La Battaglia che oppose Belisario, Dux dell’Impero Romano
d’Oriente, contro Gelimero re dei Vandali:
sabato 30 novembre 2013
“Un interessante libretto”
“Un
interessante libretto”
Ho
letto con interesse il libro del Sac. G. Battista Proja, Costantino
il Grande. Imperatore romano (280 circa - 337),
Basilica Lateranense, Roma 2013, anche se non aggiunge dati nuovi.
Tra i suoi punti di forza senza dubbio vi sono le immagini, che lo
corredano molto utilmente, ed anche le citazioni da lettere dello
stesso Costantino.
Detto
questo, rimane sostanzialmente scarso l’approfondimento critico
delle fonti, che sono prese letteralmente, senza una previa
riflessione sulla loro attendibilità, o una riflessione critica sul
loro significato. Per esempio le lettere: appartengono ad epoche
differenti e riflettono fasi
differenti dello stesso Costantino.
Correttamente
(a p. 16, e sgg.) si chiama l’Editto di Costantino un “Editto”
fra virgolette poiché non fu Editto, sarebbe più corretto chiamarlo
il “Rescritto” di Costantino e Licinio. Sugli eventi di Ponte
Milvio (p. 15) si suppone che Costantino fosse cristiano prima della
Battaglia di Saxa Rubra, il che è, quanto meno, azzardato,
seguendosi dei dati della pietà tradizionale, che cioè Costantino
fosse già stato cristianizzato dalla madre, e seguendo Eusebio, che
scrive molti anni dopo quegli eventi stessi.
Alle
pp. 21-22 si riporta una Lettera di Costantino a papa Milziade, dove
Costantino riprova le divisioni all’interno della Chiesa, che lui
avrebbe voluto unita. Ma questa, come altre lettere, non denotano una
esatta comprensione della posta in gioco, e, più che altro,
sottolineano la preoccupazione che sempre Costantino ebbe, di cercare
l’unità nella e della Chiesa. Per Costantino, in sostanza, la
Chiesa sarebbe dovuto essere un corpo unito che riunificava, o
contribuiva fortemente, a riunificare un Impero diviso. Per
Costantino, donatisti e cattolici dovevano cercare una conciliazione
in qualche modo: il che contrasta con l’attribuire a Costantino una
precoce conoscenza del Cristianesimo, del quale e col quale senza
dubbio ebbe familiarità ma che solo nel corso del tempo cominciò a
conoscere davvero.
Alla
p. 27 si dice: “Alcuni studiosi circa la religione di Costantino
hanno avanzato l’ipotesi che egli fosse seguace della divinità
solare (Sol Invictus) spesso abbinato con il culto di Mitra. Ma tale
opinione non ha fondamento storico poiché fondata solo su una
medaglia del IV secolo nella quale l’Imperatore è raffigurato
accanto alla divinità solare quale augurio di prosperità”; segue
sotto, nella stessa pagina, l’immagine della moneta, “Medaglia
aurea di Costatino”.
Ma il problema è che ci sta la moneta: il suo solo esserci dimostra
che il processo di avvicinamento di Costantino al Cristianesimo fu,
appunto, un processo,
e lungo, e non un “momento definito nel tempo”. Venendo alla
sostanza del problema, non dobbiamo fare di un imperatore del IV
secolo, un’epoca di passaggio, un imperatore già medioevale.
Inevitabile che il passato proiettasse nel IV secolo una mentalità
successiva, ma, se lo facciamo noi oggi, non compiamo una cosa
storicamente valida, per molti motivi, non ultimo quello che abbiamo
molte più informazioni su quell’epoca. Il IV sec., infatti, se non
fu più certamente un’epoca pienamente “pagana” sarebbe però
errato definirla già pienamente cristiana. Avvenne una svolta, la
“svolta costantiniana” appunto, a una svolta non è il cammino
che dopo sarà
intrapreso: attribuire al momento della svolta il cammino che verrà
inevitabilmente solo dopo è una forzatura. Chiaramente, Costantino
non fu nemmeno un politico del XIX secolo, come sembrava pensare
Burckhardt: fra questi due estremi probabilmente si ritrova il
cammino meno lontano dalla sensibilità e dai problemi dell’epoca
in cui Costantino effettivamente visse.
Quanto
alla vicinanza di Costantino alla religione mitraica, probabilmente
non vi fu: la cosa in generale più probabile è che il padre lo
fosse, poiché il Mitraismo era molto diffuso nell’esercito, e
Costantino – lo riconosce anche l’autore del libro (cfr., pp.
49-50, in un capitoletto significativamente intitolato “Costantino
stratega militare”) - fu davvero un grande
condottiero, su questo vi è accordo fra tutti gli studiosi. Va
sempre rimarcato che l’esercito di Costantino era in gran parte
composto di pagani, poiché lui proveniva, col suo esercito,
dall’ovest, dalle Gallie, dove il Cristianesimo era meno diffuso,
rispetto alla parte orientale dell’Impero, laddove il
Cristianesimo, invece, aveva il maggior numero d’aderenti e seguaci
in quell’epoca.
La
questione del Concilio di Nicea, che Costantino indisse allo scopo
precisamente di far ritrovare alla Chiesa la sua unità, ormai
periclitante a causa delle polemiche che circondavano le posizioni di
Ario, dimostra nuovamente che l’essenza delle questioni di fede
sfuggivano a Costantino, per lo meno in quel momento. Quel Concilio
vide la maggioranza cattolica compattarsi attorno alle formule
suggerite da Osio di Cordova, il consigliere imperiale personale di
Costantino, al quale va il merito, oggettivamente, di aver propiziato
la conclusione unitaria de Concilio. A Costantino possiamo conferire
solo il merito di aver creduto in Osio. Ma perché Costantino si
affidava così completamente a lui? Forse perché gli sfuggiva, per
lo meno in quel momento, la questione davvero essenziale che era
oggetto di acceso dibattito?
La
cosa è così vera che l’autore del libretto lo ammette, sebbene
con molta cautela. “Costantino probabilmente non riuscì a recepire
in pieno la definizione nicena sulla divinità di risto. La sua
profonda pietà ed entusiasmo per il Salvatore forse gli faceva
superare le divergenze essenziali della Fede. Inoltre influivano sul
suo spirito le continue ed aspre lotte fra cattolici ed ariani. Cosa
inoltre abominevole per lui che voleva un impero con solida unità.
La sua azione non fu teologica, ma di pacificazione, tanto
più che egli riteneva la questione come cosa secondaria
[corsivi miei]. Nella lettera ad Alessandro e Ario riconosce,
afferma, che le questioni trattate sono ‘...Dogmi così grandi e
difficili...per via della nostra stessa natura sia a causa di una
mediocre intelligenza’. Nonostante però questa consapevole
limitatezza dell’umana intelligenza di fronte alla Essenza di Dio
poi, contraddicendosi, afferma: ‘...litigate tra voi su questioni
meschine e di poco conto...contesa verbale banale...disputa
meschina...fin troppo irrilevante...di poca importanza...contesa
ingiusta e rovinosa...’. perciò esorta: ‘...con consapevolezza
dalle tentazioni diaboliche. Il nostro sommo Dio, il salvatore di
tutti, ha diffuso la luce all’intero genere umano’” (ibid., p.
30). Ora, queste non sono parole di chi ha ben chiara la posta in
gioco, né si può pensare che fosse davvero cristiano – in quel
momento – chi le dicesse. Possiamo parlare, a riguardo di
Costantino, di un processo
di avvicinamento al
Cristianesimo, non di una “conversione” precisa in un momento, al
punto che, al momento di Nicea, Costantino non aveva ancora ben
chiaro il punto decisivo e dirimente. Infatti, senza Nicea il
Cristianesimo non sarebbe poi tanto lontano dall’Islàm, per il
quale Cristo Gesù è “la migliore delle creature” e tuttavia
creatura mentre a Nicea si pongono le basi del proprium
distintivo del Cristianesimo rispetto a tutte le altre fedi del
mondo. Si trattò a Nicea, allora, della vittoria del partito tutto
sommato maggioritario fra i vescovi, quello cattolico, che trovò in
Osio da Cordova il suo esponente più ascoltato dall’imperatore.
Che
a Costantino questa questione dell’arianesimo non fosse molto
chiara, e non per una mera questione d’intelligenza, ma, piuttosto,
a causa di una sua mentalità che aveva delle basi differenti,
risulta proprio dagli eventi finali della vita di Costantino, ovvero
il suo battesimo, che fu indiscutibilmente cristiano, ma che avvenne
a Nicomedia e fu amministrato dal vescovo della città, Eusebio (di
Nicomedia, ibid., p. 45, da non confondere con Eusebio di Cesarea).
Ora, dice lo stesso autore: “Eusebio di Nicomedia era quasi ariano,
favorevole ad Ario. Era stato educatore dei figli di Costantino ed
era da questi molto stimato ed ascoltato” (p. 30). Al punto tale
che, secondo taluni, Eusebio di Nicomedia sostituì Osio, almeno in
certa misura, nel favore imperiale.
Di
nuovo, tutto questo non depone certo a favore di una piena e completa
“cristianizzazione” di Costantino, tutt’al più possiamo
parlare di un progressivo avvicinamento alla fede cristiana, ma
senza, però, una profonda comprensione delle sue basi dogmatiche.
Per
concludere: Costantino si avvicinò al Cristianesimo in un momento
difficile della sua vita, gli eventi di Ponte Milvio. Egli aveva
comunque dei problemi con la religiosità ufficiale romana, si veda
il suo contrasto con l’aruspicina che invece favoriva il suo rivale
Massenzio; e, senza dubbio, aveva “orecchiato” qualcosa del
Cristianesimo da sua madre. Ma che fosse cristiano prima del Ponte
Milvio è semplicemente fuori questione, pensarlo è accettare la
leggenda, molto più tarda, dell’incontro di papa Vigilio con
Costantino sul Monte Soratte, che avrebbe fatto sì che Costantino
stesso fosse già cristiano appena prima della battaglia di Saxa
Rubra. Frutto di tale incontro, sarebbe stata la famosa Donazione di
Costantino, che si essere un falso. Scopo della leggenda era per
l’appunto giustificare la Donazione. Per Costantino possiamo
parlare tutt’al più di un “progressivo avvicinamento”, ma il
Costantino degli ultimi anni non è certo quello del 312-313, e non
possiamo proiettare il Costantino tardo su quello dei noti eventi di
Ponte Milvio.
Scopo
di Costantino era piuttosto quello di sostenere e rafforzare l’unità
dell’Impero, e lui,
che ben conosceva il Cristianesimo non certo “dogmaticamente”, ma
come un corpo ben organizzato e tendenzialmente unitario, credeva che
si potesse avere una sorta di alleanza con lo stesso scopo in vista.
Questo non lo trasforma ipso facto
in cristiano e soprattutto non certo nel 312. Poi, chiaramente,
iniziò un processo, ma processo
e non un momento
specifico, di avvicinamento al Cristianesimo, che si concluse col
Battesimo, ma, di nuovo, senza che questo possa dirsi essere una
comprensione effettiva e piena del Dogma centrale del Cristianesimo.
Con i dati attualmente a disposizione, non è possibile spingersi
oltre questo.
“MIGRAZIONI DI POPOLI E NUOVI CONFRONTI SUL PIANO DEL DIALOGO TRA MONOTEISMI MEDITERRANEI”
“MIGRAZIONI
DI POPOLI E NUOVI CONFRONTI SUL
PIANO
DEL DIALOGO
TRA MONOTEISMI
TRA MONOTEISMI
MEDITERRANEI”
1.
L’epoca delle Migrazioni di massa. E’ un
chiaro segno dei tempi questa serie di movimenti d’individui in
gran numero, in numero tale che davvero si possono chiamare
“migrazioni” per cui questa stagione della storia si può
denotare come la stagione storica delle migrazioni di popoli, come
nella fase finale dell’Impero romano, naturalmente con differenza
molto grandi e sostanziali, però. Questo processo ha senza dubbio
alterato, ed ancor più altererà, sia la composizione sia la qualità
delle società interessate, tanto quelle di partenza quanto quelle di
arrivo. Si pensa sempre di solito alle società d’arrivo ma pure
quelle di partenza sono pesantemente modificate dal fenomeno.
La
prima osservazione che si può fare è che questo processo si attua
in prevalenza dai paesi poveri a quelli ricchi, da quelli del Sud e
dell’Est – parzialmente – del mondo a quelli del Nord e
dell’Ovest. E’ il senso inverso della fase del colonialismo, che
da Ovest e Nord andò a Est e Sud.
La
seconda osservazione riguarda cos’è il fascismo. Sbagliatissimo
confonderlo con il militarismo degli anni Trenta del secolo scorso,
dove la caratteristica militaristica era propria sia dei regimi
fascisti sia di quelli comunisti, e, dunque, non ci consente né di
caratterizzare il fascismo – o una sorta di “proto-fascismo” –
né il suo attuale ritornare, con ed in forme molto ma molto diverse
da quelle degli anni Trenta e dunque gli oppositori di tale crescente
tendenza si trovano a non sapere, letteralmente, che pesci pigliare,
come suol dirsi. Possiamo definire il fascismo come la tendenza a
costruire delle comunità chiuse, dei gruppi chiusi, e, in tal senso,
si tratta di un nazionalismo portato alle sue conseguenze estreme. E’
dunque un’ideologia “particolarista” mentre il comunismo,
almeno tendenzialmente, è un’ideologia “universalista”, che
vedeva la salvezza dell’umanità nella fine o almeno nel controllo
della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ripeto, il problema
della violenza nella politica, o dell’uso politico della violenza,
è un altro problema. Anche il capitalismo ed il liberismo l’hanno
usata, e non solo nel Sud America del XX secolo, si ricordi il
“Bloody Code”, il
codice di sangue della prima parte dell’Ottocento inglese, dove
chiunque, lavoratore, attentasse alla proprietà dei mezzi di
produzione poteva essere fucilato senza mezzi termini. Solo quando la
classe lavoratrice e gli artigiani giunsero ad accettare, volenti o
nolenti, la svolta capitalistica quel codice fu sempre più moderato.
Sgradevole dirlo, ma la violenza ha sempre
fatto parte della politica, in modi espliciti o impliciti.
La
realtà vera è che le civiltà si sono sì combattute, ma si sono
anche influenzate, più o meno fermamente.
L’idea di civiltà come gruppi chiusi non è comprovata dalla
storia. Vero è che ognuna, pur accettando influssi esterni, li ha
sempre saputi accogliere nel suo modello, per così dire “tradurre”
quasi fossero un’altra lingua, ma ciò non toglie che pensare alle
relazioni tra civiltà come sempre e necessariamente di lotta e
contrasto è riduttivo.
Quindi,
la risposta che, in un modo o nell’altro, si attua nei paesi
ricchi, che coincidono in gran parte – ma non solo – con
l’Occidente (il Giappone non è in alcun modo un paese occidentale
nelle sue strutture profonde) è quella di chiudersi, paradossalmente
però avendo bisogno delle forze che giungono dall’esterno. Direi
di più: provocandole, chiamandole. Quindi c’è questa
contraddizione davvero esplosiva nella situazione attuale del mondo,
ma, d’altro canto, l’ideologia del dialogo è debole per natura,
è un succedaneo che ha preso il posto dell’ideologia
universalistica senza però averne né la forza né, tantomeno, il
fascino. Perché un’ideologia senza fascino è come una di queste
famose attrici senza il trucco, manca dell’attrattiva.
Un’ideologia, infatti, si diffonde al di là ed oltre del suo
contenuto di “verità” e, difatti, spesso si applica un’ideologia
fascinosa ma che non ha che ben poco rapporto con la natura delle
cose. La gran parte delle cose che oggi sentiamo si caratterizzano
per quest’inefficacia profonda. Respingere tutti gli immigrati non
si può, ma nemmeno accoglierli tutti. E dunque? Da queste brevi
osservazioni si evince un quadro ideologico che non funziona perché
sottace tanti altri aspetti che però esistono.
Fra
questi, senza nessun dubbio, vi è la dimensione religiosa, perché,
dopo queste osservazioni generali, ci si confronterà con il tema
della migrazione di popoli oggi dal punto di vista religioso,
che poi è quello che qui c’interessa.
La
questione di fondo, difficile d’affrontare, è questa: è interesse
pratico degli uomini dialogare per cercare una miglior comprensione,
però il punto vero è che noi le religioni le ereditiamo, con i loro
aspetti positivi tanto quanto con quelli negativi. Sono questi ultimi
il problema, ed essendo ereditati, non sono facilmente modificabili.
Si giunge, così, con un insieme d’idee non adatto alla situazione
concreta, a dover necessariamente affrontare quest’ultima.
Veniamo
allo svolgimento storico della divergenza tra monoteismi che sta
dietro, non
nell’apparenza, a tutta la questione dell’immigrazione, e che non
si vuol vedere. Per lo meno, non si vede molto chiaramente questo
problema nel senso che non appare. Poi, passeremo attraverso la fase
medioevale, brevemente perché non si può se non sunteggiare degli
argomenti così complessi sui quali sarebbe opportuno ritornare, per
giungere ai nostri tempi. In base alla situazione com’è oggi,
allora si tratterà del tema del dialogo, che non può essere mero
“bon ton” e buona educazione e, allo stesso tempo, non può
neppur essere una mera mescolanza, una “notte in cui tutte le
vacche sono nere” perché le vacche hanno colori diversi, tanto per
fare una battuta.
Il
problema di fondo è che la natura stessa delle religioni cristiana
ed islamica è differente1.
Inoltre, le stesse modalità per mezzo delle quali le due religioni
son giunte ad imporsi come forze storiche fondamentali sono diverse.
Mentre il Cristianesimo si è imposto lentamente, attraverso
un’operazione tutto sommato “culturale” lato
sensu intesa, per, poi,
giungere a controllare il potere, l’Islamismo, al contrario, nasce
come stato, sin dall’inizio. La dimensione politico-sociale è
connaturata alla religione islamica come nessun’altra. Diversa,
poi, la condizione del Giudaismo, che, diversamente da Cristianesimo
ed Islamismo, stavolta considerati assieme, si limita ad un popolo
particolare, pur permettendo ai “timorati d’Iddio” una forma
minore d’appartenenza alla comunità giudaica. Dunque: Giudaismo
“particolarista” ed Islamismo e Cristianesimo “universalistici”,
ma quanto diversi, nelle modalità, questi ultimi due!
Su
tale differenza “fondante” si sono, poi, andate a compattare
tante differenze storiche, che si sono sedimentate su quella
originaria. Di conseguenza, in effetti solo in tempi assai recenti
l’Islamismo si può considerare come “opzione personale”, nella
realtà storica ciò non è mai avvenuto. Qui, al contrario,
Giudaismo e Cristianesimo si riuniscono, mentre qui è l’Islamismo
che si differenzia profondamente dalle altre due forme di monoteismo.
“Il fatto culturale (…), tanto nel Giudaismo quanto nel
Cristianesimo, rimane di competenza della comunità, che esprime al
suo interno una categoria di persone a questo destinate. Perché
l’Islàm venga considerato, in ambito musulmano, un’opzione
personale, bisogna arrivare alla Turchia di Atatürk, che fissa
limiti tra stato e religione, e più generalmente tra sacro e
profano, senza che tuttavia la Turchina odierna si presenti in ciò
con caratteristiche vistosamente diversa dagli altri paesi islamici
(…). La ragione d’esistere dell’Islàm
consiste esclusivamente nella realizzazione d’uno stato islamico
che, secondo quanto si è detto, si strutturi in un modo piuttosto
che un altro, ed esplichi così sulla terra
l’ordine ed il logos
divino”2.
Questa differenza ha un valore decisivo, perché, su questa base, è
chiaro che non vi possono essere due autorità, seppur una
subordinata all’altra, non vi può essere un diritto statale come
cosa separata. Non esiste il “Date a Dio quel ch’è di Dio ed a
Cesare quel ch’è di Cesare” secondo il noto adagio evangelico.
E’ una differenza che pone un macigno nelle relazioni religiose.
Certo, le correnti moderne ultime dell’Islamismo han tentato di
porre un limite a tutto ciò, ma, nell’insieme, il loro progetto è
rimasto parte della borghesia di quei luoghi, sostanzialmente
incapace di diffondere il suo messaggio alle maggioranze diseredate
e, al tempo stesso, deboli nei confronti del potere. Sempre trattando
di tali correnti “riformistiche” lato
sensu intese, la tendenza alla riscoperta dei
dati coranici è importante laddove si pone attenzione alla natura
della religione islamica ed al fatto che lo stato islamico originario
era naturalmente plurireligioso. E questo è un punto decisivo,
sostanzialmente andato perduto nel successivo sviluppo storico di
questa religione. “Plurireligioso” non vuol dire
“multiculturalista”, laddove il multiculturalismo accetta tutto
perché indifferente a tutto, ma vuol dire che, ognuno rimanendo se
stesso, pure s’interagisce, quindi si comunica, dunque si cambia.
2.
Crociate. A questo punto, occorre dire qual è
il contributo delle Crociate a tutto ciò. Se la causa remota è ben
più antica, la fase delle Crociate è sopravvalutata, come
conseguenze nei confronti di ciò che si è convenuto chiamare
“incomprensione” tra Occidente ed Islàm. Come stanno le cose?
Stanno così: le conseguenze politiche della stagione delle Crociate
sono state grosse, ma l’incomprensione esisteva già da molto tempo
prima, senza contare che quella stagione portò con sé anche molti
stimoli culturali senz’alcun dubbio positivi. Sebbene dal punto di
vista religioso vi fosse competizione, non era così da quello
culturale. Il cavaliere che andava in Medio Oriente sostanzialmente
aveva in comune con il combattente islamico una certa concezione
della cavalleria, tant’è che l’arte dell’araldica ebbe un
nuovo impulso in quell’epoca e non sarebbe oggi ciò ch’essa è,
con quei colori, senza l’influsso islamico. Ma che dire del campo
filosofico? Beh, lì l’influsso fu fortissimo. Occorre, dunque,
sfumare il giudizio su quell’epoca.
Le
Crociate, poi, costituirono una sorta di risposta occidentale
all’espansione islamica, che aveva toccato persino il continente
europeo, attraverso l’invasione – massiccia – della Spagna
[rimando all’immagine n°1, Islamici che invadono la Spagna], e
quella, invece più a fasi e correnti, della Sicilia. Quest’ultima
invasione, però, non doveva essere, dal punto di vista culturale,
meno importante dell’altra, perché, se in Spagna l’influsso sarà
soprattutto politico-filosofico, in Sicilia – oltre alle
inevitabili conseguenze politiche – vi sarà un’influenza di tipo
culturale lato sensu
intesa, che si eserciterà sul gusto anche del cibo per esempio,
sull’arte dei giardini, e via dicendo. Tante cose che noi
giudichiamo “europee” o “mediterranee” oggi non lo erano in
quei tempi e si sono stabilite massicciamente nell’Italia del Sud,
e da questa diffuse all’Europa, solo per mezzo della conquista
sicula. Qui è concesso solo accennare brevemente a questi temi.
Allora,
fuor di dubbio che le Crociate abbiano questa caratteristica
dell’Occidente che invade, militarmente, l’Oriente, fuor di
dubbio che questo, in termini storici più lontani, abbia alterato le
relazioni tra Islamismo e Cristianesimo, ma le Crociate furono
qualcosa di assai più complesso. Difatti, una parte della forza
delle Crociate fu scaricata sull’Impero Bizantino, così, di fatto,
indebolendolo ed aprendo la porta alla seguente ondata turca che,
dall’Asia Centrale, si andò indirizzando verso il Mediterraneo.
Senza contare le Crociate per la conquista dei Paesi baltici, quella
contro gli Albigesi. Insomma, il fenomeno delle Crociate è più
complesso di quanto non sembri, per quanto – semplificando – qui
si prende in considerazione solo il suo aspetto storico generale di
Occidente cristiano contro Oriente islamico.
Quanto
alle atrocità dei Crociati, non furono certo i soli a commetterle,
per esempio le truppe turche erano famose per questo [figura n°6,
Ingresso trionfale di Tamerlano a Samarcanda. Tamerlano ebbe un ruolo
importantissimo, poiché fu solo grazie a lui che l’Impero
Bizantino continuò per del tempo ancora, Tamerlano, infatti, sul
quale Franco Cardini ha scritto un libro divulgativo interessante,
combatté contro Bayazìd la Folgore, che stava prendendo
Costantinopoli]
Un
posto a parte vi ha Federico II di Svevia. Perché il suo caso
dimostra precisamente la tesi di fondo: nonostante le lotte vi fu un
travaso culturale importantissimo e notevole, che avrebbe modificato
per sempre la civiltà dell’Occidente medioevale. Federico II
partecipò a due Crociate, quella nell’est Europa, con
l’istituzione dell’Ordine teutonico, e quella a Gerusalemme.
[immagine
n°3, cavalieri teutonici, sviluppare a voce brevemente la storia di
quest’Ordine]
[immagine
n°4, Federico II e il Sultàn di Gerusalemme al-Kàmil, sviluppare
le circostanze della Crociata dello “scomunicato” imperatore]
In
realtà, però, il caso di Federico II fu particolare: si da giovane
parlava l’arabo ed era stato allievo di un sapiente arabo,
ricordiamo che all’epoca Palermo era una città islamica, ne
rimangono molte testimonianze anche oggi. All’epoca la sua
dimestichezza con il mondo islamico era considerata con sospetto,
come una nascosta “conversione” all’Islamismo che invece non ci
fu mai da parte sua.
In
realtà, Federico II di Svevia simbolizza una relazione differente
con il mondo islamico, una relazione di contiguità e comprensione,
che non implica la mera accettazione. Non solo a livello culturale
era influenzato dal mondo islamico, ma pure dalla sua cultura
iniziatico-religiosa, come si evince dal simbolismo di Castel del
Monte, per esempio.
Con
la battaglia di Lèpanto in realtà si chiude la lunga stagione delle
Crociate, si è nel secolo XVI e ormai la civiltà mondiale si va
lentamente ma inesorabilmente spostando verso l’Atlantico. Le
scoperte del Nuovo Mondo hanno alterato tutto. [riferimento
all’immagine n°5, la Battaglia di Lepanto]
3.
Islamismo radicale. Tutto cambia con la
modernità. Infatti, non si deve considerare la lotta che è avvenuta
nel mondo moderno come la riedizione delle Crociate: questo è un
falso storico, usato per scopi di propaganda dai jihadisti e dalle
correnti neocon occidentali. La differenza è profonda e
fondamentale: nell’epoca delle Crociate, pur combattendosi, i
due contendenti avevano una cultura comune,
cosa che nel mondo moderno non esiste più. E’ una differenza
radicale cui pochi pensano o sulla quale ben pochi si soffermano.
Quali
sono le cause dell’Islamismo radicale, che non è immediatamente la
stessa cosa che il jihadismo. Le sue origini sono negli anni tra le
due guerre mondiali, soprattutto in Egitto, ma vi sono documentate
relazioni con l’Iràn, per esempio al-Afghâni. [immagine n°9
degli anni Sessanta] E’ una tendenza profonda del mondo islamico,
ma che non aveva mai avuto l’exploit degli ultimi tempi, grazie al
petrolio saudita ed alle armate americane…
La
radice profonda della deriva radicale si trova nel fatto che il
Corano non è mai
stato la fonte immediata e completa della teologia musulmana, come
dimostrato da Van Ess3.
4.
Jihadismo. Il “jihadismo” è una forma
d’Islamismo radicale che predica il
“jihàd”, la
guerra “legale”, cioè “giusta” secondo il concetto cattolico
dello “justum
bellum”, come unica
risposta ai problemi del mondo islamico, nel quadro di un progetto
che vede in un – impossibile
– ritorno al Califfato lo scopo vero ed ultimo della comunità
islamica.
Come
si pone questa corrente, così aggressiva, rispetto all’insieme
della comunità islamica? Perché, al di sotto ed al di là di tutte
le polemiche del momento o di questo o quell’evento più o meno
“shockante”, il punto nodale è precisamente questo. Qual è la
capacità concreta d’influenzare la comunità islamica da parte di
questi gruppi? Ricordiamo che l’Islamismo è plurale
per definizione e che mai
queste correnti potranno conglobare tutte le forme d’Islamismo,
nondimeno questo è il quesito-chiave, un quesito che, sin ora, non
ha mai avuto una vera risposta, per errori, attuali come pregressi,
da ambedue le parti.
Risponderò
brevemente a questa domanda, perché una risposta più articolata ci
porterebbe molto lontano, con il passo di un noto studioso: si tratta
di una “visione assolutistica [dell’Islamismo] che non vale
certamente per tutti i musulmani, ma fa vibrare l’animo di molti”4.
5.
Dialogo o qualcosa di più. Ideologie a confronto.
A questo quadro di forze che si sono andate strutturando nel corso
della storia e che devono interagire senza poter cambiare se stesse,
si oppone la necessità del dialogo. Ora, questa necessità è
sentita fortemente da chi, nel mondo dell’associazionismo e del
volontariato, ha concretamente a che fare con questo problema.
Tuttavia, si tratta pur sempre di un’ideologia debole, per molti
motivi. Il primo è proprio di tipo storico, questa breve panoramica
– sulla quale sarebbe opportuno ritornare – dimostra come la
questione sia sedimentata nel corso del tempo e, dunque, assai
difficile da modificare. Può solo essere “ammorbidita” e
smussata, in effetti il “dialogo” questo è.
Il
secondo punto per il quale l’ideologia del dialogo non va e troppo
spesso si risolve in una buona educazione ma non un confronto serio,
per il quale i due dopo si ritrovino diversi da prima, è che lo
status epistemologico del “dialogo” è diverso nei due contesti.
In quello occidentale, permeato di cultura greca – che l’Islamismo
ha rifiutato da una certa epoca in poi – il “dialogo” è cosa
in se stessa “buona” mentre nel mondo islamico non è così.
Fondamentalmente, basicamente, all’essenza delle cose, l’Islàm
non è interessato a dialogare se non come fatto episodico e cosa
strumentale. Dialogano sul serio solo quelle correnti che hanno
sottoposto critica certi punti fondanti del messaggio islamico e son
giunti – in un modo o nell’altro – a distinguere, seppur non
separando, la parte religiosa “strictu
sensu” e quella politica.
Solo
queste correnti – che esistono – son
davvero interessate. Tali correnti esistono davvero, però, oggi, a
causa di una situazione politica che ha esaltato la componente
distruttiva delle correnti radicali o/e, peggio, jihadiste, le
correnti che davvero dialogano sono una parte minoritaria del mondo
islamico, minoranza pur presente e che sarebbe sbagliato non
considerare. Tal è la situazione al momento, vista in modo
realistico. Il problema rimane quello delle scelte generali e
fondanti, se, cioè, la via presa dalla deriva tanto “jihadista”
quanto neocon sia quella giusta, se non sia il caso di riconsiderare
l’intera questione.
La
questione ebraica in tutto ciò ha un ruolo legato a quella islamica:
si tratta di un cambiamento non da poco rispetto al passato
cristiano, dove il Giudaismo è sempre stato visto come nemico del
Cristianesimo. E questa è un’altra novità piuttosto rilevante…
Giunti
a questo punto, vi sono tre opzioni possibili.
La
prima è continuare come ora, cioè vi è un dialogo di facciata, per
problemi concreti o politici, nell’ambito di una differenza
sostanziale che si fa finta di non vedere, e che viene allargata dai
gruppi radicali di ambo le parti, seppur con metodi molto ma molto
diversi, uniti, però, nel punto centrale: l’incompatibilità fra
Islamismo e modernità, perché di questo si tratta più
profondamente.
La
seconda strada è quella di approfondire il dialogo, perché non sia
solo né buona educazione – “bon ton” come dico – e neppure
una mera tolleranza, ma piuttosto un confronto sincero però
amichevole, che porti le due parti a comprendersi accettandosi come
differenti e tuttavia capaci di vivere assieme, perché questo sarà
il nodo decisivo.
Infine,
last but not least, vi
è una possibilità del tutto incompresa oggi, e cioè di andare
oltre il solo dialogo nel senso appena detto, cioè una comprensiva
ed intelligente accettazione delle differenze, comprensione senza
mescolanza, accettazione senza commistione. La terza possibilità è
che esiste “un punto di tangenza” e di sintesi, che, però,
sarebbe in tal caso diverso da tutt’e due i componenti
l’opposizione che vediamo sotto i nostri occhi. Tale punto non può
essere la mera mescolanza ma neppure la sola affermazione delle
differenze. in realtà, questa sorta di parola che va oltre
i limiti ma che non li abbatte,
fu quel che cercò una parte recondita del Medioevo, fu quel che
cercò Federico II ed anche quel che consentì ai Templari di poter
interagire con taluni settori del mondo islamico senza mescolarvisi.
Che
questa possibilità esista è una possibilità concreta,
teoricamente. Che debba e possa manifestarsi è, invece, forse una
delle più grandi scommesse dell’umanità. Di certo, sarebbe
qualcosa di trasformante all’estremo e sulla e della quale non ha
senso dare delle immagini, poiché sarebbe davvero “una cosa nuova”
sotto il Cielo.
Andrea A.
Ianniello
Bibliografia
Atlanti Universali
Giunti, Crociate, Giunti 1999
Atlanti Universali
Giunti, Islamismo, 2001
Franco Cardini, Il
Signore della paura. Tre cavalieri verso la Samarcanda di Tamerlano,
Mondatori 2007
David Cook, Storia
del jihad. Da Maometto ai nostri giorni, Piccola Biblioteca
Einaudi 2007
Riccardo Redaelli,
Fondamentalismo islamico, Giunti 2007
Biancameria Scarcia
Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, Sansoni 1974
Josef Van Ess, L’alba
della teologia musulmana, Piccola Biblioteca Einaudi 2008
Slavoj Zizek, In
difesa delle cause perse, Ponte delle Grazie 2009
NOTE
1
Rimando all’immagine n°7,
pagine del Corano.
Difatti, come per il Cristianesimo la Manifestazione del Divino è
il Cristo, per l’Islamismo lo è il Corano,
“Corpo” della Rivelazione e “parola d’Iddio”,
Kalimat-ul-Lâh.
2
Biancamaria Scarcia Amoretti, Tolleranza
e guerra santa nell’Islam,
Sansoni 1974, p. 24.
3
Cfr., Van Ess, L’alba
della teologia musulmana,
Piccola Biblioteca Einaudi 2008, pp. 108-109 [immagine n°8, passo
da Van Ess] Sul concetto di “eresia” nel mondo islamico, cfr.
ibid., 28.
4
D. Cook, Storia del
jihad. Da Maometto ai nostri giorni,
Piccola Biblioteca Einaudi 2007, p. 243 [immagine n°10, passo da
Cook]
IMMAGINI SCELTE (non presenti qui)
Immagine 1, Islamici
invadono la Spagna
Immagine 2, Crociati
invadono Gerusalemme
Immagine 3, Cavalieri
teutonici
Immagine 4, Federico II
e il Sultano al-Kamil a Gerusalemnme
Immagine 5, la
Battaglia di Lepanto
Immagine 6, Ingresso
trionfale di Tamerlano a Samarcanda
Immagine 7, Pagina dal
Corano
Immagine 8, Passo da
Van Ess, libro citato in Bibliografia
Immagine 9, Gruppi
armati pakistani
Immagine 10, Passi da
Cook, libro citato in Bibliografia
“Iside e il rito longobardo. Janare antiche e maghi moderni tra fatture, misture e guaritori”
“Iside
e il rito longobardo. Janare antiche e maghi moderni tra fatture, misture
e guaritori”
***
***
“La simbologia
dell’albero nelle religioni nordiche ritengo essere la più
accreditata traccia storico-leggendaria per seguire il fenomeno delle
streghe e della stregoneria la cui patria, è assodato, fu Benevento.
I fatti, gli episodi, i personaggi e gli eventi ben sostengono questa
ricerca. Altri, invece, hanno scritto preferendo far ‘discendere’
dal culto d’Iside e della sua magica egizianità il Sabba delle
Streghe nel Sannio beneventano” (Alberto Abbuonandi, Le streghe
di Benevento e il simbolo dell’albero, Edizioni il
chiostro 2003, p. 77). In realtà, però: “tra i riti notturni
d’Iside, dea della luna, ed il rito religioso ed orgiastico di
Wothan [sic] e dei Longobardi c’è differenza, eccome! Il “De
Nuce Maga” del Piperno (1640) parla di maledetti riti dai ‘sozzi
gusti con Satanasso che solea comandare balli e danze’ e che presa
forma d’uomo pecca carnalmente con le meretrici di turno sotto
frondosi alberi. Riti, appunto, troppo pagani e molto differenti dal
culto d’Iside. Anzi, in proposito si continua a discutere sulla
questione della mariolatria cristiana nel culto d’Iside ma, anche
Piperno, (…) si fermò a considerare il solo rito sotto l’albero
magico così com’era stato tramandato. Non aggiunse, né tolse
molto, né diede una giustificabile origine o derivazione” (ibid.,
p. 79).
“Il rito longobardo
sopravvisse grazie al folklore contadino che lo ‘mescolò’ alle
proprie usanze, quasi ad esorcizzarle dal maligno. Rito che partì
dal Mediterraneo e giunse un po’ dapperutto. E, dal basso Medioevo,
si propagò la storia e la leggenda del Noce di Benevento: luogo di
convegni stregonici e demoniaci. Storia e leggenda che continuarono a
produrre, nell’immaginario, donne e uomini che s’ispirarono al
rito longobardo: preparatori di fatture e capaci di sortilegi e cure
medicamentose. Si moltiplicò la fama delle janare cattive e delle
janare buone, capaci cioè di fare e disfare una fattura e crebbe il
numero delle inciarmatrici (…). (…) Per il raffreddore, per
esempio, bastava ‘respirare’ acre fumo di paglia; per togliere i
porri bisognava strofinarcisi con la schiuma di lumache; per
l’itterizia ci voleva un bel decotto a base di polvere di marmo e
ceci neri. Oppure, per seminare zizzania ed inciuci si consigliavano
ortiche, zolfo e pepe, mentre la menta e il ricino servivano per il
malocchio” (ibid., pp. 80-81). Né, poi, è facile spiegare la
natura della “fantastica scopa delle streghe di Benevento” (p.
82).
“Nella cosiddetta ‘Langobardia Minor’, nel Mezzogiorno, i Longobardi fecero di Benevento la loro capitale politica e qui, lontano dalle mura di questa bellissima città, continuarono i loro culti dell’albero con un rito molto particolare. Rito che, la storia dice, si svolse nella città sannita per l’ultima volta e che tanta fama stregonica diede al sinistro luogo che poi diventò il posto del Sabba. Benevento diventò tanto famosa per la nomea di ‘città stregata’ che nel mondo allora conosciuto, in Europa cioè, ben tre territori le dedicarono città con lo stesso nome. In Francia si chiamò Benevent; in Spagna Beneventa; in Inghilterra Benevenna. Correva l’anno 663…” (ibid., p. 63).
“Nella cosiddetta ‘Langobardia Minor’, nel Mezzogiorno, i Longobardi fecero di Benevento la loro capitale politica e qui, lontano dalle mura di questa bellissima città, continuarono i loro culti dell’albero con un rito molto particolare. Rito che, la storia dice, si svolse nella città sannita per l’ultima volta e che tanta fama stregonica diede al sinistro luogo che poi diventò il posto del Sabba. Benevento diventò tanto famosa per la nomea di ‘città stregata’ che nel mondo allora conosciuto, in Europa cioè, ben tre territori le dedicarono città con lo stesso nome. In Francia si chiamò Benevent; in Spagna Beneventa; in Inghilterra Benevenna. Correva l’anno 663…” (ibid., p. 63).
Fuor di dubbio che sia
“il rito longobardo”, come lo chiama l’autore testè riportato,
ad essere il “milieu” di base di quel mondo di streghe
cattive e fate buone, janare ambedue, ma di segno diverso, a
testimoniare il fatto che asseriva Gurdjieff: la “magia” è una
sola in quanto conoscenza delle relazioni sottili tra cose,
uomini, animali. Ma resta da spiegarsi il perché di questo legame.
Allora, la teoria sostenuta in Pietre che Cantano. Suoni e
sculture nelle nostre chiese, Appendice (A. Ianniello, Vozza
editore 2007), che, cioè, i Longobardi – ai quali senza nessun
dubbio risale il rito vero e proprio – però abbiano rivitalizzato
e modificato un sostrato però già presente, del culto
d’Iside ma degenerato, non può esser esclusa a priori.
“O anima mia,
non desiderare
la vita immortale,
ma esaurisci
il campo del
possibile!”
(Pindaro)
“La successione dei
Longobardi, l’esodo e il sito del loro regno, cioè la loro
origine, e come, usciti dall’isola di Scandinavia [così si credeva
all’epoca], migrarono nella Pannonia [attuale Ungheria], e poi
dalla Pannonia in Italia e ne abbiamo preso il regno, Paolo [Diacono,
Paolo Varnefrido in realtà], che n’era profondo conoscitore, lo
narrò con ragionata riflessione e in una densa sintesi (…). Non
senza motivo, però, la sua età lo trattenne...”...
venerdì 29 novembre 2013
“Frammenti”
“Dirò
subito che la religione dei Cafiri è poco conosciuta. Probabilmente
si trova in uno stato di degradazione, di disfacimento finale, e si
presenta quindi come una realtà non solo complessa, ma confusa.
Nella nostra breve visita ho avuto l’impressione che i Cafiri
stessi abbiano perso in gran parte ormai il contatto con le forze
spirituali della loro fede, ripiegandosi sugli elementi d’un
superstizioso magismo contadino e pastorale. Nel quadro nebuloso di
babuk, shawan, fate, demoni santi, vaghe potenze
affacciate dagli orli del nulla, vi sono tuttavia, almeno nella Valle
di Bamboret, due personalità divine che godono d’un particolare
risalto: Mahandeo e Jestak. Mahandeo ha carattere nettamente virile e
guerriero, è il protettore della stirpe, del villaggio, della terra
cafira, della caccia, delle greggi […]. Jestak invece ha
personalità femminile, e presiede a tutto ciò che riguarda
l’abitazione, la famiglia, gli eventi biologici della vita
individuale: la gravidanza, la nascita, i bambini, la casa, l’amore,
il matrimonio, la malattia e, infine, la morte” (F. Maraini, Gli
Ultimi pagani, Red edizioni, Como 1997, ibid., p. 148).
“Atto
fondamentale del culto è il sacrificio d’animali domestici. Un
tempo, nelle occasioni solenni, s’immolavano decine e decine di
buoi; le feste allora erano spaventose ecatombi. Oggi, al massimo si
sgozzano alcune povere capre. Per compiere un sacrificio viene acceso
prima di tutto un fuoco dinnanzi al luogo dove risiede la divinità.
Sulle fiamme bruciano alcuni rami del sacro ginepro […]. poi
l’animale viene sgozzato e il suo sangue viene gettato sull’ara,
spesso insieme al latte o al caglio. […] Ogni cerimonia religiosa
importante viene solennizzata con danze e con canti ritmati al
battito di tamburo. Come abbiamo visto, vi son due grandi feste
annuali: il Chowmas, che ha luogo al solstizio d’inverno,
poco prima di Natale, e il Jyoshi che si svolge per tre giorni
in primavera, alla metà di maggio. […] Un’idea importantissima,
che appare in tutte le manifestazioni della religione cafira, è
quella di purità rituale. Ho già ricordato gli importanti tabù che
riguardano uno spazio della cucina […]. la casa cafira, e i suoi
immediati dintorni, sono cosparsi di questi tabù, come i nostri
centri cittadini sono cosparsi di sensi unici, soste vietate e
circolazioni rotatorie. Vi sono luoghi puri e luoghi impuri, come vi
sono persone in stato di purità e altre in stato d’impurità
rituale. Ogni contatto tra i due regimi costituisce infrazione,
spesso vero peccato, e richiede sacrifici, talvolta assai costosi,
perché venga ristabilito l’ordine sacro” (ibid., pp. 149-150).
Suona
familiare a qualcosa...
“The way that you wander is the way that you choose. /
the day
that you tarry is the day that you lose. /
Sunshine or thunder, a man
will always wonder
where the fair wind blows...
where the fair wind
blows.”
mercoledì 20 novembre 2013
“Amphitheathrum” - Brevi Noterelle -
“Amphitheathrum”
“Gli
imperi nascono. Gli imperi muoiono”
(Il
“Romanzo dei Tre
Regni”)
“Salvum lotum!
Salvum lotum”
(Inscriptiones
latinae selectae
2725)
“L’intera
notte a languire nelle segrete del circo, e le forze ormai allo
stremo. Terrore, persecuzioni, arresti, interrogatori, torture,
profanazioni come preludio. Durante la notte le belve avevano
squassato le sbarre; la loro agitazione e le loro urla s’imprimevano
profondamente negli animi. Ancor più terribile, il vociare della
gente che già alle prime luci del giorno cominciava a riempire
l’anfiteatro. Era un vociare allegro, impaziente di curiosità. Un
contendersi i posti. Rivenduglioli vantavano a pieni polmoni le loro
bevande. Più tardi arrivavano i notabili, i cavalieri e i senatori,
infine il Cesare in persona. Coloro che pensavano e sentivano
altrimenti erano in assoluto soprannumero. Poi si sollevavano le
grate; il pugno d’uomini veniva spinto nell’arena. Il sole
abbacinava. E tuttavia era più debole della luce interiore.
Così
crollano gli imperi, così il mondo si trasforma”
(Ernst
Jünger, Al Muro
del Tempo,
Adelphi 2000, p. 155, corsivo mio).
Questo
passo di Jünger rende bene l’idea di “venire alla luce” in un
Anfiteatro, ma, nello specifico, qui si parla delle “venationes”,
le lotte contro gli animali, alle quali erano condannati i cristiani
dell’epoca, e non solo loro. Si trattava di una pena. Sappiamo che
proprio le “venationes”
di molto sopravvissero1
alla fine dei “Ludi
gladiatorii”,
che avevano un’altra origine, tant’è che ad essi non
potevano partecipare coloro i quali fossero dei rei, considerati o
effettivamente colpevoli: ed i cristiani delle origini erano
considerati malfattori e pericolosi socialmente2.
Come si sa, sebbene l’Anfiteatro capuano – dell’originaria
Capua, che non coincide con l’attuale Santa Maria “Capua Vetere”
(C.V.) – non sia il più grande, di certo a Capua sono nati i “Ludi
gladiatorii”
stessi. Sono di probabile origine etrusca, ed erano considerati come
“sostituti” ad un originario rito sacrificale di spargimento di
sangue umano, per favorire la permanenza del morto negli stati oltre
la vita materiale presente. Il manichino, dipinto di rosso, e la
lotta nell’arena sostituirono
l’effettivo sacrificio umano delle origini. Si sa, poi, di come i
Romani antichi riprovassero i sacrifici umani, che contrastarono
ovunque trovarono, per esempio tra i Celti: pochi si rendono conto
che gli antichi Celti facevano dei sacrifici umani – ad esempio a
determinate Lune o all’ “Angelo caprone” di Mona -, e vi era
pure il culto della testa, tipico dei popoli della steppa3,
che, in Irlanda antica, passò all’uso di fare una polpetta del
cervello del teschio più la calce aggiuntavi. Non solo, ma
ricorderei che i Romani dei tempi repubblicani rimanessero scioccati
dall’uso punico di sacrificare i bambini ai Baal, per quanto gli
ultimi ritrovamenti archeologici facciano capire che a Cartagine
l’uso molto probabilmente era andato recedendo o non era quasi mai
stato dominante. D’altro canto sappiamo che, in casi estremi,
persino il “mos”
degli antichi Romani delle origini poteva piegarsi alla dura esigenza
del sacrificio di sangue.
I
“Ludi
gladiatorii”,
con l’andare del tempo, persero sempre più – ma mai
del tutto! – il loro significato originario, che era religioso, per
accedere ad un uso “politico” in senso stretto. Oggi la politica
è succube dell’economia, quindi si pensa che fare un uso
“politico” di un qualcosa abbia, alla fin fine, una motivazione
di tipo economico. Nulla di più errato per gli Anfiteatri: i Giochi,
nelle loro varie forme, dalle “venationes”
ai “Ludi”
veri e propri, erano pagati interamente
dal maggiorente di turno, che fosse l’Imperatore stesso o un
notabile locale, con lo scopo politico. Scopo della politica è il
consenso.
Non
dunque il denaro, anzi, si spendevano
somme favolose, con il solo scopo del consenso e dell’accrescimento
del prestigio. Si chiamavano “munera”,
donde il termine italiano “remunerazione”, pure “municipio”,
la gestione della cosa pubblica locale...
Ma,
come si è detto, il senso religioso non sparì, si modificò: da un
culto infero a favore dei defunti notabili perché avessero una
“buona sorte” nell’oltretomba, si passò all’ “ideologia
imperiale”, che si basava sull’idea della civiltà che domava la
forza bruta. In tal senso, la vera “novità” degli Anfiteatri era
costituita proprio dalle “venationes”,
cui eran condannati anche i perturbatori dell’ordine costituito,
che simboleggiavano le indomate, confuse,
frustre passioni della natura grezza, che l’ “Ordo”,
simbolizzato dal dominio imperiale, avrebbe non eliminato, ma per lo
meno disciplinato e ridotto all’ordine, appunto.
Non
certo a caso, allora, Ercole era il dio dell’Anfiteatro e della
“venationes”,
Marte invece lo era dei “Ludi”
veri e propri, che, col tempo, divennero una vera e propria
professione, che dava opportunità alle classi inferiori di accedere
all’Ordine dell’Impero.
Come
si sa, è a Capua che Spartaco ebbe la sua educazione alla Scuola
gladiatoria. Vi sorgeva la Scuola forse più importante, e lo stesso
Anfiteatro non aveva le proporzioni “imperiali” che oggi possiamo
in parte vedere e, in parte maggiore, possiamo solo ricostruire. Fu
l’Imperatore Adriano che lo fece modificare, abbellire, ingrandire,
dotandolo di statue, fregi, che un tempo eran tutti dipinti, e talune
parti erano sottolineate da leggere dorature: il tutto doveva essere
uno spettacolo sfolgorante, unico, una vera dimostrazione del potere
imperiale.
In
effetti, compresa la mentalità dell’epoca, non dobbiamo mai
dimenticarci, però, che la merce era il sangue, era lo spettacolo
del sangue e della gloria, perché le due cose nella mentalità
romana antica si ricollegavano. Lo scopo era il consenso,
sangue in cambio del consenso. Sangue che “acquistava”
il consenso. Consenso verso gli uomini, con la magnificenza e
l’accedere a dei Giochi che avevano anche l’indubbio ruolo di
sfogo delle passioni sociali - e che, quindi, le indirizzavano e le
riducevano all’ordine -, e consenso verso le divinità, gli dèi,
i cui simulacri decoravano la struttura, che, dunque, aveva un suo,
sebbene indiretto,
ma indubbio, ruolo sacro.
E
così, ritualmente, ciclicamente, gli uomini seguivano lo spettacolo
del sangue e dell’eroismo, il gioco della morte, da parte di chi vi
accedeva come professione e come guerra, e di chi, semplicemente,
inscenava un’esecuzione esemplare, lasciato alla mercè di quelle
bestie che avevano rifiutato l’Ordine e delle quali bestie lui,
delinquente, criminale, “noxius”
come si diceva con termine tecnico, alla fin fine faceva parte. Era
ridotto al rango di bestia, e con le bestie doveva vedersela, non era
un “Gladiator”
che, sebbene nella parte inferiore dell’Ordine imperiale, tuttavia
era parte di quell’Ordine stesso.
Ma
non dobbiamo mai dimenticare che gli “Amphitheatra”
erano costruiti con sotto tutta una struttura che permetteva ai
Giochi di funzionare come una macchina ben rodata. Per tutti, i
volenti e i nolenti, quando la porta si apriva e da sotto si accedeva
all’immediata luce del giorno, iniziava il Gioco con la morte, la
scossa di adrenalina riportava alla lotta, il tempo scorreva rapido e
mandava i suoi fendenti a chi doveva giocarsi la posta più
importante, la posta di sempre, quella che ognuno si gioca senza
sapere: la vita. Ma, in quel preciso momento, lo sapevi, sapevi che
cosa ti stavi giocando...
Anche
oggi noi viviamo un tempo di estrema
spettacolarizzazione, all’apparenza non così violento, anche se mi
starei attentissimo ad emettere facili giudizi, non
certo
perché noi si possa dimenticare che si trattava di un Gioco
crudele4,
ma perché anche noi accettiamo come “normale” tante cose che il
buon senso direbbe non esser tali, o che genti, e del passato e del
futuro, considererebbero devianti e malate. E le accettiamo di buon
grado, quasi fossero “normali”, quasi fossero la norma,
di sempre, della vita umana, da che tempo fu, quando così non è
affatto, ma invece sono prodotti storici.
Però
pensiamo alla citazione in calce, dove la spettacolarizzazione della
lotta e del sangue per guadagnare il consenso e mantenerlo s’inceppò
su di un osso troppo duro, che in quell’epoca furono i primi
cristiani; questi fecero saltare il meccanismo non per le usuali
argomentazioni che di solito si credono, ma in effetti perché, al
fondo, usarono il meccanismo stesso della spettacolarizzazione contro
se stesso. E pensiamo anche ai nostri tempi di spettacolarizzazione,
se non sia possibile, cioè, usare quei meccanismi contro loro stessi
e farli implodere...
Quindi
è una vicenda che si lascia meditare a lungo, perché...
Così
crollano gli imperi...
Così
il
mondo si trasforma...
Andrea
A. Ianniello
NOTE
1
Tant’è
che “verso la fine del sec. XI Atanasio, duca di Napoli, lo adibì
a fortezza e ne affidò il comando al conte Guaferio. A quell’epoca
veniva comunemente chiamato Berolais, termine sul quale eruditi e
studiosi han versato fiumi d’inchiostro, senza (…) giungere ad
una conclusione soddisfacente” (A. Perconte Licatese, Capua
Antica,
Edizioni Sparaco 1997, p. 102.
2
“Vanno
operate poi significative differenze, all’interno dei giochi, tra
i combattimenti dei gladiatori e quelli dei condannati. A differenza
dei condannati, i gladiatori erano tali per professione.
Indubbiamente appartenevano ad una tra le categorie socialmente più
disprezzabili – il paragone prossimo è con la prostituzione –
ma ricevevano un compenso per la loro prestazione. I condannati
erano designati con il termine tecnico di noxii.
Vi erano i damnati
ad ludum
ed i damnati
ad bestias.
Un’ulteriore distinzione va operata tra coloro che venivano
condannati semplicemente a combattere, per cui veniva offerta loro
una sia pur minima possibilità di scampare alla morte, e coloro a
cui il combattimento nell’arena era inflitto come forma di
esecuzione capitale. Le esecuzioni dei noxii
avvenivano nella pausa di mezzogiorno, dopo le venationes
del mattino e prima dei munera
[così eran chiamati i “Ludi”
gladiatori veri e propri, nota mia] del pomeriggio” (Anna Carfora,
i
cristiani al leone. I martiri cristiani nel contesto mediatico dei
Giochi gladiatorii,
Edizioni Il Pozzo di Giacobbe 2009, p. 37).
3
Ne
vediamo degli esempi anche tra i Longobardi, per esempio la famosa
storia del teschio nel quale Alboino volle far bere la regina
Rosmunda, “Bevi Rosmunda, dal teschio di tuo padre!”; su questo
cfr.: http://it.wikipedia.org/wiki/Rosmunda_%28regina%29
4
Cfr.,
F. Cardini, Quell’antica
festa crudele,
Il Mulino, 2013. “Festa crudele” potremmo dire che la vita un
poco lo è di per sé. Mi ricordo una volta che, guidando la
macchina, dovevo fare una scelta fra due strade, scelsi di svoltare
in una e ne fui subito contento, perché così evitavo un problema
sulla strada. Mi stavo congratulando con me stesso quando mi avvidi
però, appena dopo, con la coda dell’occhio, che l’altra strada,
quella che credevo di aver rifiutato partendo da una mia saggia
decisione, in realtà presentava un cartello di divieto di
transito... In altre parole, non vi sarei mai potuto passare in ogni
caso! Così è la vita, in gran parte si tratta di andare per il
cammino dove sei obbligato dicendo: “Oh! Era proprio ciò che
volevo...”, e questo ci parla del lato costrittivo
della vita, che, quindi, sa esser cruda. Dall’esser cruda
all’esser crudele il passo è breve...
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