Il libro
di P. Di Siena, Nel Pci del Mezzogiorno, Calice Editore, 2013,
contiene degli spunti interessanti e degni di discussione. Al di là
del libro – sul quale si rimanda più nello specifico qui (1)
– si tratta di un agile libretto che riporta al centro dei temi
solo apparentemente lontani, ma invece ancora molto vicini a noi.
Il libro
non è di storiografia, ma neppure di mera “memorialistica”, come
troppo spesso si è fatto, ma presenta dei documenti d’epoca, pochi
e scelti, relativi ai territori d’appartenenza del Di Siena, e cioè
Basilicata e Puglia, preceduti da una interessante Introduzione e da
delle Conclusioni, che sono poi lo sforzo effettivo
dell’ex-dirigente, che ha svolto però per anni anche il lavoro di
giornalista.
Va detto
che si tratta di un primo, piccolo sforzo di “storicizzare”
quelle vicende: quindi non è un libro di mero giornalismo, non è
cronaca, ma neppure è un vero libro di storiografia: come s’è
detto, infatti i suoi sono come “appunti” per una
possibile opera di storiografia. In ogni caso, è un primo
sforzo, dopo tanto, troppo tempo, di andare oltre la mera
memorialistica, che ha impestato questo genere di temi, quasi si
fosse “bloccati” nel fare un minimo di teorizzazione, nel
raccogliere un minimo di conseguenze storiche da quei tempi. Ripeto
però: è solo un primo passo nel ricostruire una vicenda che,
ahinoi, ci riguarda ancor oggi, per le conseguenze, appunto, che ha
avuto. Il libro risente comunque ancora troppo delle tendenze
memorialistiche dominanti su ed in queste vicende. Ribadisco che
sarebbe ben ora di cominciare ad uscir fuori definitivamente dalla
memorialistica, troppo legata alle vicende individuali.
Alcuni
spunti di riflessione. Di Siena parla del “blocco storico” di
gramsciana memoria – “mo’ ce vo’” la parola “memoria” -
condita con l’idea del primato proletario. Vi era una precisa
scelta di campo all’epoca, e l’essere comunista implicava
necessariamente una opzione che facesse riferimento al detto primato.
Ma, continua Di Siena, nel Mezzogiorno lo sviluppo comunista avviene
sostanzialmente nelle campagne: dalle campagne alle città,
stile Cina, piuttosto che Russia. Questo avvenne però con delle
significative eccezioni: Napoli (città), parte della Provincia di
Caserta, Taranto (città sempre). Ma tutti questi interventi, sia
pubblici sia da parte di privati, avvennero sempre sotto “l’ombrello”
della Cassa per il Mezzogiorno. E purtroppo non hanno lasciato quasi
traccia in loco, o molto poca. Questo perché l’investimento
non era vincolato al successivo sviluppo di aziende locali, come
avviene invece in Cina: il che la dice davvero lunga sulle classi
dirigenti, e locali e nazionali. La Provincia di Caserta è dove la
lotta fra componente “agraria” ed “industriale” nel Pci di
allora si fece molto serrata: diciamo che in questa Provincia è
passata la “faglia” di questa relazione dialettica.
Si è
obiettato che, sebbene il Pci dell’epoca fosse molto vicino alle
tematiche della terra, e questo ne è senza dubbio la caratteristica
distintiva, a livello nazionale anche i dirigenti meridionali
comunque seguivano “l’ombrello” dell’ideologia proletaria.
Non v’è alcun dubbio, ma questo generò una sorta di schizofrenia
fra mente e sentire nel Sud. A livello “palpabile” il Pci nel
Mezzogiorno seguì molto ciò che si è convenuto chiamare
“meridionalismo” e non è affatto un caso che, diminuendo la
centralità delle tematiche della terra, diminuì quindi anche il peso specifico delle tematiche meridionali.
Per
riassumere: il Pci come sentire era legato alla terra, come pensare
invece non lo era. Nondimeno, non si capisce la crisi di Napoli o di
Taranto, o della Provincia di Caserta, senza capire la crisi totale
dell’industrialismo nel Sud, sostituito dal nulla.
Si è
anche obiettato che il bacino operaio fosse forte soprattutto a
Napoli città: nessun dubbio, ma tutto ciò rientrava nell’epoca di
Berlinguer, ed era legata, sebbene non certo con quel
“personalismo” che ha impestato la politica italiana da
vent’anni, comunque alla personalità d un leader: scomparso lui,
finito tutto. Questo nell’ambito di una scelta di campo, che fu
quella di far sì che le classi medie divenissero l’oggetto
centrale della strategia elettorale comunista, classi medie legate
alla spesa pubblica nel Sud, e non solo.
Il
fallimento è stato tanto grande quanto il successo nella fase
precedente – il Pci era il più numeroso partito comunista in
Occidente – ed è stato dovuto (a p. 11 del libro di Di Siena)
all’aver rimesso al centro l’individuo ed il processo della
globalizzazione, due eventi, aggiungerei io, totalmente
completamente assolutamente mal analizzati e peggio ancor affrontati
da parte del PCI di allora -; la
ragione è chiara: poiché collidevano con il suo schema operaista e
proletario. Peccato che i maggiori successi del PCI furono dovuti non
certo al pedissequo seguire “lo” schema quanto invece
all’allontanarsene. Questa contraddizione era sì percepita dai
suoi più riflessivi membri ed appartenenti, ma non andò mai
oltre un certo livello, né indusse mai
ad un diverso schema effettivamente teorizzato e pensato come tale.
Fu
invece seguito lo schema dell’emergenza delle classi medie – a
partire dagli anni Ottanta del secolo scorso – in un tentativo che
Di Siena denota come “generoso” e personalmente trovo invece
meglio denotato dal termine “disastroso”; il tanto decantato ‘89
avviene in Italia in un partito già decotto
e scotto: i giochi erano ormai fatti, anzi, strafatti. Infatti l’idea
di base all’epoca era sostituire quel “blocco sociale” (p. 18)
dei contadini al Sud e degli operai al Nord, con le classi medie
della spesa pubblica.
Le
classi medie italiane sono costitutivamente non
interessate
all’innovazione, quanto focalizzate sulle rendite da posizione da
mantenersi “ad libitum”,
per usare una terminologia musicale, tanto cara alla lingua italiana.
Si trattava – e si tratta - di un blocco statico,
con il quale nessun cambiamento è possibile: prova ne sia il secondo
Ventennio, quello berlusconiano, dove, con le fole di cambiamento,
invece le consorterie della spesa pubblica hanno festeggiato forse
l’acme della loro
capacità di condizionamento della vita pubblica in Italia. A questo
si aggiunga la smunta borghesia napoletano-casertana, priva di
progettualità e che si base quasi del tutto sulla spesa pubblica e
che quindi è sempre stata, coerentemente, di centro-destra
tendenzialmente: su queste basi davvero non poteva che darsi quella
subalternità che poi
si è avuta, di fatto, storicamente. Per gli eredi del Pci ci poteva
solo essere la via, che poi si è avuta, dell’essere “cooptati
come subalterni” (ibid.).
Dunque
ricostruire la “genealogia” degli eventi è senza dubbio
importante, ma se, e solo se,
si sia prima o almeno contemporaneamente ben riflettuto sulle lezioni
del secondo Ventennio. Lo stesso Di Siena, a proposito dell’oggi,
parla di “crisi organica” (p. 19). Verissimo, ma qui vi è una
crisi globale che in Italia si declina con delle aggravanti locali.
Tali aggravanti son dovute anche
alle scelte errate di quegli anni, ovvero aver sempre preferito un
determinato quadro culturale già in crisi, scelta che si è rivelata
– com’era prevedibile
– sulla lunga distanza un vero disastro, ed alla facile via della
subalternità di fatto che vi è seguita, “via” che si potrebbe
chiamare vicolo cieco, con più esattezza. La subalternità della
sinistra italiana si è saldata storicamente con la subalternità
mentale
fortissimamente presente nel Mezzogiorno in quanto tale,
e cioè la rocciosa convinzione profonda
che siamo “figli di un dio minore”, per dirla con il noto titolo
di un film.
Per
tirare le somme, il Pci – sotto il manto dell’ideologia operaia,
e questo è senza dubbio storicamente assai particolare – ha
costituito, di fatto e al di là
di quanto si dicesse o di quanto effettivamente
contasse quest’orientamento a livello nazionale (pochissimo),
il riemergere ed il prolungarsi storico del meridionalismo storico. E
l’eclissi del Pci meridionale non casualmente
ha coinciso con la totale
eclissi delle tematiche ricollegabili al Meridione. Nemmeno eclissi
anulare, ma totale: il che è stato, ed è, gravissimo.
Per
finire: in Appendice,
nella Relazione del 1986 al 3° Congresso del Pci della Basilicata,
da Di Siena citata, si sottolinea il “respiro corto” (p. 33) del
processo d’industrializzazione, cosa ben nota sulla pelle della
gente nelle poche zone in cui, nel Sud, esso è avvenuto, con tutte
le subalternità del caso, ad esempio la Provincia di Caserta o
Napoli città, ed ora Taranto città. Così l’industrialismo ha
lasciato qui solo macerie.
La
via era un’altra, ma era impossibile
prenderla allora, perché avrebbe significato il mettere in questione
il modello comunista tout court,
e cioè focalizzarsi sulle tematiche della terra per innovare lì,
ovvero porre al centro le tematiche del benessere, della gestione
ecologica della civiltà, unendovi la natura e le molte emergenze
storiche che hanno la grossa sfortuna di star nel Sud Italia, ovvero
di essere marginali e subalterne per principio, fatte salve certe
cose notissime. Vi tentarono n molti all’epoca, ma la cappa
ideologica impedì. Quella fu la guerra persa dal Sud in
quanto tale. Non in quanto
“comunista”, ma in quanto Mezzogiorno: bisognerebbe interrogarsi
seriamente su questo punto qui.
Molto
più grave, però, che il Pci, dissoltosi e divenuto Ds, o qualche
altra formula elettorale, scegliesse il totale oblio
delle tematiche meridionalistiche: questo va detto a chiare lettere,
perché in quel momento il problema, ben reale prima, del “mantello”
ideologico non sussisteva più. E cioè fu scelta la falsa via del
nuovo “blocco storico” con le classi medie della spesa pubblica
che Pdl e Lega andavano rappresentando, con la Lega che coagulava
attorno a se stessa anche parti molto rilevanti dell’ex elettorato
operaio del Pci nel Nord, per cui i partiti di sinistra sono
diventati sostanzialmente partiti concorrenti ma borghesi, ovvero il
totale tradimento – parola forse troppo forte, usiamone un’altra:
tradimento – di ciò che essi andavano predicando un tempo. E
questo al di là del
“continuismo” delle classi dirigenti: le classi dirigenti per
principio vogliono perdurare il più possibile. Quindi la continuità
non spiega il voltafaccia e il totale abbandono delle classi
popolari, se tali dir si possono ancora, comunque subalterne, o la
borghesia impoverita dalla crisi: anche questa ultima non può in
alcun modo far riferimento agli eredi del Pci; tutte queste classi
sociali seguiranno il populismo di turno, e criticare questo
populismo servirà a ben poco, perché, passato un populismo, ce ne
sarà un altro.
Gli
eredi del Pci hanno scelto la via facile, della subalternità di
fatto. Forse non potevano fare diversamente o non avevano la lucidità
per fare diversamente: senza dubbio è anche mancato un leader con
una visione ma invece hanno avuto tanti piccoli capi corrente. Ma,
comunque la si veda, dal punto di vista storico, per il Sud sono, e
rimangono centrali, le
tematiche dette sopra: che ne facciamo della nostra terra? Le
tematiche del benessere, della gestione ecologica della civiltà,
unendovi la natura e le molte
emergenze storiche, non costituiscono forse il punto centrale, il
treno della storia perso qualche decennio fa e che, sotto spoglie differenti, e
con fattezze molto diverse,
si sta ripresentando?
(1)
Alcuni spunti critici si trovano nella recensione a questo link: http://ugolini.blogspot.it/2013/07/quel-pci-giraffa-nella-storia-del.html.
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