martedì 22 agosto 2017

Federico II – il “De Arte Venandi cum Avibus” –, appunti sparsi









“Il quarto [angelo] versò la sua patera sul sole: gli fu dato di ustionare gli uomini con vampa di fuoco.
Gli uomini ne furono terribilmente ustionati e infamarono il nome di Dio che ha il potere su queste piaghe, e non si ravvidero per dargli gloria”.
Ap., 16, 8-9[1].


Ecco pena dogliosa
che nel cor mi abbonda,
e sparge per li membri
sì che a ciascun ne vien soverchia parte:

Non ho giorno di posa
come nel mare l’onda.
Core, che non ti smembri?
Esci di pena e dal corpo ti sparte.
Enzio di Hohenstaufen[2].









“In effetti, Federico – pur nel corso dell’aspra lotta che, dopo la scomunica del 1239, privato ormai della preziosa assistenza d’Ermanno di Salza (morto in quell’anno), dovette condurre contro il papato (nel quale, a Gregorio IX. Morto nel 1241, era succeduto nel 1243 Innocenzo IV, dal 1244 per cinque anni arroccato fuori d’Italia, a Lione) e contro le città lombarde […] – non trascurò mai la passione per la caccia, né venne mai meno al gusto per gli svaghi di tono orientaleggiante. Continuava a girare con la sua carovana d’animali esotici: segnalata nel 1235 in Germania, nel 1236 a Parma, nel 1238 a Padova, nel 1245 a Cremona […]. Aveva un falconiere arabo, Moamin, e un ciambellano musulmano, Giovanni Mauro. Continuava a servirsi dei soldati arabi forniti da Lucera, e aveva al suo seguito un corpo di ballo (altri lo definisce un harem) di danzatrici e musicanti saracene, che si produssero, secondo l’ammirata testimonianza del cronista inglese Matteo di Parigi, nella festa organizzata al palazzo di Foggia nel 1241, in occasione della visita di Riccardo di Cornovaglia (fratello del re Enrico III d’Inghilterra e dell’imperatrice Isabella, terza moglie di Federico […]). Al Concilio di Lione (1245) sarà accusato, fra l’altro, di vita sensuale e corrotta, alla maniera degl’infedeli; e si sussurrava che il figlio naturale Federico d’Antiochia (vicario imperiale in Toscana nel 1246) fosse nato da una sua relazione amorosa con la sorella di al-Kâmil […]. Ma soprattutto non trascurava, anzi intensificava, quello ch’è forse l’aspetto più insolito per un sovrano medievale e il più qualificante della sua personalità: l’interesse per la ricerca scientifica, cui furono chiamati a collaborare dotti arabi ed ebrei. Nel 1231 era arrivato alla sua corte, per coadiuvare come segretario e traduttore Michele Scoto, l’ebreo provenzale Jacob ben Anatoli.
Nel 1234 il sultano di Damasco gl’inviò, graditissimo dono, un planetario d’argento. Nel 1235 morì Michele Scoto, il cui posto fu preso l’anno dopo da maestro Teodoro d’Antiochia, un greco di Siria,  arrivato forse dall’Egitto o da Baghdâd, il quale, oltre a curare la corrispondenza araba  dell’imperatore, compilò per lui un trattato d’igiene, desunto dallo pseudoaristotelico Secretum secretorum, e tradusse in latino, durante l’assedio di Faenza, un trattato di falconeria redatto in arabo da Moamin (Liber magistri Moamin falconerii). Suo collaboratore fu un maestro Domenico, venuto forse dalla Spagna, citato come matematico da Leonardo Fibonacci. Da questi interessi scaturisce quella serie di quesiti (le cosiddette Quaestiones Sicilianae), che Federico sottopose, fra il 1237 e il 1242, a diversi dotti del mondo arabo. Ne scaturisce altresì, ed è il frutto più personale, quel trattato De arte venandi cum avibus cui egli attese a lungo (utilizzando il precedente scritto di Moamin e altre fonti pazientemente raccolte, ma soprattutto la sua diretta esperienza, contrapposta persino all’autorità d’Aristotele). L’originale dell’opera, preziosamente illustrato, andò perduto nel 1248, quando una sortita dei Parmigiani, mentre Federico era a caccia, distrusse il campo degli assedianti. La più efficace sintesi dello spirito autenticamente scientifico da cui Federico era animato è la dichiarazione da lui inserita nel prologo di questo trattato: ‘Intentio vero nostra est manifestare in hoc libro … ea quae sunt, sicut sunt’”[3].


Nella Biblioteca Nazionale di Napoli vi si ritrova una copia del De Arte, si tratta di una vecchia editio, pubblicata in Firenze, con foto d’epoca.
Alcuni brevi passi son forse interessanti da riportarsi:
“Sebbene il falco segua i suoi istinti, imparerà presto ad accorrere al richiamo del padrone”[4]. “Come già si è detto, il falconiere deve addestrare i suoi falchi a cacciare soltanto gli uccelli che vuole lui e nel modo che a lui piace. Questo non è un compito facile poiché è in netto contrasto con l’inclinazione naturale del rapace”[5].






Andrea A. Ianniello

















[1] In Apocalisse di Giovanni, a cura di D. Tripaldi, Carocci editore, Roma 2012, p. 75. Dopo questi versetti, poco dopo, si ha il “passaggio dell’Eufrate” da parte dei “re dell’Oriente”: “Il sesto angelo versò la sua patera sul gran fiume Eufrate: il suo corso si seccò, di modo che fosse libera la via per i re che vengono dall’Oriente”, Ap., 16, 12, in ivi, p. 77.
[2] E. Horst, Federico II di Svevia, Rizzoli Editore, Milano 1981, p. 5, corsivi e maiuscoletto in originale, riportata nel bel suo italiano medioevale. La poesia tratta della nostalgia per la terra natia da cui si è lontani, non è poesia d’amore dunque.
“Al novero dei poeti di corte appartenevano tre membri della famiglia comitale degli Aquino, con la quale Federico era imparentato, e che contava tra i suoi più fedeli seguaci”, ivi, p. 207, corsivi miei. Interessante.
[3] A. Roncaglia, Le corti medievali in Letteratura italiana vol. 1 Il letterato e le istituzioni, Einaudi editore, Torino 1982, pp. 146-147. In nota la traduzione: “La nostra intenzione è di illustrare in questo libro … le cose come sono, così come sono”, ibidem.
[4] Federico II, Arte della falconeria, Olimpia, Firenze 1968, p. 455. “Il volo dei falchi è molto vario”, ivi, p. 458.
[5] Ivi, p. 13. Qui terminiamo, in questa nota finale, con un passo di Horst: “Oltre all’apporto naturalistico e alla stupefacente quantità di dati originali, il trattato di Federico contiene anche alcune personali opinioni sull’uomo e sul suo rapporto col mondo della natura [ed ecco perché c’interessa qui, nota mia]. Il falconiere ideale corrisponde ‘al ritratto dell’uomo completo, quale l’Imperatore lo immaginava’: un uomo dedito solo all’arte venatoria, alla quale subordina la fame, la sete, persino il sonno. Tralasciando le indispensabili cognizioni pratiche, si esigeva che possedesse una perfetta padronanza di sé, solida intelligenza, acuta memoria, coraggio e tenacia, tutte qualità capace di farne un elemento adatto anche a superiori servizi di Stato e lo dimostra appunto il fatto che molti grandi funzionari imperiali si esercitarono in gioventù al duro tirocini della falconeria. Per il falconiere – scrive Federico – ‘ogni cosa deve nascere dall’amore che egli porterà alla sua arte’. Un’arte, così spesso egli la definisce, intendendo con ciò la necessità e la forza di domare, con la sola superiorità dello spirito, gli uccelli rapaci, gli animali più liberi e mobili del creato. E’ appunto questo presupposto che rende l’arte di cacciare con gli uccelli ‘nobilior et dignior’, più nobile e degna di altri metodi di caccia. Non con la forza, ma solo con la sensibilità e l’ingegno l’uomo può ammaestrare i rapace al punto di falco volare libero in cerca di preda per poi liberamente tornare a posarsi sulla sua mano. […] E’ dunque un trionfo dello spirito dell’uomo riuscire a trasformare la inclinazione naturale del rapace conferendogliene una nuova; ed è questa la ragione per la quale la caccia col falco acquista un significato che, secondo Federico, trascende il divertimento e la maestria venatoria, per assurgere ad altezza d’arte”, E. Horst, Federico II di Svevia, cit., pp. 200-201, corsivi miei. Insomma per Federico II il falconiere è un modello possibile (per lui necessario) del funzionario di alto livello e dello statista. Questa parola non può, al giorno d’oggi, essere applicata ad alcun politico vivente. Vi sono certo dei “politici” o, più spesso e senz’alcun dubbio, dei meri “politicanti”, mai però degli statisti. Lo statista, come il falconiere, sottopone la sua fame, la sua sete, i suoi interessi, insomma, al dovere della costruzione dello stato e al suo buon funzionamento. Ora, se guardiamo i nostri contemporanei, è impossibile non farsi “panze” di risate a tal proposito … 






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