venerdì 7 luglio 2017

Per la presentazione del Primo numero della rivista “INFINITI MONDI”







Si è svolta, casualmente ma significativamente il 4 luglio – data dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America -, in Caserta, Via Galilei n. 24, la presentazione del numero 1 della rivista Infiniti Mondi, 2017, numero dedicato, non casualmente, ad Antonio Gramsci. In precedenza vi era stato solo il numero 0. Moderatore: Pasquale Iorio.
La Presentazione è avvenuta in collaborazione con: Il Cortile Ristorante (cioè dove si è svolta la Presentazione) - Aislo – Auser Caserta – Coop Eva Casa Lorena – La Sbecciatrice – Orto BIO Ass. LEO - Art 1 MDP Caserta.
Quel che segue non sarà la recensione della rivista, quanto invece soltanto una riflessione sull’evento della Presentazione, come anche sul progetto che sta dietro la rivista, oltre che una riflessione su dei problemi posti sia dalla rivista sia nel corso della Presentazione.
Sono intervenuti il direttore della rivista (bimestrale), Gianfranco Nappi, che ha presentato il progetto; poi Paolo Broccoli; seguivano due interventi di collaboratori attivi alla rivista stessa: prima Achielle Flora, e quindi Gianni Cerchia per terminare.
A riguardo della rivista, non ci si può che felicitare per qualsiasi contributo possa “smuovere” le presenti stagnanti fangose acque, anche se, in relazione a tale rivista, rimane un’ “ambiguità” di fondo, sottolineata nell’intervento di P. Broccoli – se ne accennerà di seguito – e proprio questo punto è uno dei temi di discussione più importanti sollevati nel corso della Presentazione. Per sunteggiare: la rivista consente un’utile occasione di discussione, ma piuttosto per ciò che non è che per ciò che, al contrario, è.
Di seguito, l’ordine degli interventi sarà cambiato, rispetto alla mera cronaca, in quanto si tratterà degli interventi del direttore e dei due collaboratori, prima, e, per finire, dell’intervento di Broccoli, che, nel corso della Presentazione, è stato il secondo. Il motivo di questo cambiamento d’ordine apparirà chiaramente nel seguito di questo post.


Il direttore, G. Nappi, spiegava come si è giunti alla rivista, tra l’altro nata l’anno scorso nei giorni del passato Referendum che ha diviso profondamente a “sinistra”; ed è ad una sinistra “critica” che la rivista, pur senza dirlo esplicitamente, de facto, vuol far riferimento. Proprio il punto di vista “critico”, di chi non vuole accettare “la fine della storia” (F. Fukuyama, nel lontano 1992, dove, tra le altre cose, citava esplicitamente “l’ultimo uomo” di Nietzsche nel titolo del suo libro, particolare, questo, non trascurabile …) è fatto proprio dalla rivista, che vuol essere uno spazio libero di discussione. Né si può accettare, continuava Nappi, di essere così schiacciati sul e nel presente: giusto e condivisibile. Ma questo, a sua volta, implica una proiezione sulla memoria, ovvero nel passato, ed uno sguardo sul futuro: nessuno oggi sa proiettarsi fra cinquant’anni, per esempio (vi sarebbe da chiedersi perché, e non solo perché siamo “schiacciati” sul presente, cosa senza dubbio verissima, ma questa è solo un’osservazione “fenomenologica” e non un’ “eziologia”, non è un’analisi della cause dello stesso phenomenon). Chiariva, poi, che nel passato non è che si “trovino le risposte” del presente, ma che una relazione “dialettica” con esso è necessaria, se ci si vuol proiettare verso un possibile futuro. Il nome della rivista è tratto da una frase di Giordano Bruno – Nappi è di Nola -.


Sia detto per inciso, a tal proposito, che Terra di Lavoro ha compreso Nola sin dal XII sec., pur essendo Terra di Lavoro, in effetti, l’antica “Liburia”, territorio tra il fiume Clanio e i Campi Flegrei. L’antico nome, più corretto di quest’estensione del nome d’una regione particolare a una più vasta zona, rimane però Campania, che, a sua volta, comprendeva dei territori dell’attuale Campania, più territori facenti parte degli attuali Lazio e Molise. Il nome di “Campania” deriva dai Kampànoi o Kappànoi, abitanti di Capua (anticamente Capys, in greco, a sua volta probabilmente dall’etrusco Capu = falco) e dintorni. 
Molto significativamente: “Liburia” o “Leburia”, poi “Lavoro”, deriva da “le-p-us ole-b-us = lepre, mentre “Campania” da Capu, in etrusco: falco, meglio testa di falco …
La lepre è “osiriana”, mentre il falco è “horusiano” sia detto, sempre, “per inciso”, ma inciso dove …


Torniamo a noi, e veniamo al primo intervento di un collaboratore della rivista, il professor A. Flora, che ha parlato, anche per sollecitazione del moderatore, P. Iorio – che sottolineava le eventuali “ricadute” della rivista su tematiche riguardanti Terra di Lavoro, per l’appunto -, soprattutto di temi economici, traendo spunto dalle affermazioni precedenti di P. Broccoli a riguardo del crescente divario tra Nord e Sud, dopo la cosiddetta “unità” d’Italia. I dati parlan chiaro, infatti: la differenza, in termini di ricchezza pro capite, che c’era nel momento della cosiddetta “unità” d’Italia, fatti i debiti cambiamenti e adattamenti, non solo non è rimasta tal quale al momento della cosiddetta “unità”, ma si è anzi accresciuta. In altre parole, a paragone del Nord, e fermo restando che la società tutta si è arricchita rispetto al XIX sec., il Sud Italia è più povero oggi di quanto lo era nel momento della cosiddetta “unità” … 
“Ho detto tutto”, avrebbe detto qualcuno …
Flora poneva a confronto il sistema della Partecipazioni statali, terminato ufficialmente nel 1993, già largamente in crisi prima di questa data, e l’assenza di un potenziale di “innovazione tecnologica” da parte della gran parte delle aziende meridionali, molto piccole. 
Questo con in vista non certo il “recuperare il tempo perduto”, ma semplicemente il bloccare il continuo allontanamento delle due parti d’Italia.
Qui due osservazioni: 1)  questo divario delle “due parti” d’Italia non nasce certo recentemente, anche se la cosiddetta “unità” non ha fatto che ulteriormente allargarlo: a riprova si può citare, per esempio, il fatto che Napoleone considerasse l’Italia come Italia del Centro-Nord, al Sud non era interessato, ed inserì Roma, che è “a sé” in Italia, per il suo potenziale simbolico di città imperiale; 2) Flora ripete quel che chiamo il “vangelo” dell’innovazione, innovazione che in Italia, e soprattutto nel Sud, può avvenire solo e soltanto per mano pubblica, come è sempre accaduto laddove il capitalismo non sia “maturo” e, dunque, non sia in grado di “far da se stesso”. 
Il capitalismo, se non raggiunge l’ “amplitudine” finanziaria necessaria per poter “far da sé” – self-made capitalism -, ha la vitale necessità dell’aiuto dello Stato, ed è sempre stato così.
A tutto ciò si deve aggiungere un altro punto – di cui ho trattato, en passant, in qualche Commento a qualche passato post -, e cioè la cosiddetta “rifeudalizzazione”, al qual termine un recente storico ne preferiva un altro: i termini sono importanti, ma non tanto come la cosa designata. Il Rinascimento non esiste, esiste la fase di passaggio tra “l’Autunno del Medioevo” e la “Prima fase dei tempi moderni”, all’incirca intorno alla metà del XVI secolo. Nel processo di costruzione dell’economia-mondo, nata dall’apertura delle rotte oceaniche (I. Wallerstein), e parallelamente al processo di centralizzazione che caratterizza la “Prima fase dei tempi moderni”, si genera una strutturazione che è continuata così sin oggi, e cioè una costruzione centro-periferie nel e del sistema-mondo, per quanto diverse nazioni abbiano potuto occuparne il miglior posto – e cioè il centro – sin ora, il che, spesso, ha comportato delle “ideologie” interessanti da studiarsi[1].
Secondo Wallerstein, vi furono degli “sconfitti”, i popoli indigeni, che sarebbero divenuti indigenti, ma vi furono anche dei perdenti, che non sono gli sconfitti, ma chi, da una posizione centrale, fu spinto in una posizione laterale, come il Mezzogiorno, cosicché oggi, che il Mediterraneo è ridivenuto un mare centrale, non sanno che pesci pigliare: nulla è più lontano dalla secolarmente incrostatasi mentalità meridionale che l’esser centrali. Non sia mai!! 
Sono abituati a vivere di rimessa, a stare al rimorchio e a non contare nulla, in cambio della deresponsabilizzazione totale e della delega completa ed assoluta. E queste abitudini mentali, così lungamente incrostatesi, non è che le schiodi schioccando le dita …
Il Mezzogiorno si è ritrovato in posizione laterale, dunque, di seguito in posizione subalterna, rispetto alla sua evidente centralità in epoca medioevale, che è stata molto importante per il Sud, e il fatto stesso che, per rivalutare il Medioevo meridionale ci sia voluta “la mano d’Iddio” – e manco la cosa si è compiuta pienamente sin ora!! –, dimostra, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, quanto siano stati fatti propri i concetti moderni, che, tuttavia, relegano il Mezzogiorno in posizione laterale, periferica, subalterna, secondaria nel sistema-mondo, fino a renderlo, com’è oggi – e a partire dalla cosiddetta “unità” –, de facto, marginale. La cosiddetta “unità” è stata la “fissazione”, in maniera definitiva, e per ben centocinquanta lunghi anni, non per un dì, della subalternità; e, dalla subalternità, alla marginalità, il passo è stato breve. 
Oggi il Sud è marginale, manco meramente “periferico”, come lo è stato in altre fasi dell’epoca moderna.
Se, al contrario, il Mezzogiorno fosse stato centrale, avremmo visto tanti interventi statali per supportare l’innovazione, finché quest’ultima non avesse iniziato a camminare sulle sue proprie cosce, per così dire. Né l’Europa è di alcun aiuto, a tal proposito, in quanto l’Europa è “carolingia”, cioè come centro ha l’Europa centrale e l’asse Francia-Germania (o Germania-Francia, per l’esattezza … ottica carolingia, però à rebours). Nell’epoca di Carlo Magno il Sud era considerato una Marca di frontiera, l’estremo limite della Cristianità, e così è ancor oggi.
Eventi recentissimi non dimostrano che questo, la subalternità dell’Europa meridionale rispetto all’asse centrale europeo, e la follia del Nord Italia, che ha sempre negato – in base alla sua oggettiva e geografica situazione di maggior vicinanza ai mercanti centrali europei – la sua posizione al centro del Mediterraneo: dei paesi europei mediterranei l’Italia è sempre stato il più forte, dunque quello che ha avuto più da perdere, quando l’asse si è “blindato” in Europa centrale.
Né ha senso versare lacrime per il Nord Italia, in relazione al fatto che il panzer tedesco gli “dà in capa”, questo a noi, come meridionali, non deve in alcun modo interessare, sia perché a noi non cambia nulla nella sostanza, cioè nel ruolo marginale, sia in quanto la Germania si è comportata con il Nord Italia esattamente come il Nord Italia si è comportato col Sud. E il Nord Italia vuol solo togliersi da quella posizione, resa sì “periferica” ma non ancora marginale, lasciando il Sud nella sua perenne posizione di “Fantozzi” d’Europa, e cioè marginale. Non vedo, dunque, perché noi si “debba” supportare questa gente … ah già, il “fantozzismo” … 
Chiedo scusa: a furia di “fare i Fantozzi” d’Europa, si diventa i Fantozzi d’Europa …
Dunque che uno stato così negativo, che dura da così tanto tempo, si possa “curare” con “l’innovazione tecnologica”, è chimerico, quando invece tu non hai qui sufficiente innovazione tecnologica, e dunque sei costretto a tagliare i costi soltanto, perché sei marginale: la realtà è l’esatto contrario. Sei marginale, e, dunque = di conseguenza, non hai l’innovazione, non è che non hai innovazione, e, “dunque”, sei marginale.


Ultimo intervento di membri della rivista è stato quello di G. Cerchia, si diceva. L’intervento del professor Cerchia era focalizzato su Gramsci: ne ha ripercorso la posizione “eretica”, rispetto allo stalinismo imperante nella sua – di Gramsci – epoca, e il concetto, davvero fondamentale, di “egemonia culturale”, che Gramsci ebbe modo di elaborare. Ovviamente, precisava Cerchia, non è che il ripercorrere il passato dia, di per sé, delle soluzioni per il presente, ed è anche chiaro come il concetto “gramsciano” d’egemonia non possa più, oggi, esser declinato come quando c’era il partito di massa, e, su questo punto qui, son d’accordissimo.
Altro merito, decisivo, per Cerchia, di Gramsci è stato quello di porre la “questione meridionale” al centro del dibattito politico: non era così all’epoca, nemmeno per i partiti di sinistra. Per esempio, continuava, il Partito Socialista di Turati, Partito dal quale si “seccederà” il Partito Comunista di Gramsci, aveva le sue basi nel centro-nord, mentre, nel Sud, qualsiasi partito di massa novecentesco aveva grossi problemi (ma torniamo qui al fatto della marginalità, anche culturale).
Cerchia terminava dicendo che una sinistra che non ponga la questione meridionale al centro non ha più ragion d’esistere, e, su questo, son d’accordissimo. Ma perché accade questo, ci si dovrebbe chiedere. Accade questo perché la sinistra, ogni sinistra politica, ha rinunciato, definitivamente, a porre al suo centro la tematica della ridistribuzione, preferendole quella dei diritti.
Ora però, se una destra cosiddetta “estrema” non vede questa tematica dei diritti come centrale, preferendole quella “neonazionalistica”, una destra “moderata” può darti i diritti, in forma ragionevole, ovvio, in quanto non esistono dei diritti “in assoluto”: esistono solo diritti concreti secondo la legge che li disciplina. Avendo dunque obliato la tematica della redistribuzione, dunque, la sinistra l’ha dimenticata non solo fra i gruppi sociali, ma pure nella relazione fra le diverse parti del mondo. E non è certo casuale che la relazione scompensata fra il Nord e il Sud Italia sia come l’immagine precisa di quella fra il Nord e il Sud del mondo: il che fa pensare che vi sia un fattore strutturale alla radice di questa differenza. E vi è, infatti, vi è … Direi, allora. questo: che una sinistra che abbia definitivamente abdicato alla tematica della redistribuzione, non ha più ragion d’esistere …


L’intervento di P. Broccoli ripercorreva le riviste storiche della sinistra italiana, come Rinascita, dove le tematiche, che non potevano avere “visibilità” all’interno della “forma partito” del ‘900 – forma che, ricordiamocene, possedeva “barriere” ben solide, ben nette –, si potevano esprimere. Ma questo implica che “un’élite”, aggiungeva Broccoli – con ciò, chiaramente, alludendo alla famosa “avanguardia”, leninianamente parlando –, abbia necessità di una “massa”. Broccoli, così, poneva il dito sull’ “ambiguità” centrale del progetto di questa rivista, che, di fatto, è di “area”, però “vuol essere aperta a tutti”.
Nessun problema nel fare una rivista che guardi a un determinato pubblico, soprattutto quella nutrita parte del “pubblico di sinistra” che oggi non vota più – ricordato esplicitamente dal direttore, all’inizio, come “target” -, ma occorre dirlo apertamente, sottolineava Broccoli. E su questo punto, è difficile non dargli ragione. Questo rivela un’ambiguità e un errore d’analisi alla radice, e questo, ovviamente, non perché sia di area di “sinistra” la rivista (sarebbe lo stesso discorso per la “destra” e il “centro”), ma per una causa molto semplice: la politica oggi si basa su di un orizzonte fisso e chiuso: eh sì, Fukuyama, di fatto, ha avuto ragione; la cosa non mi piace affatto, ma questa è la realtà ed è con questa che occorre “fare i conti”. Nel dialogo, proprio con P. Broccoli, su questo blog, si è visto come oggi vi sia la fede nel “System” della tecnica. La “politica” non ha nulla da dire sui problemi centrali e strutturali del sistema, ancor meno può questionare una tale fede. Non ce la fanno né la filosofia né la religione, figuriamoci la politica, che dipende strettamente, strutturalmente dal “System” stesso … non scherziamo, please
Dunque la prima battaglia è culturale, e non per “l’egemonia”, come voleva Gramsci, ma per aver diritto di cittadinanza (= visibilità, oggi, si noti l’equazione, vera di fatto: la dice lunga sulla “nostra” epoca, più di mille discorsi) in un mondo che schiaccia tutto ed uniforma ogni cosa; soltanto in un secondo momento si può pensare all’espansione e, solamente ancor dopo, eventualmente, all’egemonia. 
Infine, solo in una fase finale si può anche pensare alla forma politica.
In ogni altro caso, se presenti qualcosa che deve poter entrare nel “paesaggio” politico post bellico del mondo attuale, sarai alla mercé delle ferree regole di quest’ultimo mondo – che tu lo voglia o non –, e non avrai spazio reale. Tanto vale, a questo punto, fare una rivista di mera e sola riflessione, senz’alcuna forma di ambiguità, dunque.   
Un altro tema trattato da Broccoli è quello dell’eredità –  tema del quale Caserta è il classico esempio in negativo –; essa non è un “dato” biologico, sottolineava Broccoli, al contrario: essa necessita di una relazione – starei per dire “dialettica” … – che possa essere anche “critica”, con un passato, con una memoria che, tuttavia, non venga negata, com’è avvenuto in Italia troppo spesso, e come a Caserta è avvenuto quasi sempre, continuando ad avvenire ancora ed ancora ed ancora.
In realtà, già la critica implica una ricezione d’eredità non meramente biologica, o meccanica, oppure basata sulla semplice vicinanza territoriale. Insomma, ogni eredità è anche non materiale.
In realtà, ogni eredità è un complesso di cose, che prende forma in un oggetto, o in più oggetti, ma che implica ben di più dell’ oggetto stesso, e nulla di più testimonia l’interruzione dell’eredità se non l’uso dei beni culturali meramente in modo turistico, modo senza dubbio legittimo, ma che non può essere l’unico, senza che si operi una rottura di continuità, e di fatto, cioè il peggio: non si riflette su quanto avviene = si subisce pienamente, completamente la logica alla radice di tali cose.
Ricordiamoci che l’aristocrazia è, appunto, conoscere con esattezza di chi si è eredi[2], questo è, in poche parole. Gli italiani, oggi, son dunque dei diseredati, dei diseredati più ricchi di quelli che vengono sulle navi e i barconi –  i famosi “migranti ‘economici’” -, ma sempre diseredati sono. I “migranti economici” sono altrettanto “diseredati” della loro cultura di provenienza, ma ben più poveri, ed è proprio il fatto che non sono eredi di una cultura che può spiegare perché i loro figli, nati in Europa, siano così affascinati dall’integralismo islamico: perché quest’ultimo consente loro una posticcia “identità a costo zero”; ed è anche questa la ragione per cui le “destre” vincono, solo che – in Europa, non altrove … – il ““buon”” europeo “medio” vuol sì l’ “identità”, però conservando le “conquiste” della modernità tarda, nella e della quale vive. Il messaggio è “tu non perderai nulla, ma ‘manterrai’ l’ ‘identità’”; poi, comunque perde, ma è altro discorso, non serve a nulla dirglielo, è convinto che non perderà nulla, punto. Si orienterà, dunque, verso la destra “moderata” non appena quest’ultima appen’appena “apra” a certe tematiche economiche relative al disagio delle classi medie, o di parti di esse. Quanto al resto della “società”: può perfettamente non esser rappresentato, non è un problema, ce la caveremo con un po’ di “carità” …

Ah dire “identità” e dir “eredità” è dire lo stesso.
Il punto è che “un’identità a costo zero” è ancor peggio che la negazione dell’identità posta in atto nel corso della seconda metà del Novecento in particolare in Occidente, e in Europa in modo ancor più virulento, e del quale la “sinistra” è stata sinistramente alfiere, tra le città Caserta è poi una delle più avanzate nel raggiungimento della piena débacle in tal senso, pur essendo di destra, = conservatrice,  per carattere: il che ci porta a quanto detto delle destre “moderate” qui sopra.
E’ un tutto un gioco di simulazioni, ma dirlo non cambia le cose. Il sistema il problema lo risolve così: il sistema tecnico consente oggi di mantenere una quasi completa “indistinguibilità” tra la simulazione e la cosa simulata. A questo punto, stare con il reale costa, stare con la simulazione ha vantaggi, e allora, ci si può chiedere, “la gente” chissà cosa sceglierà … Sceglie la simulazione, com’è più che ovvio, perché essa è suadente, perché essa è vincente, perché tutto è modellato su realtà costruite in modo tecnologico. Punto. Ed allora ogni “sinistra” è persa, perché rimane ricollegata al concetto di rappresentazione, concetto moderno, ma di una fase passata di modernità (ed ecco un altro tema che sarebbe interessante discutere): in questa fase passata, vi era, da un lato, la cosa “reale” e, dall’altro, vi era la sua “rappresentazione”. Ma oggi questo netto distinguo non ha più senso. Ha perso di significato. Si è svuotato.
La destra, ed ogni “destra” politica, “moderata” come non “moderata”, invece accetta la rappresentazione se e solo se essa sia conforme ad una qualche sua forma concettuale collettiva, tipo “popolo”, o “la nazione”. O “la razza”, ecc. ecc., e qui vi sono le profonde differenze nel campo delle destre (plurale), solidali, però, su questo ed in questo preciso punto. Se, tuttavia, la rappresentazione – per un motivo qualsiasi – non sia conforme a dette “concettualizzazioni collettivizzanti”, allora si va dal cosiddetto “popolo” e gli si dice: Oh! Ma che stai a ffa’??! le destre (plurale), insomma, sempre hanno un tratto “plebiscitario”. La rappresentazione non vale “di per sé”, ma se e solo se la rappresentazione si conformi (“fantozzismo” involontario …, e ricordiamoci che Villaggio proveniva dalla sinistra, quindi ne ha solo anticipato il processo d’interno dissolvimento, fermo restando che, quando prendeva in giro l’atteggiamento “da maestrina” di gran parte delle “sinistre”, oggi “sinistrate”, aveva ragione ma è chiaro che questo sberleffo venisse da chi aveva davvero partecipato a quelle cose) ad una delle molteplici “concettualizzazioni collettivizzanti” delle destre, le quali ultime si distinguono a seconda della scelta di queste “concettualizzazioni collettivizzanti”. Ma è prescritto vi siano.
La “sinistra”, invece, ha introiettato il principio di rappresentazione, il che la rende, in pratica, evanescente nella situazione attuale; ha, quindi, due sole scelte: o ripensare all’insieme delle cose che hanno condotto il mondo sin qui, ed è un cammino difficile, culturale soprattutto, oppure accettare di essere la copia sbiadita della destra detta “moderata”: di fatto, non ha nessun’altra scelta possibile.

Oggi nessuno “rappresenta” più nessun altro, eppure non succede nulla, né “rivoluzioni” né proteste. Le proteste son solo queste: si dice al “System”, Oh! E perché mi fai star male “ammé” (mai “annoi”)??!; oppure, si tratta della protesta dell’1/3 escluso nel passaggio – avvenuto definitivamente, ormai – dalla società dei “due terzi”, alla società presente ed attuale: quella dell’1/3. E, se tu dici ai “rappresentanti”: Ehi, voi ormai rappresentate solo voi stessi!!, i detti “rappresentanti”, “di cui sopra” (in linguaggio burocratico), rispondono: Ah? Sì?, e fanno riferimento a sondaggi, a “tweeterate”, o ad altre realtà simulate; queste ultime realtà simulate, a loro volta, non possono esistere senza non un mezzo tecnico – anche un blog condivide questo fatto -, ma un sistema tecnico complesso che si sostituisce alle “realtà” effettive, le quali ormai chissà cosa sono … Le forme simulate, ancora, prendendo ad interagire fra di loro, in modi non più pienamente controllabili, possono completamente “mangiarsi” il “fenomeno”, e qualsiasi fenomeno. 
In altre parole: i “rappresentati” di oggi prendono le realtà simulate per quelle reali? Sì. E possono farlo perché il sistema tecnico glielo consente, in quanto è giunto al “punto d’ indistinguibilità”, dov’è difficilissimo, per non dire impossibile, distinguere fra realtà “reali” e realtà “simulate” (lo si è visto, su questo blog, in un precedente post a riguardo del “leader”). Ora tuttavia, una politica del genere, potrebbe sopravvivere a fronte di un “incepparsi” del sistema tecnico che la sostiene? Per rispondervi, basta tirar le somme di quanto detto sin ora.
Tornando al problema dell’eredità, centrale oggi, a mio avviso, quel che manca, in ambedue i casi prima considerati – eredità negata ed eredità posticcia, “a costo zero” –, è proprio la cosa essenziale, cioè la relazione, la relazione col passato.
Eredità – o identità, è lo stesso, come s’è detto – senza relazione = 0. Non esiste. Domandina innocente: dove “cavolo” sta, ormai, ‘sta famosa identità? Dov’è andata a finire? Ai poster – quelli appesi ai muri – l’ardua risposta.
La relazione col passato è, necessariamente, anche critica.
Ma non è mai né negazione, né sostituzione di finalità: quest’ultima sostituzione, appunto, è “l’identità a costo zero”. In ambedue i casi la relazione è insussistente.
Quel “bene culturale” non ti parla, non t’interroga, non hai nessuna domanda da porgli.
La storia è, infatti, una domanda posta dal presente al passato in vista del futuro. Giustamente, Broccoli osservava che proiettarsi nel futuro non ha molto senso, essendo ignoto. In realtà, quel che possiamo modificare è solo e soltanto il presente. Il nostro presente ci spinge a porre al passato una domanda alla quale il passato non poteva pensare proprio. Lo stesso farà il futuro rispetto al nostro presente.
Ma comunque, tu puoi agire solo nel presente, mai “in vista” del futuro, al massimo “in vista” del futuro che immagini, che però è ben altra cosa rispetto al futuro com’effettivamente sarà.
Dunque tu agisci sul presente, nel presente, in base ad una domanda che hai posto al passato, domanda che il passato non poteva immaginarsi fosse, anche lontanamente, concepibile o possibile? Sì, questo è il rapporto sano.
E se rinunci a porre domande al passato? Hai allora il nostro presente, un flusso caotico ed insieme indifferente, tutto uguale perché apparentemente sempre diverso, in cui i prodotti storici e le situazioni che hanno determinate origini sono, di fatto, degli assoluti immodificabili. Ma questo perché non dialoghi più col passato.
Questo perché non hai più relazione col passato. Sei, de facto, un diseredato mentale.

Il numero precedente della rivista è stato dedicato alla Chiesa di Francesco, che, ovviamente, fa il suo dovere di Papa, anche se non sempre i Papi sono riusciti a resistere a certe forze che si esercitavano su di essi. Anche qui, è stato detto, da uno dei relatori, dal Papa viene una delle poche critiche al sistema vigente. Il che è, anche, vero.
Giustamente però, a tal proposito, osservava Broccoli che questa è una critica morale, insufficiente per la politica, che ha completamente abdicato ad ogni e qualsiasi critica “sistemica”, e questo fatto non lo può certo cancellare il Papa.
Aggiungerei che manca oggi anche la sola critica culturale del sistema, per tornare al discorso “gramsciano” di qui sopra. Altro che la gramsciana “egemonia” culturale, mi accontenterei di sviluppare certi discorsi di critica strutturale del System, di dare anche a questi discorsi quel minimo di “visibilità”, che, oggi, nel mondo in cui siamo, è la cittadinanza.
Questo è , oggi, l’unico e solo cammino possibile, salvo che la crisi globale – improvvisamente impennandosi come un cavallo imbizzarrito – non fornisca delle occasioni, al momento, impensate 




Approfondimento 1.
Rompere l’accerchiamento, il ring-pass-not, come si dice in inglese. Finché si rimane all’interno del “cerchio fatato” come quello che – si dice – possa richiudere uno yezide[3], e che Gurdjieff stesso spiegava come una “suggestione post ipnotica”, non vi è alcuna via d’uscita. Ora però, si “rompe” quel circolo per una decisione[4], non per un “sapere”, che è insufficiente.



Approfondimento 2.
Come si è detto, fino alla “Prima parte dei tempi moderni” il Sud Italia manteneva un suo ruolo importante; ed è forse un caso che il suo punto culminante è stata l’epoca delle Crociate? In quanto qui passava una parte importante del traffico per la Terra Santa? In ambedue i casi, non trattasi di caso. Sulle Crociate, un recente libro è interessante, libro da segnalarsi:

C. Tyerman, Le guerre di Dio. Nuova storia delle crociate, Einaudi editore, Torino 2012, libro di ben 1082 pagine.

Tra l’altro, la relazione – complessa e tutt’altro che “lineare” – tra le religioni e la guerra, meriterebbe un’attenzione maggiore. Può essere interessante segnalare questo testo:

P. Harrison, Le fortezze di Dio. Castelli. Monasteri, templi: quando le religioni si preparano alla guerra, Mondadori Editore Oscar storia, Milano 2006; sulle Crociate, ivi, pp. 65-109; sull’Iran, la Siria e cioè Hasàn ibn Sabbah, ‘Alamùt e gli Assassini, ivi, pp. 381-398; sulla regione himalayana, e dunque anche il Tibet, ivi, pp. 399-458.





Ps. Su G. Bruno, bisogna chiarir bene che quest’ultimo ben poco ha a che spartire con la cosiddetta “rivoluzione scientifica”, come han dimostrati gli studi di F. Yates, ripresi da vari autori. Dunque il paragone di Bruno con l’astronomia c’entra davvero poco. Chiaro che, su questi temi, si è sviluppata polemica, e non è certo il caso di aprire un altro “fronte” su ed in questo blog. Ma occorreva precisarlo apertis verbis.
La “magia” – la cosiddetta “magia rinascimentale” –  fu lungamente, largamente studiata da Bruno, il quale, semplificando, non aveva niente a che vedere con Galilei[5].

Andrea A. Ianniello






[1] Cf. A. Pagden, Signori del mondo. Ideologie dell’Impero in Spagna, Gran Bretagna e Francia, Il Giornale – Biblioteca Storica, Casa Editrice Il Mulino, Bologna 2005; insomma, ciò di cui sentono nostalgia molti in certe nazioni d’Europa – non certo l’Italia, che non ha mai partecipato ideologicamente a tali cose, ma il cui Nord è stato tra i beneficiati dell’espansione europea, per lo meno in parte, mentre il Sud ne veniva lasciato in posizione sempre più laterale, fino all’attuale marginalità come vocazione e come costume mentale -.
Nella presentazione qualcuno ha detto che le proiezioni sul futuro le fanno solo le multinazionali o i think tank statunitensi, spesso ricollegabili a prestigiose istituzioni, anche private: è vero. A tal proposito, cf. T. K. Hopkins – T. Wallerstein, L’era della transizione. Le traiettorie del sistema-mondo 1945-2015, Asterios Editore, Trieste 1997, vent’anni fa …, e già si prevedeva la crisi del sistema-mondo globale, nato con l’apertura delle rotte transoceaniche con la metà del XVI sec., con data 2000, e che sarebbe durata sino al 2025. Nella parte finale si proponevano delle possibili vie d’uscita, si dipingevano dei quadri generali su quali sarebbero potuti essere gli esiti della “Grande Crisi”, iniziata, in pratica, nella storia, con il 2001 e i noti eventi. Si rileva questo: Hopkins e Wallerstein parlavano, vent’anni fa, di crisi dell’ intero sistema-mondo, quello nato con la metà del XVI sec. In altro linguaggio, possiamo dire che si parla della “Crisi del mondo moderno” (Guénon), e della fine della modernità tout court. Stiamo parlando di questo, di qualcosa di quest’amplitudine: altro che un po’ d’ “innovazione”!! La “scala di dieci” dell’evento in atto è tale che piccole soluzioni non fanno che “solleticare il rinoceronte”.
Non solo, ma, tanto per sottolineare come stiamo trattando cose che hanno radici profonde nel passato, si può far riferimento ad una vecchia discussione fra Jünger e Schmitt: cf: C. Schmitt, La contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente e la sua struttura storica, in E. Jünger – C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, Il Mulino, Bologna 1987 (trent’anni fa!!), pp. 133-167. In esso, Schmitt interpretava l’espansione dell’Occidente nel mondo come una risposta concreta ad un “appello della storia”, risposta valida una volta sola …, e cioè l’apertura delle rotte transoceaniche. Vide giusto anche a riguardo della Rivoluzione russa (1917, cent’anni fa!!), e cioè che essa non fu la “realizzazione” storica di un’ideologia, ma mettere in grado il vecchio Impero russo di rispondere ad una guerra fatta con mezzi tecnologici europei, non diversamente da ciò che fu il “nuovo corso” (isshin) del Giappone, il “Rinnovamento ‘Meijì’” (1866-1869). In Russia la cosa è avvenuta con un massimo di spargimento di sangue e d’inutili violenze, ma così è stato: quelle le vere ragioni della Rivoluzione russa. Però veniamo alle interessanti conclusioni: “Ma la nostra interpretazione [l’espansione dell’Occidente come risposta concreta all’appello della storia che era quello dell’apertura degli oceani, nota mia] solleva immediatamente una nuova domanda, e con la domanda anche un nuovo rischio [ogni appello della storia, per Schmitt, implica un rischio; nota mia]. Ci si domanda, infatti, quale sia oggi l’ attuale appello della storia. Sicuramente, non è più identico a quello dell’epoca in cui gli oceani si spalancarono. Di conseguenza, a quest’appello odierno non si può più dare la risposta che venne data a quel tempo. Neppure servono qui le ulteriori prosecuzioni di questa risposta, né le disperate, ulteriori spinte verso il cosmo di una tecnica irresistibile, che hanno soltanto il significato di fare dell’astro da noi abitato, la Terra, una nave spaziale. Sfortunatamente, è anche troppo naturale che gli uomini reagiscano a questo nuovo appello con la vecchia risposta [e così è stato], dato che si è dimostrata esatta e vincente in un’epoca precedente. Ed è questo il pericolo: ritenendo di essere storici [ed anche quando la storia subisca un’eclisse …, nota mia] e attenendosi a ciò che è stato vero in passato [qui basta la forza d’inerzia oppure se la civiltà ha una “crisi di successo” che uccide ogni altra possibilità, come poi è successo effettivamente; nota mia], gli uomini dimenticano che una verità storica è vera una volta sola. Vogliono ignorare che, visto dalla parte degli uomini, un nuovo appello della storia può essere soltanto un pre-comando e per lo più addirittura un pre-comando cieco. Così diventa antistorico proprio questo attenersi alla vecchia risposta, e perciò è anche troppo naturale che chi in un’epoca precedente è risultato vincente più facilmente di altri non sappia rispondere al nuovo appello della storia. Come potrebbe infatti comprendere che anche la sua vittoria è stata vera una volta sola? E chi sarebbe in grado d’istruirlo in proposito?”, ivi, p. 166, corsivi miei. In tanti anni, nessuno ha risposto, né ci son risposte, solo il disperato, disperante tentativo di proseguire senza fine nell’ unica direzione rimasta, il che distrugge il mondo inevitabilmente. Segno che Schmitt aveva ragione è proprio che l’avventura nello spazio è sempre scesa d’interesse, ogni tanto tentandosi di riprenderla, ma non risolve nulla. Secondo Schmitt l’ “appello della storia” è quello di ordinare il mondo, ma qui si è verificato un fallimento totale: il mondo dato in pasto alle forze della “globalizzazione”, con quelle “nazionali” in piena recessione dopo essersi accordate con le forze globalizzanti, non dimentichiamocene mai, ridotte in un ruolo subalterno. Ora, il punto è che tu non puoi riordinare il mondo prima che sia definitivamente crollato quell’ordine che ha tentato di ordinare il mondo, però fallendo. Ed è chiarissimo – i fatti lo dimostrano – che tali forze non è che abbiano abdicato o stiano abdicando senza resistere, non solo: ma delle altre forze, contenute dentro il bozzolo della forze della “globalizzazione”, stan tentando di proporsi come “ordinatrici”, e lo faranno sempre più. Tuttavia anch’esse Falliranno. Ecco dei temi decisivi di cui discutere, per esempio.

[2] Cf. Montesano Gassman “Il Conte Tacchia” (1982) - Principe Terenzi “Io So’ ‘Prius’” –
https://www.youtube.com/watch?v=wdqQ13y77oM. Seppur in forma “popolare”, pure qui viene spiegato chiaramente che cos’è l’ “aristocrazia” …  

[3] Cf. G. I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, Adelphi Edizioni, Milano 1977, pp. 88-101. Diverso è l’anello attorno alla testa, a mo’ di corona, che Kuan-yin, “laBodhisattva della Compassione Universale che “contempla il suono” del mondo, diede allo Scimmiotto, per non fargli più commettere atti che portavano trambusto all’Armonia cosmica, cf. Sun Tzu, L’Arte della guerra, Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma 1990, Introduzione di T. Cleary, p. 22 e sgg.
Sugli Yezidì, cf. G. Russell, Regni dimenticati. Viaggio nelle religioni minacciate del Medio Oriente, Adelphi Edizioni, Milano 206, pp. 69-108, un resoconto molto interessante, ed anche molto recente, perché riflette la situazione del 2014, quando “Da’esh” era in fase di emersione, il libro è uscito infatti nel 2015 in inglese.
Sugli Yezidì, qualche link in un vecchio post, con un link un po’ datato (viaggio del 1879), il libro di Russell è, invece, molto recente, come detto: cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/03/es-drower-peacock-angel-1879-link.html. 

[4] Come dissi, nel febbraio del 2009, ormai son otto anni fa …!!, ricordando il Manifesto futurista, cf. A. A. Ianniello, SulManifestodel Futurismo, in AA.VV., Sulle orme del futurismo, Giuseppe Vozza Editore, Caserta-Casolla, 11 giugno 2009 nel 95° anno del Manifesto dell’architettura futurista, pp. 17-21: un cammino si cambia non già perché si discute di cambiarlo, ma per una decisione, che segna una rottura di continuità; tra l’altro, lo stesso Marinetti decise di “passare il guado” in seguito ad un incidente di macchina, dal quale uscì illeso, ma che lo indusse a riflettere profondamente. La copertina di Sulle orme del futurismo è su questo blog, al post (ultima immagine in basso):
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/09/copertine-di-varia-evola-dada.html. E, finché tale decisione non sarà presa, si può vagare in tondo senza fine. Allo stesso modo, se una rivista non fa “il salto” – natura non facit saltus tamen homines facere possunt -, se non passa il guado, non si vien fuori dal “cerchio” fatato attorno alla testa ed alla mentalità. Per far questo, bisogna che ci si renda conto che certi percorsi si son ormai esauriti. Ci vogliono altri sentieri.
Tra l’altro, Giordane narra di un famoso episodio, nella lunga Migrazione dei Goti verso l’ovest: quando crolla il ponte ed impedisce ai Goti stessi di tornare indietro, cf. Jordanes, Storia dei Goti, TEA Editori Associati, Milano 1991, p. 13. Tra l’altro, sulle Amazzoni, cf. ivi, p. 27; sul famoso passo della sepoltura del re visigoto Alarico, quello del casso di Roma del 410, in Calabria deviando il fiume Busento, cf. ivi, p. 73. Ed anche: “A tale rinomanza salirono pertanto i Geti [affini ai Goti, ma non lo stesso] che se ne fece discendere Marte, il dio della guerra, nelle invenzioni dei poeti. […] Per secoli, i Goti resero a questa divinità un culto sanguinoso. Persuasi infatti che nulla poteva esser più gradito all’ arbitro delle battaglie [è uno dei nomi di Odino nei miti norreni, ed anche del Dio cristiano nel Beowulf; nota mia] dello spargimento di sangue [gradito anche al Dio dell’Antico Testamento, ricordiamocene, solo che quest’ultimo opera una “sostituzione” dell’agnello al ragazzo, sacrifico d’Isacco, e, poi, di Cristo per l’umanità intera = siamo in presenza di strati molto “arcaici” e profondi della religiosità; nota mia], gli sacrificavano i prigionieri [come continuarono a fare gli Aztechi, per esempio, ormai al limita dell’età moderna; NB: il cannibalismo, perdurato fino a tempi recentissimi, e, pare, non ancora del tutto estinto, è un altro fenomeno ed ha un altro significato; nota mia]. A lui le primizie del bottino. In suo onore le spoglie agli alberi. E tanto zelo nell’onorarlo veniva anche dal fatto che, invocandone il nome, erano convinti d’invocare il loro padre comune”, ivi, p. 19, corsivi miei. Ricordiamoci che un sacrificio simile testimoniato fin appena dopo l’anno Mille (ca. 1086) ad Uppsala in Scandinavia, secondo Jordanes patria dei Goti-e-Geti, come testimoniò Adamo da Brema. Jordanes (Giordane) è una delle poche fonti su Attila, del quale dice: “Superbo nel procedere, saettando gli occhi ora da una parte ora dall’altra, rivelava l’orgoglio della sua potenza persino nei movimenti del corpo. Amava le battaglie ma era in grado di padroneggiarsi durante l’azione; eccelleva nelle decisioni; si lasciava piegare dalle suppliche, benigno una volta che avesse accordato la sua protezione. Basso di statura, largo di petto, piuttosto grosso di testa, aveva occhi piccoli, barba non fitta, capelli grigi, naso camuso, una carnagione tetra: i segni caratteristici della sua razza. Sebbene già per temperamento presumesse molto di sé, tale attesa gli venne accentuata dalla scoperta della spada di Marte, sempre ritenuta sacra dai re sciti. Ecco come Prisco racconta il fatto: ‘Un pastore, notando come una giovenca del suo gregge che zoppicava e non riuscendogli di trovare la causa di così grave ferita, si diede a seguire attentamente quelle tracce di sangue. Giunto infine sulla spada che la giovenca, pascolando, aveva calcato senz’accorgersene, la raccattò per portarla subito ad Attila. E questi per un dono che lo esaltava nella sua grandezza d’animo, ritenne d’esser destinato a divenire il signore dell’universo e che la spada di Marte ormai gli concedeva la sorte delle battaglie’”, ivi, p. 85, corsivi miei.  
Interessante anche questo passo, dove, parlando sempre degli Unni dopo che riuscirono ad entrare nella “terra scitica”, scriveva Jordanes: “Tutti gli Sciti su cui mettono mano nel primo entrare, li sacrificano alla Vittoria. Il resto, vinto, lo riducono in schiavitù”, ivi, p. 59, corsivi miei. Ma non solo gli Unni veneravano la Vittoria (Nike), anche fra i Greci era molto venerata, e dalla Grecia settentrionale – significativamente vicina alla Tracia – proviene una delle più efficaci rappresentazioni della Vittoria:


Vittoria di Samotracia, tratta da: D. Musti, “Antioco il Grande” in I Protagonisti della Storia Universale, vol. 2 L’età della Grecia, C.E.I., Milano 1966, p. 407, contributo interessante alla vicenda di Antioco il Grande, sul quale pure vi sarebbe di che dire, nonché riflettervi su.
E si è parlato su questo blog più volte di una “decisione Divina” … “Ho detto tutto”, diceva qualcuno …

[5] Non vorrei diffondermi su tal tema, peraltro trattato en passant, nel dialogo con P. Broccoli, un post precedente su questo blog, ma un interessante testo, a tal proposito, è: G. Bruno, De Rerum Principiis, una riforma dellaMagia”, Procaccini, Napoli 1995, un testo pregno di temi di “ascendenza ermetica”, dall’Introduzione di N. Tirannanzi, ivi, p. 11, ed appartiene al gruppo delle “cosiddette ‘opere magiche’” di G. Bruno, quelle meno note, meno studiate, fino
alla loro “riscoperta” propiziata dagli studi della Yates.







 

2 commenti:

  1. Cf. http://namaqua-land.blogspot.it/2017/06/lo-strapotere-del-potere.html.




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  2. Rispondendo ai commenti scritti sotto il post qui sopra citato, cerchiamo di arrivare al “nocciolo” del problema, alla “radice” dello stesso, la frequentazione con Baudrillard m’ha insegnato ch’è necessario esser radicali, nel senso che occorre, appunto, andare alla radice.

    Fermo restando che l’evento “critico”, che pone termine all’attuale “sviluppo ‘à rebours’”, “ognuno può rappresentarselo come vuole” (per dirla con Guénon), **come che sia**, dall’asteroide alla massiccia immigrazione dai paesi più poveri – quel che sta succedendo (“adombrata” da Guénon, in “Crisi del mondo moderno”, come “invasione degli orientali occidentalizzati” perché così, egli Anni Venti del secolo scorso, lo si pensava ed immaginava) -, anche se stesse accadendo, e sta succedendo solo **in piccola** parte, attenzione, rispetto alle potenzialità dell’ “evento” stesso, ANCHE SE stesse accadendo, LO COMPRENDEREBBERO?? Questo è “il” punto vero: l’assenza di consapevolezza. Se un asteroide cadesse sulla Terra, la stragrande maggioranza della popolazione umana, non comprenderebbe cosa starebbe succedendo, non porrebbero alcun legame fra un determinato sviluppo “all’inverso” e la fine di un cammino che non poteva che portare a ciò che sta portando, ripeto: fermo restando che, sulle “modalità”, ognuno se le rappresenti come vuole. Come suol dirsi: O è zuppa, o è pan bagnato.
    A causa di quest’inconsapevolezza, vi è stato – e vi è – il “consensus omnium”, al massimo, ma proprio al massimo – dopo tutto un complicato processo, c’è il tentativo di tornare ad una fase precedente, quella nella quale al centro del System c’erano determinati paesi, non passa mai per l’anticamera di certi cervelli che l’economia-mondo si basa sulla distinzione centro-periferie, e che il paese o i paesi nella posizione centrale può, o possono, variare: quel che non varia è la **reazione** stessa fra parti centrali e parti periferiche, perché trattasi di fatto **strutturale** systemico …




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