“Nessun giocatore deve esser più grande del gioco stesso.
“[…] un’umanità dagli occhi quasi spenti non regge a luci
troppo gagliarde: non tollera l’idea che esistano santi, carismatici che
perseguano il bene (il divino, non le buone azioni) fine a se stesso, perciò nemmeno può ammettere l’esistenza
d’un satanico, consapevole esecutore di un male senza secondi fini. Che
qualcuno ami la degradazione, si voti ad essa inflessibilmente, ne ordisca la
trama con dissimulazione, sofferenza e prudenza, questo è troppo per l’umanità
che assiste affascinata, come uno scoiattolo sotto o sguardo del serpente, alla
demolizione sistematica dell’arte, della grazia contemplativa, della
vegetazione stessa, di tutto ciò che è elfico al mondo. L’intelligenza maligna
che conduce quest’opera di rovina è non meno sovrumana di quella divina che
s’infuse nel genio degli edificatori”[2].
In uno dei casali di
Caserta – Centurano (il cui nome chiaramente allude alla centuriazione) – vi è
un portale, nella cui chiave vi è il simbolo, piuttosto interessante, della sirena – sulla quale vi sarebbe molto da dire –,
con sotto una data. Esattamente
sopra la data, vi passa su un cavo (di un qualche cosa qualsiasi): esattamente su …
Per quel che mi ricordi,
le prime due cifre sono 14 (= mille quattrocento), ma non ricordo le ultime
due.
Ecco, la negazione della storia non potrebbe
esser affermata con più chiarezza ed evidenza: il cavo passa sulla data.
Dirlo più chiaramente
di così, e nei fatti, sarebbe impossibile.
A chi ha fatto questo non è passato nemmeno per la più lontanissima anticamera
del cerebro che quella data potesse avere un significato, e che lo stemma
stesso fosse portatore di un qualche valore: non sia mai.
Non poteva certo passare
per la testa. La pianura campana è – e doveva
essere – solo e soltanto un non luogo del tutto privo di passato,
una sorta di tabula rasa sulla quale poter
costruire i non luoghi.
E questo è avvenuto col
pieno consenso di una classe
dirigente mai esistita e di una
borghesia mai cresciuta, solo e soltanto “compradora”, meramente
di raccordo, e per la quale, nell’epoca della “rifeudalizzazione” cosiddetta,
unico scopo era stato quello di sostituire le classi nobiliari nella loro crisi
dovuta alla modernità, sovrapponendo
la logica economica borghese a quella della casta, ma senza implementare
trasformazioni sociali di alcun genere o tipo.
Morale della favola: il
“popolino” è rimasto subalterno nel
profondo, in rapporto strutturalmente clientelare
verso una borghesia autoreferenziale al milleun per cento.
La fase
dell’industrializzazione è stata la breve
ebbrezza, presto obliata, essa non ha inciso in nulla nel profondo.
Preme ricordare questo
punto appena detto.
Un altro esempio di
degrado, ma senza un grosso “coso” a ricordare la propria nullità, è il centro di
Cosenza.
Questo ci ricorda come,
nel Sud, tutta la lezione degli umanisti non vi è mai stata, né il Medioevo,
tutto sommato piuttosto vivo, del Meridione pare sia mai esistito: la marginalità come dimensione della mente, la pulsione al suicidio – altro
che Canetti!, altro che “libido dell’omicidio”!, anche se le due cose possono
paradossalmente coesistere, ed ecco la forza inusitata delle organizzazioni
criminali nel Sud, mai veramente non dico spiegata, dico solo affrontata –. E, finché il Mediterraneo rimarrà chiuso, il
Meridione ne sarà la prigione. Intendo: avrà il ruolo di prigione, il luogo –
o non luogo … – della “Tristitia”, nota
figura geomantica … Se si pensa come Pasolini cercasse l’ “autenticità” del
“popolo” fra Napoli e Caserta, si ride[3].
In tutto il mondo le
cose vanno male, ma nel Meridione vanno male al
quadrato, e vanno malissimo anche nelle sue zone direttive, e cioè la
costa tirrenica settentrionale, e, in misura minore, l’area di Bari e cioè una
parte importante, ma piccola, della costa adriatica. Queste sono sempre state
le parti dove, per esempio, vi erano storicamente le migliori strade, quindi più
commercio, più “sviluppo”, ecc., ecc. Ma oggi tendono a divenire dei non luoghi
e con modalità irreversibili.
Una volta che tu hai
fatto costruire mostruosità edili di varia forma e natura, mostruosità che non possono essere chiamate
“architettura”, non è che puoi tornare indietro come se nulla fosse stato …
In questo scatafascio, visto
che l’originale dell’opera più nota ed importante di Telesio è andato
irrimediabilmente perduto in quest’ estate
del “sabba” continuo, come la
chiamo[4]
– in cui nulla ci è stato risparmiato
(anche un terremoto di natura probabilmente relativa al campo vulcanico
dell’Epomeo e dell’area flegrea, Epomeo che, secondo alcuni, sarebbe una delle
“porte” dell’ “Agarthi” e/o Shamballah) –, qui di seguito si riporta
un’ immagine dalla copia milanese
dell’opera principale di Telesio.
Frontespizio
e pagina della prima edizione di B. Telesio,
De natura iuxta propria principia, in
L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, volume secondo Il Cinquecento – Il Seicento, Garzanti Editore, Milano 1970, p. 145[5];
fonte dell’immagine: Milano, Biblioteca Ambrosiana.
Una notazione sull’
“operaismo” degli anni Settanta, e cioè sull’epoca finale dell’industrializzazione nell’ ex “Brianza del Sud” (fa proprio ridere
un nome tale, la sedicente “Brianza
del Sud”, altrettanto bianco conservatrice rispetto alla Brianza originale, ma
oh quanto marginale, conservatrice perché
marginale, non conservatrice perché trae beneficio
da un determinato sistema che, al contrario, la penalizza, e però bacia quella
mano che la porta nel macello, chi è coniglio – o lepre: questo è il
significato di Terra laboris, la terra della lepre – non può neanche
immaginare cosa gli stiano facendo): “Il 1975 è l’anno di massima espansione
del tessuto industriale casertano […]. Dieci anni dopo, giusto per fare un
fixing, si stanno già raccogliendo i cocci di una crisi generalizzata del polo
casertano. Non capimmo, non avevamo gli strumenti culturali per comprendere che
nel campo della produzione industriale stavano prendendo corpo cambiamenti
epocali […].
Nel testo di Ugo
Brunello del Consiglio di fabbrica di San Siro intitolato Ristrutturazione si intuisce che sta succedendo qualcosa. […] Oggi
sappiamo che in realtà la scienza è essa stessa una manifestazione
dell’innovazione tecnica: si fa ricerca perché si vuole produrre una nuova
molecola, non si produce una molecola perché la scienza ha ricercato. Ma allora
chi di noi sarebbe stato capace di cogliere quello che stava avvenendo? Il mondo
stava letteralmente cambiando sotto i nostri occhi, ma noi non riuscivamo a
vederlo. Eravamo in possesso di modalità di analisi della realtà che non erano
le più idonee ad interpretarla correttamente. Il tempo si è incaricato di
dimostrare che la nostra prospettiva rettilinea era un sogno, forse qualche
sforzo di liberarci dal nostro determinismo lo abbiamo fatto anche allora, ma
nella sostanza restavamo incatenati ad un equivoco tutto ideologico”[6].
Nessun dubbio su queste due ultime affermazioni. Ma non è
affatto vero che “nessuno” colse i cambiamenti in atto, forse gli “operaisti” non potevano farlo, fissati com’erano
con una scienza trapassata già in quell’epoca.
Il più volte citato (su
questo blog) Baudrillard se ne accorse, e per tempo, fin dagli anni Settanta; di seguito, quest’autore
darebbe divenuto famoso in Italia, lui stesso si chiedeva, però, se perché
fosse stato capito o per uno stile accattivante, come spesso i pensatori
francesi sanno fare, in quanto, a differenza dei famosi “italici”, che si
mettono paura non appena vadano fuori certi recinti
strettissimi, spesso capita che i
pensatori francesi non si facciano scrupolo ad esser “interdisciplinari”, il
che ne rende la lettura stimolante, diversamente dai sin troppo noiosi e prevedibili italiani.
In una parola: non fu
capito, men che meno dagli “operaisti”. Che il marxiano “enigma della merce” fosse
divenuto “enigma del segno” era, per loro, troppo.
Il che, però, ci fa capire quanto poco
avessero meditato, per davvero, anche su certi aspetti di Marx, con il quale,
invece, Baudrillard contendeva sì, e ci si accapigliava senza dubbio, ma conoscendolo
bene.
Tu puoi tentare di
superare quel che conosci davvero, non “imparicchiato” su riduzioni di
riduzioni di riassunti.
Il fatto è che
confrontarsi con le cose richiede tempo,
ed assenza di paura, si dev’esser disposti ad accettare anche lo scacco, se
questo sarà il risultato.
Tu non puoi
preventivamente (à la Bush) fissare i
risultati della tua ricerca perché allora non sarebbe una ricerca. “La ricerca,
come un fiume in piena, non puoi mai dire dove andrà a sfociare”, per
parafrasare il professor Matteucig. Tutto si riduceva, troppo spesso, a viete formule
stantie: il marxismo si è scavato la fossa in
gran parte da solo. E se la stava scavando proprio in quegli anni!! Questo
è un monito perenne per tutti quelli che, oggi, straparlano, in modo molto superficiale, di fine del sistema. Figurarsi se,
personalmente, io sia fan di questo sistema: per nulla.
Ma ci si deve sempre
guardare dalle deduzioni superficiali. Certo che è in crisi, gravissima, lo si è detto più volte. Ma
ciò non è sufficiente: non è sufficiente la crisi strutturale,
i fattori solo interni di dissolvimento, ci vogliono anche delle forze
dall’esterno. E queste ultime, proprio
queste ultime, oggi – eufemismo per non dire da venti o trent’anni – mancano quasi del tutto[7].
Manca però il compimento
di detta crisi, ed anche questo lo
si è detto più volte. Ciò accade non solo per la “cattiva volontà” di gruppi di
potere – che ci sta, eccome -, ma pure, se non soprattutto,
per ragioni strutturali, poiché il System, dagli anni Settanta – Baudrillard docet
–, funziona in automatico come una macchina auto regolantesi, ovvero
cyber-n(on)-etica. Vale a dire: una macchina il cui pilota è automatico, ovvero, detto ancora in un altro modo: questa è stata l’ essenza dell’opera di uomini come il recentemente scomparso D.
Rockefeller.
La “globalizzazione” doveva
poter avvenire non per mezzo della
dominanza di una nazione, qualsiasi, anche
gli Usa, ma per mezzo di “signorie
globali” da parte di grossi gruppi finanziari: ecco l’essenza della tesi e
della pratica di D. Rockefeller e di tutta la “ristrutturazione” anni Settanta:
Mission accomplished. Ed essa fu del tutto non compresa dal marxismo –
gli “alternativi” dell’epoca –, come oggi, parallelamente,
non comprendono quel che sta succedendo sotto
i loro stessi occhi gli pseudo
“alternativi” e/o “critici” contemporanei.
Il mondo è in rovina,
pressoché totale, a causa di quella
vittoria, della quale il marxismo all’epoca non capì nulla, letteralmente
niente. Nonostante che una rilettura critica
di Marx avrebbe potuto aiutarli, ma critica,
non riduttiva e neppure giustificatrice
o apologetica. Dunque non è che “non potevano capire” ma, per ragioni che non
potevano neppure immaginare, a cosa
era radicale: non è che ad un “sistema produttivo” se ne stesse sostituendo un
altro, è che il sistema produttivo tout
court diveniva subalterno a quello della produzione dei segni, il che, per un marxista, era
parlargli della Luna, non ti poteva capire proprio. Ed all’epoca, ancor ancora,
ci stava: che continuino a non capire nulla nemmeno
oggi, è gravissimo, ma
quest’incomprensione fa parte del sistema di oggi, al di qua di “destra” e
“sinistra”, son tutti solidali nel non capire che cosa sia successo.
In base a quel
cambiamento, il lavoro, di ogni tipo, subiva lo scacco matto da parte del capitale. Punto. E basta.
Definitivo risultato ed
irreversibile. Quel che accade oggi è il semplice proseguimento di quanto fatto all’epoca.
E che lo scopo del
“macchinismo” fosse questo è discretamente intravisto dallo stesso Marx, nel suo
Storia delle dottrine economiche.
Baudrillard si è letto per bene il suo Marx, ne ha intravisto le debolezze,
l’ha poi posto a confronto con la situazione reale: ne ha tratto le deduzioni
che se ne imponevano, come la fine del lavoro produttivo, il passaggio di ogni
lavoro a quello di “servizio”, per esempio. La cosa da ridere è che chi avrebbe
dovuto leggersi bene Marx non lo fece.
Questo fa ridere … Ripeto,
tuttavia, che questo è un monito perenne
per chi segua delle analisi superficiali.
La pelle dell’orso si
vende solo e soltanto dopo averlo ucciso, mai prima; ed è ancora ben vivo per
quanto malatissimo senza dubbio.
Che debba vivere per
sempre, checché ne pensi l’orso ed i suoi estimatori e illustri cantori delle
sue “sorti magnifiche e progressive”, però, è
del tutto escluso.
Andrea A.
Ianniello
[1]
In J. Baudrillard, Della seduzione, Nuova Casa editrice
Cappelli, Bologna 1980, p. 181, corsivo in originale.
[2]
Introduzione di E. Zolla in J. R. R. Tolkien,
Il Signore degli anelli. Trilogia,
Rusconi Libri, Milano 1977, p. 11,
corsivo in originale.
[3]
Ci si ricordi della poesia di Pasolini intitolata “Terra di lavoro”, questa
terra di bufale provenienti dalla Bulgaria con gli Sclavones di Paolo Diacono, gli schiavi dei Longobardi – il bufalo è simbolo dell’ignoranza nel
mondo indù, del tamas, della greve
pesantezza della terra -, terra di cagnacci sempre latranti, come il Belgio
così cordialmente detestato da Baudelaire: “”, E. Jünger, Avvicinamenti,
droghe ed ebbrezza, , p. . Il cagnaccio sempre latrante, passato dalla
campagna, dove pure può avere un senso, nelle case di piccolissimi, minimi borghesucci mal dirozzati,
attesta, al di là di ogni ragionevole dubbio, quel che scriveva qualcuno molti
anni fa: “In un’analisi che, com’è stato osservato, ‘mozza il fiato’, E. Galli
della Loggia [Il potere degli spettri,
Mondoperaio, novembre 1979, p. 87]
tocca le radici della condizione politica del nostro paese, ossia ‘la perdita
dell’identità collettiva, la crisi della figura nazionale, al dissoluzione della
legittimità’; temi, questi ripresi anche da un altro noto osservatore di cose
italiane [G. Baget-Bozzo, Questione
morale e coscienza nazionale, Mondoperaio,
marzo 1980, p. 94]; da tutto ciò appare un quadro più grave di quello che vuole
fare risalire ad una sola forza politica responsabilità che incombono anche
sulla sinistra e, in fondo, su tutto il paese; si vive ormai in uno stato di
‘diffusa illegalità’, un penoso destino di ‘diverso’ incombe sulle minoranze
oneste; ‘ormai, in Italia, il codice penale è quasi la sola barriera rimasta
contro la degenerazione delle strutture pubbliche e l’affermarsi in esse di una
crescente tendenza al lassismo e all’indisciplina’ [G. Ferrara, L’assenteismo e il codice penale, la Repubblica, 27 gennaio 1982]. In altre parole,
la questione morale è essenziale, ma non si può pensare di farla pagare solo
agli altri. L’imbarbarimento culturale del paese, la soppressione della nostra
cultura storica, il fatto che il ‘caso italiano’ pone anzittutto un problema di
riforma intellettuale e morale, prima ancora, che politica, tutto ci riporta ad
Arbasino ed alle costanti antropologiche di un paese [cfr. 1977; 1978; 1980]. Italia civile – Tre personaggi dell’ ‘Italia civile’, sono i titoli di un
volume e dell’appendice alla raccolto di articoli di N. Bobbio [1976-80, ed.
1981]; assai significativi, tanto per cominciare, giacché danno per scontato
un’altra Italia, un’Italia incivile, quella del tempo in cui si scrive. Magari
vi sarà una punta di comprensibile ripianto del passato, ma ciò che conta è che
quest’ultimo diviene a posteriori civile, di fronte alle
condizioni attuali del paese. Pochi altri come Pasolini hanno descritto, con
quell’intuito di poeta che vede più a fondo degli analisti professionisti, […] un
paese operato da una caricatura del capitalismo-consumismo, come appare in
buona parte quello italiano; esso richiama il destino di quelle numerose
civiltà contadine dell’Asia distrutte non già dal capitalismo ma dalla versione
fornitane dalla classe di governo locale”, F. de
Franchis, Dizionario giuridico.
Law Disctionary, vol. 1, Giuffrè editore, Milano 1984 (il vol. 2 sarebbe stato del 1996), Introduzione, p. 184, corsivi in originale. Frasi del 1984: nulla di sostanziale è cambiato,
tutto si è incancrenito … Quel che si può osservare è che, spesso, i nomi di
chi, allora, criticava si sono allineati alla corrente, seguendo il consiglio
di Totò ne “La banda degli onesti”: “adeguarsi”, adeguarsi al “ragionier
Casoria”, personaggio che, nel film, rappresenta un’Italia che conosciamo sin troppo bene. O son passati a
riforme notoriamente gattopardesche, insomma esche dette perché vi sia
un’apparenza di cambiamento, quando, in realtà, si stabilisce che nulla cambi,
che i confessabili e ben noti interessi continuino a spadroneggiare. Nel Sud la
notte pare non finir mai, non solo l’epoca del terremoto che, comunque, ha
davvero segnato una frattura, definitiva, cf.
F. Compasso, La notte del Sud (Saggio socio-politico sulla poesia del terremoto),
Galzerano Editore, Casalvelino Scalo (Sa) 1981. La “notte del Sud” non è mai
finita, nel Sud.
Comunque anche
nel secondo volume “del” de Franchis vi son nomi che, in seguito, sarebbero
divenuti molto noti, assieme alla delusione per i sussulto mancato di “Mani
pulite”, la previsione – l’unica cui un’analisi spassionata avrebbe potuto far
giungere – del fallimento del “federalismo” europeo (ed anche il conflitto
interessi che avrebbe segnato l’Italia, cf.,
F. de Franchis, Dizionario giuridico. Law Disctionary,
vol. 2, Giuffrè editore, Milano 1996,
p. 174). “E siamo ancora a questo: che la classe dirigente italiana (sindacati in prima fila) non ha ancora
capito che una democrazia inefficiente è una non-democrazia, per molti versi
addirittura peggiore del fascismo”, ivi,
p. 166, corsivi in originale. Oggi siamo ben
oltre quel che de Franchis all’epoca denunciava, lui stesso esempio di
quella borghesia, che il progetto gramsciano chiamava a servire un progetto di
sviluppo insieme alle classi
“subalterne”, ma che è sempre stata minoritaria
nella borghesia italiana stessa. “Si
scriveva al Duce, e non di rado si otteneva giustizia. Ma in una democrazia
all’italiana a chi mai si può scrivere?”, ivi,
p. 167. Se si è vittima di un’ingiustizia, in Italia, paese “democratico”,
qualora non si sia in possesso di grosse somme, ci si terrà l’ingiustizia,
esattamente come nelle dittature. E questa è la mera realtà. Ma non solo i
politici o i giornalisti o gli imprenditori, la crisi ha trovato nella
decadenza della classe dei professori un elemento decisivo (cf. ivi, pp. 103-153). In tempi di turismo
risorgente, e al netto dei “sepolcri recentemente imbiancati”, cambiate poche parole, rimane ancora vero: “Ma
qualsiasi turista in transito per il
nostro paese, purché abbia un po’ di sale in zucca, di fronte all’oda di motorini
e al traffico spaventoso delle nostre sconquassate città – da Torino, Milano,
Genova, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo e Catania, che tanto
imbarbariscono il Giardino d’Europa –
che da noi l’ economia nazionale
richiama per molti versi quella di un paese del terzo Mondo, e non fatica
troppo a risalire, di gradino in gradino, come in un qualsiasi paese
sudamericano, fino al cuore del sistema, concepito come una colossale anomalia.
Naturalmente, in un articolo non si può dire tutto, e quindi si capisce che
esso non precisi […] che le nostre
infrastrutture fanno schifo”, ivi,
p. 169, corsivi in originale. Qualche piccolo belletto avviene troppo tardi e
troppo poco, soprattutto troppo tardi: e tutto il tempo passato su infrastrutture
inadeguate se non pessime? Perché non viene computato e non se ne dà un
indennizzo, senza contare aumenti del tutto ingiustificati? Piccoli
miglioramenti sono sbandierati come chissà che, quando sono appena una parzialissima compensazione. In Italia,
infatti, si è del tutto incapaci di
guardare oltre l’oggi o appena domattina, e qui vi è una differenza forte con
la Germania: ad esempio, la Merkel ha tratto profitto delle riforme di
Schröder, che, all’epoca, fu però molto criticato: è che guardava oltre al
giorno dopo. Ma questo, a sua volta, non
è una caratteristica dell’oggi: in Germania nasce da Federico II di Prussia, mentre, in Italia, questo
tratto caratteriale non è mai nato,
sin dalla cosiddetta “unificazione”.
“Federico è
stato grande. Ma è pericoloso per una nazione lasciarsi assorbire da un solo
uomo. Lo paga sempre duramente. Tuttavia bisogna riconoscere che, caduta dalle
mani di Federico, la monarchia prussiana aveva in sé sufficienti risorse e
sufficiente energia da poter superare una durissima sconfitta con una
bellissima vittoria. Venti anni dopo la morte del vecchio Fritz, Napoleone
entrava a Berlino, otto anni dopo, il re di Prussia entrava a Parigi”, P. Gaxotte, Ritratto di F II in Federico
II re di Prussia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1990, p. 108. Non si può cambiare il proprio certificato
di nascita. E una lepre non può
diventare un leopardo.
[4]
Siamo tornati, mutatis mutandis, e
come simulazione – = per artem diabolicam –, al “festival del
potere d’acquisto”, cf. J. Baudrillard, Il sogno della merce, Lupetti Editori di Comunicazione, Milano 2007 (prima ed. **1994**), pp. 119-121.
Nell’Introduzione (all’edizione del 1994), il curatore, V. Codeluppi, scriveva:
“L’esempio più lampante di questa progressiva ‘primitivizzazione’ del sociale
ce lo dà, secondo Baudrillard, la società apparentemente più avanzata: quella
americana, grado estremo della simulazione, ma anche ‘la sola società primitiva
attuale’ [Baudrillard, L’America]. Si tratta di un’ipotesi
eccessivamente radicale [mica poi tanto, più di vent’anni dopo possiamo ben dirlo; nota mia] anche tenendo presente
che è comunque un’abitudine del sociologo francese quella di spingere sino alle
loro estreme conseguenze le sue riflessioni e di giocare continuamente
d’azzardo con il futuro, disegnando i contorni di una società puramente
fantascientifica e ancora lontana dall’esistere [idem come sopra, nota mia]. In ciò risiede probabilmente anche il
limite maggiore di Baudrillard, eppure, anche se il sociale che oggi conosciamo
[in parte: conoscevamo; nota mia] è
diverso, è comunque nella direzione tracciata dal sociologo francese che si sta
dirigendo, e con essa l’intera comunicazione pubblicitaria. Così, se oggi
[all’epoca] il pubblicitario non può credere che la gente non gli creda, […] in
un domani forse non lontano incomincerà probabilmente a pensarlo anche lui”, ivi, p. 27. Ed è oggi. Tra l’altro,
questo sabba chiamato estate ha visto la ripresa del consumo su basi massicce,
la settimana centrale di agosto sembrava l’esser tornati a tempi molto lontani,
quelli de “La donna della domenica”, film del 1975, di , che, a parte certe, datate, critiche sociali, mostra
molto bene l’atmosfera di un periodo (questo è l’interesse dei film malgré eux mêmes), la Torino svuotata
del tutto, però all’inizio del mese di agosto, com’era in quei tempi. Quel che
conta sottolineare,è che, nel corso degli anni, e solo mercé mezzi simulativi di crediti su crediti su
crediti, in definitiva il modello di fondo quello
è sempre rimasto.
Contro di esso
il “comunismo” era perdente sin dall’inizio. Scriveva illo tempore che: “Poiché la visione comune è quella dell’ imperialismo dei sistemi totalitari. […]
Ora, il vero pericolo per le ‘democrazie’ occidentali non è quello dei carri o
dei missili russi e del loro impiego eventuale, non è quello di un rapporto di
forze militare e neppure quello di un irradiarsi della rivoluzione. Il modello
totalitario, corpo fredda e senza irradiazione propria, è profondamente difensivo: fa già fatica a conservare il
suo blocco e a raffreddare le sue stesse energie. Non ha mai avuto grandi
successi sul piano dell’esportazione, con la violenza o con l’infiltrazione. La
sua potenza d’irradiazione è nulla, la sua strategia politica pesante e
antiquata e il vero problema è piuttosto quello della sua interna fragilità
[come poi si sarebbe visto a breve, nota mia], contro la quale può essere
tentato di difendersi ricorrendo a soluzioni estreme. Molti in Occidente giocano
a farsi paura con argomenti del genere (per quali segrete ragioni?), ma il
problema si situa altrove. E’ nella seduzione collettiva che può cominciare a
esercitare, anche in Occidente, la struttura totalitaria [come si vede nel
totalitarismo dell’informazione, da un lato, e, dall’altro, seppur dopo molto
tempo, nel fascino dei cosiddetti “uomini forti” – che poi non lo sono mai, ma
è altro discorso –, del “putinismo” e via dicendo; nota mia]”, J. Baudrillard, La sinistra divina, Feltrinelli Editore, Milano 1986, pp. 93-94, corsivi in originale. “Forse
i comunisti non hanno mai veramente avuto il gusto del potere. In quanto comunisti, probabilmente non
hanno mai avuto altro che il gusto del dominio burocratico”, ivi, p. 12,
corsivi in originale. Ancora: “La razionalità del capitale è una baggianata: il
capitale è una sfida all’ordine naturale del valore. Questa sfida non conosce
limiti; essa mira al trionfo del valore (di scambio) ad ogni costo, e il suo
assioma è l’investimento, non la produzione. […] Almeno è questo capitalismo,
senza morale né misura, che ha dominato dal XVIII secolo agli inizi del XX. […]
Il socialismo non è la forma dialettica superiore al capitale, è solo […] la
forma moralizzata dell’economia
politica (la quale a sua volta è stata ridotta da Marx alla dimensione critica ed ha così perduto la dimensione
irrazionale, ascetica, su cui ancora insiste Weber nella sua Etica protestante) e l’economia politica stessa integralmente moralizzata
dal valore d’uso. […] L’arcobaleno
dialettico che tanto a lungo ha brillato sula nozione marxista della merce e
sull’orizzonte sacro del valore si è dissolto e nei frantumi della sua
deflagrazione possiamo oggi vedere come stanno le cose: non soltanto il valore
d’uso non è nulla ma funziona da foglia di fico dell’economia politica (cosa
che Marx, bisogna dirlo, ha discretamente intravisto, ma che nessuno dei suoi
seguaci ha visto dopo di lui, poiché tutto il socialismo, ogni idea di rivoluzione
e di fine dell’economia politica sono regolati sul trionfo del valor d’uso, […]
che rimanda a ciascuno l’immagine dei propri ‘bisogni’) […] I comunisti credono
al valore d’uso del lavoro, del sociale, della materia (come vuole il loro
materialismo), della storia. Credono alla ‘realtà’ del sociale, delle lotte,
delle classi, che so?, credono a tutto, vogliono credere a tutto,è questa la
loro moralità profonda [verissimo]. Ed è questo che toglie loro oggi ogni
capacità politica”, ivi, pp. 13-14,
corsivi in originale. “Che Marx aveva discretamente intravisto”, parole
profondamente da meditarsi. Vale a
dire che la stragrande maggioranza dei marxisti non ha mai approfondito il lato
“problematico”, che pure ci sta, dello stesso Marx. Ecco perché hanno creduto a
tutto = fallimento politico inevitabile.
Questo, però, a sua volta, pone il problema di quale sfida – per davvero –
possono mai aver esercitato i comunisti; e la risposta di Baudrillard è tanto
semplice quanto giusta: non era la
dottrina materialistica, “dialettica” o non, il punto, e nemmeno le
organizzazioni sociali pratiche; era il mito
della rivoluzione che funzionava, il mito
di un “cambiamento generale”, non
la sua realtà, sempre deludente, o
trasformatasi in nazionalismo, come, poi, è stato l’ inevitabile iter seguito
dalla Russia e dalla Cina, ognuna con sue modalità proprie, ovviamente.
Copertina di L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Editori Laterza, Bari 1969, libro molto importante per la critica alla dialettica di
Marx, critica spesso giusta, però solo nella sua pars destruens, in quanto
detta critica era fatta in base alla razionalità cosiddetta “scientifica”, pars
construens anche meno credibile dell’altra.
[5]
Su Telesio, s’insiste spesso che fosse anti aristotelico, non è del tutto
esatto: “Comunque in Telesio è caratteristica questa concordia discors con Aristotele, per cui Aristotele è di continuo aspramente
combattuto mentre di continuo si ritorna a spunti e processi aristotelici, onde
non a torto Gentile ebbe a concludere che la differenza fra Aristotele e
Telesio è, spesso, ‘più nella parola che nel concetto’ […]. Non dunque una
materia come mera potenza, non una forma statica e immota, non una privazione
come pura negazione, sono i principi del reale, ma nature agenti, il caldo e il
freddo, e la massa che esse agitano e sollecitano”, E. Garin, Storia della
filosofia italiana, vol. 2, Einaudi editore, Torino 1966, p. 651, corsivi
in originale. Prova ne sia proprio questa centralità del caldo e del freddo per
le trasformazioni naturali, anche
“alchemiche”, cf. E. Zolla, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio
Editori, Venezia 1991, pp. 20-24.
“Così il Telesio
in definitiva è lontano dalla nuova m e
n t a l i t à [sic] da cui si origina
la scienza moderna della natura, anche là dove arriva più vicino ai suoi
risultati. La contraddizione insita nella sua dottrina dal punto di vista della considerazione
storica può essere definitiva sinteticamente in questo modo: il c o n c e t t o aristotelico di f o r m a, superato nella fisica, conserva
ancora il suo predomino nella p s i c o l o g i a. qui esso sopravvive nel c o n c e t t o scolastico di s p e c i e e nella concezione secondo la quale il
processo della conoscenza non è altro che un passaggio e una trasformazione
delle cose stesse nello spirito, con una parte della loro entità. Ma tale
concezione non può essere separata dalla metafisica aristotelica da cui è sorta
[…]. L’essere sostanziale, ‘spirituale’, che questa metafisica attribuiva alle
cose della natura, è scomparso: ma poiché il processo della conoscenza viene
interpretato e descritto dal punto di vista tradizionale, deve necessariamente
trasformarsi in un passaggio puramente m
a t e r i a l e tra gli oggetti e la
coscienza. Questi problemi […] continuano a farsi sentire anche nei seguaci di
Telesio. L’Accademia di Cosenza, da lui fondata, divenne il primo centro stabile
per la raccolta e la descrizione esatta di singoli fenomeni fisici, ma tutto il
materiale ch e viene alla luce non è sottoposto in un primo tempo a un esame
critico […]. Nel P a t r i z z i, la cui
Nova de universis philosophia è con
l’opera principale di Telesio il tentativo più importante di una spiegazione
unitaria e indipendente della natura, il problema dell’origine della conoscenza
tende di nuovo verso il n e o p l a t o
n i s m o. sebbene il ‘Logos’ si distacchi dall’essenza divina, tuttavia non
perde mai la coscienza della propria origine la ‘consapevolezza’ del suo legame
con l’essere supremo e l’amore che scaturisce da questa conoscenza
costituiscono l’essenza interiore e l’impulso fondamentale dell’intelletto che
deve volgersi su di sé e sulla sua causa per ritrovarvi e comprendervi
indirettamente tutte le altre cose. La conoscenza non tede ad altro che alla
coincidenza col suo oggetto, a dissolversi, cioè, nell’essere assoluto:
‘cognitio’ – dice il Patrizzi giocando sull’etimologia – è sinonimo di ‘coitio
cum suo cognobili’. Qui possiamo constatare ancora una volta quanto l’
‘empirismo’ dell’epoca sia vicino l misticismo speculativo. Ritroviamo queste
due tendenze strettamente intrecciate in una singolare espressione individuale
nel pensatore che conclude lo sviluppo della filosofia della natura: nella
metafisica di Campanella confluiscono tutti i motivi intellettuali dell’epoca e
si raccolgono tutti i sui contrasti”, E. Cassirer,
Storia della filosofia moderna, vol.
1 Il problema della conoscenza nella
filosofia e nella scienza dall’Umanesimo alla scuola cartesiana, il
Saggiatore Alberto Mondadori Editore, Milano 1968, pp. 171-173. Il fatto che
Telesio ammettesse un “intelletto unico” è la spia che fosse vicino alla
corrente “averroista” dell’aristotelismo, cui era interessato lo stesso
Federico II di Svevia, oltre che un conoscitore di qualche dottrina alchemica,
senza esser lui stesso alchimista, chiaramente. Che potesse poi avere tali
ultime conoscenze, cui si è appena fatto riferimento, è tutto fuorché sorprendente, tale l’epoca in cui scriveva. Tra
l’altro: “Nel senso alchemico del termine, la Natura non è tuttavia una forza
cieca, anche se il concetto di natura che i filosofi illuministi hanno così frainteso e male utilizzato
[corsivi miei] deriva indirettamente
[corsivo mio] dalla natura ermetica”,
T. Burckhardt, Alchimia. Significato e visione del mondo,
Guanda Editore, Milano 1981, p. 105, corsivo in originale, corsivi miei detti
fra parentesi quadre.
[6]
A. Scarano, Introduzione: Nel cuore degli anni settanta, in P. Broccoli, L’Informatore, giornale operaio della Sit-Siemens di SMCV, Edizioni
Saletta dell’Uva, Caserta 2016, pp. 16-18, corsivo in originale. Vero che, poi,
la cosiddetta “sinistra” sarebbe divenuta il cagnolino più obbediente del nuovo
padrone: di solito, se non ha una cultura forte alle spalle, il “sinistrato”
finisce per fare “peana” al sistema, l’ho notato varie volte: è quello
che assume la logica dominante senza più alcun filtro, diventa marginale,
diventa una casertano onorario, in altre parole. E non vi è iattura peggiore
che possa mai succedere, perché porta fatalmente alla toltale irrilevanza. Come
Caserta. Come il Sud.
Per una sorta di
nemesi, questa negazione del Sud porta, quindi, a divenirlo.
Siamo sempre il
Sud di qualcos’altro, amo dire. Per fortuna nell’Antartide non vi sono popoli
autoctoni, al momento, secondo F. Barbiero, in altro ciclo umano, le cose
sarebbero state ben diverse, ma oggi così è … A tal proposito, cf. F. Barbiero,
Una civiltà sotto ghiaccio, Editrice
Nord, Milano 2000.
[7]
“Il capitalismo non morirà dunque per un
gioco di contraddizioni puramente economiche [corsivi miei]. E oggi
dobbiamo cercare nel Capitale, non un
sistema chiuso di leggi economiche, ma un momento di una dialettica, una
metodologia dell’iniziativa storica, fondata, come lo era il Capitale, sull’analisi delle
contraddizioni di un’epoca determinata per svilupparne il possibile futuro in
grado di superarle”, R. Garaudy, Karl Marx, Sonzogno Editore, Milano 1974, p. 194, corsivi in originale, i
miei segnalati fra parentesi quadre. Dal 1974 ad oggi non “si” è stati “in grado” di
“superare” proprio un bel niente … Comunque, verissimo che “Il capitalismo non morirà dunque per un
gioco di contraddizioni puramente economiche”, questo si è dimostrato,
invece, verissimo, è la pars destruens,
però, dell’analisi del Garaudy di quel
tempo. La stessa “evoluzione” di Garaudy sta lì a dimostrare come, ed anche
a fornire qualche indizio sul perché, non “si sia stati” capaci di “superare”
un bel nulla. La “soluzione” alla “dissoluzione” – o anti soluzione – l’ho
ripetuto varie volte: non può esser che
“meta-politica” ed anche “meta-economica”. Tra l’altro, su
Wikiquote vi sono delle frasi tratte proprio da questo testo, cf.
https://it.wikiquote.org/wiki/Roger_Garaudy.
Su R. Garaudy (1913-2012) va detto infatti che passò dal marxismo “eretico”
all’Islamismo, anche radicalmente anti israeliano, un molto indicativo iter.
La copertina di
R. Garaudy, Karl Marx, cit.:
A questo punto, è
bene precisar questo: non nego la
presenza di “cattivi” – tanti –, e men
che meno nego la presenza di “complotti” – più
o meno vasti –; quel che
formalmente nego è che un problema di natura sostanziale, strutturale, relativo al “come funziona” ed alla finalità (tèlos) di un fenomeno storico possano essere risolte con la mera
negazione di eventi che son davvero
successi, oppure con l’attribuzione di tutto ciò a “cattivi” più o meno ben
identificati, che ci sono, nessun dubbio, ma la cui esistenza non può
mascherare il fatto che “la Macchina funziona da sola”, cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/07/la-spola-la-fine-della-democrazia-1994.html.
Essa, infatti, è governata da una sua logica interna ed il vero “complotto” è
quello che ha costruito la sua logica di funzionamento interna escludendo ogni
altra logica. Hic erant Dracones … E
“gli uomini sono in realtà d’accordo nel mantenere la macchina in moto. E’ ciò
che chiamavamo ‘la buona volontà civilizzata’”, da La Centrale di Energia (1910) in L. Pauwels – J. Bergier,
Il mattino dei maghi, Oscar
Mondadori, Milano 1979 (edizione francese 1960),
p. 108. E “la civiltà trionferà sempre fino al momento in cui i suoi avversari
non apprenderanno da essa stessa la vera importanza della Macchina”, ivi, p. 111. Fa di seguito il caso dei
“cospiratori di Ginevra” contro i Romanov, fra cui Lenin …, che ben avrebbe
compreso l’importanza della “Macchina”, solo che aveva fini sbagliati.
Purtroppo, dopo di lui, quest’importanza è stata sottovalutata e tutte le
“rivoluzioni culturali” tentate dai “non-ufficiali” sono fallite per questo
preciso punto: “la civiltà sa utilizzare le energie di cui dispone, mentre le
infinite possibilità dei non-ufficiali se ne vanno in fumo”, ivi, p. 112. Intanto, alcune cose che si diceva illo tempore si sono realizzate:
“Basterebbero poche modifiche minime per ridurre la Gran Bretagna al livello
[…] dell’Ecuador, o per dare alla Cina la
chiave della ricchezza mondiale”, ivi,
p. 109, corsivi miei …
In ogni caso,
che la “caduta tendenziale del saggio di profitto” non sia centrale al sistema
capitalistica è un grossa incomprensione di Garaudy: questo è riconosciuto
dagli stessi capitalisti, che, per ciò,
sono nella necessità di ricorrere o all’aiuto dello stato o all’aiuto delle
consuetudini di un paese (in Italia, l’enfasi sul “made in Italy” o, in
Giappone, l’aver abituato il consumatore giapponese ad una qualità “media”
elevata), su ambedue gli aspetti cf.
I. Wallerstein, Capitalismo storico e civiltà capitalistica,
Asterios Editore, Trieste 2000, p. 112. Sulle contraddizioni dell’
“individualismo moderno” e la necessità di padroneggiarlo, cf. ivi, p. 120, sul
quale problema – decisivo -, Wallerstein, proseguendo, spiegava: “Il problema
per la civiltà capitalistica, sin dal principio, è costituito nel come riconciliare le conseguenze positive e negative derivanti dal fatto di aver istituito l’individuo quale soggetto della storia [con il
conseguente, necessario, del
“prometeismo” individuale che ha succeduto alla mentalità “faustiana” iniziale;
nota mia]. Gli ideologi conservatori,
naturalmente, hanno sempre messo in guardia contro l’incombente disastro, come
pure hanno fatto i teorici socialisti;
di fatto, tuttavia, né gli ideologi conservatori né quelli
socialisti (né tantomeno i movimenti che essi hanno ispirato) sono stati disposti per lungo
tempo a lottare direttamente contro questo progetto geoculturale [ed ancor oggi, sostanzialmente, non sono disposti: questo punto qui è d’importanza
decisiva, davvero decisiva; nota mia]. Piuttosto, si sono adattati ad esso e hanno
cercato di piegarlo ai propri
fini”, ivi, pp. 120-121, corsivi
miei. E sinora sempre han continuato
a comportarsi così: vi è dietro una “fede”, irriflessa,
come s’è detto su questo blog più volte;
il grosso problema, ieri e oggi e sempre
più domani, è uno solo: che i tentativi di “piegare il system ai ‘propri’ fini” son tutti fallimentari, e del tutto fallimentari. Questa è la vera ragione della “Crisi del mondo moderno” (Guénon): che nessuno può piegare “Il” System ai “propri” fini, e che
esso, come “La” Macchina, ha un suo fine inscrittovi sin dal principio, talché tal “fine” non possa mai esser modificato, salvo che si entri nel “sistema operativo” della Macchina stessa, nel “bios” cosiddetto. Ora però, la politica
moderna – tutta – è costitutivamente, strutturalmente, sostanzialmente, necessariamente impedita dalla sua
stessa natura “moderna” che la spinge ad aggregarsi, a costituirsi attorno alla “fede irriflessa” di cui sopra.
Continua così
Wallerstein, come discorso storico:
“Attraverso quali meccanismi è stata dunque contenuta
la contraddizione [dei due volti dell’individualismo di cui ha
detto qui sopra, nota mia]? Ciò è avvenuto enfatizzando
contemporaneamente due temi opposti,
perseguendoli contemporaneamente, e zigzagando tra di essi. Le due enfasi, o
prassi [sono state prassi, difatti], sono state
l’universalismo da un lato e il razzismo-sessismo dall’altro. Entrambi son prodotti fondamentali della civiltà
capitalistica. Essi sono in apparenza
opposti, ma di fatto del tutto
complementari. E’ grazie allo strano e precario legame tra di essi che la civiltà
capitalistica ha contenuto il dilemma del progetto geoculturale che considera
l’individuo quale soggetto della storia”,
ivi, p. 121, corsivi miei. Eh sì,
perché questo è il “progetto geoculturale” della “civiltà
capitalistica”, niente di meno, niente di più, ed è stato ed è un progetto
potente, un sommovimento tellurico, non un bruscolino, non la “catena degli
errori del mondo moderno” evocata a ogni pie’ sospinto dai “tradizionalisti”: se questo
soltanto, infatti, fosse stato, avrebbe perso, e da molto tempo; al
contrario, questo progetto ha vinto popoli e tradizioni e li ha trascinanti,
volenti o nolenti, con se stesso, nel suo
progetto. Si osservi, poi: ha sì
contenuto, ma non ha risolto
… Basta girarsi attorno per vedere come, ancor
oggi, queste cose siano al centro della “dynamica cibernetica di controllo”
del system. Che cos’è, infatti, la questione dei “diritti” se non la prosecuzione dell’ “universalismo”
capitalistico? E che cos’è il “neo-sovranismo”, o le varie forme di
“neo-nazionalismo”, se non la prosecuzione del razzismo-sessismo costitutivo
della civiltà capitalistica? E, seguendo l’una o l’altra cosa, che cosa si può
sperare, di cambiamento systemico? O, almeno, sostanziale? Nessuna speranza. A questo punto, torniamo a quel che diceva
Baudrillard nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, che si
sarebbe giunti ad una logica bipolare, al codice informatico applicato alla
politica, con conseguente svuotamento del ruolo e dell’importanza della
politica stessa: fine anni Settanta.
Consapevolezza
di ciò a “sinistra”: sottozero; analisi che tenessero conto dei cambiamenti
allora incipienti, solo all’inizio: sotto il sottozero. A “destra” qualcosa
c’era, invece, di assolutamente zoppicante, di totalmente insufficiente, ma
c’era, a “sinistra” silenzio totale, resa completa, che poi ha proceduto, per
portare necessariamente all’oggi ed al mondo che c’è nel “nostro” presente. Vi
è un fil rouge, un cammino necessitato,
non un optional. A “destra” la
“critica” non è potuta andar oltre certi “paletti”, per una ragione precisa: la
sinistra “moderata” fa sempre fuori quella “estrema”, è mera storia questa; la
destra “moderata” coopta quella “estrema”, pertanto al critica “a destra” non
può mai esser radicale, sennò perderebbero qualsiasi chance di “visibilità” e di “rappresentanza”.
Si spiegano così le “oscillazioni” di Evola, da me notate più volte nel mio
scritto in A. A. Ianniello – F. Franci, Evola dadaista, Giuseppe Vozza editore, Caserta-Casolla 21 dicembre 2011. Alla fin fine, a
“destra” vi è sempre l’illusione del “ritorno”, facciamo finta che la modernità
non ci sia mia stata, basta denunciare la “catena degli errori del mondo
moderno”, dalla Riforma all’Illuminismo, e da quest’ultimo al socialismo, poi
comunismo, ed il gioco è fatto: analisi molto
ma molto superficiale. Questo li
porta, così, nonostante tutte le
“petizioni di principio”, ad allearsi con quelle forze che han distrutto l’eredità di Roma pretendendo di appropriarsene, o con
quelle che si sono appropriate
dell’eredità medioevale dicendo di esserne i seguaci, quando invece l’hanno minata dall’interno. Detto tutto ciò,
rimane che, a “destra”, vi è stato il tentativo di reinterpretare anche autori
di cosiddetta “sinistra” – per esempio, con A. de Benoist –, cosa che, a
“sinistra”, non si è mai verificato, per cui la sinistra è sparita, se si
eccettua, per una certa fase soltanto, qualche autore, come Cacciari, che ha
reinterpretato Schmitt e si è sentito vicino
a Jünger. In ogni caso, totali eccezioni:
la “sinistra” si è dunque “sinistramente” sinistrata nei cascami del XIX secolo. La “sinistra”,
in conseguenze di questa trafila, non esiste più, è oggi un mero simulacro; la “destra”, laddove
esista, si vende sempre per il classico piatto di lenticchie: nessuna delle due, ormai, è di alcun aiuto, e concretamente, quando la
“civiltà capitalistica” (Wallerstein) è in questione. Quest’ultima, oggi, è in
crisi esiziale perché ha un suo fine, un suo meccanismo fondante, che la politica da molto tempo non signoreggia, e questo fine, ormai
senz’alcun controllo, distrugge il mondo, per di più anche autodistruggendosi.
Attenzione: come segnalava illo tempore
– e stavolta giustamente – Garaudy,
le cause di crisi all’interno, i motivi di contraddizione sono insufficienti a porre sotto scacco “matto” il System. Ci vuole anche dell’
“Altro”, e questo fu ben compreso da
Guénon illo tempore. Non basta,
infatti, la fase di “polverizzazione” in cui siamo, ormai, proprio a partire da
quella “riforma sistemica” della seconda metà degli anni Settanta, della quale
D. Rockefeller, scomparso quest’anno (2017),
è stato un gran facitore ed un abile tessitore. Quanto a Guénon, si rifiutava
di prendere una qualche posizione “politica” ed aveva l’ambire di una “critica totale” della modernità tout court. Non sempre riuscì a venir
fuori dai pregiudizi propri alla sua epoca, ma questo accade, chi più chi meno,
a tutti, e tuttavia a lui soltanto
dobbiamo una critica “a tutto tondo” della modernità “in quanto tale”, non come
mero “fenomeno sociologico”, ma come fenomeno proprio ad una particolare fase
del divenire umano complessivo, cf.
R. Guénon, La crisi del mondo moderno, Mediterranee, Roma 1972, p. 22; 1972, sul
limitare dell’inizio della successiva
“ristrutturazione systemica” globale.
In relazione alle tonnellate di chiacchiere che i recenti eventi hanno scatenato – tanto per cambiare … – di nuovo, basta leggersi de Franchis (1996) e si ritroverà “l’illegalità di massa”, il sistema del distorto “diritto” italico che consente gli abusi: in ventun anni **non è cambiato nulla** di sostanziale, nonostante il ben trattato Monti abbia pure avuto, brevemente però, il potere in Italia.
RispondiEliminaCon un’annotazione, importante: che de Franchis, comunque, all’epoca considerava il modello americano, appunto, un “modello”; appunto, abbiamo un Trump, una sorta di Berlusconi americano. In Italia un Berlusconi è tutto **fuorché** sorprendente; nemmeno in America, non ho mai avuto il benché minimo dubbio che Trump avesse vinto. La differenza sta solo in un punto: che il **sistema amministrativo** americano è molto più – legalmente, appunto, per tornare a de Franchis – forte, più consapevole, più strutturato e detesta un Trump.
Ma, per tornare a noi, il fatto – incontrovertibile e tutto fuorché “imprevedibile” – della vittoria di un Trump, dimostra, “al di là di ogni ragionevole dubbio” (per usare un’allocuzione tipica dei “legal thriller” americani, appunto), come certi mali sia **strutturali** ai sistemi democratici, la cui crisi non si può ridurre al solo aspetto legale.
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2016/09/una-controversia-marxista-e-i-dieci.html
RispondiEliminaQui c’è la copertina di “Krisis” di Cacciari
Per la precisione, eccone il link:
https://3.bp.blogspot.com/-DC2k_J2r5ws/V8_vEgYqV1I/AAAAAAAAAUo/UoiAAeGA4RMt2gDvsqpq84qpKuOstzvBQCLcB/s1600/MASSIMO%2BCACCIARI.jpg