martedì 25 febbraio 2020

Recensione de “LA MODERNIZZAZIONE DI TERRA DI LAVORO (1957-1973)”




















Il libro di Paola Broccoli, La modernizzazione di Terra di Lavoro (1957-1963), Rubettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2019, consente di misurare con esattezza una passata fase di “sviluppo”. Dal punto di vista strettamente scientifico, c’è poco da dire: i dati son precisi ed è molto interessante poter seguire lo sviluppo e il “de-sviluppo” di quella fase specifica della storia del Sud - fase della quale il cosiddettocaso Caserta” è stato uno specchio precisissimo[1].
Tuttavia vanno fatte delle precisazioni, non secondarie.
La prima precisazione è su di un punto molto importante: che cosa s’intenda per “modernizzazione”, che, per l’autrice, fa rima, in pratica, con l’ “industrializzazione”, pertanto il titolo andrebbe cambiato in: “L’ industrializzazione di Terra di Lavoro”[i].
Infatti che la modernizzazione s’identifichi, de facto, con la “industrializzazione” vien detto dall’autrice sin dal principio, quando chiarisce le sue chiavi interpretative: cf. ivi, pp. 9-10.
Il libro si struttura, inoltre, intorno a due date, molto significative: dal 1957 al 1973. Non sono scelte “a caso”.
Poi l’altro tema di fondo è quello della Cassa del Mezzogiorno e le sue due fasi: una prima di effettivo aiuto per la nascita della “grande industria” nella Provincia di Caserta e la seconda, basata più sull’assistenza. P. Broccoli distingue tra le due fasi, in maniera netta. Questi son i temi più rilevanti. Sulla Cassa del Mezzogiorno rimando al testo, che occorre leggere, se si vuol capirne questi due momenti. Il testo aiuta a ricollocare nel suo tempo questa tematica.


Ma vorrei qui ritornare sulla relazione fra industrializzazione e modernizzazione, che appare centrale, come chiave interpretativa: “La condizione di arretratezza in cui versava il casertano rimanda all’Inghilterra del primo periodo Tudor, dove i ricchi agrari recintavano sconfinate distese di terra [la fase precedente “l’accumulazione del capitale”, inoltre, punto importante, le strutture istituzionali dell’Inghilterra del periodo Tudor andavano crescentemente concentrandosi, mentre nel Sud, non solo nel “casertano” dunque, ciò non avveniva o, se avveniva, avveniva non nelle stesse modalità e nella stessa intensità], destinandole a pascolo per le pecore [dunque sottraendole alla circolazione semi comunitaria” della proprietà ch’era propria dei villaggi ancora medioevali]. Ricchi e nobili, con le recinzioni, sottraevano ettari di terreno demaniale [evento “fondante” la modernità, si badi bene] ai contadini, affamandoli e relegandoli ai margini della società [di nuovo: evento “che ha fondato” la modernità, dove la frattura fra città e campagne vi diventa centrale].
La categoria di lavoratori più numerosa era quella dei braccianti agricoli, ed erano i lavoratori più sfruttati in quegli anni ed esposti a ricatti e soprusi. Tra le altre categorie di lavoratori più diffuse ricordiamo i boschivi, i serici, i pastai, i mugnai e i cartai. Il sottosalario era un sistema diffuso in tutte le categorie [tranne la parentesi, di nuovo entro determinati limiti, della fase d’industrializzazione, semplicemente si è oggi ritornati a questo schema, ch’era quello precedente: il sottosalario, del quale, tra l’altro, l’attuale sistema ha necessità sembrerebbe vitale, pur essendo quest’ultima necessità sulla lunga distanza di danno al sistema stesso, per cui si sta pensando a correttivi vari, alquanto inefficaci sinora, però] e l’evasione contributiva molto elevata [ed anche qui: nil sub sole novum]. Il 2 giugno del 1946 si votava per il referendum istituzionale e per l’Assemblea Costituente e i risultati confermavano l’orientamento conservatore dell’elettorato casertano [mai cambiato, di “un bianco cadaverico”, come amo dire]. Una tendenza confermata anche dai risultati delle elezioni amministrative in cui la DC raccoglieva il 32,1% dei consensi e si confermava prima forza politica. Il Pli grazie alla presenza in lista di latifondisti e personalità conosciute sul territorio raccoglieva un forte consenso. Da menzionare è l’affermazione della lista dell’Uomo Qualunque [che ha dei paralleli, solo dei paralleli, con i 5 Stelle]. Nel 1956 Pierpaolo Pasolini descriveva in questo modo la provincia di Caserta: «Oramai è vicina la Terra di Lavoro, qualche branco di bufale, qualche mucchio di case tra piante di pomodoro»”, ivi, pp. 11-12, mie osservazioni fra parentesi quadre.
Si conferma dunque, secondo l’autrice, che la modernizzazione, in Provincia di Caserta, possa essere venuta solo e soltanto per mezzo del processo dell’industrializzazione. Quest’ultimo punto specifico non lo condivido, come ho appena detto qui sopra, il che non vuol dire affatto che il libro non abbia meriti, al di là dell’aspetto strettamente scientifico, di cui va detto ch’è valido, e vi è qui poco da poter aggiungere.
Il valore del testo, al di là dell’aspetto strettamente informativo e scientifico – dati precisi e via dicendo – sta, invece, a mio avviso (ovvio), nel problema che pone, se passiamo dal “caso specifico” delle vicende di Caserta e Provincia, a delle questioni di ordine più generale: cioè se la modernizzazione (vale a dire per l’autrice, come s’è detto sopra, l’ industrializzazione) è fallita, nel Sud come a Caserta (in tal senso, Caserta è un caso “emblematico”), vi è il piano delle debolezze in loco, dove l’autrice le individua chiare, e quello della politica “nazionale” (e qui ci sarebbe molto da dire: in parte detto dall’autrice); ma: vi è un piano più generale? Questo è un punto molto interessante.
Vi è, insomma, un piano relativo a quelli che qualcuno – senza facezie – chiamava, seppur con una punta di giusta ironia, i “misteri” del capitalismo, che fan sì che in determinate località o nazioni esso abbia successo, e s’ “impianti” bene, mentre, in altre località o nazioni, ed in altre “identità storiche”, esso fallisca miseramente?
Nel Sud d’Italia esso ha fallito.
La realtà storica è questa. Niente al mondo può cambiare questo fatto, che va, in primo luogo, accettato, e, solo in un secondo tempo, si dovrà ricercarne le molte cause, fra le quali alcune saranno più importanti di altre. Infatti, il Sud condivide con le altre parti d’Italia non dico tutto, ma senza dubbio una forte base culturale comune, eppure qui si è verificato un fallimento così clamoroso ed enorme. Le vicende di Taranto e di Gioia Tauro – seppur meno emblematiche, meno nefaste della vicenda casertana (l’acme della negatività) – sono delle vicende tutt’altro che “di successo”. In ognuno di questo contesti, non appena lo stato o la mano pubblica si fermi, o il clima generale dell’economia, per una qualsiasi ragione – non importa quale – degeneri o sia meno favorevole, ecco che la situazione locale diventa molto, ma molto negativa. La mafia, la camorra e la ‘ndrangheta prendono il posto del vuoto istituzionale, vuoto spinto, che vi è, già presente, in questi luoghi: fa bene Cacciari, in una recente intervista, a ricordare che la causa del fallimento è tutt’altra rispetto alla criminalità organizzata[2].  
Che al massimo è una concausa complicante, ma non generante. Certo, a volte proprio le complicazioni uccidono, come si sa oggi per causa del coronavirus, che in sé non uccide, ma può peggiorare le malattie pregresse. Appunto: pregresse, già esistenti. 
Il problema, grosso, del Sud è ch’era già “malato” prima della fase dell’industrializzazione e della fine dell’industrializzazione.
Ma torniamo a noi.
Che la fase della industrializzazione si sia conclusa con un fallimento è, in effetti, una semplice constatazione di fatto.
Ora quindi: ci può insegnar qualcosa una tale vicenda?
O è solo l’ effetto della proverbiale marginalità del Meridione, la sua storica, pesante, irrimediabilearretratezza”, soprattutto culturale?[3] Che fra tanti meridionali ha quest’effetto: l’esaltare l’arretratezza, in luogo di rimuoverla, indagandone le cause.
Una tale reazione dà già, immediatamente, un’indicazione sulle cause, di cui sopra …
E’ verissimo, mica è falso: l’arretratezza davvero ci sta, ed esiste. Solo che, da solo, un tal “fatto” non è sufficiente a poter spiegare un fallimento tanto grande, cioè l’aver scelto un “modello di sviluppo” del tutto errato. Se vi sono degli insegnamenti di tenore più “generale” che se ne possono trarre, ergo il “caso Caserta” rimane – o ritorna – un caso degno di studio ed interesse. Caserta, tra l’altro, è uno dei luoghi peggio amministrati del Sud che, di solito come media, è amministrato in modo molto cattivo. Questa concomitanza non è casuale. Di nuovo, però, peggiora un quadro già compromesso, non genera la “compromissione” del quadro stesso. Si ripete uno stesso modello.

Parlando delle condizioni della Provincia di Caserta nel 1951, Paola Broccoli scrive: “Le condizioni di vita erano insostenibili, la riforma agraria era ancora da realizzare e restava un obiettivo politico. Le classi dirigenti meridionali erano conservatrici, spaventate dal cambiamento e dalla modernità. Non certo a caso, negli anni Cinquanta, in tutti i capoluoghi della Campania governavano monarchici e neofascisti, fatta eccezione di Caserta, dove al governo vi erano i liberali. Ma Caserta era un capoluogo atipico. Nella ricostituita provincia, il capoluogo non rappresentava «quel punto di riferimento, quella forza propulsiva e coordinante di tutte le vicende provinciali […] Le clamorose vicende settecentesche relative all’insediamento di Palazzo reale e di San Leucio, sono risultate violente e distruttive. La sproporzione è enorme». Le riflessioni di Andrea Sparaco ci forniscono una preziosa chiave di lettura delle vicende casertane, e per certi versi, sono profetiche. «Caserta si è interrotta e non è più rinata, la città è ridotta ad un fantasma scoordinato e confuso, fatto di piccoli episodi, non ha identità, non ha tradizioni, non ha storia! E siccome l’identità e la storia sono scudi protettivi contro i mutamenti improvvisi e sconvolgenti, Caserta risulta una città debole, esposta a tutti i rischi e le rapine. Io credo che una città così inconsistente non poteva avere nessun ruolo positivo nei confronti del resto della provincia. E non è riuscita ad averlo neanche quando un potentissimo processo di industrializzazione ha investito tutto il territorio mutandone profondamente il connotato sociale»”, ivi, p. 13.
Tutto ciò è vero, anzi: verissimo.
Ma la colpa è delle vicende settecentesche? Ecco il punto che non convince, ma che parrebbe quasi esser divenuto un “luogo comune”, dove spesso si risente dire che la “colpa” di tale inconsistenza, profonda ed irreversibile, sarebbe della Reggia.
Se le vicende della industrializzazione confermano una debolezza “in loco”, tale “debolezza” ed inconsistenza profonde dimostrano che la radice del fenomeno viene da prima del processo di industrializzazione stessa. Di qui non si scappa.
In effetti, tale inconsistenza nasce prima dell’edificazione della Reggia, probabilmente (ma la cosa occorrerebbe indagarla meglio) con radici nel sec. XVII e non nel XVIII. Ma di ciò vi è scarsa o nulla consapevolezza oggi. Poi, la vecchia storiella di “Caserta città senza storia”: anche qui le cose andrebbero corrette. Diciamo portatrice di una storia rimossa, il che è diverso.
Tipicamente meridionale, ma casertano in modo particolare, è quel fenomeno per cui si hanno contatti con Miami o parti della Cina ma non – non sia mai! – con la realtà circonvicina, col mondo circostante, oggetto di riprovazione o di biasimo, col quale non si vuole avere niente a che fare: mondo vicino che è “figlio di un dio minore”, mondo che non ha diritto, non può nemmeno sparire, perché “marginale” per definizione. Ripeto, la “marginalità” del Sud potrebbe nascere nel corso del XVII sec., con il processo di “rifeudalizzazione”, del quale qui ci si può solo accennare.
Il processo di industrializzazione ha creduto di poter far fare al Sud una sorta di “corso accelerato” che consentisse a tale zone di poter recuperare il divario: ma invece non ha in alcun modo sortito questi effetti, anzi, al contrario. Ma su questo punto, in specifico sulla Cassa del Mezzogiorno (il “volano” del “corso accelerato”), nel seguito del libro, Paola Broccoli ricostruisce puntualmente la vicenda. Tuttavia ritorniamo al nodo “Reggia”, che è stato un interessante prodromo a quanto avvenuto nella fase di industrializzazione.
La Reggia cosiddetta “di” Caserta andrebbe invece chiamata sita “in” Caserta, cioè nel territorio amministrativo locale: è solo una relazione di sito, e niente di più. Per cui è più vicina Miami di Casolla, che pure incide nello stesso territorio: ciò non stupisce.

In tutto questo, una parte notevole di damnatio memoriae del periodo borbonico, che nemmeno va idealizzato, sia ben chiaro – sia detto in modo chiaro – pure ci sta, non vi può essere alcun dubbio al riguardo. Sarebbe invece ben ora d’iniziare a vederlo “storicamente” quel periodo, invece di trascinare insipide, vecchie polemiche, fuori epoca.
In ogni caso, la conurbazione casertana, ahi lei, ha questo grosso “problema” della Reggia, e cioè percepisce come “problema” (per essa – cioè per le borghesie locali – evidentemente “insolubile”) quel che, altrove, al contrario, sarebbe stato vissuto come un’ “opportunità”. E che importa che siano stati i Borbone a farla costruire: Versailles non trae profitto dalla Reggia fatta costruire, anch’essa, dai Borbone? E in Francia al Borbone han tagliato la testa: è quanto dire! Dunque, che cos’ha a che spartire “chi” ha fatto costruire “cosa” dall’avere un rapporto, una relazione con questo stesso “qualcosa”?
Caserta non riesce ad avere alcuna relazione con la Reggia: questo è il punto. con San Leucio, che è la riprova, perché – appunto per tornare ai perenni alibi ricordati da M. Cacciari nella (già citata) recente intervista (e lui la vicenda di San Leucio la conosce bene) –, la Reggia è dello stato, ma San Leucio è delle amministrazioni casertane: “Ho detto tutto”, per ripetere il detto di quello stesso “qualcuno” qui sopra citato.
La Reggia viene vissuta spesso come un’ “intrusione”, attestando, così, la differenza tra le borghesie di Versailles e quelle casertane: le prime sanno intrattenere una relazione biunivoca con il loro principale monumento; le seconde non sanno farlo, non è loro proprio, e scappano solo. Mai nella sua storia la Reggia è stata un’opportunità per Caserta. Mai.
E quindi non veniamocene con le solite, trite, ritrite storielle della Reggia come “intrusione” che avrebbe “alterato” un tessuto in sé “sano”, perché temo che il tessuto non sia mai stato “sano”, ma sempre malaticcio, debole: la tendenza verso un perenne “nanismo” che affligge le aziende campane, non certo solo casertane, sta lì a denotare un debole tessuto sottostante, anche dal punto di vista sociale. Certo che, nel corso della storia, questo fenomeno di debolezza si è presentato con gradi e livelli diversi di “malattia”, ma sempre un tessuto se proprio non sano, di certo spesso ben poco sano. E “l’origine” della malattia, in effetti, andrebbe molto probabilmente retrodatata rispetto al Settecento, come ho avuto modo di dire, e qui ribadisco.
Questo sembra non entrarci per niente con il processo di “industrializzazione”, ma cos’è stata l’industrializzazione se non un’altra “intrusione”? E cos’ha lasciato? Poco.
Sembra ripetersi uno stesso copione, dunque. Certo, con salse diverse, in epoche differenti, niente si ripete uguale, tuttavia la storia “di lungo periodo” (Braudel) comunque lascia trasparire delle tendenze, appunto, di lungo periodo, delle ricorrenze. Infatti, si è trattato in ogni caso di una cosiddetta “intrusione” che ha, in poche parole, avuto lo scopo, pur con diversissime modalità e tanti difetti eh – qui non s’ “idealizza” proprio niente –, di “sviluppare” un territorio, e il fallimento che puntualmente si ripete: il territorio non risponde.
Il territorio “crolla” sempre, di nuovo, in modo ricorrente, sotto il peso di un gravame che si trascina, e che i vari interventi appaiono incapaci d’intaccare, intendo questo “gravame” dal passato, questo debole tessuto, anche sociale, preesistente. Il territorio tende sempre a riprendere il suo statuto di mero territorio di passaggio, fra il regno del Sud e il Centro Italia, un territorio privo di un “centro” forte, e che non riesce mai a produrre qualcosa di suo, ad esprimere una sua progettualità, ma sempre si pensa e si concepisce con modalità “gregarie”, di mero accompagnamento, perfetta immagine, in piccolo, della “marginalità” del Sud.

Tale non rispondenza, per favore, non la si sottovaluti: ha cause profonde, cronicizzatesi, tra l’altro. I casertani potranno “scappare di qua e di là”, ma non potranno mai eludere il “nodo” che li attanaglia, e che non riescono neanche a vedere proprio perché son governati da una borghesia del tutto e completamente priva di ogni progettualità “collettiva” minima. E parlo del minimo. Niente voli pindarici: solo e soltanto il minimo necessario, che qui manca, è sempre mancato e, se niente interviene a modificarne la traiettoria, sempre mancherà. E’ cosa evidente che niente può cambiare su questo cammino, vista la letargia diffusa, che significa che lo stato negativo, nel quale la città è (da tempo) precipitata, è divenuto uno stato costante: la malattia si è definitivamente cronicizzata.  
Su questo punto, della Reggia e del suo effetto sulla zona intorno, la penso, dunque, assai diversamente dall’autrice: imposto il problema in modo differente. E ribadisco che un tal problema non è privo di legami con quello dell’industrializzazione, per la semplice ragione che si è ripetuto, ancora una volta, uno “schema di reazione” (o di non reazione), uno schema di base. Che non è affatto semplice “scardinare”, e che gli “interventi” da parte del centro direttivo non sono mai riusciti a cambiare.
Una causa, per il problema dell’industrializzazione – per quello del Settecento la questione è diversa: si è ripetuta la “non reazione” locale, ma ciò non significa che il fenomeno dell’industrializzazione e quello del cosiddetto “assolutismo illuminato” fossero simili: non lo sono affatto, tranne il fatto che siano interventi “dall’alto” per far “sviluppare” un territorio –, è quella detta in un passo del libro: “Si era alla vigilia di un’enorme trasformazione strutturale dell’economia del pianeta, anticipata dalla denuncia degli accordi di Bretton Woods nell’estate del 1971, ma attivata in termini assolutamente decisivi con lo shock petrolifero dell’autunno del 1973. Del caso Caserta si è occupato a lungo anche Massimo Cacciari, la cui valutazione nel merito e a posteriori di alcune decisioni assunte dalla sinistra è davvero impietosa: «[…] il più grosso errore […] è stato quello di non riuscire a individuare i fattori auto propulsivi di sviluppo locale, che pur esistevano. Invece di spendono milioni per far sopravvivere una Bagnoli agonizzante e si affossa il Polo di Caserta che di prospettive ne avrebbe avute». Nell’arco di un decennio sul polo industriale si sarebbe dissolto irreversibilmente. Il capitale produttivo, umano e sociale che si era costruito negli anni andò perduto. Iniziava una regressione civile e produttiva che perdura e che continua a essere quasi completamente ignorata dalle istituzioni e dalle forze politiche”, ivi, p. 25, corsivi miei. 

Senza poter qui continuare, sviluppando questi punti – che inevitabilmente ci porterebbero troppo lontano, ma che in ogni caso andavano detti –, torniamo alla questione centrale presente nel libro, che rimane quella decisiva.
Il punto decisivo, fra tutti, è quello istituzionale.
Sia a livello locale che nazionale.
Qui sta, dunque, ovviamente a mio avviso, la vera questione. A livello nazionale come a livello locale. Il primo – quello nazionale – ci porterebbe lontano il discuterne. Veniamo a quello locale.
A livello locale vi sono state quelle debolezze di fondo, si è detto, le cui cause sono molto vecchie, in realtà.
Si dirà: ma dopo il Secondo Conflitto mondiale anche il Sud di ritrovò – chissà come – una classe dirigente, quella che contribuì alla Cassa del Mezzogiorno o, almeno, vi partecipò in un modo significativo. Sì, ma va ribadito: è l’eccezione alla marginalità, che già insisteva nel Meridione prima della fase d’industrializzazione, come prima della fase di “tentativo” di costruzione di un regno, quella iniziata con Carlo di Borbone (III in Spagna, VI di Napoli e II di Sicilia, per la precisione), e le vicende ottocentesche del Regno delle “Due Sicilie” (in quel tempo divenuto effettivamente tale), con i suoi tentativi e i suoi gravi limiti sostanziali. Ma non è che le borghesie locali si siano fatte portatrici del progetto – che non poteva che fallire – dei Borbone, progetto di sviluppo anche “nazionale” (fase mancante del tutto all’appello nella storia del Meridione), e che questi stessi Borbone con evidenza erano incapaci di poter portare avanti. Ma qui si parla del progetto. No, le borghesie meridionali si sono accodate agli stimoli provenienti dall’esterno. E stop: finita lì, chiuso, nient’altro. Nemmeno concepito che vi potesse essere dell’ “altro”. Quindi sbagliano sia gli esaltatori che gli affossatori dei Borbone, che, semplicemente, non erano all’altezza del compito che la storia loro assegnava e che alcuni fra di loro (in gran parte Ferdinando II) intravedevano ma senza potervi dar mai una forma effettiva, reale, per i limiti – assai profondi – del sistema istituzionale, sistema istituzionale che non avevano alcuna forza di modificare per davvero.
Tali limiti, a loro volta, erano l’effetto di quella debolezza profonda e costitutiva del Sud, che i Borbone non sapevano, né potevano, cambiare davvero: si limitarono a far dei cambiamenti “a metà”, con ritorni all’indietro, timorosi di perdere il proprio potere: realtà che, immancabilmente – come in tutti questi casi – si poi concretata effettivamente. Nelle situazioni di crisi di un regime, di un qualsiasi regime, quando si entra in una situazione di crisi “attiva” si deve reagirvi dinamicamente, non si può “fermare tutto”, ma solo andare avanti cercando di salvaguardare i propri interessi nel cambiamento, non nell’assenza – ch’è fenomeno solo teorico – di cambiamento. Se non si farà così, quel che accade inevitabilmente, come l’esperienza dei secoli sta qui a dimostrare, è che un territorio, un paese “tornano indietro”, per così dire. Nel Sud era del tutto impossibile nascesse un Bismarck, che, non dimentichiamocene, era un proprietario terriero: “Bismarck avrebbe telegrafato, nel periodo di forti tensioni seguito alla guerra austro-prussiana, all’aiutante generale von Manteuffel, allora a Pietroburgo: «Se rivoluzione dev’essere, meglio farla che subirla»”[4]. Questo concetto fu seguito anche a riguardo dello sviluppo industriale tedesco, dove l’impatto dell’intervento statale, sullo sviluppo industriale, è stato forte, in ciò ben diversamente dal capitalismo anglosassone. In altre parole, il concetto di fondo, delle parole di Bismarck, era questo, dal punto di vista economico, dove lui applicò lo stesso schema, in effetti: che l’aristocrazia terriera poteva mantenersi al comando se e solo se avesse seguito e guidato il processo d’industrializzazione; poi la borghesia passò a guidarlo, ma proseguì quel progetto.
Tutte cose inconcepibili nel Sud, perché? Per assenza di un ceto dirigente con chiare idee sul proprio ruolo: torniamo al nodo istituzionale. Quest’ultimo solo uno stato può aiutare a risolverlo, ma dovrebbe strutturare il proprio intervento su due piani: quello di intervento per far sorgere industrie, e quello per creare un tessuto locale, e, dopo averlo creato, sostenerlo. Ovviamente qui non si pensa ai cosiddetti “distretti” che rientrano, invece, pienamente nel campo degli interventi di tipo assistenziale, il cui scopo è far meramente sussistere il malato nel suo stato di cronicità endemica.  

Il problema del Meridione, in ogni caso, esplode con il passaggio all’epoca pienamente borghese, quando la classe borghese, che pure si pretendeva guida, non era nemmeno lontanamente in grado di poter produrre un progetto, e si limitava al ruolo di borghesia che vive di prebende statali, che intercetta i fondi, e stop. Non ha nessuna ricaduta vera sul territorio, dal quale rimane del tutto slegata: li puoi prendere, spostare altrove, ma nulla cambierà; questo rimane un problema cruciale per il Sud.
Non appena, dopo la crisi petrolifera del 1973, terminava la fase di piena e completa espansione del sistema capitalistico, e quindi si profilava la crescente necessità di “ristrutturazioni” – che tutti sanno cosa significhino: “tagli” – le classi dirigenti locali, ormai in via di sparizione, vi si sono accodate nella presupposizione che anche per loro ci sarebbe stato “qualcosa”, che, ovvio, non c’era e non poteva esserci. E’ lo stesso che han fatto in relazione alle vicende del 1861 e seguenti: se ci si legge quando viene Garibaldi a Napoli, si vedrà come le borghesie subito si accodarono, nella presupposizione che sarebbero state accolte a pieno titolo, come borghesie, nel nuovo regime, cosa che però non poteva darsi.
Di nuovo, mai le borghesie locali – si fa l’eccezione per i “meridionalisti” che però non vedevano nello sviluppo industriale il tema centrale, quanto al contrario era “la terra” il loro punto decisivo – hanno fatto proprio un qualsiasi progetto di “sviluppo complessivo”, ma solo di “mediazione” rispetto a dei fondi che venivano da una fonte superiore, che sia dello stato – come quasi sempre in Italia – o dal capitale internazionale fa poca differenza.
Secondo Lenin, la borghesia italiana era “compradora”, e cioè l’unico suo reale obiettivo era fare da mediatrice con dei fondi provenienti dallo stato, di solito, o dal capitale internazionale, ma che restava del tutto avulsa dal contesto, con nessuna capacità di svolgere un ruolo “propulsore”, di “sviluppo”.
Non sempre ciò è stato vero per la borghesia italiana, pur essendo vero nel complesso: in tal senso, non inficia questo punto il fatto che parti delle borghesie italiane abbiano un tal progetto a livello locale. Ma ciò, e cioè l’affermazione di Lenin, è del tutto vera riguardo alle borghesie meridionali, con l’eccezione “che conferma la regola”!, della fase di dopo il Secondo Conflitto mondiale. Ma ciò era dovuto allo stato eccezionale: la fine di una lunga continuità, e fine del tutto parziale nella Provincia di Caserta, lo si annoti!; la situazione di un rinnovato sforzo istituzionale, che consentiva di pensare su altri binari rispetto a quelli abituali nell’asfittica Provincia, di “un bianco cadaverico”, come dico; infine: il mutato contesto globale, fatto, fra tutti, decisivo, e cioè il dominio di politiche keynesiane[5], che consentì ad una cosa, come la Cassa del Mezzogiorno, di poter prodursi per tanti anni, pur con tutti i suoi limiti. Insomma: il Sud ha una chance, allora, se e solo se le politiche keynesiane siano all’apice dell’attenzione internazionale; in ogni altro caso, affonda.
La storia dell’industrializzazione questo c’insegna.
Lo sviluppo “dal basso”, per le debolezze strutturali locali, non ha, nel Sud, alcuna chance. Il decentramento ed altri fenomeni sono stati, come prevedibile – ma tutto ciò non ha fermato il processo, perché nato (tal processo) nelle zone più forti economicamente, quindi semplicemente imposto, e poiché le classi dirigenti locali sono scarse assai, non potevano che accordarsi –, un disastro nel Sud. Questo perché hanno acuito le debolezze già insistenti nel territorio meridionale.
La regionalizzazione non poteva che portare ad un disastro, e non è un caso ch’essa inizi nello stesso tempo della crisi petrolifera, appunto – per tornare alle date, di cui si diceva all’inizio –, del 1973[ii]: un quadro istituzionale farraginoso e perdente, che non poteva che esaltare il male ricorrente del Sud – la frammentazione in mille rivoli e tanti piccoli e configgenti interessi – e la crisi che imponeva la delocalizzazione (insomma la globalizzazione che oggi, a sua volta, è in crisi!![6]), si sono uniti, due fattori copresenti e coincidenti, con esisti terrificanti, a livello locale, provocando la piena e forte ricaduta nella marginalità. Anzi, acuendo tal fenomeno, comunque già presente, perché qui strutturale.
Ed era prevedibile, in realtà, era prevedibilissimo che la crisi sistemica sarebbe stata “risolta” (Wallerstein direbbe: differita) per mezzo della decentralizzazione istituzione e produttiva cioè quel fenomeno che non poteva che affossare il Sud che necessita, invece, di uno stato forte, ben presente, l’esatto contrario della tendenza globale che oggi, nonostante le apparenze pseudo “neo nazionalistiche”, in realtà continua; era facile prevederlo, bastava solo seguire idee non del “mainstream”, come si dice oggi, o esser ben consapevoli degli errori di Marx pur sempre conoscendone gli aspetti positivi, ma senza entrare nelle solite, viete, trite, ritrite vecchia polemiche marxiste, fuori epoca.
Si poteva fare invece, si poteva sapere: se alcuni sono stati impari alla bisogna è perché hanno errato – e continuano ad errare – a riguardo delle basi dell’analisi minima.
Allora non stupisce, se tale la natura delle borghesie locali (e sul “lungo periodo”, per dirla sempre con F. Braudel), che il progetto – soprattutto di Ferdinando II[7] – di ricollegare la Reggia con la città (che dunque smettevano di essere due entità separate) sia stato, dalle borghesie locali, totalmente, completamente, obliato, ma che dico: manco visto, manco pensato[8]. Vi è una logica in tutto ciò, una logica perversa, ma una logica: quella della perenne assenza di progettualità da parte delle classi dirigenti locali, che, unica cosa, cercano a quale carro attaccarsi nella presupposizione di, così, mantenere il loro ruolo di “mediazione” nella gestione dei fondi e delle prebende. Cosa che, tra l’altro, manco sempre gli riesce, perché il loro potere di contrattazione verso gli “erogatori” di tali correnti finanziarie, si sa, rasenta lo zero. Quindi manco di questo son davvero capaci. Essendo totalmente marginali, non hanno alcun potere di ricatto nei confronti dei centri erogatori dei flussi finanziari, verso i quali sono, in realtà, del tutto inermi.
Se nelle logiche sistemiche il Sud può avere un qualche posticino, bene; se non ne può avere alcuno, bene lo stesso: non hai alcuna possibilità di “avere voce in capitolo”, né nel primo né nel secondo caso. Non hai risolti i fattori di marginalità. Non presenti alcuna progettualità perché non rappresenti che te stesso. Qualche tentativo, appunto, lo puoi fare solo a livello individuale, rimanendo dunque, per definizione, un pio desiderio o una piccola cosa locale. Diverso sarebbe stato uno stato italiano effettivamente federale, dove c’erano solo tre macroregioni ed il Meridione si sarebbe ripresentato unito: in tal caso un mini minimo di “massa critica” si sarebbe potuta avere di più, ma in Italia tali cose hanno poco seguito …
Insomma il punto vero è sempre quello ed è sempre lì, non toccato da niente: “chi” governa “cosa”? Se manca una classe dirigente (e manca), qualsiasi processo – qualsiasi – non può avere una sua effettiva gestione. L’unica cosa che rimane è l’essere marginali.
La subalternità del Sud, della quale Caserta è un esempio preclaro.
Per riassumere: fra i tanti fattori concomitanti che han segnato, in senso assai negativo, questa meridionale – cioè infausta, “jellata” – vicenda, uno ed uno solo segna il vero, reale “punto di caduta”, perché ti rende del tutto inerme rispetto a cambiamenti che, per definizione – provenendo da fonti che sono più forti dei contesti locali, campani – non sono arginabili, ma potrebbero però essere gestibili: quello istituzionale. Cioè l’assenza di classe dirigente (con l’eccezione della fase, temporanea, degli anni di grandissima espansione del sistema capitalistico: dagli Anni Cinquanta alla prima metà degli Anni Settanta del secolo scorso).
Solo in una fase di grandissima espansione, infatti, un luogo “glaciato” socialmente come il Sud, un luogo così marginale, così laterale, poteva sperare di entrare nel processo. E così è stato. Vi è di fatto entrato, ma senza riuscire, per vari motivi, qui solo accennati, motivi pregressi come motivi specifici di quegli anni, a consolidare il suo rinnovato “status” per cui, quando il vento è cambiato, si è ritrovato … marginale! Con in più le aggravanti di uno sviluppo “a metà”, non concluso e zoppicante, quindi si son aggiunti, a dei problemi pregressi, dei nuovi problemi! 
E l’assenza, o la debolezza, la farraginosità, l’inconsistenza e dispersività proprie dei contesti locali si sono rivelate dunque, nelle loro linee di base, con molta forza ed ampiezza, quando è iniziata la fase di contrazione sistemica, cioè proprio quella fase nella quale la presenza di una classe dirigente consapevole del suo passato e con obiettivi chiari è assolutamente necessaria per guidare fra i marosi dei mari in tempesta, che d’allora in poi, intervallati da fasi di bonaccia quasi totale, son periodicamente ritornati. Fra tutti i fattori il fattore decisivo è stato, dunque, quello istituzionale.
Questo fattore decisivo l’industrializzazione non l’ha cambiato: non poteva. Dietro c’era tutta l’illusione marxista del “saltare le fasi”, illusione che si vede continuare: è una sirena suadente, ma porta senza dubbio a schiantarsi sulle rocce, come poi è accaduto.
Al Sud è mancata la fase di edificazione dello stato moderno di pre Rivoluzione francese. Il Sud, invece, ha vissuto la fase finale di quella stagione, l’assolutismo regio, il cosiddetto “assolutismo illuminato”, e la prima fase del periodo seguente la Rivoluzione francese, ma le sue classi borghesi si sono dimostrate incapaci di prendere in mano la direzione sulla quale andava il regno, scacciando la dinastia incapace di realizzare quella direzione, però proseguendola, come, al contrario, è avvenuto in Francia. O usando la cacciata della vecchia dinastia da parte dell’Italia del Nord, tuttavia in ogni caso presentandosi come il ceto che avrebbe guidato il Meridione nel nuovo assetto istituzionale: tutto ciò non è avvenuto.
Di nuovo non è un caso che la Reggia di Versailles faccia parte di un contesto, e quella di Caserta sia del tutto avulsa dalla conurbazione circostante. Con tutta la serie di trite, ritrite storielle dell’intervento destabilizzatore: a Versailles son stati capaci di farne il perno del loro sviluppo, a Caserta mai: quindi non è la presenza di una reggia il problema.
Pertanto dal “piccolo”, dal “basso” e dal locale non può venire alcunché, proprio per la mancanza di una fase fondamentale di costruzione istituzionale. Solo una politica “keynesiana”, rivista e riadattata, e che tenga conto che non basta costruire grossi centri industriali (o anche piccoli, non è la “dimensione” che conta), ma che sia necessario allo stesso modo raccordare i più grossi centri produttivi con le più piccole realtà locali, malate inevitabilmente di nanismo congenito in tutta la Campania (salvo eccezioni), solo questo può aiutare una ricostruzione del tessuto di relazioni, che sono sparite.
La tendenza neoliberista è stata, infatti. molto negativa per un territorio che sconta questo “vuoto spinto” (letteralmente) di classe dirigente. Anche la fase globalista è stata “peggio che cantar di notte”, come suol dirsi, anch’essa dominata dall’idea che “si può fare un salto” e, per mezzo di “ritrovati tecnici” o di strutture amministrative “ovviare” a ciò che manca nelle menti. Non basta “connettersi in rete” o farsi conoscere: conta pure “che cosa” si vuol “connettere”, o far conoscere! I fatti stan qui a dimostrare che tutto ciò si è dimostrato illusorio.
La realtà è questa, che Natura non facit saltus. Né la storia lo fa. Quest’ultima aggiunge fasi successive a precedenti, nessun dubbio, ma non consente con la seconda fase aggiunta di ovviare ai problemi di quella precedente, se assente. Salvo l’intervento di un qualcosa che venga da fuori dal territorio che presenta tali debolezze strutturali. Ma pure qui, nulla è scontato: molto dipenderà dalla natura dell’intervento stesso, come altrettanto dipenderà dalla reazione dei vari contesti locali. 
Se, nel contesto, non si presenta una “reazione immunitaria” all’intervento esterno e tal contesto rimane socialmente “immunodepresso” si dovrà prima intervenire per rafforzare quel contesto sociale depresso.
E non è uno scherzo: si necessita di conoscenze, competenze – quelle vere – come di una visione politica non episodica, non limitata alle prossime elezioni, evidentemente!
La tendenza “neonazionalista”, quel che oggi si usa chiamare “sovranismo”, nemmeno è risolutiva, perché tende a non “tagliare il nodo”, anche se farà interventi di “sostegno”, ma non è questo che risolve questa mancanza, come dimostra la seconda fase della Cassa del Mezzogiorno, che lo fece di certo meglio di come vogliono farlo “leghisti & C.”, o i vari governi che ci sono stati dopo Monti: distribuire qualche spicciolo per assistenza, meramente tale. Non ha funzionato né può funzionare per la semplice ragione che noi abbiamo di fronte dei nodi profondi, non dei bruscolini.
Insomma il vuoto istituzionale può essere riempito solo e soltanto da un’autorità “sussidiaria” che, però, non dovrebbe meramente “sostituirsi”, ma dovrebbe aver cura di sviluppare in loco come un incubatore di forze, capaci, poi, di prendere il posto dell’autorità sussidiaria, che però non sparirà: essa dovrà mantenere tuttavia un’attenzione al luogo, rimanendo pronta a “sostituirsi” non appena si aprano dei vuoti, perché tali vuoti non divengano “vuoto spinto”, come poi è accaduto nel concreto della storia della Provincia e di gran parte del Meridione italiano.
Tutto ciò, questa duplice azione (non una sola), la Cassa del Mezzogiorno l’ha solo in parte compiuta, fra luci ed ombre. Non solo luci, ma nemmeno soltanto delle ombre. Come tutti i tentativi storici, andrebbe ridiscusso, e rivisto, prendendo il buono ma non i limiti. In questo il libro di P. Broccoli è molto utile, per una riconsiderazione, per un riflessione, senza pregiudizi, che, tuttavia, diventa una riconsiderazione utile se, e solo se, al tempo stesso si sia consapevoli dell’abisso nel quale si è caduti.

Ci vorrebbe la “sussidiarietà”, dunque, o che lo stato riprendesse il suo ruolo di “volano” per lo “sviluppo”, con un’azione non inficiabile da parte delle pessime classi dirigenti locali. Ma l’Italia, si sa, non è per niente in grado di farlo. Ci vorrebbe, allora, l’Europa: ma questa è un fallimento proprio perché il suo assetto istituzionale non le consente di esercitare un ruolo produttivo, ma invece viaggia e si esprime sempre attraverso il “filtro sporco” dei governi nazionali, unica eccezione: l’aspetto delle normative.
Molti anni fa, suggerii – ovviamente inascoltato, ma non mi aspettavo altro – che ci volesse un centro unico a livello europeo, non questionabile dai vari governi, e che avesse come scopo quello di fra concorrere l’Europa come un insieme, nella competizione globale. Insomma, tutto ciò è stato solo teoria, intendo questi “correttivi radicali al progetto europeo”, e le cose sono andate, stanno andando per la loro, inerziale, strada.








Andrea A. Ianniello












[1] Occorrerebbe invero poter scrivere “Lo specchio dell’industrializzazione” o “della modernizzazione” – ricollegabile allo “Specchio della produzione”, sul qual tema pur qualcosa è stato fatto – come il noto scritto di G. Duby, Lo Specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Piccola Biblioteca Laterza, Roma-Bari 1998. Rientra fra i progetti da me accarezzati, e mai realizzati, o mai realizzabili, probabilmente, come scrivere Minima Immoralia, ispirato alla parafrasi ex negativo fatta da Battiato del testo Minima Moralia di Adorno.
[2] Cf. l’intervista di Cacciari su «Il Mattino» del 20 febbraio 2020, p. 24. Vi si legge: Fallimenti così colossali possono avere solo tante cause […]. Fallimenti di ceti politici, classi dirigenti locali che non sono esistite, società civile. Hai voglia di dire c’erano la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta”, ibid. Le classi dirigenti non sono esistite: ma da tanto e tanto tempo è così … Ancora: “Io non credo che la camorra possa essere un alibi per assolvere i fallimenti economici e sociali e chi ne è responsabile. Questo è un film comico”, ibid. “Stiamo assistendo al declino del Paese cercando di mettere toppe qua e là. A Caserta, un po’ [sic: la forma corretta è: po’] rassegnati, si bada solo a salvaguardare quello che riguarda il settore agroalimentare e certe eccellenze di punta [così è, precisamente]. Ma quel tessuto industriale, politico, sociale di un tempo sembra morto”, ibid., mie osservazioni fra parentesi quadre. Correggiamo: non “un po’ rassegnati”, del tutto rassegnati. Vi è una letargia totale diffusa: in tal modo essi credono di non avere responsabilità, altri avranno “deciso”, contro di loro (non è un problema: Caserta vive “per sottrazione”, mai e poi mai per aggiunta, e Carlo di Borbone, che pure tentò di aggiungere, è stata l’eccezione che conferma la regola), ma l’essenziale è che non decidano mai nulla. Altra correzione: non “quel tessuto industriale, politico, sociale di un tempo sembra morto”: no, non “sembra” per niente: esso è morto. Il “Sud” non “risalirà”, non può, anche perché la sua storia è tutta un’enorme, gigantesca rimozione.    
[3] Sul qual punto, cf. E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli Editore, Milano 2018 (Quindicesima edizione, quella originale risale al molto lontano, “mentalmente parlando”, 1959), cap. VIII intitolato, significativamente, Regno di Napoli e jettatura, una lunga relazione, d’ “ammore” … Comunque interessanti le frasi di De Martino: “Croce, nel momento stesso in cui ribadiva che una storia del regno di Napoli non può risolversi in un elenco di sciagure, d’insuccessi e di catastrofi, non mancava di riconoscere ch’essa restava particolarmente ‘ingrata’ e ‘difficile’ a narrare […] E ammettendo che tale difficoltà fosse ‘intrinseca ed effettiva’ (cioè interna alla materia da trattare e non interamente riconducibile ad una eventuale deficienza dello storico), ricordava come il carattere col quale la storia del mezzogiorno immediatamente si presenta è quello di ‘una storia che non è storia, di un processo che non è un processo perché ad ogni passo interrotto e sconvolto’”, ivi, p. 173. Dal che Croce faceva dedurre che solo con l’illuminismo il Sud avesse conosciuto una fase positiva, tesi errata. In sintesi, al contrario, la tesi di De Martino è questa: che il Sud aveva partecipato alla fase rinascimentale della genesi del mondo moderno, per mezzo di pensatori come Campanella, Bruno e Telesio. Essa era la fase dove la distinzione fra “magia demoniaca” e “magia naturale” diveniva centrale: ad essai meridionali avevano attivamente partecipato, dando contributi autonomi. Alla fase seguente, quella specificamente “illuministica” moderna, e cioè la ferma, forte distinzione fra ogni forma di “magismo” e la “scienza moderna”, solo e soltanto pratica, il Sud aveva dato zero contributi autonomi, propri. Ma ecco che l’illuminismo si diffondeva giù, in particolare nella città di Napoli, centro del regno. Che cosa nasceva, secondo De Martino: che nasceva una via di mezzo, ed ecco la mentalità del “non è vero, ma ci credo”, e cioè quella della “jettatura”, mentalità in realtà diffusa a tutta l’Italia – il che pure la dice lunga – ma che in Napoli vedeva il suo fulcro, il suo centro. Era una forma intermedia fra vecchie credenze premoderna e mentalità “pratica” ed “industriale” (o industriosa) moderna. Questa, in poche parole, la tesi di De Martino, ed è una tesi che presenta in gran parte con aspetti interessanti. Indubbiamente, si è che il XVII sec., secolo “di passaggio”, è “mancato” in Italia, ma è mancato in modo assai particolare nel Sud Italia. In tal senso, significative le parole del viaggio di Campanella a Napoli, sempre nel XVII secolo (il “secolo di ferro”), dove questo autore sviluppa “la descrizione di Napoli come antitesi della Città del Sole”, ivi, p. 174, corsivo mio. E chi parla di Napoli come unicamente di “città del sole” davvero non la conosce: al massimo è un suo volto, fra degli altri, ed è il più superficiale. Quanto al nome “Terra di Lavoro”, chiaro che porti “jella”, l’ha nel nome: da “lebus/lepus”, che vuol dire lepre, non certo un animale “totemico” particolarmente ben augurante. Ben lungi dall’esser “solare”, la storia del Sud è “saturnina”, vi è un saturnino caldo e quindi l’associazione fra calore corporeo e calore “interiore” non è sempre vera. E la storia del Sud, la “non-storia” la chiama De Martino, ben lungi dall’essere qualcosa di riconoscibile, al contrario è oggetto di rimozione – profondissima rimozione. La terra della rimozione, la terra dell’oblio della memoria. Questo perché non è una storia di cui “essere orgoglioso”, quanto è, invece, una storia di cui vergognarsi, da nascondere, da far sì che venga dimenticata come se mai fosse stata. Eppure qualche buona pagina persino il Sud l’ha senz’altro avuta, ma non viene valorizzata: a testimoniare che, nel subconscio dei meridionali, nella loro mentalità profonda, dove si trovano le cose che si danno per “scontate”, sulle quali non si pone mai davvero l’attenzione, vi è – profondissimamente – infissa l’idea che le cose andranno male e non potranno che andare male, alla fine. Ne son convintissimi. Ed hanno in parte ragione perché spesso così sono andate, verissimo: la vicenda dell’industrializzazione ha fornito loro una recente conferma; ma n’erano già ben convinti da tempo. Solo che una prima terapia sarebbe, invece, rivalutare le pagine positive della propria storia, senza scappare a Miami o a Hong Kong, solo primo passo ma necessario: perché ci sono state. Vi è un detto giapponese, che si attaglia molto alla storia del Sud: “Anche il cane randagio ha i suoi giorni fortunati” (S. Bechtel & L. Roy Stains, Il libro della Fortuna, Gruppo Editoriale Armenia, Milano 1999, p. 192). Si parta dai propri “giorni fortunati”, che nel Sud, anche se pochi – questo è vero, ne convengo con De Martino –, pure ci sono stati.
[4] L. Gall, Bismarck. L’uomo che ha fatto grande la Germania, Garzanti Editore, Milano 1993, p. 59. “Al tempo stesso si guardò bene dall’ammainare le vele nella circostanza in sé, sotto il profilo della valutazione da lui data della situazione complessiva e delle possibilità che vi giudicava nascoste. «Lo statista assomiglia al viandante della foresta, il quale conosce la direzione di marcia, ma non il punto in cui uscirà dalla selva», ragionava in un colloquio con lo storico austriaco Heinrich Friedjung, riassumendo molto esattamente la propria posizione nei suoi elementi strategici e tattici. «E, come lui, gli è giocoforza seguire i sentieri praticabili, se non vuol smarrirsi»”, ivi, p. 58. Il termine “statista” in Italia si può usare con estrema difficoltà, nel Sud poi è un tabù, perché denota chi abbia “senso dello stato”, ma qua il problema inizia già se dovessimo parlare dello stato, figuriamoci del “senso” dello stato! Il contesto istituzionale vi è davvero estremamente farraginoso e debole. E finché le circostanze non sono “critiche”, poco male; quando, tuttavia, vi è un fatto “critico” ecco che le debolezze riesplodono, tutte, senza eccezione. In realtà, è da circa un secolo, se non di più, che il Sud è “smarrito in una selva”, senza poterne uscire. Il tentativo dell’industrializzazione, come volano di “sviluppo”, è stata un’estate di San Martino, un classicamente meridionale momento di “ebbrezza” dionisiaca – della velocità, con note futurista, in tal caso – che, subito dopo, passata la sbornia, non ha fatto che riportare ai nodi di fondo. Mai davvero tagliati. E di Alessandro Magno, che “tagliano i nodi”, non ne nascono molti nella storia …  
[5] Tanto più un contesto locale si mostra come debole, tanto più subisce le “stagioni” del sistema nel quale, volente o non, si ritrova inserito, inserito come zona marginale, pur tuttavia inserito, inglobato. Il contesto del Sud e, nel nostro caso, della Provincia di Caserta è una preclara dimostrazione di questo fatto.
[6] Ma non è il “ritorno alla nazione” la risposta. Solo che i meridionali, convinti come sono che possono solo essere ruota di scorta, si accoderanno a quest’altra, ennesima sciocchezza, e cioè il sistema che si autoblinda con lo scopo di sussistere, nella fase di crisi della globalizzazione. Perché questo è, “in soldoni”, tutta ‘sta storia dei vari cosiddetti “sovranismi”, l’arrocco perdente. Si badi che Russia ed Usa possono, sì, “diventare” cosiddetti “sovranisti” – senza giri di parole: nazionalisti –: esse non perdono in un momento la loro forza; l’Inghilterra ha già meno da guadagnarci, ma fa finta di guadagnarci, nel senso che vi sono delle contropartite. Ben diverso è il posizionamento sul mercato globale di una nazione debole come l’Italia, e votata alle esportazioni, che di tutto ha bisogno fuorché di mercati chiusi; ed inoltre, “gode” – si fa per dire … – di un mercato interno che non può che dirsi: asfittico.
[7] D. A. Ianniello, Caserta nell’Ottocento, Frammenti Edizioni, Caserta 2011. L’attuale Corso Trieste dovrebbe chiamarsi, dunque, per rispetto alla vituperata e rimossa storia del Sud, e senza nessunissima velleità “neo borbonica” – qui siamo contro i “nei”, neo borbonici o neo nazionalismi che siano –, Corso Ferdinando II, poiché si tratta dell’Asse ferdinandeo. Sia detto en passant: i “nei”, talvolta, segnalano un cancro alla pelle, “il cancro alla pelle” globale … Viviamo in un mondo, letteralmente, incancrenito, in tal senso …
Tornando al testo citato, vi si parla del primo Piano generale, quello effettivamente “ferdinandeo”, e del secondo, degli anni 1884-1886 (cf. ivi, p. 14 e sgg.), a dimostrazione che il vuoto di classe dirigente non si è verificato in un giorno, e che all’inizio c’era stato un tentativo di fra procedere la città in qualche modo “in relazione” al piano ferdinandeo. Ma questo può rientrare nel fatto: vi è, in un qualche modo, uno “shock”, quello del 1861 e anni seguenti, per cui c’era stato uno “scatto”, ma poi un riassopimento: non sembrerebbe casuale questa tendenza.
[8] Uno tradisce qualcosa che vede, non può tradire ciò che manco percepisce. Uno tradisce ciò in cui ha creduto, ma se non c’ha mai creduto, cosa tradirà mai? Questo è il punto: manco c’hanno mai creduto, manco hanno mai percepito una progettualità che andasse oltre le cose individuali o interessi di gruppi vari ma limitati.  






[i] A titolo esegetico ricreativo riporto questo scritto:
«Il crogiolo di vecchio e nuovo. Il “caso Caserta”, in nuce, poteva avviare la “questione meridionale” a risolversi in termine di “modernizzazione” - che non significa niente o al contrario tutto: gli opposti coincidono al solito e al limite - coincidente con: “industrializzazione” come è stato (moderno coincide con industria). Il caso Caserta è il perfetto caso tentato in Italia per risolvere la storica dicotomia delle due Italia, il Centro-Nord e il Sud-Isole con il settore più avanzato, l’elettronica. Perché ciò è fallito? Di chi la colpa?
Guadiamo la ragione della borghesia industriale italiana: l’abbiamo tentato ma le cose si evolvevano in termini di globalizzazione. Allora? La modernizzazione della metropoli coincidente con industrializzazione non era più il suo sviluppo, essendo conveniente l’industria se decentrata dalla metropoli, anche rivoluzione elettronica. La “Metropoli” ha altri parametri per il suo sviluppo, i quali si possono sintetizzare nella parola “cultura” nel senso più ampio possibile, anche se i costi sono immensi e il futuro si concentra nelle aree metropolitane di tutti i continenti (basta seguire la crescita a dismisura e veloce della popolazione concentrata in megalopoli mostruose con nuove problematiche che vanno dalla sicurezza personale ai ghetti, dalla ricchezza sfondata alla povertà. che disonora ogni uomo della Terra che mangia anche solo pane, tanti son i bimbi che muoiono di fame). Al limite assistiamo al decentramento alle porte dell’Italia, ove la disoccupazione svolge il ruolo che Marx ci aveva insegnato e continua a svolgere.
Intanto nella metropoli italiana, Centro-Nord, non vi era disponibile più la mano d’opera generica del Meridione come negli anni furenti del “miracolo italiano”. E’ stata sostituita dalla mano d’opera del terzo mondo che sbarca sulle nostre coste, utile alla classe degli industriali italiani per ritornare a industrializzare, guarda caso: anche e ancora l’Alta Italia, mascherato “come destino”, ossia non dipendente dalla volontà umana, nella specifico gli “industriali italiani” e che taglia fuori il Mezzogiorno, ove “italiano” non significa niente: i soldi non hanno frontiera. Una  volta si chiamava ciò imperialismo, oggi globalizzazione, vocabolo più bello, ma che purtroppo (per esso) “non ingloba” la “guerra preventiva” soluzione di controversie internazionali.
E guarda caso: tutto il negativo di ciò si scaricherebbe sulle società settentrionale in versione “Lega di Bossi” - di per se niente affatto negativa come proposta federativa - la quale non capisce di avere in casa i suoi “nemici”, appunto gli industriali, che hanno creato questo “casino”, per dirla nel linguaggio leghista versione dialetto meridionale! Anzi, ai “meridionali” come quelli di Caserta, i quali vedevano le “loro” (si fa per dire) fabbriche “elettroniche” spostare al Nord! E si badi […], nonostante la Regione Piemonte non è caduta nella trappola, decidendo che l’Indesit restasse in provincia di Caserta e non trasferita da loro! E i governi cosa facevano? Più delle stelle: non stavano solo a guardare; ma assecondavano il processo dando soldi agli industriali ed indirettamente agli adepti del “dio cemento armato” per rendere irriconoscibile la nostra penisola e le sue isole». [D. A. Ianniello, uno scritto antecedente alla crisi del 2007]
[ii] Sul tema dei cambiamenti sistemici avvenuti in seguito agli eventi dello “shock petrolifero”, cf. I Wallerstein – T. Hopkins et Al., L’età della transizione. Le traiettorie del sistema-mondo 1945-2013, Asterios Editore, Trieste 1997, edizione orig. Fernand Braudel Center l’anno prima. Nell’Introduzione, dei due autori principali, dove si parla della “E’ crisi del sistema-mondo”, cf. ivi, p. 11 e sgg., si divide le dinamiche del sistema-mondo – nato in seguito alle “scoperte geografiche” dal sec. XVI-SVII in poi – nel sec. XX in due fasi: dal 1965 al 1973, la fase di grandissima espansione del sistema stesso, e l’inizio della sua crisi, dalla metà degli anni Settanta al 1990. In tale fase vengon fuori vari fattori di potenziale crisi strutturale, detta “caos sistemico”. Questi ultimi fattori si sviluppano nella fase dal 1990 al 2025, in una serie di tentativi di riduzione dello stesso caos sistemico, che però hanno effetti altalenanti. Nella parte finale – l’ultimo cap., ch’è anche una Conclusione –, a firma del solo I. Wallerstein stavolta, si studia quest’ultimo periodo, all’ epoca “relativamente” futuro. Tale capitolo finale, infatti, s’intitola: “Le possibilità globali, 1990-2025”: in esso s’individuano  cinque fattori di potenziale crisi sistemica, e, fra tutti, quello della fine del “riformismo incrementale” (espressione proprio di Wallerstein) è quello decisivo. Il “riformismo incrementale” entra in crisi quando la fiducia – in sé irrazionale – che il sistema possa risolvere le proprie contraddizioni e che le generazioni seguenti possano vedere uno status economico migliore di quelle precedenti, tale fiducia d’incrina, fino al punto di entrare definitivamente in crisi. Queste le conclusioni della parte finale dell’ultimo cap., ricordandoci che furono pubblicate in Italia nel 1997, cioè ben venti tre anni fa. Questi fattori di crisi, e, in particolare quello del welfare, si accumulano; finché si giunge al punto in cui “Non è […] qualcosa che potrà essere «risolto» con quel genere di compromesso sociale che differisce la soluzione [cioè quel genere di “compromesso sociale” che ha sorretto il sistema per decenni!!]”, ivi, p. 292. S’inceppa dunque il “differimentosine die delle soluzioni – che non ci sono ma vengono differite, dicendo: “Ci saranno ‘di sicuro’”, questo finisce – di conseguenza la tattica del contenimento non ha più le stesse possibilità di prima, pur essendo rimasta la “stella polare” nei decenni: “E’ senz’altro possibile contenere i conflitti in uno o più di questi cinque ambiti. L’interrogativo che occorre porsi è se ciò accadrà [è accaduto]. E, qualora dovesse avvenire, se ciò sarà sufficiente [non lo è stato]. In considerazione dell’ interazione tra i diversi ambiti, il contenimento dei confitti in uno di essi può rivelarsi transitorio a causa della loro esplosione in un altro [e così è precisamente andata]. In una polveriera – è questo il quadro che abbiamo tracciato del sistema-mondo – il fuoco può diffondersi. Ed è questo che s’intende per caos sistemico [è lo stato in cui siamo da un po’ di tempo, con l’aggravante che tutti i tentativi fatti per bloccare “il fuoco” hanno sortito degli effetti opposti]. Certo, al caos sistemico seguirà un nuovo ordine, o nuovi ordini. Ma a questo punto dobbiamo fermarci. Non è possibile conoscere in anticipo quale sarà questo nuovo ordine”, ibid., corsivi miei, mie osservazioni tra parentesi quadre. Infatti, per Wallerstein la fase 1990-2025 segna un periodo di crisi dell’ intero sistema-mondo, sistema nato con l’apertura, da parte europea, delle rotte oceaniche.




















Andrea A. Ianniello























[Già apparso al link:
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2020/02/due-brevi-osservazioni-sulla-reggia.html]


[Poi come: https://associazione-federicoii.blogspot.com/2020/03/due-brevi-osservazioni-sulla-reggia.html]











 











  




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