si sarebbe detto in altri tempi. E così è stato, in quanto Lukacs è stato “intellettuale organico” a favore dello stalinismo.
Nell’ambito della critica marxista all’utopia (per un socialismo “scientifico”), la polemica fra i due segnala, per Cacciari – ma è molto condivisibile, a mio avviso -, la “spaccatura” fra carica “utopica” e gestione dell’esistente in modo “scientifico”. La sostanza della polemica era questa: che Bloch accusava – giustamente, a mio avviso, sin da quando lo lessi, illo tempore – Lukacs che la sua sottolineatura, come la gran parte del marxismo, peraltro, delle contraddizioni interne al capitalismo non poteva generare la “rivoluzione” (il mythos della “rivoluzione”[11]), in quanto il capitalismo vive di contraddizioni, sono esse che lo spingono ad espandersi o a collassare, ma sempre a dinamicamente cambiare (il capitale – “das Kapital”, neutro – è dynàmei, “in potenza”, diceva Marx, non è mai una “cosa fissa”, ma è sempre “potenzialità” di espansione e profitto), e in questo Bloch vide giusto (mi fa piacere essere stato d’accordo con lui sin dal principio su questo punto, non su altri). Pertanto, lui, Lukacs, non avrebbe potuto essere se non subalterno al “sistema” oppure al servizio di qualche potere politico che, in nome della “critica” marxista, in realtà perseguisse dei classici obiettivi “di potenza”, si sarebbe detto in altri tempi. E così è stato, in quanto Lukacs è stato “intellettuale organico” a favore dello stalinismo.
In linea generale, solo
in Europa il marxismo ha avuto un suo ruolo “critico” ed “utopico”; altrove
esso ha puntellato i vecchi sistemi statali accentrati, consentendo ad essi di
modernizzarsi senza doversi frammentare, che poi è stato il gran merito storico del marxismo, malgré lui même.
A sua volta, Lukacs, con
forza, criticava Bloch, accusandolo di andare a finire nell’utopismo anarcoide,
privo del legame “fattuale” con l’aspetto “scientifico”. E’ la classica
“critica” verso ogni “apocalittica”. A distanza di tanti anni, va detto – e lo
dice chi scrive, non Cacciari, al quale invece sta a cuore la separazione fra utopia e gestione
dell’esistente – che comunque la carica utopica, del tutto assente dall’Occidente
moderno, rimane inalterata e valida comunque, mentre l’aspetto “scientifico”
del marxismo è caduto in grandissima parte, pur essendo recuperabili taluni
aspetti del Marx come studioso d’economia (e qualche post è stato scritto, a
tal proposito, su questo blog).
Per Cacciari, tuttavia,
anche Bloch non va bene lo stesso: questo a causa del fatto che Bloch mescola l’aspetto pienamente storico con
quello escatologico-utopistico. Come si è altrove visto, per Cacciari il
negativo è fondamentale, ma deve
rimanere ben distinto dal positivo[12]. Secondo
lui, va sempre salvata la contraddizione, ma è proprio questo che non si può far più, è proprio questo che il
predominio assoluto della “razionalità scientifico-tecnica” e del
“turbo-capitalismo” ha reso impossibile. In tal senso, la critica di questo
stato di fatto – stato di fatto da molti decenni, ormai – è molto debole, come tutte le critiche sull’
“omologazione”. In realtà, siamo diretti verso “altro”, l’epoca
dell’omologazione avvenuta e compiuta spinge verso un’altra
situazione.
Max
Weber.
Sia Lukacs che Bloch
erano stati allievi di Max Weber, il quale criticava entrambi, seppur per
ragioni differenti. La visione di Weber è quella del “disincanto”, la
componente “utopica” va lasciata pienamente cadere, ma quella “scientifica”,
che è il nostro unico orizzonte reale, rimane quella della “gabbia di ferro”,
espressione coniata proprio dallo stesso Weber e proprio nel suo studio L’etica protestante e lo spirito del
capitalismo, un classico ancora discusso[13]. La
prospettiva “scientifica” era un male per Weber, non il “bengodi” di cui
favoleggiava la corrente principale del marxismo, tipizzata da Lukacs, ma un
male inevitabile; e tuttavia, non
era certo a favore dell’utopismo “apocalittico” di un Bloch.
A tal proposito,
Cacciari ha esplicitamente citato il libro di Weber sul “lavoro intellettuale”
come professione[14],
dove l’orizzonte è, senza dubbio, e qui Cacciari ha ragione, quello del
“disincanto”, il gran disincanto del mondo. Si può solo fare una “grande
amministrazione”, secondo Weber, come Cacciari esattamente ben spiega. La
“scientificità” è un “destino”, dunque non vi è spazio per utopismi, ma è pure
una “gabbia di ferro” (The Iron Cage),
l’uomo vi è prigioniero, prigioniero
del sistema tecnico ed economico. Naturalmente, il libro di Weber appena ricordato
è stato saccheggiato, letteralmente, come “citazione utile” nei decenni
passati, senza per questo esser capito. E’ la sin troppo famosa distinzione fra
“etica della convinzione” ed “etica della responsabilità”, che veniva citata a
supporto delle proprie … convinzioni! A questo punto veniva fatto di chiedersi
se tal libro fosse davvero stato letto da chi lo usava come appoggio per le
proprie convinzioni e, se sì, se l’avevano compreso, perché Weber vi sosteneva
l’esatto contrario! Per lui, tu puoi
avere tante belle convinzioni, ma, quando amministri, devi sempre chiederti: se
non faccio questo, se non prendo queste decisioni, quali saranno le conseguenze??
Se misuriamo questa
rigorosa visione con la “politica” dei nostri tempi, dobbiamo necessariamente dedurne che, sia a
livello nazionale che internazionale, siamo guidati da irresponsabili, nel senso letterale del termine: gente che non
risponde, gente che, se gli fai una domanda, ti sciorina le sue convinzioni. Ma voi non avete delle cariche per causa delle vostre convinzioni,
occorrerebbe ricordarlo. In linea generale, è una vera e propria epidemia
collettiva, ognuno sciorina le proprie convinzioni, e succede dappertutto, ed
ogni dialogo allora diventa, per principio, impossibile, questo nel mentre si esalta
il “dialogo” come chissà qual balsamo su ogni ferita, come panacea (= rimedio
per tutti i mali), quando manca proprio la base per il dialogo stesso.
Ogni Chiesa, ogni
religione istituzionalizzata che voglia andar oltre la confraternita di
gnostici, ha questo problema: di seguire
un’etica della convinzione, ma di dover agire in base all’etica della responsabilità. Se non lo fa, se
sostituisce la convinzione alla responsabilità, è perduta; ma lo è lo stesso se
si schiaccia sulla mera gestione dell’istituzione, dimenticando l’etica della
convinzione. E’ un rapporto dialettico, in cui non si deve mai arrivare ai due capi estremi, che sia uno o l’altro cambia la modalità di crisi interna, ma che la
crisi avvenga è semplicemente certissimo.
Weber era altamente,
oserei dire tragicamente – nel senso
vero e greco del termine di scelta fra due mali – consapevole del problema. “Il mio collega F. W. Förster, di cui
personalmente ho la massima stima […], ma dal quale, come politico, dissento
nel modo più netto, crede di poter sormontare la difficoltà con questa semplice
tesi: dal bene può derivare soltanto il bene, e dal male soltanto il male.
Allora l’intero problema evidentemente cesserebbe di esistere. E’ però
sorprendente che 2500 anni dopo le Upanishad
si sia potuto ancora sostenere una simile tesi. Non soltanto l’intero corso della storia del mondo, ma anche un esame
spregiudicato dell’esperienza quotidiana
c’insegna esattamente l’ opposto. Lo sviluppo di tutte le
religioni del mondo è fondato
proprio sul fatto che è vero il contrario. […] Questo problema dell’esperienza dell’irrazionalità
del mondo ha costituito la forza motrice dell’ intero sviluppo di tutte
le religioni. La dottrina indiana del Karma
[corsivo in originale] e il dualismo persiano, il peccato originale, la
predestinazione e il Deus absconditus [corsivo
in originale], discendono tutti da
quest’esperienza. Anche i primi cristiani sapevano perfettamente che il
mondo è governato da demonî e che chi s’immischia nella politica, ossia si serva della potenza e della
violenza, stringe un patto con
potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male
dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo”[15].
E quanti “fanciulli” oggi …
Questa tesi del “dover
averci a che fare” con le “potenze demoniache” del mondo, per poterle dominare,
o semplicemente bloccare, o anche soltanto
controllare, è la tesi dello stesso
Cacciari in un suo precedente libro[16],
tesi il cui “nocciolo centrale” si ritrova in queste parole del testo di Weber,
che evidente Cacciari avrà studiato e ristudiato molte e molte volte.
Utopia
e profezia.
Proprio in relazione a
questo precedente testo di Cacciari (Il
potere che frena) si è svolta l’ultima parte del dibattito con Vitiello,
che ha ricordato le parole finali de Il
potere che frena, ponendole a confronto con le parole conclusive di
Cacciari in Occidente senza utopie
(per l’esattezza, il contributo di Cacciari a questo volumetto, scritto da due
autori, s’intitola: Grandezza e tramonto
dell’utopia, che poi è il tema che si è brevemente trattato, pp. 63-131). Nelle
parole finali de Il potere che frena,
Cacciari evocava lo stato presente come una corsa verso la dissoluzione, dove “Epimeteo
scorrazza libero” di crisi in crisi e di emergenza in emergenza.
Al contrario, le parole
finali del contributo di Cacciari ad Occidente senza utopie, cambia qualcosa[17].
Dopo aver sottolineato
come la crisi derivi dalla separazione dell’ “impolitico” pratico da un’attesa
che si rivolga solo al “Deus adveniens”[18], tenta
di riaprire uno spazio di riflessione che accetti
la “separazione avvenuta”, e questo è molto à
la Cacciari, “contro ogni consolante compromesso o nostalgia che pretendano
di ‘sanare’ oggi tale condizione”[19]. “Politica,
teologia, utopia debbono essere custodite pure
nella loro radicalità”[20].
Questa, secondo lui, l’unica
chance concreta nel “nostro tempo”.
Lasciare pure le distinzioni, perché interagiscano, in vista di una possibilità futura.
Il punto vero è, tuttavia, che questo “lasciare che interagiscano” è ben difficile, nella presente situazione: noi viviamo, infatti, dentro una situazione tale dove anche questo “possibile”, fondamentalmente di buon senso e d’intelligenza, diventa complicato, se non impossibile. Proprio il confronto con la radicalità della presente situazione sembra costituire “il” punto decisivo e nodale.
Lasciare pure le distinzioni, perché interagiscano, in vista di una possibilità futura.
Il punto vero è, tuttavia, che questo “lasciare che interagiscano” è ben difficile, nella presente situazione: noi viviamo, infatti, dentro una situazione tale dove anche questo “possibile”, fondamentalmente di buon senso e d’intelligenza, diventa complicato, se non impossibile. Proprio il confronto con la radicalità della presente situazione sembra costituire “il” punto decisivo e nodale.
Debbo quindi aggiungere
che una tale proposta non soddisfa, in quanto, ben lungi dal poter “restaurare”
lo squilibrato ma dinamico “stato” precedente - e Cacciari non ne ha la benché
minima intenzione -, pure non
consente alcuna vera apertura al novum,
come lo chiama lui.
Il punto decisivo è un
altro: quando, per esempio, dice che oggi “si rischia” di dire “pace e scurezza”
come unico orizzonte, dunque precisamente quel qualcosa, quelle parole che, nell’ Apocalisse di Giovanni, danno inizio all’
“apocalisse” nel senso di processo di fine
di un’Età e di un mondo tutto.
Ma
questo è già stato detto, prima del 2008, ed in seguito. E,
d’altra parte, le religioni non sono in grado di risaldare quel che è stato
separato. Della politica non si può far altro se non prendere atto della
situazione per cui la politica è, al massimo, amministrazione, buona
amministrazione, ed è il massimo …
Ma la “profezia”, che
fine fa?
Chi, oggi, davvero - ma davvero eh – si oppone al
potere, a questo potere che già Baudrillard nel 1978 denotava come “polverulento”, in crisi gravissima già in quei tempi?
Questo è “il” problema,
perché oggi assistiamo da un lato alla completa “istituzionalizzazione” delle
religioni, come orizzonte, oppure alla loro separazione interna fra un “Adveniens”, tra l’altro speso molto ma
molto mal inteso, ed “istituzionalizzazione”, ma da nessuna parte vediamo
esercitata da qualcuno la funzione profetica di “opporsi al potere”, di condanna del potere della situazione, i
“protestatari” e i sedicenti “alternativi” di oggi non vogliono altro se non
tornare ad una situazione appena precedente, o anche più vecchia (“vogliono
solo tornare ad una fase meno avanzata del processo di dissoluzione”, osservava
già illo tempore Guénon).
In una tale situazione, la funzione profetica non può esser esercitata se non da un falso profeta.
E l’unica, vera,
possibilità di “agire” è quella di opporsi a tale falso esercitare
questa funzione profetica.
Il resto è rumore.
Il resto lascia le cose
come sono.
Andrea A.
Ianniello
PS.
Un link, del quale non condivido affatto tutto – va detto con chiarezza
– ma è comunque interessante che ci sia questa “percezione” della presente
situazione: http://www.linkiesta.it/it/article/2012/09/06/impossibile-fermare-il-declino-loccidente-e-gia-in-agonia/9110/.
Di simile, in
questo blog, è il post ove si dice che l’Europa è già morta, http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/09/sulle-ciance-sull-identita-sulle.html.
[1] Cf.
http://www.raiscuola.rai.it/articoli/vincenzo-vitiello-cristianesimo-senza-redenzione-aforismi/3600/default.aspx,
http://www.rizzolilibri.it/autori/vincenzo-vitiello/, https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Vitiello.
[2] Cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/06/san-leucio-un-castello-di-aspettative.html.
[3] Cacciari è
stato molto interessato da F. Bacone, al punto da scrivere un’ Introduzione alla Nuova Atlantide, Silvio Berlusconi Editore, Milano 1995. In M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza
utopie, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 80-82, Cacciari sottolinea più volte
la centralità di F. Bacone.
[4] Il problema è
sempre quello: la relazione fra necessità e soggettività nel processo di
“caduta”, tema vastissimo, che molto eccede queste poche, sparse noterelle.
[5] E vorrei qui
ricordare alcuni testi, scelti in ordine sparso e senza proprio nessuna pretesa
di completezza: non si può non partire da Il
Tramonto dell’Occidente di Spengler (Der
Untergang des Abendlandes, “L’Andar giù (la ‘Via di Sotto’) della Terra del
Tramonto”, letteralmente).
Ricorderei, poi, Occidente senza futuro, di Moncada di
Monforte, del 1998 (cf. https://it.wikipedia.org/wiki/Occidente_senza_futuro);
quest’ultimo link riporta una nutrita Bibliografia,
cui si rimanda: questo per dire quanto il
tema sia stato dibattuto nel corso del tempo.
Fra tutti questi titoli vorrei
però, ricordarne uno, piuttosto interessante, anche per la data di pubblicazione: A. Asor
Rosa, Fuori dall’Occidente, Einaudi Editore, Torino 1992.
Ed un altro, davvero “datato” e molto “sociologico” come prospettiva, ma, di
nuovo, assai interessantissimo, sempre
per la data: 1992.
In ogni caso, rimane vero che: “Avviene
nel segno dell’utopia l’apertura del Moderno” (M. Cacciari – P. Prodi,
Occidente senza utopie, cit., p. 69),
ma è proprio questo che si è arenato irreversibilmente. Ed è altrettanto
interessante sottolineare come fosse la pace “universale” la “cifra” dell’utopia,
ottenibile una volta che il “progetto scientifico-tecnico” del “sapere-potere”
fosse divenuto effettivamente “universale” anch’esso (cf. ivi, p. 68, dove
Cacciari cita sia Leonardo che Erasmo, sul quale ultimo cf. Erasmo da Rotterdam,
Il lamento della pace, Strenna UTET 1968, bel volume che introduce in quell’epoca
e in quell’ambiente mentale).
Sempre parlando di Erasmo,
Cacciari rifiuta l’equiparazione con Moro, e in questo ha ragione: “Non solo
vanno respinte le interpretazioni ‘medievalistiche’ del pensiero di Moro
(secondo una prospettiva analoga a certe interpretazioni dell’Umanesimo, come
quella di De Lubac), ma anche quelle che lo riducono sostanzialmente a Erasmo”
(M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., p. 132). Dove invece non son d’accordo,
è nella sottovalutazione delle vedute di De Lubac sull’Umanesimo, che fu senza
dubbio fenomeno più complesso di quanto sembri qui pensare Cacciari, in particolare
De Lubac ha studiato Pico della Mirandola (cf.
H. De Lubac, L’alba incompiuta del Rinascimento. Pico della Mirandola, Edizioni Jaca
Book, Milano 1977). Tra l’altro, P. O. Kristeller ha dimostrato come le “rinascenze
delle lettere” – o “umanesimi” – si son verificati più volte nel Medioevo, e
dunque un “taglio netto” non si può sostenere, da questo punto di vista il vero
“taglio” fu proprio l’emersione della tecno-scienza, della “scientificità” come
“progetto” di sapere-potere, fondamentalmente estraneo al mondo classico, punto
importantissimo questo.
[6] “La scienza deve più alla macchina a vapore
di quanto la macchina a vapore non debba alla scienza” (Anonimo, sul retro di copertina del
libro Y. Elkana, La scoperta della conservazione dell’energia,
Feltrinelli Editore, Milano 1977).
[7] Cf. A. A. Ianniello, L’imperatore
Costantino. Fra storia e leggenda, Giuseppe Vozza editore, Caserta-Casolla
2013.
Interessante osservazione: “se
per la Chiesa bastasse uscire dall’età costantiniana, ripudiare il compromesso con
un potere esterno, per ritrovare la purezza evangelica senza affrontare il suo problema di essere
società umana […] che incorpora in sé anche la corruzione: come se fosse
possibile dare tutta la colpa a Costantino o a una simbiosi col potere da lui
inaugurata e sviluppata con diverse declinazioni (Chiesa carolingia, feudale,
gregoriana ecc.) sino ai nostri giorni, simbiosi cancellabile con delibere
conciliari. Questa visione mi sembra abbia giovato in fondo alle tesi dei
tradizionalisti più conservatori che hanno denunciato in queste nuove tendenze
(teologie della liberazione, ambientaliste ecc.) il pericolo della
trasformazione della trasformazione del cristianesimo in ideologia […]: […] la
corruzione non è un male che viene dall’esterno” (M. Cacciari – P. Prodi,
Occidente senza utopie, cit., pp.
50-51, parte iniziale di P. Prodi).
[8] Su queste questioni,
Cacciari afferma: “non credo che si possa ancor oggi aggiungere molto ai
risultati della ricerca di P. Rossi, Francesco
Bacone. Dalla magia alla scienza, Bari, Laterza 1957 (Bologna, Il Mulino
2004)” (M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., p. 132). Appunto, è “il passaggio dalla
magia alla ‘scienza’” il “nodo” – vero
-, e tal “passaggio” è stato compiuto all’interno di “certi”, specifici, e
particolari “ambienti”, ricollegati alle aristocrazie e alla zona di “contatto”
fra le aristocrazie e l’emergente borghesia, spesso in ambienti di noblesse de robe, per intenderci. Ma vi
sarebbe molto ma davvero moltissimo d’aggiungervi
anche se si andrebbe troppo lontano dall’argomento di questo piccolo post.
[9] Cf. http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/09/europa-neo-nazionalistica-e-prima.html.
[10] Una nota
“personale”. Un mio zio aveva sia i libri di Bloch, sia quelli di Lucacs, e
ricordo che, seppur non potendo avere
all’epoca la piena consapevolezza delle conseguenze e del “non detto” che si
celava nella polemica, ebbi quindi modo di legger qualcosa dei due autori; dopo
aver letto due loro libri – uno ciascuno - parteggiavo per Bloch, senza dubbi e
senza tentennamenti. Sono un bibliofilo, per me detestare un libro è cosa innaturale, non mi spaventa nemmeno il Mein Kampf
di A. Hitler, ma solo due testi ho sempre considerato davvero indigesti, e
persino detestabili (summiter
detestabillimi), La Fenomenologia
dello spirito di Hegel, di cui non
condivido il messaggio, ma non è per questo che lo detestavo: lo detestavo per
la scrittura – non cattiva, pessima (e possiamo simpatizzare per
Schopenhauer il quale, dal canto suo, scrive bene), e lo “style” è la vera firma -; e, poi, La distruzione della ragione di Lukacs,
per la tesi. Come Marx detestava Saint Simon, così detestavo Lukacs per le tesi
e Hegel per lo stile, o molto moderna assenza
di stile. “E perché mai Hegel, allora, avrebbe tanto stimato Bacone? Proprio perché
anche per lui la nostra Età è segnata dal primato dell’ auctoritas del sapere in quanto scienza, Wissenschaft, dal venir meno del Filosofico-Metafisico, della filosofia
in quanto ‘nome d’amante’. Anche per lui la forma-Stato avrà effettuale potestas soltanto se intimamente
coerente alla forma dell’impresa scientifica” (M. Cacciari – P. Prodi,
Occidente senza utopie, cit., p. 89).
In effetti, lo “stato universale” hegeliano è dove quest’impresa “scientifica”
raggiunge tutta la Terra (cf. A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi Editore, Torino
1948, pp. 63-64). Ma siamo già nello “stato universale”, in tal senso, e che
questo non sia avvenuto per mezzo della “ricerca del ‘bene comune’”, ma,
piuttosto, per mezzo di “minoranze egoiste” che hanno scatenato la potenza “dell’impresa
scientifica” è un fatto storico, mentre chi ha ricercato il “bene comune”, ad
esso tentando di sottoporre il principio dell’ “impresa scientifica” ha
fallito. E questo non è casuale.
[11] Cf. http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/05/andrea-ianniello-baudrillard-la.html.
[12] La si ritrova
già in un vecchio scritto di Cacciari in relazione ad “Oriente ed Occidente”,
apparso su “La città futura”, una vecchia rivista. In tal vecchio articolo
(davvero una “rarità bibliografica”) Cacciari sosteneva che Oriente ed Occidente
non dovessero mescolarsi, che la mescolanza era necessariamente solo illusoria,
e che ognuno doveva rimanere ben distinto e tuttavia la contraddizione,
rimanendo, diveniva produttrice. Insomma, la sua tesi di fondo sul pensiero
“negativo”, il punto costante di
tutto il suo pensiero, pur nei molti cambiamenti, punto che personalmente non
condivido, e sul qual punto non son d’accordo.
Che la città sia sempre stata al
centro degli interessi di Cacciari lo si può vedere da molte cose, come dal
vecchio libro di Cacciari stesso, la cui copertina si può vedere a questo link.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/09/altre-immagini-dellepoca-di-federico-ii.html.
E anche da quest’altro interessante link, una recensione ad un suo libro sulla
città: http://www.sololibri.net/La-citta-Massimo-Cacciari.html.
[13] Interessante
osservazione di Cacciari, al riguardo di questo testo classico di Weber: “Alla
forma dell’utopia credo […] sarebbe stato giusto dedicare un capitolo di Die protestantische Ethik und der Geist des
Kapitalismus” (M. Cacciari –
P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., p. 132).
[14] Cf. M. Weber,
Il lavoro intellettuale come professione,
Einaudi editore, Torino 1991 (1948). Il libro si compone di due capitoli: “La
scienza come professione” e “La politica come professione”, Cacciari si è
riferito al secondo capitolo.
[15] Ivi, pp. 112-113, corsivi miei. Ecco il
vero problema dello “gnosticismo”, ricordato – ovviamente in senso negativo –
da Vitiello, e qui siamo in questioni storiografiche che andrebbero una volta e
per tutte chiarite, in quanto il cosiddetto “gnosticismo” dell’epoca della fine
dell’Impero Romano non necessariamente
era “dualista”, come si vede dal fatto che il libro di Ireneo di Lione, che in
latino è Adversus haereses, “Contro le
eresie” (traduzione migliore rispetto a “Contro gli eretici”), in greco suona
“Contro la falsa gnosi”, il che dà da
pensare in quanto presuppone che ve sia una vera, di gnosi. Il “dualismo” gnostico va ristretto solo a quelli
influenzato da ambienti iranici manichei, prima vi è una sorta di “paolinismo”
portato all’eccesso. Ma, allora, qual era la vera “posta in gioco”, verrebbe da
chiedersi. Ve nera una, e molto chiara: se entrare nell’agone politico o non
entrarvi. Che quest’ “entrata” sia detta “bene” o “male” non può esser detto
dall’esterno, ma dipende dal “Mandato” che ogni religione ha, quella di
mantenersi in ambienti molto ristretti, ed allora entrare nell’agone fangoso
della politica è un male; oppure si ha quello di predicare “a tutte le genti”,
nel qual caso che si entri in contato con l’agone fangoso politico è
semplicemente necessario. Ma questo,
a sua volta, ha un costo, altrettanto necessario
e necessitato, quello di cui parlava
Weber.
[16] Cf. M. Cacciari,
Il potere che frena, Adelphi Editore,
Milano 2013.
[17] Cf. M. Cacciari
– P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., pp. 130-131.
[18] Cf. ivi,
p. 130.
[19] Ibid.
[20] Ivi, p. 131, corsivo in originale.
_________________________
***
**
*
[i]
[i] Interessante la critica di Scholem a
Bloch: “Se un appello alla forma utopica è respinto da Lukacs sotto il profilo
della sua coerenza teorica e della sua effettualità politica, esso, negli
stessi anni, veniva contestato da Scholem per il suo esplicito richiamo al
profetismo biblico. La profezia parla al presente del presente a partire dal
Fine, ma il Fine non conosce mediazione dialettica col presente, e in nessun
modo è opera dell’uomo che vi agisce [cosa, quest’ultima, verissima, peraltro; nota mia]. L’attesa e la speranza del regno costituiscono
l’orizzonte che dà senso alla prassi in atto, ma in nessun modo il Regno può
esserne il prodotto [il “discorso escatologico” di Gesù è basato su quest’idea,
pur l’uomo potendo partecipare alla preparazione del Regno, ma mai generarlo
o attuarlo; nota mia]. L’irrompere del divino nella storia, di cui l’età messianica
è il sigillo, è puro evento, in nessun modo prevedibile, né anticipabile [su
questo punto la differenza tra concezione cristiana ed ebraica si fa sentire,
nota mia]. La speranza non ne è affatto anticipazione, la forma presente in cui noi ora lo viviamo storicamente e nella comunità [e qui, di nuovo, si
ritorna alla similarità di concezione fra Cristianesimo e Giudaismo, nota mia].
Tanto più tradisce l’idea messianica ritenere che una ‘classe’ sia la portatrice
del suo realizzarsi [e in questo la ragione stava con Scholem, nota mia]. Ciò comporta
trasfigurare un soggetto storico in una chiesa di eletti, in una civitas dei, testimone-martire
qui-e-ora, nel tempo irredento, della realtà del Regno. Il Messia, come narra
la leggenda ebraica che Scholem ama ricordare, vive tra lebbrosi e mendicanti
alle porte di Roma, accanto, come antitesi eterna, alla città che ritiene
adempiuta (o umanamente adempibile) la Promessa” (M. Cacciari – P. Prodi,
Occidente senza utopie, cit., pp.
111-112, corsivi in originale). Quest’accenno al Messia ebraico “che vive tra i
lebbrosi” – leggenda talmudica – ricorda il Trittico
dell’Epifania (1510 c.) di H. Bosch, in particolare il pannello centrale - l’
Adorazione dei Magi -, oggi al Prado
di Madrid, come lo interpreta Maria Grazia Chiappori, che riconosce nel personaggio
all’interno della capanna l’Anticristo, il Falso profeta par excellence: “Il più anziano del seguito afferra, quasi trattiene, il Messia per le spalle [ed
ecco un altro significato del katèchôn,
“colui” o “ciò” che trattiene, riecheggiato da S. Quinzio laddove sostiene che
a fermare l’Anticristo non è l’ Imperium
Romanum – come argomenta la maggior
parte dei Padri della Chiesa -, bensì il culto rabbinico, le due idee, in
realtà, non escludendosi affatto per
principio; nota mia]. La catena d’oro
che cinge il braccio del Messia di Bosch è quella stessa che imprigiona il Messia ebraico affinché questi,
impaziente d’aiutare il suo popolo, non inizi la sua opera di redenzione prima
del tempo stabilito. Il fatto poi che il Messia sia affetto dalla lebbra – lo provano il colore
opalescente della pelle e la piaga sulla
gamba – trova una precisa corrispondenza nel Talmud, dove Elia dichiara: ‘Egli
sta seduto tra i poveri lebbrosi … ’. per il Cristianesimo il Messia ebraico
era l’Anticristo, l’impostore per eccellenza, il falso profeta che verrà, prima della fine dei tempi, a tentare
gli uomini, a minare la loro fede. […] Nel Vangelo secondo Giovanni (9, 43)
Gesù aveva detto: ‘Io son venuto nel nome del Padre e non mi ricevete, se un
altro verrà in proprio nome lo riceverete’. Nella leggenda primitiva l’Anticristo
altri non era che il diavolo in persona, sotto mentite spoglie, ma nella
tradizione medioevale – risultante da una complessa
speculazione teologica – è ormai considerato come un uomo, anche se di natura abnorme e diabolica, perché concepito […]
sotto la ‘protezione’ di Satana. Nato a Babilonia [simbolicamente!, non
necessariamente in senso letterale!] poco
prima del Giudizio Universale [si noti], verrà circonciso a Gerusalemme,
dove si presenterà ai Giudei come il vero Messia. Emulo di Cristo, egli
cercherà di ripercorrerne la vita e di riprodurne, valendosi delle arti
magiche, i miracoli. I suoi prodigi saranno frutto della magia nera” (M. Bussagli – M. G. Chiappori, I Re Magi. Realtà
storica e tradizione magica, Rusconi Libri, Milano 1985, pp. 252-253,
corsivi miei). Ma è altrettanto (se non ancor più) chiaro, come s’è detto in
questo breve studiolo, che tali “arti magiche” illusorie - che non significa “prive d’effetto” e solo “psicologiche”
come vorrebbero i moderni ma che non hanno una base “nell’Essere”, una base
ontologica, ma son solo proiezioni della “volontà” supportata da “ausili ‘sottili’”,
per parlare in “gergo” magistico -, che tali arti magiche dovranno supportare
una predicazione, come diceva Signorelli, e tale “predicazione” andrà nella
direzione della falsa profezia, come s’è detto, e si ribadisce qua, nel presente studiolo.
La tradizione cui fece riferimento Bosch
non è poi così lontana da quella cui faceva riferimento Luca Signorelli nella
Cappella di San Brizio dello splendido
duomo di Orvieto, nel dipinto Predicazione
e fatti dell’Anticristo, che anzi è precedente
all’ Adorazione di Bosch, in quanto
il ciclo d’affreschi di Signorelli data dal 1499 al 1502, per quanto il
pagamento a Signorelli slittò, in parte, al 1504.
Link (ambedue da Wikiedia Commons, il secondo dà immediato accesso all’immagine stessa, del primo è riportato soltanto l’url).
Predica e fatti dell’Anticristo:
Predica e fatti dell’Anticristo:
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/2/29/Luca_signorelli%2C_cappella_di_san_brizio%2C_predica_e_punizione_dell%27anticristo_01.jpg/800px-Luca_signorelli%2C_cappella_di_san_brizio%2C_predica_e_punizione_dell%27anticristo_01.jpg.
Ed un particolare, sempre da Predica e fatti di
Signorelli, l’ Anticristo che ascolta il diavolo sussurantegli le parole che daranno inizio all’esplosione del mondo.