“Amphitheathrum”
“Gli
imperi nascono. Gli imperi muoiono”
(Il
“Romanzo dei Tre
Regni”)
“Salvum lotum!
Salvum lotum”
(Inscriptiones
latinae selectae
2725)
“L’intera
notte a languire nelle segrete del circo, e le forze ormai allo
stremo. Terrore, persecuzioni, arresti, interrogatori, torture,
profanazioni come preludio. Durante la notte le belve avevano
squassato le sbarre; la loro agitazione e le loro urla s’imprimevano
profondamente negli animi. Ancor più terribile, il vociare della
gente che già alle prime luci del giorno cominciava a riempire
l’anfiteatro. Era un vociare allegro, impaziente di curiosità. Un
contendersi i posti. Rivenduglioli vantavano a pieni polmoni le loro
bevande. Più tardi arrivavano i notabili, i cavalieri e i senatori,
infine il Cesare in persona. Coloro che pensavano e sentivano
altrimenti erano in assoluto soprannumero. Poi si sollevavano le
grate; il pugno d’uomini veniva spinto nell’arena. Il sole
abbacinava. E tuttavia era più debole della luce interiore.
Così
crollano gli imperi, così il mondo si trasforma”
(Ernst
Jünger, Al Muro
del Tempo,
Adelphi 2000, p. 155, corsivo mio).
Questo
passo di Jünger rende bene l’idea di “venire alla luce” in un
Anfiteatro, ma, nello specifico, qui si parla delle “venationes”,
le lotte contro gli animali, alle quali erano condannati i cristiani
dell’epoca, e non solo loro. Si trattava di una pena. Sappiamo che
proprio le “venationes”
di molto sopravvissero1
alla fine dei “Ludi
gladiatorii”,
che avevano un’altra origine, tant’è che ad essi non
potevano partecipare coloro i quali fossero dei rei, considerati o
effettivamente colpevoli: ed i cristiani delle origini erano
considerati malfattori e pericolosi socialmente2.
Come si sa, sebbene l’Anfiteatro capuano – dell’originaria
Capua, che non coincide con l’attuale Santa Maria “Capua Vetere”
(C.V.) – non sia il più grande, di certo a Capua sono nati i “Ludi
gladiatorii”
stessi. Sono di probabile origine etrusca, ed erano considerati come
“sostituti” ad un originario rito sacrificale di spargimento di
sangue umano, per favorire la permanenza del morto negli stati oltre
la vita materiale presente. Il manichino, dipinto di rosso, e la
lotta nell’arena sostituirono
l’effettivo sacrificio umano delle origini. Si sa, poi, di come i
Romani antichi riprovassero i sacrifici umani, che contrastarono
ovunque trovarono, per esempio tra i Celti: pochi si rendono conto
che gli antichi Celti facevano dei sacrifici umani – ad esempio a
determinate Lune o all’ “Angelo caprone” di Mona -, e vi era
pure il culto della testa, tipico dei popoli della steppa3,
che, in Irlanda antica, passò all’uso di fare una polpetta del
cervello del teschio più la calce aggiuntavi. Non solo, ma
ricorderei che i Romani dei tempi repubblicani rimanessero scioccati
dall’uso punico di sacrificare i bambini ai Baal, per quanto gli
ultimi ritrovamenti archeologici facciano capire che a Cartagine
l’uso molto probabilmente era andato recedendo o non era quasi mai
stato dominante. D’altro canto sappiamo che, in casi estremi,
persino il “mos”
degli antichi Romani delle origini poteva piegarsi alla dura esigenza
del sacrificio di sangue.
I
“Ludi
gladiatorii”,
con l’andare del tempo, persero sempre più – ma mai
del tutto! – il loro significato originario, che era religioso, per
accedere ad un uso “politico” in senso stretto. Oggi la politica
è succube dell’economia, quindi si pensa che fare un uso
“politico” di un qualcosa abbia, alla fin fine, una motivazione
di tipo economico. Nulla di più errato per gli Anfiteatri: i Giochi,
nelle loro varie forme, dalle “venationes”
ai “Ludi”
veri e propri, erano pagati interamente
dal maggiorente di turno, che fosse l’Imperatore stesso o un
notabile locale, con lo scopo politico. Scopo della politica è il
consenso.
Non
dunque il denaro, anzi, si spendevano
somme favolose, con il solo scopo del consenso e dell’accrescimento
del prestigio. Si chiamavano “munera”,
donde il termine italiano “remunerazione”, pure “municipio”,
la gestione della cosa pubblica locale...
Ma,
come si è detto, il senso religioso non sparì, si modificò: da un
culto infero a favore dei defunti notabili perché avessero una
“buona sorte” nell’oltretomba, si passò all’ “ideologia
imperiale”, che si basava sull’idea della civiltà che domava la
forza bruta. In tal senso, la vera “novità” degli Anfiteatri era
costituita proprio dalle “venationes”,
cui eran condannati anche i perturbatori dell’ordine costituito,
che simboleggiavano le indomate, confuse,
frustre passioni della natura grezza, che l’ “Ordo”,
simbolizzato dal dominio imperiale, avrebbe non eliminato, ma per lo
meno disciplinato e ridotto all’ordine, appunto.
Non
certo a caso, allora, Ercole era il dio dell’Anfiteatro e della
“venationes”,
Marte invece lo era dei “Ludi”
veri e propri, che, col tempo, divennero una vera e propria
professione, che dava opportunità alle classi inferiori di accedere
all’Ordine dell’Impero.
Come
si sa, è a Capua che Spartaco ebbe la sua educazione alla Scuola
gladiatoria. Vi sorgeva la Scuola forse più importante, e lo stesso
Anfiteatro non aveva le proporzioni “imperiali” che oggi possiamo
in parte vedere e, in parte maggiore, possiamo solo ricostruire. Fu
l’Imperatore Adriano che lo fece modificare, abbellire, ingrandire,
dotandolo di statue, fregi, che un tempo eran tutti dipinti, e talune
parti erano sottolineate da leggere dorature: il tutto doveva essere
uno spettacolo sfolgorante, unico, una vera dimostrazione del potere
imperiale.
In
effetti, compresa la mentalità dell’epoca, non dobbiamo mai
dimenticarci, però, che la merce era il sangue, era lo spettacolo
del sangue e della gloria, perché le due cose nella mentalità
romana antica si ricollegavano. Lo scopo era il consenso,
sangue in cambio del consenso. Sangue che “acquistava”
il consenso. Consenso verso gli uomini, con la magnificenza e
l’accedere a dei Giochi che avevano anche l’indubbio ruolo di
sfogo delle passioni sociali - e che, quindi, le indirizzavano e le
riducevano all’ordine -, e consenso verso le divinità, gli dèi,
i cui simulacri decoravano la struttura, che, dunque, aveva un suo,
sebbene indiretto,
ma indubbio, ruolo sacro.
E
così, ritualmente, ciclicamente, gli uomini seguivano lo spettacolo
del sangue e dell’eroismo, il gioco della morte, da parte di chi vi
accedeva come professione e come guerra, e di chi, semplicemente,
inscenava un’esecuzione esemplare, lasciato alla mercè di quelle
bestie che avevano rifiutato l’Ordine e delle quali bestie lui,
delinquente, criminale, “noxius”
come si diceva con termine tecnico, alla fin fine faceva parte. Era
ridotto al rango di bestia, e con le bestie doveva vedersela, non era
un “Gladiator”
che, sebbene nella parte inferiore dell’Ordine imperiale, tuttavia
era parte di quell’Ordine stesso.
Ma
non dobbiamo mai dimenticare che gli “Amphitheatra”
erano costruiti con sotto tutta una struttura che permetteva ai
Giochi di funzionare come una macchina ben rodata. Per tutti, i
volenti e i nolenti, quando la porta si apriva e da sotto si accedeva
all’immediata luce del giorno, iniziava il Gioco con la morte, la
scossa di adrenalina riportava alla lotta, il tempo scorreva rapido e
mandava i suoi fendenti a chi doveva giocarsi la posta più
importante, la posta di sempre, quella che ognuno si gioca senza
sapere: la vita. Ma, in quel preciso momento, lo sapevi, sapevi che
cosa ti stavi giocando...
Anche
oggi noi viviamo un tempo di estrema
spettacolarizzazione, all’apparenza non così violento, anche se mi
starei attentissimo ad emettere facili giudizi, non
certo
perché noi si possa dimenticare che si trattava di un Gioco
crudele4,
ma perché anche noi accettiamo come “normale” tante cose che il
buon senso direbbe non esser tali, o che genti, e del passato e del
futuro, considererebbero devianti e malate. E le accettiamo di buon
grado, quasi fossero “normali”, quasi fossero la norma,
di sempre, della vita umana, da che tempo fu, quando così non è
affatto, ma invece sono prodotti storici.
Però
pensiamo alla citazione in calce, dove la spettacolarizzazione della
lotta e del sangue per guadagnare il consenso e mantenerlo s’inceppò
su di un osso troppo duro, che in quell’epoca furono i primi
cristiani; questi fecero saltare il meccanismo non per le usuali
argomentazioni che di solito si credono, ma in effetti perché, al
fondo, usarono il meccanismo stesso della spettacolarizzazione contro
se stesso. E pensiamo anche ai nostri tempi di spettacolarizzazione,
se non sia possibile, cioè, usare quei meccanismi contro loro stessi
e farli implodere...
Quindi
è una vicenda che si lascia meditare a lungo, perché...
Così
crollano gli imperi...
Così
il
mondo si trasforma...
Andrea
A. Ianniello
NOTE
1
Tant’è
che “verso la fine del sec. XI Atanasio, duca di Napoli, lo adibì
a fortezza e ne affidò il comando al conte Guaferio. A quell’epoca
veniva comunemente chiamato Berolais, termine sul quale eruditi e
studiosi han versato fiumi d’inchiostro, senza (…) giungere ad
una conclusione soddisfacente” (A. Perconte Licatese, Capua
Antica,
Edizioni Sparaco 1997, p. 102.
2
“Vanno
operate poi significative differenze, all’interno dei giochi, tra
i combattimenti dei gladiatori e quelli dei condannati. A differenza
dei condannati, i gladiatori erano tali per professione.
Indubbiamente appartenevano ad una tra le categorie socialmente più
disprezzabili – il paragone prossimo è con la prostituzione –
ma ricevevano un compenso per la loro prestazione. I condannati
erano designati con il termine tecnico di noxii.
Vi erano i damnati
ad ludum
ed i damnati
ad bestias.
Un’ulteriore distinzione va operata tra coloro che venivano
condannati semplicemente a combattere, per cui veniva offerta loro
una sia pur minima possibilità di scampare alla morte, e coloro a
cui il combattimento nell’arena era inflitto come forma di
esecuzione capitale. Le esecuzioni dei noxii
avvenivano nella pausa di mezzogiorno, dopo le venationes
del mattino e prima dei munera
[così eran chiamati i “Ludi”
gladiatori veri e propri, nota mia] del pomeriggio” (Anna Carfora,
i
cristiani al leone. I martiri cristiani nel contesto mediatico dei
Giochi gladiatorii,
Edizioni Il Pozzo di Giacobbe 2009, p. 37).
3
Ne
vediamo degli esempi anche tra i Longobardi, per esempio la famosa
storia del teschio nel quale Alboino volle far bere la regina
Rosmunda, “Bevi Rosmunda, dal teschio di tuo padre!”; su questo
cfr.: http://it.wikipedia.org/wiki/Rosmunda_%28regina%29
4
Cfr.,
F. Cardini, Quell’antica
festa crudele,
Il Mulino, 2013. “Festa crudele” potremmo dire che la vita un
poco lo è di per sé. Mi ricordo una volta che, guidando la
macchina, dovevo fare una scelta fra due strade, scelsi di svoltare
in una e ne fui subito contento, perché così evitavo un problema
sulla strada. Mi stavo congratulando con me stesso quando mi avvidi
però, appena dopo, con la coda dell’occhio, che l’altra strada,
quella che credevo di aver rifiutato partendo da una mia saggia
decisione, in realtà presentava un cartello di divieto di
transito... In altre parole, non vi sarei mai potuto passare in ogni
caso! Così è la vita, in gran parte si tratta di andare per il
cammino dove sei obbligato dicendo: “Oh! Era proprio ciò che
volevo...”, e questo ci parla del lato costrittivo
della vita, che, quindi, sa esser cruda. Dall’esser cruda
all’esser crudele il passo è breve...
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