“Irrazionalismo rispetto a quale razionalità? Ma è
necessario – anche se impopolare – innanzitutto
[…] affermare, in sostanza, che la connotazione in negativo (ir-razionale) o
viene fatta in relazione al suo contrario positivo
(razionale) o non ha alcun significato. Se pertanto questi gesti definiti irrazionali (rottura della vetrina,
distruzione dell’automobile) vengono intesi come la negazione di un universo positivo/razionale, coerenza vuole che si assuma quel medesimo universo e se
n’esaltino i valori”[1].
“Dal principio del secolo scorso [il XIX] si è sempre
avuto, in Europa, l’abitudine di considerare gli uomini e gli avvenimenti
d’Italia come se essi fossero generati da una logica e da un’estetica antiche.
Di questa maniera di considerare la storia dell’Italia moderna è responsabile
in gran parte la naturale inclinazione degli italiani alla retorica,
all’eloquenza e alla letteratura: ciò che è un difetto, di cui non tutti
gli italiani sono malati, ma di cui molti non guariranno mai. Benché un popolo si
giudichi dai suoi difetti, piuttosto che dalle sue qualità, mi sembra che nulla possa giustificare l’opinione che
gli stranieri hanno dell’Italia moderna […]. Per comprender bene le cose
dell’Italia dei nostri giorni bisogna considerarle […] dimenticando che vi sono stati dei Greci, dei Romani e degli
Italiani del Rinascimento”[2].
“Sebbene io mi proponga di mostrare come si conquista uno
Stato moderno e come si difende, non si può dire che questo libro voglia essere
un’imitazione del Principe di
Machiavelli, sia pure un’imitazione moderna, cioè poco machiavellica. I tempi,
ai quali si riferiscono gli argomenti […] del Principe, erano tempi di così grande decadenza delle pubbliche e
private libertà, […] che sarebbe recare offesa al lettore, uomo libero, il
prendere a modello la famosa opera di Machiavelli per trattare alcuni fra i
problemi più importanti dell’Europa moderna”[3].
“Non possiamo fare a meno di domandarci come dovremmo
ragionevolmente giudicare la dottrina di Machiavelli nel suo insieme. Il modo
più semplice per rispondere a questa domanda sembrerebbe il seguente. Lo
scrittore a cui Machiavelli si riferisce e rimanda più frequentemente, con
l’ovvia eccezione di Livio, è Senofonte. Ma fa riferimento a due soltanto degli
scritti di Senofonte: la Ciropedia e
il Gerone; non presta attenzione ai
suoi scritti socratici, cioè all’altro polo del suo universo morale: Socrate.
Metà di Senofonte, secondo Senofonte la migliore, è soppressa da Machiavelli.
Senza correre rischi possiamo dire che non c’è fenomeno morale o politico che
Machiavelli conosce o per la cui individuazione è famoso, che non fosse
perfettamente noto a Senofonte […]. E’ vero che in Machiavelli ogni cosa appare
sotto una luce nuova, ma questo è dovuto non
a un ampliamento di orizzonte, quanto piuttosto a un suo restringimento
[corsivi miei]. Molte scoperte moderne
che riguardano l’uomo, hanno questo carattere [corsivi miei]”[4].
“Erano le nove di sera del 2 agosto – l’agosto più
terribile della storia. Si sarebbe potuto pensare che già la maledizione divina
gravava pesantemente su un mondo degenerato, l’aria afosa e stagnante era
pervasa da una quiete impressionante, un senso di attesa indistinta. Il sole
era tramontato da un pezzo ma lontano, all’orizzonte, uno squarcio rosso sangue
sembrava una ferita aperta. Le stelle brillavano in cielo e nella baia
occhieggiavano le luci delle imbarcazioni. I due famosi tedeschi erano
appoggiati al parapetto di pietra del viale alberato dando le spalle alla casa
lunga, bassa, col tetto a spioventi, e guardavano in basso, verso la spiaggia
ai piedi dell’alta scogliera dove, quattro anni prima, Von Bork si era
rifugiato, come un’aquila errante. Con le teste ravvicinate, parlottavano in
tono sommesso e confidenziale e, viste dal basso, le estremità luminose dei
sigari accesi potevano sembrare gli occhi di bragia di una qualche malevola
creatura che scrutasse nel buio”[5].
a.
Come si è detto al termine del precedente post[6],
ecco il post lungo, a conclusione
di questa “tornata”, salvo,
ovviamente, che gli eventi accelerino improvvisamente il loro passo lento. Naturalmente, lasciandosi
aperta la porta per anche altri post eventuali, recensioni ed altro che si
rivelasse temporaneamente necessario;
ma qui terminiamo una “certa”fase di “orientazione” della riflessione.
Molte cose sono state
dette, molto di più di quel che
possa sembrare ad un primo sguardo superficiale; ma molto altro, nessun dubbio al riguardo, ci sarebbe
stato da dire (anche se, in maniera minore, spesso trova posto nei Commenti), tuttavia sia il mezzo – cui repellono articoli troppo lunghi -, sia
ostacoli tanto temporali (la prudenza) che climatici (in quest’estate troppo
calda, quando le macchie solari sono così deboli: chiaro che vi sia qualcosa di
“artificiale” ormai da qualche tempo intervenuto, un “qualcosa” dovuto anche a
sostanze chimiche, pure a quell’elettromagnetismo stagnante col quale stanno impestando l’aria) han costituito un
“limite” insuperabile. Tra le altre cose, che i ghiacci si sciolgano senza
esser rinnovati è un’immagine precisa della crisi della Traditio: è come attingere ad un conto in banca in cui non si può
più depositare. Interessante sottolineare due cose: 1) che solo quando la circolazione generale sia stata modificata, è cambiato veramente: violenti
scarichi – comparabili alle guerre
in atto, o anche alle rivoluzioni storiche, delle quali si dirà in nota – non han potuto cambiare la via generale;
2) che il cambiamento è iniziato dall’Alto, dalla montagna, dove si era installata una cella pesantissima
di aria bollente proveniente dal Sahara. Si estenda questo paragone alla
situazione “tradizionale” del mondo di oggi: nulla servirà davvero, e tutto
sarà solo uno scarico temporaneo
della tensione, finché la circolazione “in
alto loco” non sarà stata cambiata. E questo, a sua volta, può accadere solo e soltanto quando questa “bolla fissa”
che opprime un intero pianeta abbia
esaurito il suo potenziale. Si tratta di un male profondo, che ha origine “in alto”, una spaccatura intera che ha
aperto la via all’emersione di forze dal basso, e nulla si risolverà finché non
cambierà questa situazione “in alto”.
In ogni caso, certi “punti
fermi” son comunque stati posti in questo blog, nei post con tema più
generale, nonostante tutto,
nonostante il vento dal Sahara, finalmente terminato, vento caldissimo chiamato
Lucifero: nomen omen.
b.
I “non garantiti”, che all’epoca venivano “contenuti” in un’ottica “marxista”,
da quel tempo ad oggi – ben trentanove anni fa!! – son divenuti
legione. Eppure, niente di
particolar è avvenuto, e il dissenso ha preso vie del tutto compatibili con l’assetto della divisione del
potere oggi. Molto ma molto significativo: come ho più volte detto, la
soluzione alla dissoluzione non
può essere “politica”, ma solo e soltanto “meta
politica”[7].
Quanto al significato delle
frasi su riportate, chiaro che l’equazione valori economici = razionali sia
sempre stato il cavallo di battaglia del capitalismo come sistema storico, non come schema teorico. Le “sinistre” hanno fallito
nella storia perché assunto quello stesso insieme valoriale tentando di
rovesciarlo “dialetticamente”: non ha funzionato, perché non poteva farlo. Il mondo borghese, al contrario, rompe
decisamente con il mondo aristocratico, con quei valori, cioè, mentre il mondo proletario
tenta la sua liberazione nei termini dei valori economici, ovvero il cavallo di
battaglia delle borghesie: il fallimento era già inscritto sin dal principio.
Ciò non toglie, però,
due cose: 1) che il “comunismo” come
sistema politico sia stato
importante nel consentire a vecchi
imperi preindustriali di entrare nelle guerre
dell’età industriale: in tal senso, è stato un successo, attestato dal
permanere della mummia di Lenin a Mosca, ma stavolta mantenuta da leader
neonazionalisti[8] (questo
può piacere o non, ma è un fatto,
giudicabile, ovviamente, da punti di vista contrari, che però rimane tale); 2) che dopo la “dottrina degli shudra” (Guénon), ovvero dell’ultima “casta”,
quella di chi ha solo il suo lavoro
da poter offrire, oggi siamo nel mondo del chandâla,
del cosiddetto “sottocasta”, e cioè
di colui che, secondo le dottrine indù, sarebbe figlio di una donna di casta
superiore e di un uomo di casta inferiore, evidente
simbolo di come l’intelligenza sia indirizzata verso scopi inferiori, utilitaristici e di mera scalata
sociale. Si tratta di un’immagine precisissima del nostro presente.
In altre parole,
l’ultima “casta”, quella “proletaria”, ancora possedeva un valore “forte”: il lavoro. Il cosiddetto “sottocasta” è,
invece, un arrivista. Ha fatto propri i valori “borghesi”, ma senza l’etica borghese, senza la famosa “etica protestante” di
cui parlava Weber. Il nostro presente, insomma, è questo, per lo meno dagli anni Ottanta del secolo scorso, che sono
stati l’esaltazione di quest’assetto sociale che, oggi, sta collassando, senza
che, tuttavia, alcun altro schema valoriale diverso venir fuori.
Anche quest’ultimo un mero fatto. Questo “mero fatto” non
induce certo ad estrapolare “trend positivi”, come dicono gli agenti di borsa,
paragone ironico, ovvio … Il lavoro non poteva resistere: esso è stato
sconfitto come progetto, e qui penso all’ “operaismo” anni Settanta, affatto
dimentico delle trasformazioni che il System stava, proprio in quegli anni,
portando avanti, e che sono state documentate da Baudrillard, illo tempore, solo che gli “operaisti”
erano sordi: idolatravano una
particolare fase dello sviluppo capitalistico.
g. Veniamo al punto: due recensioni. Come ben si sa, la pianura campana, ed anche tanti altri luoghi, ma qui con andamento più rapido e con un vero e proprio “crollo sociale”, avvenuto, è un “non luogo”; per dirla con M. Augé: “Oggi Marcianise è al centro di un’economia guidata dalla presenza dei ‘non luoghi’ come negli anni ’90 del secolo scorso affermava Marc Augé sono ‘spazi privi di legami culturali con il contesto circostante e la sua storia’. Danno servizi ai consumatori. Senza dare nessun significato negativo a questa realtà”[9]. Ebbene, prima vi era la cultura della canapa, non il mero uso economico della stessa. Quanto ai non luoghi, non solo, qui se ne dà un pesantissimo senso negativo, ma essi sono il compimento di quel che Wallerstein chiama il “progetto geoculturale” (o anti culturale, direbbero alcuni) della civiltà capitalistica: la trasformazione in non luogo dell’ intero pianeta Terra, obiettivo non raggiungibile pienamente, ma che, nondimeno, ha avuto effetti pesantissimi sui territori, anche se non ogni territorio ne ha subito così fortemente l’impatto. Questo territorio ne ha subito l’impatto in maniera precisa, durevole, assoluta. Ragionare sul perché, sarebbe lungo anche se interessante, però verremmo meno a quanto detto all’inizio: che il mezzo e le condizioni climatiche, sia di clima culturale che di clima meteorologico, sono molto avverse.
Riguardo ai territori
dell’effettiva “Terra di Lavoro”, la zona fra Napoli e Caserta – oggi “Terra
dei fuochi”, non a caso -, va notato che la gran parte di questi territori era
soggetto alla coltivazione della canapa e, poi, del tabacco. Ora, ambedue le
massicce produzioni agricole in una terra fertilissima, avevano, come
“partnership” economica e come acquirente, lo stato, sia per la canapa che per
il tabacco, ovviamente con modalità
e per delle ragioni diverse. Ma resta questo fatto, che va ampiamente sottolineato. Quando, per
vari motivi, che sarebbe lungo discutere, lo stato “dismette” questi territori
come pure chiude la Casa per il Mezzogiorno, e cioè, secondo il dominante
paradigma liberista, rinuncia a qualsiasi
ruolo d’indirizzo e di controllo dell’economia, chi prende, allora, il
controllo di questi territori sono le cosiddette “organizzazioni criminali”, da
più d’un secolo fortissime: ed ecco la “terra dei fuochi”. Nei giorni in cui il
Vesuvio sembrava eruttasse per causa d’incendi a iosa, con la macchina passavo
per la zona della cosiddetta “terra dei fuchi
[sic]”, per la precisione i “Regi Lagni”, zona in quel mentre punteggiata
d’incendi venefici che alzavano i loro neri fumi nell’aria impestata d’afa. Da
un bel po’ “The Waste Land” non è più in Inghilterra, è qui, alla faccia del “solare” Sud sorridente – d’altro
canto, secondo Holmes, i paesi “latini” (= del Sud Italia) sono “i luoghi
tipici del delitto” -; ma questi luoghi non hanno avuto nemmeno la fortuna di
trovare una penna come quella di Eliot: è necessaria la penna di un poeta di un
genere molto particolare, significativamente spregiato da E. Canetti, per saper
descrivere l’atmosfera, non solo descrivendo le cose[10].
Altro che pizza e mandolino … Personalmente rinuncio a descrivere cose del
genere: non sono in possesso della penna da poeta “di un genere particolare” che ci vorrebbe: “Ogni
uomo dovrebbe conoscere i propri limiti”, disse l’ispettore Callaghan, bella frase in un film mediocre (intitolato “Una 44 Magnum per
l’ispettore Callaghan”, film del 1973,
significativo). Parlerei, a tal
proposito, di “eversione dello stato” dopo l’ “eversione della feudalità”. Noi
veniamo dopo l’eversione dello stato, cioè delle sue proprietà, perché questo è
il processo che abbiamo visto, culminante nella crisi del 2011, punto
culminante che, a sua volte, segue un lungo processo. Ed ora? Cosa
succede ora? Ecco un altro
tema molto interessante, che qui si può segnalare solo e soltanto en passant,
sebbene varie risposte siano state accennate, almeno parzialmente dette, anche
in questo post.
Detto ciò, bisogna
essere cristallini a tal proposito: avere un giudizio molto ma molto negativo
di tale “progetto geoculturale” non
significa l’essere “nostalgici”,
nulla si ripete: ma il rispetto della storia, del passato, significa l’unica
possibilità concreta di poter proiettarsi nel futuro; chi, al contrario,
schiaccia tutto sul e nel presente vuole che tale presente sia “eterno”,
insomma il “sethianesimo” più evidente (tra l’altro, vi è il volto
“distruttore” di Apollo, ben lungi dall’esser solo il dio del “sogno” e
dell’estetica, come voleva il Nietzsche de La
nascita della tragedia, volto che si nota
nell’ Iliade (I, vv. 1-56) dove
Apollo, col suo arco saettando, sparge la peste, morte a distanza, indiretta,
sul e nel campo greco[11]).
In altre parole, trattasi
della tendenza oggi dominante a prendere una determinata situazione storica come “la” civiltà tout court e volere che nulla cambi, ma cambiando sempre tutto,
purché non intacchi il punto
centrale; nella trasformazione dell’intera Terra in un non luogo e nel cambiare tutto perché nulla cambia, vedo l’ essenza della civiltà capitalistica.
Attenzione, di civiltà bisogna parlare, non,
però, di cultura: cultura e civiltà, spesso sono andate assieme, ma non
necessariamente. La civiltà sono i mezzi, le strutture; la cultura la vita
spirituale, quel che orienta la vita in qualche modo. Esiste, senza dubbio, una
civiltà capitalistica. Ma esiste
una cultura capitalistica, se per
cultura intendiamo una solida visione del mondo, una concezione precisa dell’uomo e del suo posto nel Cosmo?? Non esiste.
Significativo che
simbolo della civiltà, secondo M. Schneider, sia il coccodrillo, e si dice, in qualche mito di popoli etnici, che alla
fine verrà ucciso …
d. Dunque senza nessuna “nostalgia”, tuttavia nel profondo rispetto del passato: “Ma si può riprodurre una civiltà? Si può studiare, interrogare, documentare, cioè conoscerla: non è solo possibile, ma necessario, ma mai comunque farla tornare”[12]. E tuttavia, è altrettanto vero che: “Il passato, anche se dimenticato, non è mai morto”[13].
Sorge un problema,
però: se tanti luoghi son divenuti non luoghi, com’è che la Campania “storica”
(quella “storica”) sia andata incontro ad un vero e proprio crollo, e com’è che in se stessa non ha
trovato alcuna seppur minima
resistenza a questa vera e propria dissoluzione
dei legami sociali? Peggio che altrove, più rapidamente che altrove, una
sudditanza mentale quasi assoluta, una resa
completa e, direi, che l’intero Sud, con poche eccezioni qua e là, è
questa la strada che ha preso[14].
Vi sarebbe molto da dire, a tal proposito, ed
ovviamente chi scrive ha un’idea ben precisa, che qui, per i piccoli fini del
blog, si può soltanto brevemente suggerire, nemmeno delineare a grandi linee.
La risposta è una domanda: com’è che, in
linea generale, l’opinione “conservatrice” nel Sud sia sempre stata
maggioritaria – in tutta Italia senza dubbio è così – ma nel Sud
particolarmente forte? E, nel contesto casertano, di un bianco cadaverico, il
partito dominante, prima della DC, era il partito liberale? Liberale
nell’accezione europea, non
americana, e dunque di “destra”.
Questo ci parla di una
frattura profonda tra la borghesia e
le classi popolari, che un tempo erano assolutamente quelle contadine (oggi non parlerei proprio più di “popolo”, vi
è solo massa). Questa è una
caratteristica profonda della borghesia meridionale, quella di essere “compradora” (lo notava lo stesso Lenin molti anni
fa: e non è cambiato).
Nondimeno alcuni
riferimenti “pasoliniani” del testo di Zarrillo sono assai interessanti, come quando
riassume la lunga storia della canapa, che proviene dagli Sciti (Scythae) che la diffusero nella Tracia,
dalla quale Tracia si diffuse poi sia in Russia e Lituania, a nord, che fra
Greci e Romani, a sud, per poi stabilizzarsi nel Piemonte e, in seguito, di qui
diffondersi in Emilia, Campania, Veneto ed Umbria[15].
Tuttavia: “In Terra di
lavoro diventerà la coltura principale, collocandosi al secondo posto nella
produzione nazionale e la sua ricaduta sarà decisiva per le sorti dell’economia
della Provincia. La lavorazione della canapa era accompagnata da canti o da
racconti, che in genere servivano a esorcizzare la durezza del lavoro”[16].
Su questo bisogna esser chiari, due volte. In primo luogo, la condizione di
durezza del lavoro, come sfruttamento di manodopera, peggiora, nelle campagne,
con il sorgere del mondo moderno, rispetto al Medioevo. Secondo punto, non è
che la “durezza”dello sfruttamento sia oggi minore, ed anche la menzione della
fatica solo fisica va posta sempre a
confronto con le migliaia di disperati che vivono nel mondo, di cui solo una
piccola parte vien detta “migranti”: la durezza dello sfruttamento dell’uomo
sull’uomo rimane, anzi forse
accresciuta, di certo coperta, d’ipocrisie, nonostante alcune parti del mondo abbiano visto, in tempi non lontani,
la diminuzione della durezza della
relazione sociale.
I luoghi dove la
relazione sociale mostra tutta la sua durezza di sfruttamento, semplicemente,
si son trasferiti altrove, ma non
son affatto spariti …
Uno spaccato di vita
contadina è tutto il cap. VI del libro di Zarrillo, che presenta il teatro
contadino nella sua relazione con la canapa e con l’uccisione del maiale.
L’uccisione del maiale era
una festa grande, e, dai testi, opportunamente riportati dall’autore[17],
si evince una relazione complessa
con tal animale, la cui uccisione consente sì di nutrirsi di carni che danno
energia, eppure si ha comprensione verso l’animale, con il quale, anzi, si era
instaurato un “rapporto di amicizia”.
Qui sarebbe lungo
parlare di queste cose, in tempi di “vegan”, ma è consigliabile dare
un’occhiata a qualche documentario dove qualcuno ha esperito (il rito de) la
vita di “cacciatori raccoglitori” per vedere come le “certezze” del civilizzato
crollino a fronte della natura così
com’è, non del “parco pubblico”,
che i civilizzati troppo spesso credono
che la natura sia. Il parco pubblico è, infatti, una creazione umana, non ha
niente a che spartire con una foresta o un bosco.
Nella natura si gioca
con le sue leggi, non con le tue.
Senza per questo
giungere all’estremo opposto della natura come “male”, in tali documenti si
vede chiaramente che non c’è alcuna riprovazione, da parte di tali popoli,
verso l’animale ucciso, anzi è vero il
contrario; e non vi è nemmeno quel sentimentalismo proprio ai “nostri”
contemporanei verso gli animali. Già in un’altra epoca, qualcuno parlò, giustamente, di “animali malati d’uomo”
(P. Diolé, in un libro pubblicato dalla Rizzoli nel 1975).
E questa malattia è
quella che altera e non rispetta
l’effettiva natura dell’animale, ma tende invece ad umanizzarlo, così alterandolo definitivamente. Essa la si vede
al massimo nel peggior prodotto dell’umano addomesticamento: il cane. Vi sono infatti cani bisbetici,
stizzosi, che contraggono le pulsioni devianti dei loro sedicenti “padroni”,
spettacolo pietoso. Proprio il latrato petulante, isterico, malato di questi
cani attesta che c’è qualcosa di profondo
che non va. Qual era, invece, la risposta che si dava la cultura contadina a
questa duplicità di atteggiamenti: dover sfruttare – perché questo è – un animale per nutrirsene, e
tuttavia divenirne amico: questa contraddizione necessitava di un canale
d’espressione di natura emozionale,
quel che oggi manca: ed ecco il teatro contadino del maiale. Di certo, un
cittadino, un civilizzato riderà di queste cose, ma, personalmente, rido di
lui.
Tornando a come la
cultura contadina si spiegasse questa duplicità, che è un fatto innegabile, così essa pensava: “la
morte di un animale favorisce la nascita di un altro, concetto che lega la
cultura contadina ai meccanismi di conservazione delle specie viventi, del
ciclo vitale e degli stretti legami tra vita e morte, concetti che poi si
riassumono nei versi finali del primo atto, cantati insieme dai due cori e
dagli attori: E tu ci rai ‘a carne/ E tu
ci rai ‘a vita/ E tu ci rai ‘a forza/ Tu muore e nui campammo/ Ro puorco nun ci
scurdammo/ Ro puorco nun ci scurdammo/ Ro puorco nun ci scurdammo”[18].
“Del porco non ci scordiamo”, ripetuto tre volte per rafforzarlo: è la memoria che fa andar oltre la morte. Non
è come col cane, che diventa troppe
volte una proiezione dell’uomo e delle sue nevrosi,
ma vi è qui del rispetto, quel che manca precisamente a tutti coloro i quali
non sanno dove sia il rispetto della natura, negli animali, nelle piante – sempre
dimenticate -, nei luoghi, in ogni cosa. Ecco, la chiave sta nel termine rispetto.
Troppe volte la natura
è una mera proiezione dell’ ego, e
cioè quell’atteggiamento di sfruttamento, senza rispetto, che è la caratteristica distintiva
della civiltà capitalistica rispetto a tutte
le altre. Né può esser casuale come gli animali della dissoluzione, della
decomposizione, prosperino sotto il regime della civiltà capitalistica: chiaro
ed inequivocabile segno. Rispettare significa comprendere che l’ altro non è la mera proiezione dei tuoi desiderata, che non può
essere la pantomima dei tuoi desideri.
L’animale che subisce i
tuoi stati mentali, le tue nevrosi o che deve star lì ai tuoi ordine, non è
rispettato: è sfruttato.
E qui vediamo l’ “essenza”
della relazione sociale di sfruttamento: l’altro è una mia proiezione, deve
“servire” all’individuo – che si assolutizza –, deve “servirgli” anche solo per
“fargli compagnia”, per alleviarne la sensazione di solitudine. Ma la natura è
“altra da te”, “buono” o “cattivo” non significa molto.
I naufraghi della
baleniera Essex rispettavano l’oceano, che pure li trattò, letteralmente, “a
pesci in faccia”. La differenza con gli uomini contemporanei sta nel fatto che
non vivevano nella “bolla tecnologica”, dove la natura è un parco cittadino,
dove, al massimo, la vedi in un documentario, o te ne parla qualcuno che ha
fatto “un viaggio” con più o meno “tutti i comfort”, ma, se dovessi confrontarti con la natura
per davvero, essa farebbe
polpettine inacidite di te in men che non si dica. Quando, dunque, uno di questi
parla di ciò che non può capire,
menando vanto di una tecnica che non
signoreggia, che non ha costruito
lui, che non ha la più pallida idea di come funzioni, viene da sorridere. Non
so chi scrisse che quelli che con la tecnologia hanno la relazione meno nevrotica
sono i contadini (vecchio style, oggi
ci sono imprenditori dell’agricoltura, che niente hanno a che spartire con una
certa cultura): ma non è certo un caso.
Come osservava Thuiller,
ben venti anni fa, ormai, comunque, oggi, non può esistere il
contadino come fatto culturale; egli
ha un ruolo residuale: la civiltà
capitalistica ha preso tutt’altra direzione.
Per
sempre.
Quest’ultimo termine
significa: che non si può re-vèrtere,
ri-girare (attorno ad un vertice,
per estensione di significato = tornare
indietro).
e.
La fine della civiltà contadina, “celebrata” in Italia, prima, dalle “orge”
della “civiltà dei consumi”, e, poi, dalle tristezze della civiltà
dell’elettronica – e dell’elettromagnetismo stagnante tutto impestante
–, il primo essendo il momento “caldo”
ed il secondo quello “freddo”, la
fine della “civiltà contadina”, che noi abbiamo esperito, ci porta quindi ad
esaminare qualche altra fine.
Per caso, su di una ben
nota rivista, si parla di un’altra fine, ormai remota nel tempo: quella dei
Vichinghi della Groenlandia. Caso interessante di “fine”, molto dibattuto, è
stato, infatti, quello dei Vichinghi di Groenlandia, la cui comunità risale
intorno all’anno 1000 e, per la fine del Quattrocento, era stata abbandonata.
Ebbene, si sa che quest’interpretazione data finora è sbagliata, in quanto si
pensava che fosse stato il solo loro voler mantenere lo stile di vita basato
sui pascoli, che li avevano portati lì, a generare questa caduta, assieme al
noto peggioramento del clima, chiamato “Piccola età glaciale”, che inizia con
la seconda metà del XIV secolo e termina con la prima metà del XIX. Certo che il clima vi ha inciso non
poco, ma recenti scoperte dimostrano che, invece di esser rimasti solo allevatori, essi appresero delle tecniche dai vicini
Inuit e si spostarono verso l’uccisione dei trichechi, per esempio. Dai
trichechi, poi, essi traevano quell’avorio che, all’epoca, era molto ricercato in Europa.
Tra l’altro, proprio i
cambiamenti di moda, che resero l’avorio meno centrale per le classi agiate,
contribuì non poco alla crisi
delle comunità groenlandesi. Pertanto è stato un insieme di fattori a
portare a quella crisi.
Il caso è piuttosto
interessante perché la civiltà contadina è convissuta con quella industriale
per tanto tempo ed è stata distrutta solo
e soltanto quando quest’ultima è
divenuta civiltà postindustriale, il che davvero è molto ma molto significativo.
In poche parole – ma pure qui ci sarebbe d’approfondire –, il mondo contadino
conteneva in sé uno sbocco: la civiltà
industriale.
E gli scandinavi di
Groenlandia pure avevano uno sbocco: l’Europa. Noi, al contrario, non abbiamo
alcuno sbocco, ed è questa
“la” Fine. Se uno volesse, e
realmente, capre che cos’è “davvero” la “Fine”, dovrebbe pensare a questo: è
l’assenza di sbocco.
“Il peggioramento del
clima, i cambiamenti delle mode e della politica, la diffusione della peste e
l’arrivo degli invasori costituivano nel loro insieme un problema mai
affrontato dai vichinghi, che si trovavano in una situazione non gestibile dal loro tradizionale sapere ecologico.
Come risultato, i groenlandesi si trovavano a dover prendere decisioni
difficili su come mantenere in vita
la loro società. Continuare con
rinnovata tenacia ad adottare strategie la cui efficacia era già stata
comprovata, come la caccia comunitaria […]? O invece sviluppare nuovi
adattamenti in risposta alle nuove sfide? Secondo Arneborg e McGovern, le
testimonianze archeologiche indicano che i vichinghi della Groenlandia si concentrarono sulla caccia e continuarono sino alla fine a fare ciò che aveva funzionato così bene all’inizio del periodo di
colonizzazione. I proprietari terrieri più facoltosi, addirittura, continuarono ad abbellire le proprie chiese
quasi fino al momento in cui le colonie furono abbandonate, cosa che
potrebbe costituire di per sé parte
del problema”[19].
Non poterono, così, che
tornare in Europa: “E’ possibile che, a metà del Quattrocento, non ci sia stato molto da scegliere.
Anche i proprietari terrieri con le fattorie più grandi e le chiese più belle,
nel momento in cui si fossero trovati di fronte alla possibilità di morir di
fame, o di essere uccisi in battaglia, avrebbero
dovuto interrogarsi sull’opportunità di fare i bagagli, salire su una barca
e tornare in Europa. Eppure questo
avrebbe potuto rivelarsi un rimedio anche peggiore
del male: sarebbero ritornati in un’Europa che era parte di un nuovo sistema economico, in cui non c’era posto per cacciatori di foche e
trichechi.
I vichinghi possono
anche aver conquistato la Groenlandia ma, alla fine, sono stati sconfitti dalle forze del mondo che si
trovava al di là delle sue coste
ghiacciate”[20].
Di fronte ad una sfida esiziale, oppure ad un insieme di sfide che si assommano in un problema esiziale –
com’è il caso del “nostro” mondo di oggi
-, le società reagiscono perseverando
“con rinnovata tenacia” sul cammino che le ha portate là dove sono, a
quel “nodo” e in quello scacco.
Esse tendono, dunque, a
ripetere quanto ha avuto successo in
altra epoca, dimenticando che il momento è cambiato e che le vecchie strategie non possono più funzionare, per lo meno
non con la stessa efficacia.
In poche parole, per
dirla con il professor Dupin: “Ogni
cultura nasce da certe scelte e, nel bene e nel male, si spinge sempre fino al
limite”[21]. Ed è
così. Solo che, per noi, non c’è più
alcuna Europa, dove poter “tornare”
…
Il sorriso, “quel”
sorriso ricordato da Colli in una nota precedente, è lo stesso dell’Apollo di
Veio (aplv
veiis), e con quello si vuol qui terminare, poiché, per parafrasare
Eliot: “This is the way the world ends,
not in a bang, but in Apollo’s smile”[22]
…
Andrea A. Ianniello
[1] G. Lerner, L. Manconi, M. Sinibaldi, Uno strano movimento di strani studenti.
Composizione politica e cultura dei non garantiti, Feltrinelli Editore,
Milano 1978, pp. 58-59, corsivi miei.
E l’hanno fatto: noi viviamo nel mondo in cui si sono assunti ed esaltati quei
valori, anche, se non soprattutto, da parte delle cosiddette “sinistre” con lo
zelo del parvenu. Quanto al
razionale/irrazionale, chiaro che sia un artifizio retorico in cui “razionale =
buono” ed “irrazionale = cattivo” queste le categorie dell’epoca, dopo seguite
da parallele opposizioni cosiddette
“manichee”, tranchant, nette,
assolute. Ma l’essenza non è cambiata,
anche se non c’è alcuna “essenza” in queste semplicistiche equazioni, essendo l’essenza ciò senza cui niente l’è senza.
[2] C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Adelphi Editore, Milano 2011, pp. 199-200.
Ricordandoci che il libro appena citato di Malaparte è del 1931 (!!), quel che qui Malaparte diceva è ancor più vero al giorno
d’oggi, basti vedere come gli italiani trattino le antichità che risiedono, per
loro inespiabile sfortuna, nel suo territorio: macchine per soldi. Stop. E
questo è il massimo cui giungono, dopo una sforzo colossale, ma colossale
davvero. Nulla, in realtà, lega gli italiani di oggi a quel passato: i casi
macroscopici di Venezia, in primis,
poi Firenze, Roma – troppo magniloquente
per l’Italia piccola piccola -, in
misura minore Napoli, lo attestano “al di là di ogni ragionevole dubbio”, per
ironicamente usare la “frase fatta” dei telefilm americani. Ma, in piccolo,
Caserta e la Reggia sono lo specchio preciso di questa cesura, che rende gli
italiani dei diseredati mentali, che hanno così profondamente introiettato la logica de-localizzante del
tardo-capitalismo “globalizzato” da non esser più legati al loro passato, tanto
buono che cattivo.
Il libro appena citato di
Malaparte, pur avendo il suo lato valido – per esempio, vide chiaramente che
Hitler avrebbe scelto la via parlamentare –, pure contiene degli errori, per
esempio ricostruisce molto bene gli eventi dell’Ottobre di cento anni fa, la
Rivoluzione del 1917, e riconosce che Stalin era restio e che tutto il merito
(per alcuni la colpa) va ascritto a Lenin e Trotzky, e però immagina grossi contrasti fra questi
due, il che, in quel preciso momento, non era vero. Lo stesso Trotzky critica
esplicitamente Malaparte, in un passo della sua Storia della rivoluzione russa, perché queste son le tre tesi di Malaparte:
1) che le vecchie misure di polizia
sono inutili a fronte di un colpo di
stato “moderno”, verissimo, e che quindi la vecchia mentalità di polizia che si
aspetta barricate e l’assalto ai palazzi del governo sbaglia per principio; 2) un conto è il colpo di stato
“moderno” ed altro il complotto per impadronirsi del Parlamento, come han fatto, seppur con modalità diverse, tanto
Napoleone che Hitler; 3) che un
colpo di stato sia un fatto “tecnico” (tesi principale), slegato dalle
condizioni concrete. Proprio quest’ultimo punto è stato quello – giustamente – criticato illo tempore da Trotzky.
Le osservazioni che Malaparte
riporta, sia di Lenin che di Trotzky, a riguardo dell’incapacità da parte dei
partiti comunisti dopo la Prima Guerra Mondiale d’impadronirsi del potere, in
una situazione favorevole, a causa di una scarsa volontà e di una quasi nulla
conoscenza della “tecnica del colpo di stato”, sono vere. Ma quel che Trotzky
rimproverava giustamente a Malaparte
è che una tecnica senza le condizioni adatte risulta fallimentare, soprattutto
senza il consenso, da ottenersi prima
di agire, punto importantissimo.
In poche parole: ci vogliono ambedue, sia la tecnica
dell’insurrezione sia la situazione favorevole. In mancanza anche solo di una di queste due parti, è assicurato
il fallimento. Non basta la
situazione favorevole, né basta la
capacità tecnica. Per questo i “colpi di stato” coronati da successo son sempre
stati pochi, molto pochi. Malaparte, in realtà, voleva suonare una nota di
“risveglio” per la democrazia parlamentare: “La storia politica di questi
ultimi anni [libro del 1931] non è
la storia dell’applicazione del Trattato di Versailles, né delle conseguenze
economiche della guerra, né degli sforzi dei governi per assicurare la pace
d’Europa, ma la storia fra i difensori
della libertà e della democrazia, cioè dello Stato parlamentare, e i
suoi avversari”, ivi, p. 35, corsivi
miei. Cosa quest’ultima, la difesa dello stato parlamentare, forse
comprensibile all’epoca, e, per far ciò, propugnava una democrazia forte che
sapesse difendersi anche attaccando.
Vi è qui, in nuce – ma, ovviamente, non n’è direttamente responsabile Malaparte,
sia detto a chiare lettere – il germe di quella deriva della quale viviamo e in
cui siamo, la deriva del paradigma di sorveglianza, se possibile totale,
giustificata dalla democrazia, ormai svuotatasi di senso. Far capire agli “illustri
strologatori” e cantori delle “magnifiche sorti e progressive” della democrazia
questa sua deriva, e ch’essa in se stessa ne abbia i germi, e cioè che tale
deriva sia “strutturale” al regime democratico stesso, è una fatica di Sisifo.
Che la loro amata democrazia
potesse portare a questo globale disastro è troppo per costoro, e ciò è per
loro totalmente inimmaginabile, persino impossibile: non stupisce che non è che ne neghino l’esistenza, ne
neghino la semplice mera possibilità. Si vive nel mondo della negazione della
realtà.
In ogni caso, ponendo a confronto
l’insurrezione bolscevica del ’17 con quella fascista dell’inizio degli anni
Venti, dovuta, secondo Malaparte, alla cultura marxista da cui proveniva
Mussolini, e qui era la differenza con Hitler, di cultura conservatrice – che
per questo avrebbe certamente (come fu) scelto la via d’impadronirsi del
Parlamento –, diceva: “L’insurrezione bolscevica dell’ottobre 1917, a
Pietrogrado, si era effettuata quasi senza perdite: non si ebbero morti che
durante la controrivoluzione, alcuni giorni dopo la conquista dello Stato […].
‘I conflitti sanguinosi di Bologna e di Cremona’ aggiunsi ‘provano che vi era
qualche difetto nell’organizzazione rivoluzionaria fascista. Quando il
funzionamento della macchina insurrezionale è perfetta, come qui in Toscana,
gli accidenti sono molto rari’”, ivi,
p. 207. Quanto ad oggi, non vi son più “gangli” da colpire, in quanto il
“ganglio” è dappertutto, una sorta
d’emulsione tecnologica che tutto ricopre. Oggi solo una crisi economica di un
“certo” tipo (2.0), dopo quella appena passata, potrebbe costituire una pietra
d’inciampo, insufficiente, e che verrebbe usata da “certe” forze: e però
proprio questo sarebbe la cosa giusta, in quanto rivelerebbe la nullità di
queste forze che prenderebbero definitivamente
il potere, dopo aver tramato ed essersi mosse nell’ombra sin ora.
Secondo Malaparte, che Mussolini,
e non Hitler, usasse un “colpo di mano”, derivava dalla cultura marxista che il
giovane Mussolini aveva comunque avuto, invece assente in Hitler; giudizio in
gran parte vero, che però andrebbe sfumato, perché anche Hitler ebbe contatti
con la cultura marxista, solo che s’interessò di un altro suo aspetto: non dell’ “arte dell’insurrezione”, ma
di quella della propaganda, dove,
poi, surclassò, di molto, gli stessi partiti marxista, e tuttavia ammetteva di
averne imparato i rudimenti dai suoi stessi nemici. Non vi è miglior maestro del tuo nemico, ed è così, sempre. Ma tutti i “protestatori” del
“nostro” tempo, pieni di vanità e di chiacchiere com’è caratteristica di questo
momento storico “finale”, mancano di apprendere questa semplice lezione della
storia, che, si sa, magistra vitae non lo è mai. Tutto sommato, mutatis
mutandis, la Rivoluzione iraniana del 1979 segue questo schema “alla russa”
di due rivoluzioni, la seconda come presa del potere da parte dell’ala più
radicale. Nella Rivoluzione francese pure si può riconoscere questa schema, ma
molto meno chiaro e ben più sfumato. Le due rivoluzioni, russa e francese,
sboccano in forme di cosiddetto “cesarismo”, molto diverse tra loro, ma questo
l’esito; al contrario, quella iraniana qui è differente, la causa essendo il
diverso contesto culturale islamico, essendo l’Islamismo, sostanzialmente, una sorta di nomocrazia,
che si esercita “in nome di” un Dio “tiranno”, concetto non estraneo al
Cristianesimo, per quanto in contesto cristiano ben meno forte (anche se il
Protestantesimo vi si è avvicinato non poco), e neppur estraneo a Machiavelli
stesso. Altra differenza è questa: la Rivoluzione bolscevica parte dall’internazionalismo però
arriva, di fatto, al neonazionalismo. Attraverso mille passaggi e fasi, questo
è il suo approdo. Il cammino dell’Islamismo radicale, al contrario, è stato diverso:
esso parte dal nazionalismo religioso, per mezzo della seconda fase della
Rivoluzione iraniana, quando Khomeyni, tornando dalla Francia grazie ai fondi
dei grandi mercanti dei bazar iraniani, realizza – more bolscevico (seppur
con altre modalità: nulla si ripete,
vi son solo paralleli, mutatis mutandis)
– una seconda rivoluzione, con la presa del potere per instaurarvi un governo
radicale. Da lì, lo stimolo dell’Islamismo radicale si diffonde in ogni paese a
suo modo, e cioè con modalità profondamente differenti.
Potremmo dire che la Rivoluzione iraniana sia stata l’ultima con andamento
politico “novecentesca”.
La cosa interessante da
sottolineare, tuttavia, è che, sia nel caso della Rivoluzione iraniana che in
quello, molto diverso, di Solidarność, è che non si è trattato – né ancora si
tratta – di cosiddetto “ritorno al sacro”, che è molto lontano; e nemmeno si è trattato (e si tratta
tuttora) di “desecolarizzazione” (P. Berger): si è trattato, e si tratta
– ancor oggi –, di ritorno dell’aspetto sociologico
delle religioni, che, a sua volta, non si capisce se non si pone mente al “sacro
senza religioni” che fu sperimentato negli anni Sessanta e Settanta: in seguito
al suo fallimento, la tendenza
opposta, religione e politica,
riemerse con forza, anche grazie alla Rivoluzione iraniana.
Si deve, tuttavia, precisare che questa tendenza al ritorno ai “valori” (=
religione e politica insieme) si ha già nel momento di
maggior fulgore di “sacro senza religioni”, e possiamo farlo iniziare proprio
nel 1968, che, secondo tanti, è l’inizio di chissà quale degenerescenza
politica.
In una parola: quel che abbiamo
visto è il ritorno della relazione fra
politica e religione, a fronte della crisi, esiziale, della politica moderna come “salvifica”.
Ora però, a distanza di decenni, possiamo dire che il ritorno
di questa relazione stretta fra politica e religione non ha risolto alcun problema. “La”
Macchina non solo funziona da sola
– e questo fu lo scopo negli anni Settanta d’individui come D. Rockefeller: “securizzare” il funzionamento autonomo (cibernetico) della “Macchina” stessa, qualunque cosa fosse potuta succedere: se c’è un
“complotto” vero, questo lo è stato –, ma le cose son gravemente peggiorate,
visto che il giorno in cui il System consuma tutte le risorse rinnovabili è passato dal 2 ottobre del
1997 al 2 agosto del 2017: in soli vent’anni ha fatto quanto ha compiuto in molti decenni precedenti. A fronte di
dati del genere, le cosiddette proposte di “cura” fanno semplicemente ridere,
pur essendo la cosa tragica. Da tal punto di vista, il ritorno al legame stretto fra la politica e la religione non ha prodotto alcun successo, proprio
zero. E cioè il ritorno della
relazione stretta fra religioni e politica, fino, al limite, a ritornare a
visioni pre-secolari – ma moderne … –
in cui la religione si fa politica,
non ha intaccato in nulla la tendenza
uniformante del System tecnico-economico. Qui è il suo profondo fallimento; anzi, tale tendenza si è
acuita. In tal senso, la visione à la
Pasolini non si è dimostrata per niente sbagliata, solo che si è realizzata,
come sempre nella storia, con
modalità paradossali. Un conto è giocare
ad un gioco, ben altro dettarne le regole.
Chi detta le regole del gioco è più forte, per principio, di tutti i giocatori.
Il “ritorno alla religione
politica” – pur se non nelle forme
“classiche” della “teologia politica” che l’Occidente ha conosciuto e delle
quali il nostro mentore Federico II di Svevia è stato sommo rappresentante, nella sua versione medioevale –, il “ritorno alla
religione politica” è avvenuto seguendo
le regole del gioco imposte al mondo intero dal System. Il fallimento della Rivoluzione bolscevica, non dal punto di vista storico, ma ideologico, è infatti dovuto alla non
comprensione di questo preciso punto. Anzi, l’essere marxisti si definisce come il non poter comprendere, per principio, questo specifico punto. La
Rivoluzione iraniana e tutte le forme d’integralismo d’ogni forma, fatta o
misura, falliscono perché giocano secondo le regole: loro scopo è “prendere il
potere”, però allora sei dentro il System, che piaccia o non. E così per tutte le forme ben più blande dell’integralismo, sia detto a chiare lettere, di ne nazionalismo, “sovranismo”,
populismo e qualsiasi cosa del genere. Questi sono i fatti, oggi. Alle classiche rimostranze di non lasciare
speranze, o alle classiche accuse di “apocalitticismo”, seppur di carattere molto blando, si risponde così: se il
problema fosse stato facile a
risolversi, non lo sarebbe già
stato? Non sarà che, forse, il fatto
che siamo giunti a questa situazione così sbarrata
non derivi dall’aver sempre sottovalutato
la sfida radicale che la sola
esistenza del System ed il suo funzionamento cibernetico – autoregolantesi – necessariamente pone?
[3] Ivi, p. 35, corsivi in originale. Mostrando
come si possa conquistare uno “stato moderno” – periodo dello “stato moderno”
nel quale non viviamo più -,
Malaparte in realtà voleva sollecitare a capire
come si difende questo stesso stato,
nel frattempo, nei giorni nostri, svuotatosi da dentro. Allora diciamo: come si
difendeva lo stato moderno. Non vi è,
però, illusione più perniciosa di quella di pretendersi libero, e questa
suggestione collettiva è la base di tutta l’impalcatura dell’inamovibilità
della situazione presente. Il comprendere di non esser liberi è, infatti,
sempre e dovunque, il primo passo per intraprendere un cammino che forse, in
futuro, potrebbe portare alla vera ed effettiva libertà. Tu puoi scegliere di
voltare, in teoria sei “libero” nella tua scelta, ma se si condiziona, in mille
modi, questa tua scelta, dove sta la libertà?? La democrazia postula una tabula rasa che sta solo nelle menti di
chi la concepì per scardinare l’ ancien régime. La “libera scelta”
postula una conoscenza che non potrà mai essere di massa, un’educazione,
soprattutto una consapevolezza così diffuse da esser totalmente una chimera,
nelle condizioni date, oggettive, concrete
del “nostro” mondo.
Contro ciò non si combatte con
misere tattiche elettoralistiche, ma tenendo ben in mente certi consigli
strategici: “Una strategia senza tattiche è il cammino più lento verso la
vittoria. Le tattiche senza una strategia sono il clamore prima della sconfitta”,
Gary Kasparov in Sun Tzu, L’arte della guerra, Baldini Castoldi
Dalai editore, Milano 2011, p. 14. Tra l’altro, anche Napoleone, come Mao
Zedong, conosceva quest’antico, sempre utile testo: “si hanno notizie di una
versione francese del gesuita Amiot, redatta nel 1772, di cui egli [Napoleone]
avrebbe avuto conoscenza. E anche Mao Tse-tung mostrò d’interessarsi ai
princìpi di Sun Tzu, applicandoli durante la Lunga Marcia che lo avrebbe portato
al potere”, ivi, p. 11. Ci si
potrebbe chiedere perché non vi possano
essere rivoluzioni oggi, e rivoluzioni che, preciso bene, come tutte le
precedenti di cui s’è detto in breve, possono sì aver qualche successo, ma non cambiare la direzione del mondo;
nondimeno non ci sono proprio: perché dunque. Eccone la ragione,
spiegata da Lin Piao: “Solo la campagna
è il mondo senza fine in cui i rivoluzionari
possono agire in libertà”, in J. Guillermaz, Storia del Partito comunista cinese 1921/1949, Feltrinelli Editore,
Milano 1973, p. 167, corsivi miei. In
città questo non è possibile. Oggi
però, il mondo intero è una gigantesca città, la campagna, seppur laddove non è
divenuta “imprenditoria agricola”, è marginale
o viene marginalizzata, come si è visto da Thuiller, più volte citato in
qualche post precedente. Dunque così si spiega “l’arcano” che, quindi, arcano non è affatto.
Napoleone era uno strano misto di
cose contraddittorie, come ci si può convincere leggendo le sue affermazioni.
Un esempio: “L’immaginazione governa il mondo”, Napoleone,
L’arte di comandare, Newton Compton
editori, Roma 2014 (1995), p. 102;
oppure: “Il genio delle grandi imprese e i grandi risultati consistono
nell’arte d’indovinare”, ivi, p. 119.
Diceva però anche: “Come può il principio monarchico imporsi sulla logica degli
avvenimenti in corso? Solo impedendo il ripetersi dell’esempio da me dato nei
confronti di ciò che i sovrani chiamano legittimità. Ma il mio esempio non si ripeterà per secoli”, ivi, p. 101, corsivi miei.
E così è stato. Per quanto
volesse imitare Napoleone, Hitler era ben diverso da lui, come osservò giustamente Aurobindo. Ebbene, nel
discorso che si è fatto qui nemmeno
cambiamenti all’ interno di un quadro istituzionale son possibili oggi.
[4] Storia della filosofia politica, a cura
di L. Strauss e J. Cropsey, il melangolo, Genova 1995, p. 35, corsivi in
originale, quelli miei segnalati fra parentesi quadre. Tra l’altro, nel proporre
(a Lorenzo de’ Medici) la “liberazione dell’Italia”, Machiavelli usa dei
paragoni che, in effetti, son citazioni dalla Bibbia, relative agli eventi
straordinari compiuti da Mosè, e questo punto è interessante: “Machiavelli
sembra suggerire che l’Italia è per Lorenzo [il Magnifico] la terra promessa.
Ma c’è una difficoltà: Mosè, che condusse Israele fuori dalla ‘casa di
schiavitù’ verso la terra promessa, non raggiunse mai questa terra; morì ai
suoi confini. In tal modo, Machiavelli profetizza oscuramente che Lorenzo non
libererà l’Italia, dal momento che egli è privo della straordinaria virtù necessaria a portare a compimento
questa grande impresa. Ma c’è qualcosa in più degli straordinari eventi […].
Tutti questi eventi straordinari sono accaduti prima della rivelazione sul
Sinai. Ciò che Machiavelli profetizza è, allora, che […] la rivelazione di un
nuovo Decalogo, è imminente. Il portatore di questa rivelazione non è
naturalmente il mediocre Lorenzo, ma un nuovo Mosè. Questo nuovo Mosè è
Machiavelli stesso, e il nuovo decalogo è la sua dottrina […]
sull’assolutamente nuovo principe […]. E’ vero che Mosè è stato un profeta
armato e che Machiavelli appartiene a quella schiera di profeti disarmati che
necessariamente pervengono alla rovina”, ivi,
p. 19, corsivo in originale.
Sul Dio “tiranno”, che non è
caratteristica dell’Islamismo, ma in quest’ultima religione si è magnificato
per mezzo della “nomocrazia” ricordata più sopra, va ricordato che Machiavelli
ne accenna a partire dall’ unica
citazione dal Nuovo testamento esplicitamente riportata da lui stesso, ed è dal
Magnificat, ma, nel contesto dei Discorsi della Prima Deca di Tito Livio, “ciò
significa che Dio è un tiranno, e che il re David, che ha reso ricco il povero e viceversa,
è stato un re divino, un re che ha camminato sulle vie del Signore
perché ha proceduto sulla via della tirannide”, ivi, p. 31,
corsivi miei. Non a caso, ne Il Libro del Signore di Shang vien
detto, esplicitamente, che render ricco il povero e viceversa è un preciso
segno del governo giusto, cioè assolutistico, se non vogliamo usare il termine
di “tirannico”, un po’ fuorviante.
“Tirannico” sottintende, infatti, che sia “illegale” la presa del potere, ma
ciò non è un fatto necessario al
governo assolutistico, che può perfettamente costruirsi dentro un sistema di
leggi, ma spietate, come suggeriva
l’antico testo cinese testé citato, e fermo restando che la “legittimità” del
potere regale vi era garantita dalla successione dinastica. Chiaro che, mancando quest’ultima, si può scivolare
dall’autoritarismo alla tirannide, quest’ultima, però, portata sempre avanti da homines novi, con l’aiuto del consenso popolare.
Interessante notare che, per
Guénon, la lotta fra Mosè e “i maghi del Faraone” sia un’immagine della lotta
fra quel che chiamava l’ “iniziazione” e la “contro iniziazione”, quest’ultima essendo
rappresentata spesso, ma non solo,
dall’Ermetismo “deviato” nel magismo puro e semplice.
Sul “re David”, un passaggio
“assai scioccante”: “Potentissimo Sovrano, Gran Comandante e Gran Maestro
dell’industria e della finanza, e dunque degli scambi di beni materiali sul continente
europeo e le sue dipendenze [evidentemente scritto prima della
“decolonizzazione”, nota mia], e a causa di ciò stesso Servus servorum Sabbathai; onnipotente e misterioso personaggio
situato al centro di gravità stesso di tutte le forze economiche e finanziarie,
e di conseguenza dispensatore lontano di tutti i beni materiali della Terra, e
in seguito, dei mezzi d’informazione e d’espressione che ne dipendono; erede
sconosciuto e così preziosamente nascosto del Trono del santo e criminale Re
David, ognuno, nell’ora stessa del suo trionfo, avrà preparato le condizioni
immediate della sua propria distruzione, e così, dopo la vittoria provvisoria
dell’Anticristo e l’ora della Grande Tenebra, il ritorno all’ordine legittimo
che corrisponde alla fine del ciclo”, frase di corrispondenza privata in A. de Danann, Mémoire du sang, “contre-initiation”, culte
des ancêtres, sang, os, cendres, palingénésie, Archè, Milano 1990, pp.
35-36, nota a pie’ pagina n°15, corsivi in originale. Questo passo viene
riportato in nota non casualmente in
relazione ad una frase in cui si sostiene che “certe stirpi moderne
d’industriali e di finanzieri sembrano servire da ‘veicolo’ ad ‘influenze’d’un
altro ordine”, ivi, p. 35.
[5] A. Conan Doyle, Tutto Sherlock Holmes, Grandi Tascabili Economici Newton Compton,
Roma maggio 2001, p. 1069 – insomma, come occhi di volador … Conan Doyle qui si riferisce all’agosto del 1914, e, di nuovo, si stabilisce un
parallelo, pur nella differenza, fra
quell’epoca e la “nostra” … E così continua il passo di qui sopra: “Tornando
verso la macchina, Holmes indicò il mare illuminato dalla luna e scosse il
capo, pensieroso. ‘Si sta avvicinando il vento da est, Watson’. ‘Non credo,
Holmes. Fa molto caldo’. ‘Certo vecchio Watson! Unico punto fisso in un’epoca
in mutamento. Si sta avvicinando il vento dell’est, un vento non mai soffiato
sull’Inghilterra [mai l’Inghilterra è stata invasa da est, infatti, dopo
l’invasione anglosassone guidata dai due gemelli Hengest e Horsa, due nomi puramente
di radice germanica, e ricordati da
Beda Il Venerabile nella sua Historia
ecclesastica gentis Anglorum; nota mia]. Sarà un vento freddo e pungente,
Watson, e molti di noi rabbrividiranno alle sue raffiche. Ma è sempre un vento
mandato da Dio e, passata la bufera, una terra migliore, più pulita e più forte
si riscalderà ai raggi del sole. Metta in moto, Watson, è tempo di andare. Ho
un assegno per cinquecento sterline che dev’essere incassato prima possibile;
il traente sarebbe capacissimo di bloccarlo, se potesse’”, ivi, p. 1080. Che differenza fra quest’Inghilterra dell’epoca
dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, così ricordata da Conan Doyle, e
quella di oggi! Anche l’Inghilterra, ricordata da Tolkien nella sua “Contea”,
che fu ispirata a qualche villaggio tradizionale inglese, rispetto a quella
odierna, fa l’effetto di un gigante:
l’Inghilterra ha quindi anch’essa definitivamente abdicato al suo ruolo di
“bilanciamento” rispetto alla Germania ed al Centro Europa, come ha fatto, già
da molto tempo, la Francia.
[6] Cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/07/la-spola-la-fine-della-democrazia-1994.html.
“‘Le democrazie si svuoteranno miseramente, come tante bolle di sapone. E quando l’Anticristo sarà sulla strada do Roma consegneranno il potere a uomini capaci’. Ma non saranno più dei ‘filosofi, ma dei matematici poiché il domani non starà nelle passioni ideologiche, ma nella razionalità matematica [noi diremmo oggi: nella tecnica; nota mia]’. Così troviamo scritto in un messaggio profetico francese, scritto presumibilmente alla fine del 1700. Lo stesso messaggio precisa ancora che: ‘… i tempi saranno maturi per accogliere l’Anticristo quando il padrone ridurrà il pane in briciole’. E qui per ‘pane’ vanno intese quelle democrazie sconfinati nelle demagogie che, per meglio ‘ingabbiare’ il popolo, frantumano il potere in pezzi sempre più piccoli, sino a vanificarlo. Le conseguenze sono note soprattutto in Italia, dove sono state create strutture capillari inutili, per coinvolgere legioni d’incapaci e di lestofanti, che finiranno per provocare veri e propri disastri [avvenuti!!]. Queste ‘tele di ragno truffaldine’ assorbiranno buona parte del reddito nazionale [avvenuto]. Ecco quindi la cornice del tempo dell’Anticristo: malumore e sfiducia diffusi, povertà di servizi sociali, che costeranno somme esorbitanti [incredibile = oggi, si veda però la data di pubblicazione di questo libro …; nota mia]. Al cittadino si toglierà la pelle con marchingegni fiscali sempre più sofisticati e in cambio si darà solamente l’illusione di servizi pubblici [oggi!!]. Sullo sfondo avremo poi le brume di un potere sempre più sbriciolato, che seguirà le lune di una marea di nuovi balivi [idem]. Su questa strada si arriverà all’ingovernabilità. […] Anche nelle lettere profetiche della monaca di Dresda si prevedere il crollo delle democrazie. E questo periodo viene fatto combaciare con l’evento dell’Anticristo. Ma non sarà un ‘crollo indolore’, in modo particolare per la l’Italia, la Francia e la Grecia. […] Il crollo delle democrazie non lascerà margine al trionfo della sinistra o della destra perché questo crollo travolgerà tutti ‘in quanto tutti sono profondamente marci, anche se dalle loro putride bocche escono parole di giustizia e di fede’”, R. Baschera, L’Anticristo e le profezie sugli anni 90, Armenia Editore, Milano 1985, pp. 85-86, corsivi miei. Segue un capitolo che parla della crisi delle materia prime, realizzatasi parzialmente, e della produzione del petrolio, quest’ultima essendo stata superata – ma non risolta – dalla tecnica del fracking, che però presenta elevati costi ecologici. Quel che conta sottolineare, si è che la “soluzione” la si cerchi sempre nell’ambito della logica dominante, cioè in ciò che ha portato al male: diventa, così, una dissoluzione …
“‘Le democrazie si svuoteranno miseramente, come tante bolle di sapone. E quando l’Anticristo sarà sulla strada do Roma consegneranno il potere a uomini capaci’. Ma non saranno più dei ‘filosofi, ma dei matematici poiché il domani non starà nelle passioni ideologiche, ma nella razionalità matematica [noi diremmo oggi: nella tecnica; nota mia]’. Così troviamo scritto in un messaggio profetico francese, scritto presumibilmente alla fine del 1700. Lo stesso messaggio precisa ancora che: ‘… i tempi saranno maturi per accogliere l’Anticristo quando il padrone ridurrà il pane in briciole’. E qui per ‘pane’ vanno intese quelle democrazie sconfinati nelle demagogie che, per meglio ‘ingabbiare’ il popolo, frantumano il potere in pezzi sempre più piccoli, sino a vanificarlo. Le conseguenze sono note soprattutto in Italia, dove sono state create strutture capillari inutili, per coinvolgere legioni d’incapaci e di lestofanti, che finiranno per provocare veri e propri disastri [avvenuti!!]. Queste ‘tele di ragno truffaldine’ assorbiranno buona parte del reddito nazionale [avvenuto]. Ecco quindi la cornice del tempo dell’Anticristo: malumore e sfiducia diffusi, povertà di servizi sociali, che costeranno somme esorbitanti [incredibile = oggi, si veda però la data di pubblicazione di questo libro …; nota mia]. Al cittadino si toglierà la pelle con marchingegni fiscali sempre più sofisticati e in cambio si darà solamente l’illusione di servizi pubblici [oggi!!]. Sullo sfondo avremo poi le brume di un potere sempre più sbriciolato, che seguirà le lune di una marea di nuovi balivi [idem]. Su questa strada si arriverà all’ingovernabilità. […] Anche nelle lettere profetiche della monaca di Dresda si prevedere il crollo delle democrazie. E questo periodo viene fatto combaciare con l’evento dell’Anticristo. Ma non sarà un ‘crollo indolore’, in modo particolare per la l’Italia, la Francia e la Grecia. […] Il crollo delle democrazie non lascerà margine al trionfo della sinistra o della destra perché questo crollo travolgerà tutti ‘in quanto tutti sono profondamente marci, anche se dalle loro putride bocche escono parole di giustizia e di fede’”, R. Baschera, L’Anticristo e le profezie sugli anni 90, Armenia Editore, Milano 1985, pp. 85-86, corsivi miei. Segue un capitolo che parla della crisi delle materia prime, realizzatasi parzialmente, e della produzione del petrolio, quest’ultima essendo stata superata – ma non risolta – dalla tecnica del fracking, che però presenta elevati costi ecologici. Quel che conta sottolineare, si è che la “soluzione” la si cerchi sempre nell’ambito della logica dominante, cioè in ciò che ha portato al male: diventa, così, una dissoluzione …
Il “pivotale” 1994 è anche l’ultimo anno, finale, con
il quale finisce l’ultimo libro mai pienamente completato di Canetti, dove, tra
l’altro, Canetti cita Dante, cf. E. Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi Edizioni, Milano 2017, p. 330. A
parte certi giudizi, come quello su
Eliot, troppo tranchant, faceva
comunque delle osservazioni, come gli era solito, piuttosto interessanti, pur nella sua relazione
conflittuale, ma di grande interesse, verso le religioni, e sempre con un occhio
attento alla morte come uccidere, alle relazioni fra massa e potere. Per
esempio, vide per tempo che l’Islamismo sarebbe stato il grande coagulato della
potenza della “massa”, ma Canetti, per sua stessa ammissione, odia, per
esempio: “Roma, città che in me ha sempre suscitato un odio profondo”, ivi, p. 327, quella Roma che ha
distrutto il Secondo Tempio, nemica dei Giudei, Roma, però, nei Maccabei considerata “buona”, per dire
della natura polimorfa e
conflittuale del mondo giudaico. Infatti, per dire, altrove scrive: “Sotto il
dominio dei Romani non sarei diventato cristiano, ma avrei adorato Iside. Non la
Iside che porta in grembo un figlio, bensì la Iside che cerca e ritrova le membra sparse di Osiride”, ivi, p. 289, corsivi miei: qui vi è sì riprovazione
per il Cristianesimo, in quanto legato indissolubilmente a Roma, e però anche l’
ammissione di poter adorare “altro”
rispetto al Dio d’ Israel, col quale la
sua relazione è molto conflittuale. Ora,
venendo alle considerazioni che in questo momento, in questo blog, preoccupano, a proposito della Prima guerra del Golfo, scriveva: “Non
è trascorsa neanche un’intera settimana da quando tutto ha avuto inizio. Non
riesco a pensare ad altro. Forse è stato l’ultimissimo istante in cui la Terra
l’ha scampata. Ma l’ha scampata davvero?”,
ivi, p. 299, corsivo in originale, l’anno
di riferimento è il 1991. In
relazione al fatto – Saddam Hussein -, la scampò, ma era solo l’inizio di altro,
non era Saddam che un epifenomeno: la minaccia cambiava forma.
Lo stesso Canetti, scomparso nel pivotale 1994, per esempio citava Enoch Powell che preconizzava “fiumi di
sangue” in relazione al pericolo dell’immigrazione “massiccia” (a sua volta,
Powell sarebbe scomparso nel 1998, cf.
ivi, pp. 328-329, considerazioni
dell’anno 1993, ben prima che le cose precipitassero).
Nelle Note finali aggiunte dai curatori, si legge: “Powell mise in guardia i
suoi connazionali dalle conseguenze di un’immigrazione di massa in Gran Bretagna
e, facendo uso dell’espressione di Virgilio (Eneide, VI, 86), preconizzò i ‘fiumi di sangue’ che ne sarebbero
stati la conseguenza”, ivi, p. 355,
corsivo in originale. Ma non è l’
“immigrazione” in sé il problema – ché non sono nemmeno tantissimi come numero
“assoluto” –, il problema è la debolezza strutturale delle democrazie e degli
stati europei, in dissolvimento. I castelli di carte si possono abbattere con
una pressione non troppo forte. Non era Saddam il problema quanto
l’epifenomeno, come non lo è chi si rifaccia esplicitamene a Hitler, che fu
solo una manifestazione di
“qualcos’altro”, si tratta di manifestazioni di questo proteiforme “qualcosa”, della quale, mi pare, “Incànus”
abbia dato qualche indicazione … Quindi,
la Terra non l’ha scampata davvero … La potenza delle “torri”,
comunque, oggi sembra in piena espressione …
[8] “Il nostro
destino è guidato da due mummie: quella di Lenin nel suo mausoleo e quella di Betham a Londra, University
College”, R. Calasso, La Rovina di Kasch, Adelphi Editori,
Milano 1983, p. 284, corsivi miei. Sebbene
Calasso, all’epoca, si riferisse alle “relazioni fra Urss e Usa”, tuttavia, paradossalmente,
pur essendo sparita l’Urss, né la mummia di Lenin, per le ragioni ne
nazionalistiche dette altrove, né la mummia di Bentham, teorico del capitalismo
“morale”, sono sparite. Dunque, in maniere che lo stesso Calasso non avrebbe probabilmente potuto
prevedere all’epoca, il nostro destino
continua ad esser dettato da due mummie: il che la dice lunga sulla “vitalità” della “nostra” epoca, guidati
da mummie … Interessante notare che Lenin era per un quarto calmucco, popolo
mongolo di religione lamaista, che sta nelle steppe della Russia europea
meridionale, però: il punto più a ovest
per un popolo mongolico professante il Buddhismo tibetano, seppur con delle
modalità spurie, mescolato con elementi dello Sciamanesimo residuale
caratteristico dei Mongoli e dell’Asia Centrale.
Interessante quest’edizione della
leggenda di Gessar Khan, eroe dei tibetani e dei mongoli, e non si sa bene se
l’origine della leggenda sia tibetana o mongola, cf. Gessar Khan, a cura
di I. Zeitlin, Plgrim Books, Delhi 1997,
pubblicato dunque vent’anni fa, ma
l’edizione originale è del 1927, dieci anni dopo la Rivoluzione d’ottobre. Ora però, nella
Prefazione, si dice che tale versione si basa sia sull’edizione tedesca pubblicata a San Pietroburgo
nel 1839, sia dalla versione calmucca della leggenda, il cosiddetto Piccolo Gesar, pubblicata a Riga (capitale
attuale della Lettonia, ma in realtà città della Lega Anseatica, fondata il 18 agosto
del 1201 dal vescovo tedesco Alberto di Riga, uno dei tedeschi del Baltico che
avranno un ruolo molto importante nella storia), nel 1809. Sia detto en passant.
Tra l’altro, il lato “occulto” –
che non significa “satanista” nel senso comune del termine – di Hitler è certo (fra gli altri, cf. G. Galli,
Hitler e il nazismo magico, RCS Libri
& Grandi Opere, Milano 1994); ma
pure Lenin l’ha avuto, sebbene in forme e con delle modalità certamente
diverse, a tal proposito, cf. G. Vatinno, “Il comunismo ‘magico’ e i
‘cosmisti’ russi”, Il Giornale dei
misteri, n. 392 giugno 2004, pp. 40-42. Su Galli, cf.
[9] Introduzione di
P. Broccoli in T. Zarrillo, La lavorazione della canapa, l’uccisione del
maiale e il teatro contadino, Edizioni Melagrana, San Felice a Cancello
(Ce) 2017, p. 11, corsivi in originale.
[10] Negli ultimi dì
d’asfissiante caldo sahariano, sono stato nel centro commerciale “integrato”,
che conta circa venti milioni di consumatori e visitatori l’anno: che da un
lato si abbia una tale mostruosità e dell’altro la “terra dei fuchi” non è
casuale, ma sono due facce della stessa medaglia. Ecco visitato un non luogo,
all’interno di un non luogo. La febbre dello shopping prende i consumatori nei
giorni dei “Saldi”, assaltati. Il frastuono nelle orecchie ha quasi un effetto
ipnotico: spegne gli ultimi sprazzi di lucidità. Sono l’unico, fra migliaia e
migliaia di gente che si agita, seduto su di una panchina, che dentro sta
prendendo appunti: mi ricorda L’uomo
della folla, un vecchio racconto di E. A. Poe. “‘Questo vecchio’ dissi dopo
una lunga riflessione, ‘è il tipo e il genio del delitto profondo. Egli non
vuole essere solo. E’ l’uomo della folla.
Seguirlo è inutile, perché no saprò mai niente di lui e della sue azioni. Il
peggior cuore del mondo è un libro ancor più ermetico dell’ Hortulus animae e forse è una grande
misericordia di Dio che es lässt sich
nicht lesen”, E. A. Poe,
“L’uomo della folla” in Le belle bandiere,
maggio 1981, p. 6, corsivi in originale.
L’unico che riflette fra milioni
che son guidati da comandi e suggestioni esterni:
questa è la dimostrazione pratica della totale
sconfitta, della vera e propria
totale débacle (che parolona) della
modernità. Che significa oggi votare in un tale mondo? Che significato ha, ma
davvero e concretamente, la “libertà” di voto in una tale atmosfera? Lascio il
sabba dello shopping. Fuori, alla luce del crepuscolo “frattura fra i mondi”,
nell’aria dal colore rosso violaceo, livida e tumefatta senza un alito di
vento, il Lupo dei Nodi addenta il suo spicchio di luna.
[11] Apollo è
ricordato come colui che “dà la morte a distanza” da G. Colli. Ed ecco quel che
Colli scriveva, sempre al riguardo del “sorriso”: “Questi e altri discorsi sono
pure suggestioni prive di vigore originario, si avvalgono di rappresentazioni
fittizie, interpolate, ricostruite; quando si scoprano […] espressioni preservate
senza mediazioni astratte – come avviene per alcune figure e testimonianze
sorte in quel tempo ma resistenti al tempo nella loro natura espressiva – la
possibilità di recuperare quella vita si approfondisce in modo subitaneo. In
questi testimoni si focalizzano e si rappresentano tutti i faticosi sussidi
indiretti; essi sono uno scorcio illuminante, una gravida abbreviazione di
quanto il discorso storico va intessendo fiaccamente, poiché forniscono ‘la
piccola indicazione’, direbbe Platone, l’aiuto a chi possiede l’attitudine per
compiere il gran salto all’indietro. Tal è il caso per le figure della scultura
in un breve periodo, pochi decenni tra il sesto e il quinto secolo:non ci si
muove qui tuttavia su un terreno dimostrativo, piuttosto su un piano evocativo.
Questi kùroi sono raffigurazioni di
coloro cui si rivolgevano le parole dei sapienti. Qui soltanto è in nostro
possesso una vibrazione primitiva. Il senso di quelle parole doveva esser tale
da risultare comprensibile agli uomini così raffigurati […]. Certo, non era
destinato a noi! E se commentare queste figure significa stemperarle, sarà
lecito tuttavia accennare alla risonanza fisiologia che la loro vista opera su
di noi anzitutto un brivido di meraviglia […]. I grandi occhi dorici aperti –
vuoti per noi, quasi una Medusa che impietrisca – son aspri ance nei volti
delle kòrai; i disegno delle orbite è
elaborato e scarno a un tempo […]. Qualcosa ci manca negli occhi, ma la bocca è
preservata, e dallo sguardo che atterrisca salva il sorriso,dove si manifesta
una philanthropia ingannevole, poiché
il sorriso è il promo segno fisico della ragione simulatrice, della sua malizia
e ironia. Appena percettibile è la contrazione della bocca, piegata in alto
agli angoli, così che le labbra lievemente si schiudono. E’ questo l’elemento
dolce della simmetria, ma ambiguo ancora nella serenità, nel dominio giocondo
sull’apparenza, nel fiore della bellezza, che dissimula una minaccia”, G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi Editore, Milano 1968, ivi, pp. 175-176, corsivi in originale.
Ecco, quello dell’Apollo di Veio è questo
sorriso ricordato da Colli, sorriso che “dissimula una minaccia”, in quanto è
il segno espressivo esteriore della “ragione simulatrice”.
Quanto ad Apollo (e Dioniso): “Oggi è possibile ascoltare le parole di
Nietzsche sui Greci con un sentimento analogo – sia pure più tenue e sfumato –
a quello con cui egli ascoltava sullo stesso tema Winckelmann e Goethe, ossia
con un assenso ce approfondito conduce a un dissenso. Dalla ‘serenità greca’
Nietzsche risalì indietro a Dioniso e alla tragedia, dove ritrovò la sua costellazione culminante [quel che
dicesi Medium Coeli]: ora ci si può
avventurare più indietro ancora – e le scoperte archeologiche hanno arricchito
lo sguardo – alla ricerca di un’altra ‘serenità greca’. L’abisso dionisiaco,
quel sommovimento e turbamento supremo, fu padroneggiato da Apollo prima e meglio che nella tragedia. Senza
contare che talora Dioniso indica il
pullulare interiore e l’effusione democratica sorti dalla rottura di un precedente equilibrio
apollineo. Nietzsche è penetrato nelle anime di quegli uomini, ma non ne ha visto i corpi […]. Che il
sorriso degli Egineti si stato da lui interpretato come un artificio di
scultori primitivi dimostra che gli mancarono gli occhi per la natura saettatrice di Apollo – per il logos
[corsivo in originale]”, ivi, pp.
189-190, corsivi miei. Ma quando Apollo sia divenuto solo quel “dio del sogno”
e della “rappresentazione” che è, secondo il Nietzsche de La nascita della tragedia, e tuttavia mantiene – e diffonde – il
suo strumento di distruzione indiretta – la sua “ragione simulatrice”? Che cosa
succede, allora? Più o meno il mondo che abbiamo sotto gli occhi …
La “Grande Menzogna”, per Colli,
è la scrittura, che occulta il lato “vivente” dell’espressione del logos, ma
non è così, qui si è sbagliato, ha preso un mero effetto per la causa; invece, che la “Grande Menzogna” sia il sostenere che il logos è costruttivo, quando invece, come
l’arco d’Apollo, è distruttivo, però a
distanza, questo è verissimo,
su questo ha senz’altro avuto ragione.
E, dopo questa prima, grande menzogna, eccone sorgere un’altra, la “Seconda
Menzogna”, ovvero la scienza, che piega il logos
all’ “utile”, “Contemporaneo a Descartes è il deciso sopravvento della scienza
sulla filosofia, nel senso che la prima non è più covata e allevata dalla
seconda come una creatura prediletta, […] e bruscamente, con maniere volgari,
congeda la nutrice. A quest’emancipazione si accompagna la seconda menzogna,
dopo quella platonica: la ragione non si accontenta di essere ‘costruttiva’, ma
vuol diventare anche ‘utile’. Ma utile è ciò che favorisce il principium individuationis e i suoi fini
[…]. Nella struttura dell’apparenza […] i fini degli individui sono i risultati
più illusori, più aberranti dell’immediatezza; soccorre qui l’oracolo
eracliteo: ‘sebbene il logos sia
comune e concatenato, i più vivono come se ciascuno avesse un proprio mondo di
pensiero’. Subordinata al punto di vista dell’individuo, la conoscenza diventa
così uno strumento dell’azione
[momento e cambiamento decisivi,
nota mia; corsivi miei]: in questa crisi, tragica e decisiva, per i secoli
seguenti, il filosofo Descartes impallidisce, trascolora sino ad annullarsi
nello scienziato, e in generale la filosofia si ritira ufficialmente dal
giuoco, cedendo il banco [corsivi
miei]. Il vincitore è privo di venerazione [come tutti i parvenu sempre sono; nota mia], e da allora il
titolo di filosofo designa qualcuno che sta tra l’acchiappanuvole e il
giullare”, ivi, pp. 222-223, corsivi
in originale, salvo diversamente indicato fra parentesi quadre. E, d’altro
canto, non fece Nietzsche di Apollo il dio del principium individuationis? E cos’accade quando lo strumento di
distruzione indiretta di Apollo,
l’arco, divenuto – non a caso –
cosiddetta “arma da ‘fuoco’” (ovvero che spara a distanza) venga sottoposta all’ “utile” e si sparga per tutto il
globo, partendo senz’altro dall’Occidente, ma toccando pure l’Oriente (“Per
secoli questa [la ragione] rimase sul trono, poi passò lo scettro alla scienza,
che rivelò i poteri della ragione nella sfera dell’utile, dove il logos diventa spurio, e sotto questo
segno riuscirono le più difficili conquiste, caddero persino, in direzione del
sole nascente, le roccaforti di ciò che è interiore”, ivi, p. 173, corsivo in originale)? Accade quel che abbiamo sotto gli occhi! L’uomo – gli uomini, la civiltà umana – non signoreggiano più lo scatenamento della
potenza dell’ “utile” divenuta sistema tecnico-economico, e auto-sostenente, di
fatto, incontrollabile, ma per mezzo del
consensus: per quest’ultimo ecco il
ruolo – del tutto residuale –
della “politica moderna”. Ora,
chiedere a quest’ultima un progetto,
è futile, soprattutto molto ingenuo: dovrebbe porre in
questione il suo ruolo di “agente consensuale”, ma, se lo facesse, non avrebbe
più nulla in mano, infatti solo questo ruolo le è rimasto. In ogni caso, però
non lamentiamoci, serve a poco; l’insistente lamentio dà l’impressione
dell’impotenza, e, comunque, ricorda quel che disse la volpe alla gallina: “‘Oh come odio dover fare un uovo tutte le
mattine’, si lamentò la gallina.
‘Adesso non ne hai più bisogno’, disse la volpe. Hawky, Fiaba a colazione” in N. Classen, Carlos Castaneda e i guerrieri di Don Juan, Edizioni Il Punto
d’Incontro, Vicenza 1998, p. 127, corsivi in originale.
Tra l’altro, ricordiamoci i due volti di Apollo: l’Apollo “Licio”
(del “lupo”, lykos, e “luce”, lyké) e, tuttavia, per l’ ambivalenza dei simboli sottolineate da Guénon più volte, è anche l’ Apollyon, Apocalisse di Giovanni (9, 11), tra l’altro, Apollyon, che
significativamente significa, in greco, “Distruttore” (= Apollo …), a sua volta, è la forma greca dell’ebraico Abaddon; a tal proposito, della relazione fra lupo e Apollo – e Seth –, cf. J. Robin, René Guénon. Testimone della Tradizione,
Edizioni “Il Cinabro”, Catania 1993, pp. 42-43. A sua volta, guarda caso, Abaddon significa, in ebraico, esattamente “Distruttore” (= Apollo,
di nuovo) … “Non ci sarebbe dunque nulla d’inverosimile nel fatto che, in terra
celtica, il dio dalla testa di lupo [Beleiz
= Apollo “Lycio”], dopo l’ occultamento del suo aspetto solare e propriamente apollineo, abbia ceduto il posto a questo dio dalla testa d’asino, di origine egiziana, ma destinato ad
un ‘impero’ universale, e ‘che altri non è se non Set o Tifone [il suo nome
greco]’, il cui culto, secondo Guénon, ‘permane ancora ai nostri giorni, e alcuni
affermano pure che esso dovrà continuare sino alla fine del ciclo attuale’”, ivi, p. 43, corsivi miei. Set è il
“patrono” della terra rossa, del deserto del Sahara insomma.
Sia detto solo en passant, ma la
“reincarnazione” cosiddetta “non superò mai, in Oriente, lo stadio della
superstizione popolare – come, del resto, in Occidente molti fedeli non vanno
al di là dello stretto significato letterale e adorano immagini dipinte o
rappresentazioni mentali – conviene riconoscere che certe formulazioni, da
parte di Orientali qualificati, potrebbero suggerire che essi adottino questa
ipotesi [cf. Le Vite passate del Buddha
(Jâtaka), UTET, Torino 1992]. Si
tratta, in effetti, o di espressioni puramente simboliche evocanti la
trasmigrazione dell’essere attraverso stadi di esistenza sovrumana, o piuttosto
di allusioni a ciò che i Pitagorici designavano col nome di metempsicosi, e che
non ha nulla in comune con la reincarnazione. In verità, quest’ultima è propria
dell’Occidente moderno, tanto che lo spiritismo, a cui comunemente la si
associa, agli inizi non l’aveva ancora adottata […]. Si può, tuttavia, datare
la prima manifestazione della teoria reincarnazionista alla fine del XVIII
secolo, col principe Carlo di Hesse”, ivi,
p. 50. Questo libro di Robin, in particolare il cap. 11 (ivi, pp. 319-355), lo consiglierei a chi ama tanto di parlare di
“metafisica” e sottovaluta quanto Guénon sapesse, e capisse, di cose
“psichiche”.
La metafisica, insegnava Sri Ramana
Maharishi, è la comprensione delle essenze: questa non è una cosa mentale né quindi è una cosa di parole. Vero che ci
sono le dottrine metafisiche, ma
queste sono delle espressioni di
qualcosa che va oltre il mentale. Troppe
volte rimangono legati all’espressione, senza ricordarsi che, appunta, trattasi
d’espressione, che, per definizione, non
è la cosa cui essa (espressione) si riferisce. Spesso, poi, chi
s’interessa di tali temi sottovaluta non poco la parte del mondo “sottile”
riveste, mondo “sottile” che Guénon ben conosceva, più di quanto molti pretesi o reali seguaci crederebbero. Pertanto,
la presenza “sottile” di una personalità può perdurare ben oltre la fine del suo corpo.
A seconda che tale presenza
“sottile sia, a sua volta, “abitata” da un’ “influenza spirituale”, si ha un perdurare positivo; negativo in caso
contrario.
Tal caso (il perdurare di una
“presenza” legata ad un luogo, oppure ad un oggetto … “l’Anello”, per fare un
esempio famoso …) è simile – ma non
identico – alla metempsicosi, perché, in tal caso, questa “presenza” può
“trasferirsi” in un’altra “individualità”; va precisato che non si tratta dell’
“essere tutto intero” (di cui parlava Guénon, o “essere intero”, tutte frasi “a
chiave”).
Tra l’altro, “la metempsicosi, [si ha] dove elementi psichici in teoria perituri di un morto s’inseriscono
nell’ anima di un vivo, cosa che dà
l’illusione di una ‘rincarnazione’. Il fenomeno è benefico o malefico a
seconda che si tratti di uno psichismo
buono o cattivo; d’un santo o d’un peccatore”, F. Schuon, Sulle tracce
della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988, p. 96, corsivi miei.
[12] Introduzione di
P. Broccoli in T. Zarrillo, La lavorazione della canapa, l’uccisione del
maiale e il teatro contadino, cit., p. 9, corsivi miei.
[13] Ibid., corsivi
miei. Anzi, come ho detto altrove (nel post precedente), solo proiettandoti nel
passato tu puoi capire il futuro: infatti solo se conosci realmente una possibilità diversa da quella che ti ha portato là dove
stai puoi almeno concepire che ci sia un futuro differente
dal tuo presente.
Il resto sono mere chiacchiere. Si
parla, per esempio, del giorno in cui sono state consumate tutte le risorse “rinnovabili”
della Terra e, da quel giorno in poi, si va “in debito”, vale a dire che si consumano risorse che non possono esser più rinnovate, si
agisce, cioè, in mero debito. Si è
convenuto chiamare tal giorno “Earth Overshoot Day”, cf.
http://www.lettera43.it/it/articoli/scienza-e-tech/2017/07/31/earth-overshoot-day-risorse-naturali-esaurite-il-2-agosto/212650/.
Basti pensare, per rendersi conto
di cosa sia realmente successo in
questi osceni due decenni storici, che nel 1997,
solo vent’anni fa eh, l’ “Earth
Overshoot Day” si trovata all’inizio di ottobre. In solo vent’anni indietro di ben due mesi!!
Ma lor signori si rendono – e per
davvero – di cosa sta succedendo? Anzi: è già
successo. Ed hanno un minimo di consapevolezza del ridicolo di cui si coprono quando
sostengono che “siamo ancora in tempo”?, per
cosa, si vorrebbe sapere? Per tante chiacchiere? La totale sproporzione fra la diagnosi e la cura
proposta fa ridere, o piangere. E ci spiega perfettamente
perché, in questi lunghi vent’anni di follia collettiva, nulla sia stato fatto:
perché un qualcosa la cui diagnosi sia così grave non può essere curata da
simili sciocchezze. Vi è una frattura interna che si chiama “schizofrenia” collettiva, e schizofrenia
significa, precisamente, taglio del diaframma, della membrana che unisce,
distinguendole, le due parti del corpo, quella superiore e quella inferiore.
[14] Qui occorrerebbe
fare delle osservazioni più generali sul Sud, che, però, si possono solo
accennare en passant, in relazione ad
un recente interessante libro. Parlando
degli eventi irreversibili che costellano la storia, una recente pubblicazione
vi cita pure Federico II e la sua scomparsa, cf. G. M. Cantarella, Imprevisti e altre catastrofi. Perché la
storia è andata come è andata, Einaudi editore, Torino 2017, pp. 59-67. Tra
l’altro, all’inizio cita la famosa biografia di Kantorowicz, “che ‘raccolse le
lodi entusiastiche di Hitler, Göring e Mussolini […] le numerose riedizioni,
fino al 1936, recavano in copertina ’”, ivi,
p. 59: si tratta, evidentemente, di una colpa inespiabile … Si dice, poi, dell’ “aura” che ha circondato Federico
II, “ed è stata recuperata nell’età tragica dei nazionalismi (non solo quello
tedesco, sia chiaro!)”, ibid. Considerare Federico II nell’ambito dei
“nazionalismi” è una errore gravissimo, quando, al contrario, non solo egli s’inscrive pienamente dentro la forma di sovranità
occidentale, risalente all’Impero romano, con varie modifiche nel Medioevo, ma
si oppose, non sappiamo quanto consapevolmente (probabilmente poco), ad una
deriva i cui esiti sarebbero stati ben diversi da quelli che una parte della
Chiesa avrebbe desiderato, errore che la Chiesa cattolica sempre ha computo
nella storia. In una parola: non capisco il rimprovero: i vari nazionalismi
novecenteschi recuperarono Federico II , è vero, ma questo avvenne per mezzo di
una forzatura, in quanto Federico II
è l’ultimo rappresentante dell’ universalismo dell’Impero, l’esatto contrario dei nazionalismi. La sua
lotta contro una parte della Chiesa, non
tutti i pontefici romani gli furono avversi, va precisato, non avveniva in nome
della “nazione” o di una corona territoriale, bensì in nome dell’idea sovranazionale dell’Impero, idea che la
storia avrebbe, di seguito, sconfitto. E questo ci porta alla storia del Sud:
giustamente si dice che l’improvvisa scomparsa dell’Imperatore svevo “aprì una
prospettiva semplicemente impensabile fino ad allora: quella dell’Italia
angioina”, ivi, p. 66. Ora, di nuovo,
senza “criminalizzare” proprio un bel niente, prendendo le cose come sono successe (e lo suggerisce
l’autore appena citato), senza cercare la “storia contro fattuale” o il what if, che troppo spesso si riduce ad
un semplice “gioco colto” senza valore – ed è verissimo -, proprio quest’evento segnò la storia del Sud. E non perché gli Angioini fossero
“cattivi”, ripeto: non iniziamo un
altro gioco, stucchevole quanto il what
if, quello delle “criminalizzazioni” (i criminali ci sono nella storia, la
criminalizzazione d’interi periodi, però, è altro discorso), ma perché quello
angioino è stato un periodo che, pur essendo floridissimo dal punto di vista artistico, si è inserito in una
fase storica di sviluppo “prenazionale”. Il Sud, insomma, il Mezzogiorno
d’Italia si stacca dal resto d’Italia, mentre, con Federico II di Svevia, pur
avendo già una sua netta fisionomia, il Sud è ancora parte di un organismo più
grande: l’Impero. Significava entrare in una competizione con una forte debolezza
sin dall’inizio.
Tale debolezza non è che si
manifestasse immediatamente, al contrario, solo con la nascita della modernità
si sarebbe pienamente sviluppata, portando, di seguito, alla
“rifeudalizzazione”, parola forse sbagliata ma che denota un fatto vero: la
marginalizzazione del Meridione d’Italia nell’evo moderno, che è un fatto.
Di tutto ciò, gli Angioini non ne sono i responsabili: niente criminalizzazioni. E tuttavia,
con essi si entra in un ambito “prenazionale”, che avrebbe penalizzato il Sud,
a patto che altri eventi fossero successi, ed ovviamente gli Angioini non potevano saperlo. Il Sud,
abbandonato a se stesso, “gode” – si fa per dire … - di una situazione
geografica e climatica che lo penalizza per principio: solo se il Mediterraneo fosse libero e unito, trovandosene al centro, potrebbe far valere il suo vantaggio
posizionale. In ogni altro caso,
lasciato a se stesso, ha un andamento “cancerizzante”, come il gambero cammina
all’indietro. L’altra possibilità, è il far parte di un organismo più vasto,
come l’Impero, ma non come l’UE, in
quanto quest’ultima è il campo d’espressione di nazionalismi, dove quello
tedesco è il più forte, ma quello francese non scherza, e i paesi dell’est
Europa pure non scherzano: più sei chiuso nei tuoi interessi, più vali. In tal
caso, in primis l’Italia è il
classico vaso di coccio fra vasi di ferro,
e, in secundis, il Sud vale zero (come la Grecia, tra l’altro, con
la quale condivida in parte il
problema della posizione geopolitica). Dunque la sconfitta di Federico II ha
segnato, per il Sud, un momento tragico, malgré
il même. Piaccia o non piaccia.
Ed è stato il germe lontano della futura
“catastrofica” situazione. Come tutti i germi, se non l’innaffi e non lo nutri,
non cresce. Ha invece trovato tanto nutrimento ed acqua per crescere …
Su Federico II, vi è
quest’interessante parre: “Gli eventi storici d’Italia e d’Europa, durante la
prima metà del sec. XIII, son dominati dalla gigantesca figura dell’imperatore
Federico II di Svevia: un sovrano proteiforme, sulla cui azione e sul cui
pensiero gli torici posteriori non hanno ancora trovato una concordanza di
giudizio. Alcuni lo considerano come il distruttore del cattolicesimo e come la
personificazione dell’idea imperiale germanica, altri invece come un cattolico
fervente, semplicemente in urto personale e non ideologico con i papi. I
teoretici potranno illudersi di costruire norme per la coesistenza pacifica di due poteri universali: quello della chiesa […] e quello dell’impero […]; ma nella realtà non vi è posto per due poteri che vogliono esser universali. Fatalmente entrano in contrasto e uno deve cedere all’altro [come
l’Impero cedette alla Chiesa, quest’ultima, però, a sua volta fu scalzata dagli
stati “nazionali” e della borghesie che
questi portavano su; nota mia]. L’impero universale, così com’era stato
concepito dal papa Innocenzo III, comprendeva troppe cose materiali e terrene, per non interferire nel disegno
imperiale di Federico II. D’altra parte questi, nella maturità del suo ingegno
[…], non riconosceva più alcuna autorità sopra di lui, perché era convinto che
anche la sua missione era divina, […]
che lo stesso suo impero era divino
ed universale […]. A noi sembra che,
nonostante il contrasto di queste idee e nonostante i fulmini della Chiesa, le
scomuniche e le lotte, Federico II abbia sempre agito ed operato da cristiano e
da cattolico, così come del resto volle morire. Egli, dopo una breve malattia,
morì […] assistito ed assolto da Berardo, arcivescovo di Palermo. Un simile
giudizio ci viene confermato dai molteplici rapporti che egli ebbe con
l’abbazia di Montevergine. Dallo studio dei documenti in nostro possesso,
l’imperatore Federico II, se non un benefattore della congregazione virginiana,
deve certamente considerarsi un protettore
tollerante e benevolo, da cui i monaci ottennero giustizia anche quando più feroce divampava la lotta tra papato ed impero, anche quando era già stato scomunicato dal papa Gregorio IX e dal papa Innocenzo IV”,
P. M. Tropeano, Montevergine nella storia e nell’arte.
Periodo normanno svevo, Arturo Berisio editore, Napoli MCMLXXIII, pp. 157-158,
corsivi miei. Tra l’altro, “la sua devozione
alla Madonna di Montevergine è largamente documentata”, ivi, p. 158,
corsivi miei.
Dal 1973 ad oggi, tuttavia, sostanzialmente questa “concordanza di
giudizio” non si è ancora trovata, probabilmente, come tutte le personalità
storiche che vivono nelle epoche “di passaggio” e di “cesura”, la duplicità fa
parte consustanzialmente della figura
di Federico II di Svevia. Non la puoi togliere dalla sua figura, detto in altre
parole. Nessun dubbio fosse cattolico, il contrasto era ideale, non riguardava
la legittimità della Chiesa ma l’estensione del suo potere. Fu dunque un
contrasto fra universalismi, però, e non certo l’affermazione del
particolarismo nazionalista tedesco, su questo si deve esser chiarissimi.
[15] Cf. T.
Zarrillo, La lavorazione della
canapa, l’uccisione del maiale e il teatro contadino, cit., pp. 60-61. Su
Pasolini, cf. Introduzione di Andrea
A. Ianniello in L. Sangalli, Pasolini e lo sguardo del poeta. Uno studio
su “Che cosa sono le nuvole?” di Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Vozza
editore, Caserta-Casolla 2017.
Lo stesso Pasolini parlava di sé
come di un “borghese settentrionale”, cf.
ivi, p. 17, a fronte del “popolano
del sud”, che lui ricercava, ed infatti i suoi film sono stati fra gli ultimi a
documentare quel mondo al suo termine, in tal senso interessanti documenti
antropologici di un mondo non passato, trapassato proprio. Ma sottovalutò
gravemente la natura della borghesia meridionale, che non apprezzava: lui
ricercava il “popolo”, contadino appunto, nei suoi ultimi riflessi vitali.
Rimase un borghese del nord, e l’ammetteva senza problemi, il suo non era
proprio per nulla “nostalgismo”, come fu all’epoca, purtroppo, mal inteso.
Era la lucida visione di una fine
e del mondo che sarebbe venuto, il nostro, il “mondo senza qualità” popolato di
“uomini senza qualità”, e sapeva bene che non avrebbe potuto aver alcun posto
in questo “nuovo” mondo che allora si stava espandendo e che oggi si sta
contraendo.
Non scherzino lor signori, gli “illustri
strologatori”: ogni espansione oggi la puoi ottenere soltanto contraendo,
schiacciando le società nei residuali legami sociali “qualitativo” che vi
permangono.
[16] T. Zarrillo, La lavorazione della canapa, l’uccisione del maiale e il teatro
contadino, cit., pp. 61-62, corsivi miei.
[17] Cf. ivi,
p. 83 e sgg.
[18] Ivi, pp. 99-100, corsivi in originale.
[19] Z. Zorich, “I Vichinghi scomparsi della
Groenlandia”, Le Scienze, agosto
2017, p. 87, corsivi miei. Non riuscivano a capire che la causa del successo è
la stessa causa dell’insuccesso come oggi non riescono proprio a capire che il
continuo sviluppo tecnologico dissolve le società e cioè quel qualcosa che
vorrebbero rafforzare. Solo l’Impero romano si rese conto che la continua
espansione l’avrebbe portato al disastro, e la frenò, il che – di nuovo, giusto
per capir bene come funzionano le cose e che nulla è “a costo zero” – lo precipita nella famosa
“crisi del III secolo, dalla quale però uscì fuori, in parte anche per mezzo
del Cristianesimo, con un assetto che in Occidente durò un altro secolo e in
Oriente altri tre secoli fino a Giustiniano, compreso: non è poco in nessuno
dei due casi, se si pone mente ai problemi enormi
che aveva quell’Impero. Se oggi volessero durare, dovrebbero calmierare
l’avanzamento tecnologico e passare alla redistribuzione
almeno parziale delle ricchezze, allo scopo di stabilizzare
il sistema, non di spingerlo sempre di più verso il punto d’ebollizione. Ma ciò
impossibile per una causa precisa: in ambedue i casi, si deve rinunciare
ad accrescere il tasso di profitto. L’avanzamento tecnologico serve ad
accrescere il tasso di profitto una volta che su determinati prodotti il
profitto non possa che scendere e, mutatis
mutandis, lo stesso può dirsi della redistribuzione, dove, in tal caso, il
profitto è soprattutto finanziario, nell’altro caso è anche produttivo invece.
[20] Ibid., corsivi
miei.
[22] “L’ideale
supremo della civiltà etrusca si espresse […] nell’insistente visione delle
vittorie di Ercole, di Perseo, di Teseo […]. Davanti a quest’ideali l’etrusco
che ignorò peccato e pentimento, restò
in piedi memore della sua augusta origine divina. Fu serio perché consapevole e non, come si vuol far credere, […] crepuscolare spirito perduto in
un labirinto di stravaganze. In piedi e senza timore fissò negli occhi il suo rosso Apollo impetuoso e gagliardo che
nella sala cristallina del museo
scintillante, misterioso e impenetrabile
seguita tuttora a sorridere”, G. Lensi Orlandi, Il segreto degli Etruschi, Gruppo Editoriale Brancato, Catania 2012,
pp. 188-189, corsivi miei.
I link portano direttamente alle pagg. segnalate poiché siamo in agosto e in estate, dunque per dynamizzare un po’ le cose.
RispondiEliminahttp://www.viveremeglio.org/0_luce_soglia/libri/idee_popolari_sulla_reincarnazione.pdf/
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RispondiEliminaIl 19 ottobre, nell’Aula consiliare di Marcianise, si è svolta la presentazione del libro di Zarrillo recensito, assieme ad altro, qui sopra. Si è trattato molto di temi locali, cosa più che legittima, che però ha dato meno importanza a quelli antropologici, che, invece, son centrali. Certo, si è piuttosto **enumerato** i temi antropologici del libro, senza però quell’approfondimento che avrebbero meritato, inoltre qualche problema tecnico di troppo ha reso la serata molto, troppo lunga. Insomma, quella della canapa era una civiltà, si può senza dubbio tentare di ripristinare questa coltura, e, in piccola parte, lo si sta già facendo, ma non è il punto vero. La questione dell’industrializzazione, dei suoi problemi e guasti è stata trattato solo “en passant” da P. Broccoli, ma si ricollega direttamente ai destini di certe località delle Provincia di Caserta, e non solo, si è visto – altrove – come il tessile abbia interessato altre zone del Regno delle Due Sicilie e del Mezzogiorno. Detto tutto ciò, rimane che Marcianise è, in pratica, l’unico posto “vivo” rimasto nella **cosiddetta** “Terra di Lavoro”, nome che parte dalla Liburia – l’agro aversano in gran parte, con un po’ di nolano, oggi Provincia di Napoli divenuta “Area metropolitana” del capoluogo di regione ed ex capitale, ex per natura (Napoli è sempre “ex”) – e poi s’estende a zone più vaste. Liburia e Liguria hanno la stessa radice, “di Lavoro” fa riferimento ai Leborini, popolo il cui “totem” era la lepre, “lepus” o “lebus” (gen., lèporis). Infatti, la serata è stata gremita (**non** “grèmita”, come diceva per “i” scherzo Proietti nel recitare la poesia “Il lonfo”, di F. Maraini, padre di Dacia Maraini), con gran parte delle autorità locali, ma pure presidi e professori di vari istituti locali, insomma con un’attenzione che ha reso la serata, in ogni caso, un **successo**, nonostante le sue “défaillance” varie. Si veda la “città morta” di Caserta: Marcianise discute di se stesso, Caserta non lo fa.
Il limite, giriamo sempre intorno alle stesse cose, si è visto in quel che s’è detto, e ripetuto, altrove: la “marginalità”, ma non solo della Provincia di Caserta, direi dell’intero Meridione d’Italia: si ha difficoltà grosse ad addivenire ai “nodi” sostanziali, si rimane “marginali” mentalmente, non si giunge mai “in medias res”, come fosse scritto che il Sud debba sempre rimanere subalterno, come se non si possa far altro se non rimaner chiusi in tematiche locali. Ma questo è **un male antico**, nel Sud.
Purtroppo tendiamo sempre a rimanere marginali, subalterni ad altri, rinchiusi in logiche locali. I temi non “prendono aria”, non levitano in un’ottica, per lo meno, “nazionale”, il che spiega molte cose. Vi sarebbe molto da dire, ma rimandiamo ad altre occasioni. Comunque, una serata interessante, che però non è arrivata ai “nodi” di fondo. Chissà se mai vi sarà l’occasione di farlo.
Caserta la città morta, ricorda il film “La zona morta” di D. Cronenberg, del 1983, anno d’uscita anche de “La Rovina di Kasch”, tra l’altro, ai cui temi, dopo tanti anni, R. Calasso è tornato con “L’innominabile attuale” (2017), “innominabile attuale” che è un’espressione presa precisamente da “La Rovina di Kasch”.
EliminaNe “La zona morta”, un professore, dopo un lungo periodo di coma, ritorna con la possibilità di precisar esattamente gli eventi futuri, tipo stringendo la mano di qualcuno; e una volta gli capita di stringere la mano a Greg Stillson, nuovo candidato al Senato Usa, che presto sarebbe divenuto Presidente, **facendo la politica che avrebbe fatto Trump molti anni dopo**, quella che – oggi – si dice “populista”. Dopo avergli stretto la mano, però, il protagonista si rende conto che Stillson avrebbe usato la bomba atomica …
Come suol dirsi, ogni problema è, almeno, se non certo “spiegato”, “preconizzato” in un qualche film, **intravisto** in un film … Siamo nel lontano **1983**, va ribadito.
Una frase del film è interessante: “Cosa farebbe, se avesse l’opportunità di tornare indietro nel tempo e uccidere Hitler?”. Alla fine, il professore decide di sacrificarsi, diversamente invece le cose sono andate per R. Bianchi Bandinelli, protagonista del film “L’uomo che no cambiò la storia”, del 2016, l’anno scorso. Nel 1938 Hitler fece l’unico vero viaggio fuori dalla Germania, in Italia, per altri motivi, ma voleva vedere i famosi resti classici, e il regime fascista scelse Bianchi Bandinelli come guida. Bianchi Bandinelli – per quanto ben visto dal regime –, quanto a lui, era un fervente antifascista. Ci si può, dunque, facilmente immaginare come la “golosa” occasione per far fuori sia Hitler sia Mussolini e in un sol colpo. Ma Bianchi Bandinelli non fece nulla, non s’immolò, diversamente dal protagonista de “La zona morta”; in queste cose, infatti, vi è un “quid” individuale praticamente irriducibile.