IL “SALVATOR
MUNDI”, UN
PROBABILE DIPINTO DI LEONARDO.
Una breve discussione sulle
forme d’arte,
nell’ambito della
storicamente complessa relazione
fra Teologia ed Arte.
Introduzione.
teologia ed arte oggi
Prendiamo
tutte le chiese del mondo, ed immaginiamo di togliere dal loro
interno ed esterno tutti i dipinti, le statue e tutti gli arredi
artistici. Che cosa ne rimarrebbe? Certo, il valore teologico
rimarrebbe, ma quanto diminuito! Che cosa sarebbe stato, infatti,
l’impatto della Chiesa cristiana sul e nel mondo senza l’aiuto,
indispensabile, dell’arte?
Da
una certa epoca in poi, però, questa relazione si è, se non del
tutto interrotta, quanto meno “inceppata”, come bloccata.
Nell’“autunno del mondo moderno”, che da qualche tempo stiamo
vivendo, si sente la necessità di ripensare
questa relazione, così feconda storicamente ma divenuta sempre più
sterile nel corso degli ultimi due secoli. Il mondo moderno sta,
infatti, decadendo in un crescendo di bruttezza, che fa da
corrispettivo e da pendant
alla sua strutturale mancanza d’equilibrio ed armonia, di bellezza
insomma.
Senza
dubbio, anche qui il Vaticano II ha segnato un punto di svolta. Solo
che, con i tempi lunghi che caratterizzano la storia della Chiesa,
nonostante siano passati ormai cinquant’anni dal Concilio, molti
temi sono ancora lontani dall’essere stati davvero digeriti o
almeno pienamente accettati.
Due pontefici, nel secolo passato, hanno sentito molto il problema
delle forme d’arte e dell’artista: Paolo VI, nella sua importante
Omelia
del 7 maggio del 1964, e Giovanni Paolo II, nella sua Lettera
agli artisti del
1999. Giovanni Paolo II si era cimentato anche lui in qualche lavoro
artistico, e dunque parlava anche per esperienza personale, ma,
particolarmente in Paolo VI, si percepisce una preoccupazione genuina
e forte per il mondo dell’arte (forse in Giovanni Paolo II vi è
più preoccupazione per l’artista), e la sua Omelia
ha indubbiamente costituito una pietra miliare nel cambiamento di
percezione che la Chiesa ha avuto nei confronti dell’arte moderna;
senza questa Omelia,
probabilmente Giovanni Paolo II non avrebbe potuto sviluppare appieno
il suo messaggio.
E
tuttavia, questo ripensamento della relazione fra teologia ed arte
non è affatto un compito semplice,
per quanto la sua necessità si senta improrogabile oggi. Come si
leggeva sulle antiche carte geografiche: Hic
sunt leones. Il nodo
di base rimane questo: come
dare uno sguardo sulla realtà di Dio sotto forma d’immagine (Sap
8, 1-5; 7b-8b-9). Il linguaggio dell’immagine è un linguaggio
diverso da quello della parola, però altrettanto
necessario
alla natura umana, ed esprimersi per mezzo delle immagini è un
bisogno incoercibile, presente originariamente nella natura umana
stessa: si vedano a tal proposto i bambini, e quanto per loro sia
necessario disegnare o dipingere. Il bambino parla dopo aver iniziato
a camminare; ma, subito dopo, o nello stesso tempo, il bambino
disegna.
Il
tema stesso della bellezza, per molti motivi, ha sofferto di una
lunga eclissi nel mondo dell’arte, sostituito dal fascino della
sperimentazione linguistica, che però non può sostituire il tema
centrale della bellezza. Più d’uno ha notato che un certo cattivo
gusto è ormai diffusissimo nelle chiese: ma questo è solo l’effetto
finale di una causa remota. Nella natura stessa della bellezza vi è
un elemento che sfugge alla mera dinamica dei sensi, ed è la
consapevolezza di questo fatto
– perché è un fatto, comunque poi lo si giudichi - che oggi
troppo spesso sfugge.
A
complicare il problema, però anche a semplificarlo, vi è il fatto
che l’arte religiosa,
l’arte che ha in se stessa un elemento d’infinito,
è un insieme più
vasto dell’arte
specificamente liturgica ovvero dell’arte che ha una specifica
funzione nella liturgia ecclesiale. L’arte religiosa è diffusa
sotto tutti i cieli e climi, e spesso è la natura a fungere da
“specchio” dell’ineffabile divino. Dio, infatti, è sì
esprimibile con le parole, ma è pure indicibile, è la dimensione
dell’ineffabile, e, nella bellezza, quando essa superi la
dimensione “passionale”, vi è proprio un riflesso della divina
Bellezza.
La
natura della Bellezza è teandrica, umana e divina insieme, ed è la
Sapienza che, secondo Bulgakov,
ha un risvolto creato ed increato. Si mantiene così la prospettiva
cristiana, pur nella chiara influenza della prospettiva neoplatonica,
senza però la tendenziale identificazione fra creato ed increato; la
distinzione fra creato ed increato era il punto cui la prospettiva
plotiniana non poteva giungere, inevitabilmente
non poteva, per l’ovvio motivo che il mondo classico non
conosceva il concetto di Creazione. La Bellezza, che è la percezione
di questo qualcosa di trascendente presente nell’immanente, a causa
del fatto che essa fa comunque parte del creato stesso, reca
inevitabilmente in se stessa un lato “kenotico”,
di svuotamento e di allontanamento. In qualche modo, la Bellezza,
segno lontano di salvezza, richiede anch’essa di essere salvata. Ed
è la Seconda Persona della Trinità che, vivendo in Se stessa il
processo di “kènosis”,
e poi risorgendo, salva anche quest’aspetto di Bellezza
specificamente cosmica.
La
situazione attuale questa è: “Dopo gli eccessi ‘teologici’
dell’arte medioevale e quelli ‘immanentistici’ dell’arte
moderna, si è andato determinando un pregnante interrogativo
nell’arte contemporanea: quale idea d’arte si prospetta per il
futuro? Se l’arte bizantina
e medioevale
nascono da un’esperienza trascendente di Dio, quella rinascimentale
da un’esperienza immanente dell’uomo e quella moderna
e contemporanea
da una ‘perdita del centro’, quella nuova, a nostro giudizio, non
può che nascere che da una rinnovata esperienza divino-umana. A
questo riguardo si rivelano molto pertinenti alcune considerazioni
teologiche prospettate dalla dottrina
sofiologica
di N. S. Bulgakov e che noi intendiamo offrire come piste di
orientamento per la presente riflessione”.
Molto interessante che si necessiti di una “rinnovata esperienza”,
questo appare decisivo in realtà. Punto di partenza, è questo: “Con
l’Incarnazione, il Logos, assumendo la carne umanea, assume anche
la bellezza creaturale, determinando una reciproca comunione
della proprietà
delle due bellezze. Quella divina e quella umana sono
inseparabilmente
e inconfondibilmente
unite senza fondersi e senza perdere la loro autonomia. Esse sono
corrispondenti”.
Questa “corrispondenza” si mostra sommamente in Cristo, ed è la
Bellezza del “Salvator
mundi”, la cui
interpretazione
leonardesca – il tema è più antico, infatti – qui di seguito si
esaminerà un po’ più da presso. “In Cristo, la Bellezza è
colta nell’inseparabilità e inconfondibilità della duplice forma.
La sua Bellezza divina non si mostra e non viene percepita se non nel
vincolo con quella umana. le due bellezze non si mostrano mai
separatamente o in alternanza, ma sempre nell’inseparabilità ed
inconfondibilità delle due nature. Quella di Cristo è una Bellezza
che si realizza mediante la compenetrazione della divina nell’umana
e dell’umana nella divina, appunto ‘teandricamente’. Ed è
proprio questa pericoresi che rende possibile la divinizzazione della
bellezza umana, di per sé incapace di divinizzarsi”.
Stabilito
questo quadro generale di riferimento, il ripensare la relazione fra
religione ed arte, a mio avviso, può essere la chiave di volta di un
possibile riavvicinamento
fra l’arte e la teologia. Difatti, è stata propria la relazione
fra religione ed arte che si è incrinata, prima che s’incrinasse
l’arte liturgica vera e propria; ed il perdurare dell’arte
liturgica oggi non riesce a risolvere il problema di fondo. Per
terminare questa breve riflessione su tale tema davvero enorme e
dalle conseguenze vastissime, va sottolineato che una eventuale
riconciliazione, che i tempi attuali richiedono, non può prescindere
dal fatto che l’arte si è resa “autonoma” dalla religione, pur
perdurando senza dubbio il sentimento
religioso nel mondo.
Quindi, quale può essere questa “nuova sintesi” che, tuttavia,
rispetti integralmente ambedue i campi, teologico e religioso: ecco
il tema che inquadra l’intero problema, cui non si pretende certo
di poter qui rispondere, ma solo qui s’intende tratteggiare
brevemente
il problema, in relazione ad un’opera concreta, che è il vero
oggetto del presente elaborato.
Tra
le altre cose, il quadro di riferimento della “sofiologia” può
essere anche un’utile chiave per rileggere la storia dell’arte e
le sue fasi, e ripensarle, sempre in vista di un discorso e di un
obiettivo di riavvicinamento, se non proprio di riconciliazione.
Premesso
tutto ciò, veniamo a discutere brevemente del “Salvator
mundi” di Leonardo.
Ed inevitabilmente a discutere, molto brevemente, del suo autore.
CAPITOLO 1.
IL
“SALVATOR
MUNDI”
Si
tratta di un dipinto, con tecnica ad olio su tavola,
recentemente scoperto ed attribuito a Leonardo: nel 2011, per
l’esattezza. Si è arrivati all’attribuzione dopo aver pulito un
dipinto conservato in una collezione privata statunitense e che era
giunto, nella collezione privata, dopo una serie di lunghe peripezie
e di passaggi di mano, destino, peraltro, tutt’altro che insolito e
che è capitato a molti dipinti, anche famosi. Questo dipinto era
stato pesantemente coperto ma, pulitolo delle pesanti superfetazioni,
si è scoperto un dipinto sottostante, attribuibile molto
probabilmente allo stesso Leonardo da Vinci, che ne accennò in un
suo appunto. Se ne aveva notizia, dunque, del fatto che si era perso
questo dipinto. Nello stesso 2011 si è svolta alla National Gallery
di Londra una mostra che ha pubblicamente consacrato questo dipinto.
Per la verità, di tale dipinto si conservava la copia di Wenceslaus
Hollar del 1650, una incisione. Ed effettivamente i due soggetti sono
molto simili, quindi sembrerebbe abbastanza sicura l’attribuzione,
per quanto non si possa escludere l’intervento di qualche discepolo
o imitatore di Leonardo sul “Salvator
mundi”,
nella forma che oggi possediamo. Il soggetto del “Salvator
mundi”,
che è anch’esso un soggetto tradizionale, nella versione
leonardesca esercitò una forte influenza in Nord e Centro Europa,
tant’è che il famoso Autoritratto di Dürer in pratica s’ispira
alla forma di Cristo del “Salvator mundi” leonardesco (o di
scuola leonardesca). In ogni caso, Leonardo avrebbe dipinto il
“Salvator mundi”
abbandonando Milano, dopo la caduta degli Sforza, per riparare in
Francia.
La caduta di Ludovico il Moro data al 1500, per l’esattezza, quindi
stiamo trattando di un Leonardo tardo, dove, tra l’altro, non si
possono escludere degli interventi di suoi discepoli. Ma siamo nella
fase finale della vita del maestro di Vinci, quando gli s’imponeva
ormai una ritrattazione di tante cose fatte, anche un ritorno alle
origini, ma con spirito diverso. E’ importante sottolineare che
siamo nella fase finale della produzione leonardesca.
CAPITOLO 2.
ASTRATTO
E FIGURATIVO, IN RELAZIONE AL DIPINTO IN ESAME QUI
Il
linguaggio artistico è, storicamente, passato per tre fasi, che però
dobbiamo guardarci come la peste dal periodizzare in fissi stadi di
stampo ottocentesco: piuttosto, tali fasi son compresenti ma la loro
centralità si è modificata storicamente, è “datata”
storicamente, ma son tre modalità espressive artistiche in quanto
tali. Ed esse sono: il simbolico, il figurativo e l’astratto. Son
come tre strati in uno scavo archeologico, per quanto “databili”
nella realtà son compresenti. Non solo ma, ripeto, si tratta più di
una dominanza storicamente determinata piuttosto che di un monopolio
assoluto. Quindi si possono fare opere simboliche ancor oggi, ma è
inevitabile
l’essere influenzati da forte passato figurativo o dal presente
astratto. Si possono fare opere astratte oggi, ma è inevitabile che
vi sia una influenza figurativa, e via dicendo.
L’astratto
è divenuto sempre più centrale, sempre più importante, man mano
che la centralità del figurativo declinava, man mano che le
possibilità espressive del figurativo sembravano non corrispondere
più alle necessità di “rapidità” ed essenzialità dell’epoca
moderna. Ma questo non è stato privo di conseguenze: senza dubbio,
vi è una forte difficoltà di esprimere il religioso, ancor più il
liturgico, per mezzo del linguaggio astratto.
Si può sostenere, infatti, che ogni linguaggio, simbolico,
figurativo, astratto, ha in effetti una sua propria “qualità”
distintiva ed unica, come una lingua.
Adottando
il punto di vista brevemente ricordato all’inizio di
quest’elaborato, si pone il tema del ripensare
il figurativo, alla luce del percorso: simbolico – figurativo –
astratto.
Il
Rinascimento vide la vittoria dell’arte come armonia puramente
esteriore,
ma sarebbe potuto essere anche diversamente. Se, nel culmine
dell’arte rinascimentale, troviamo echi e riverberi di “altro”,
ciò significherà che è possibile un ripensare il figurativo,
stavolta senza
staccarlo né dal simbolico né dall’astratto,
che fu l’errore “narcisistico” e di auto-rispecchiamento del
Rinascimento,
“inondandolo” del senso d’infinito. Questo, a sua volta, può
aprire ad un ripensamento anche del liturgico, entro però i limiti
più restrittivi che necessariamente possiede.
Si
potrebbe dire che in un grande artista del Rinascimento, Raffaello
per esempio, la dimensione soggettiva supera quella del dato
oggettivo di fede, che può essere invece al centro di un Cimabue o
di un Giotto, per fare due noti esempi. Leonardo sentiva la necessità
di un aspetto oggettivo, ma lui lo cercava piuttosto nelle scienze,
verso il basso cioè. Se, però, lo stesso Leonardo sentiva la
necessità di un “modello oggettivo” verso l’Alto, che lo
interpellasse e non come modelli estetici esterni, avremmo compiuto
un passo importante nella direzione che qui si cerca di seguire,
quella di un possibile momento di riconciliazione fra teologia ed
arte, ma ricercando nel passato del figurativo le possibili radici di
un “filo” che si è perduto. Va infatti sempre precisato che,
quando un rapporto fra due qualsiasi enti dotati della necessaria
sensibilità per intrattenere il rapporto stesso, si altera, non può
mai esser colpa di uno solo dei due: quindi, nella relazione
storicamente alteratasi fra teologia ed arte, la “colpa” non può
essere solo dell’arte o dell’artista.
Ovviamente,
se l’artista non
sente la dimensione religiosa,
né possiede cultura
teologica, si vedrà facilmente che ogni riavvicinamento è, in
pratica, impossibile. Da parte teologica, tuttavia, occorrerebbe
guardarsi una volta per tutte, senza tentennamenti, dallo “sminuire”
il linguaggio delle immagini, atteggiamento
che ha contribuito non
poco all’attuale
situazione quasi schizofrenica, per cui possiamo avere delle
posizioni teologicamente ortodosse e ben sostenute e, al tempo
stesso, vivere in un mondo d’immagini così distante da tali
significati. Viviamo infatti in un modo d’immagini irredente, e
tutte le parole del mondo non possono cambiare questo fatto: infatti,
solo delle immagini possono davvero efficacemente opporsi a delle
altre immagini, le parole non bastano. Bisognerebbe che la teologia,
una buona volta, divenisse consapevole anche dei propri limiti
epistemologici e non solo verso l’alto nella dimensione verticale -
perché è palese che le parole ed i discorsi umani mai
potranno pretendere d’esaurire il Mistero divino -, ma limiti
epistemologici nella stessa dimensione umana orizzontale
e che, dunque, la parola va necessariamente
supportata dalle immagini. Ora; senza dubbio, negli ultimi tempi,
come si è già detto, si sente la necessità di un tale
ripensamento, e se ne vedono indizi promettenti, ma il cammino è
lungo, l’opera lenta, le difficoltà innumerevoli. Si diceva un
tempo: ars longa,
vita brevis.
Se
dunque un famosissimo artista del Rinascimento
ha comunque avuto un volto vòlto verso l’ “Altro”, se ne
dedurrà che una conciliazione è possibile, proprio perché si
sarebbe potuto prendere storicamente un altro sentiero, meno legato
ad una bellezza troppo spesso solo esteriore; e di tale possibile
altro sentiero rimangono tracce sparse. Se così è, conseguentemente
diventa possibile una riconciliazione, che a quell’epoca sfuggì,
nonostante ve ne fossero degli accenni.
Leonardo
non fu certo solo un “ingegnere”: “Certamente Leonardo non fu
spinto a perseguire le sue ricerche scientifiche da un motivo
d’ordine speculativo. […] Ma è altrettanto evidente che non è
permesso dedurre dal lavoro di un ingegnere militare che egli, una
volta terminato il suo compito, non abbia potuto avere preoccupazioni
di ordine spirituale”.
Al dipinto Leonardo affidava la carica più “mistica” della sua
opera, che si esprimeva, in un’epoca di massimo fulgore del
figurativo, in maniera simbolica, implicita, per mezzo di gesti, di
posture, di oggetti, o animali e piante. Vulliaud non si nascondeva
la difficoltà del compito interpretativo che si era assunto,
ma pure osservava: “Nelle epoche creatrici l’arte per l’arte
non esisteva; le Belle Arti erano la materializzazione del Sentimento
e dell’Idea. Ma dopo quei tempi fortunati ci si è limitati […] a
negare questo scopo ai procedimenti plastici o ad imporre dei limiti
al linguaggio figurativo. […] Fino ai giorni che
dovevano terminare
con Leonardo, Michelangelo e Raffaello, la pittura fu traduttrice di
concezioni teologiche o filosofiche. E non possiamo non rimarcare che
la decadenza estetica dati esattamente dall’abbandono del processo
simbolico. Era fatale. Il simbolismo vive in sincronia con il nostro
stato psicologico […], poiché non v’è nessuna cosa nella natura
il cui nome non possa essere ricondotto a idee d’ordine differente.
Diciamo inoltre con […] San Dionigi l’Areopagita, che il
simbolismo è in armonia con la nostra natura e la nostra maniera di
concepire. La stessa opinione fu anche di Sant’Agostino dopo essere
stata di Cicerone. Una cosa evidenziata per via simbolica, diceva il
vescovo d’Ippona, è certamente più espressiva, più convincente
che se la si espone in termini manifesti”.
Per Vulliaud sembrerebbe, dunque, che il Rinascimento sia stato
un’epoca terminale, finale,
punto interessante questo e che sarebbe da discutersi (ma si andrebbe
oltre i limiti assegnati al presente elaborato).
CAPITOLO
3.
QUALCHE
RIFLESSIONE TEOLOGICA SUL “SALVATOR
MUNDI”
Il
“Salvator Mundi”
è Cristo come Salvatore
Cosmico. Egli è cioè
il Salvatore non certo solo degli uomini, ma di tutto il Cosmo.
Infatti, Gesù disse, non certo casualmente: “Io sono la Luce del
mondo” (Gv,
8, 12), cioè dell’intero Cosmo; non c’è invece scritto: “Io
sono la Luce degli uomini”, poi il resto si arrangi un po’ come
vuole, tanto non fa differenza; invece fa differenza!
Quest’aspetto
in realtà non è affatto una caratteristica del tempo presente, ma
risale alle origini cristiane: Paolo ricorda spesso che la Creazione
stessa ha necessità
di essere salvata; è solo stato pienamente rimesso in luce nel
Concilio Vaticano II, ma questo significa che un tale dipinto, il
“Salvator Mundi”,
viene molto a proposito oggi.
Il
mondo è la palla, splendida davvero, la palla di vetro: quello è il
mondo, e Cristo lo ha in mano secondo una figurazione simbolica che
vedeva la Croce sul globo.
Il mondo è una palla di vetro, sembra forte ma è fragile, la
Bellezza è la luce che attraversa la palla di vetro, ma il mondo non
sa salvare se stesso: la salvezza viene da una sola cosa, dal fatto
che il mondo-palla di vetro si trova nelle mani di Cristo. Ed è
questo che salva il mondo.
Soprattutto
è il Dio vivente
che si è espresso attraverso al Seconda Persona della Trinità,
Cristo Gesù, che ha “attraversato la morte”, il Dio di Leonardo
è qui evidentemente il Risorto, è Lui il vero ed unico “Salvator
mundi”;
ed è “unico” non tanto per una osservazione che venga
dall’esterno, ma per un fatto strutturale
alla funzione stessa che si simbolizza ed esprime nel quadro. La
funzione di “unicità” non è un qualcosa che, se fosse tolta dal
quadro, lascerebbe il quadro così com’è, ma è al contrario
essenzialmente collegata con il significato teologico
che lo stesso quadro esprime.
In
tal senso, che vi sia la croce sul globo sarebbe un pleonasmo a
questo punto: non vi è bisogno di questo simbolo - la cui necessità
invece vi sarebbe se non vi fosse nel quadro la figura del Cristo -;
il mondo è già
nelle Sue mani.
La
sfera e Cristo Gesù. Oserei dir di più, questa sfera – bellissima
– ha delle ascendenze anche nei detti e racconti popolari, dove si
dice che il mondo è come una palla di cristallo, ma pure nelle
aureole cristalline.
Il mondo è come questa palla di vetro, la luce lo attraversa e gli
conferisce bellezza, ma ha pure un suo lato demoniaco (cfr., qui la
nota a pie’ pagina n°21). Quel che lo salva non è la sola
bellezza, che pure ha, e che riflette la bellezza del Cristo, ma il
fatto che il Cristo lo abbia in mano.
La
bellezza si rivela nel suo duplice aspetto, ma è la relazione della
Bellezza con il Cristo che salva il mondo e rende la bellezza del
mondo passibile di una andamento contrario a quello “kenotico”
di allontanamento. E’ dunque possibile un avvicinamento,
quell’avvicinamento che teologia ed arte potrebbero ricercare: nel
loro caso sarebbe non una avvicinamento ma un ri-avvicinamento.
Esso può avvenire solo in Cristo, che permette il divinizzarsi della
bellezza umana.
[Andrea A. Ianniello]
BIBLIOGRAFIA
STUDI:
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“I Maestri del Colore”, Fratelli Fabbri Editore, Milano 1965
Jurgis
Baltrušaitis, Il
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Marco
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Leonardo da Vinci, la
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Leonardo, architetto e
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Torino Strenna 1963
Leonardo, San
Paolo, Arnoldo Mondadori Arte, Milano 1991
Leonardo
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sull’universo, a
cura di Anna Maria Brizio, UTET, Torino 1952
Leonardo
da Vinci, Trattato
della Pittura,
preceduto dalla Vita
di Leonardo di
Giorgio Vasari, Introduzione di Silvia Bordini, Edizione integrale
(ristampa anastatica del vol. 1890, Roma), Newton Compton, Roma 1996
Antonio
Orabona, Il
grandioso Ottocento russo. Filosofi, filosofie, narratori da Puškin
a Razonov, Editrice
Zona, Arezzo 2010 (in copertina errore di stampa: è Rozanov, non
Razonov) [Dostoevskij, Tolstoj, ma soprattutto Solovëv vi è una
presenza importante, e Bulgakov è vicino all’asse
Solovëv-Dostoevskij]
Luigi
Razzano, L’estasi
del bello nella sofiologia di S. N. Bulgakov,
Città Nuova, 2006
Paul
Vulliaud, Il
pensiero esoterico di Leonardo,
Edizioni Mediterranee, Roma 1987
ALTRO:
Luigi
Razzano, Teologia
e Arte in una lettura teandrica della bellezza,
in «Rassegna di Teologia Morale», anno XLVII, luglio-settembre 2006
Luigi
Razzano, Ipotesi
di un’Architettura interreligiosa. Presupposti teologici,
in «Rassegna di Teologia Morale», anno XLVIII, maggio-giugno 2007
FONTI ONLINE:
NOTE