mercoledì 20 novembre 2013

“Amphitheathrum” - Brevi Noterelle -

Amphitheathrum
Gli imperi nascono. Gli imperi muoiono”
(Il “Romanzo dei Tre Regni”)
Salvum lotum! Salvum lotum”
(Inscriptiones latinae selectae 2725)
L’intera notte a languire nelle segrete del circo, e le forze ormai allo stremo. Terrore, persecuzioni, arresti, interrogatori, torture, profanazioni come preludio. Durante la notte le belve avevano squassato le sbarre; la loro agitazione e le loro urla s’imprimevano profondamente negli animi. Ancor più terribile, il vociare della gente che già alle prime luci del giorno cominciava a riempire l’anfiteatro. Era un vociare allegro, impaziente di curiosità. Un contendersi i posti. Rivenduglioli vantavano a pieni polmoni le loro bevande. Più tardi arrivavano i notabili, i cavalieri e i senatori, infine il Cesare in persona. Coloro che pensavano e sentivano altrimenti erano in assoluto soprannumero. Poi si sollevavano le grate; il pugno d’uomini veniva spinto nell’arena. Il sole abbacinava. E tuttavia era più debole della luce interiore.
Così crollano gli imperi, così il mondo si trasforma
(Ernst Jünger, Al Muro del Tempo, Adelphi 2000, p. 155, corsivo mio).
Questo passo di Jünger rende bene l’idea di “venire alla luce” in un Anfiteatro, ma, nello specifico, qui si parla delle “venationes”, le lotte contro gli animali, alle quali erano condannati i cristiani dell’epoca, e non solo loro. Si trattava di una pena. Sappiamo che proprio le “venationes” di molto sopravvissero1 alla fine dei “Ludi gladiatorii”, che avevano un’altra origine, tant’è che ad essi non potevano partecipare coloro i quali fossero dei rei, considerati o effettivamente colpevoli: ed i cristiani delle origini erano considerati malfattori e pericolosi socialmente2. Come si sa, sebbene l’Anfiteatro capuano – dell’originaria Capua, che non coincide con l’attuale Santa Maria “Capua Vetere” (C.V.) – non sia il più grande, di certo a Capua sono nati i “Ludi gladiatorii” stessi. Sono di probabile origine etrusca, ed erano considerati come “sostituti” ad un originario rito sacrificale di spargimento di sangue umano, per favorire la permanenza del morto negli stati oltre la vita materiale presente. Il manichino, dipinto di rosso, e la lotta nell’arena sostituirono l’effettivo sacrificio umano delle origini. Si sa, poi, di come i Romani antichi riprovassero i sacrifici umani, che contrastarono ovunque trovarono, per esempio tra i Celti: pochi si rendono conto che gli antichi Celti facevano dei sacrifici umani – ad esempio a determinate Lune o all’ “Angelo caprone” di Mona -, e vi era pure il culto della testa, tipico dei popoli della steppa3, che, in Irlanda antica, passò all’uso di fare una polpetta del cervello del teschio più la calce aggiuntavi. Non solo, ma ricorderei che i Romani dei tempi repubblicani rimanessero scioccati dall’uso punico di sacrificare i bambini ai Baal, per quanto gli ultimi ritrovamenti archeologici facciano capire che a Cartagine l’uso molto probabilmente era andato recedendo o non era quasi mai stato dominante. D’altro canto sappiamo che, in casi estremi, persino il “mos” degli antichi Romani delle origini poteva piegarsi alla dura esigenza del sacrificio di sangue.
I “Ludi gladiatorii”, con l’andare del tempo, persero sempre più – ma mai del tutto! – il loro significato originario, che era religioso, per accedere ad un uso “politico” in senso stretto. Oggi la politica è succube dell’economia, quindi si pensa che fare un uso “politico” di un qualcosa abbia, alla fin fine, una motivazione di tipo economico. Nulla di più errato per gli Anfiteatri: i Giochi, nelle loro varie forme, dalle “venationes” ai “Ludi” veri e propri, erano pagati interamente dal maggiorente di turno, che fosse l’Imperatore stesso o un notabile locale, con lo scopo politico. Scopo della politica è il consenso. Non dunque il denaro, anzi, si spendevano somme favolose, con il solo scopo del consenso e dell’accrescimento del prestigio. Si chiamavano “munera”, donde il termine italiano “remunerazione”, pure “municipio”, la gestione della cosa pubblica locale...
Ma, come si è detto, il senso religioso non sparì, si modificò: da un culto infero a favore dei defunti notabili perché avessero una “buona sorte” nell’oltretomba, si passò all’ “ideologia imperiale”, che si basava sull’idea della civiltà che domava la forza bruta. In tal senso, la vera “novità” degli Anfiteatri era costituita proprio dalle “venationes”, cui eran condannati anche i perturbatori dell’ordine costituito, che simboleggiavano le indomate, confuse, frustre passioni della natura grezza, che l’ “Ordo”, simbolizzato dal dominio imperiale, avrebbe non eliminato, ma per lo meno disciplinato e ridotto all’ordine, appunto.
Non certo a caso, allora, Ercole era il dio dell’Anfiteatro e della “venationes”, Marte invece lo era dei “Ludi” veri e propri, che, col tempo, divennero una vera e propria professione, che dava opportunità alle classi inferiori di accedere all’Ordine dell’Impero.
Come si sa, è a Capua che Spartaco ebbe la sua educazione alla Scuola gladiatoria. Vi sorgeva la Scuola forse più importante, e lo stesso Anfiteatro non aveva le proporzioni “imperiali” che oggi possiamo in parte vedere e, in parte maggiore, possiamo solo ricostruire. Fu l’Imperatore Adriano che lo fece modificare, abbellire, ingrandire, dotandolo di statue, fregi, che un tempo eran tutti dipinti, e talune parti erano sottolineate da leggere dorature: il tutto doveva essere uno spettacolo sfolgorante, unico, una vera dimostrazione del potere imperiale.
In effetti, compresa la mentalità dell’epoca, non dobbiamo mai dimenticarci, però, che la merce era il sangue, era lo spettacolo del sangue e della gloria, perché le due cose nella mentalità romana antica si ricollegavano. Lo scopo era il consenso, sangue in cambio del consenso. Sangue che “acquistava” il consenso. Consenso verso gli uomini, con la magnificenza e l’accedere a dei Giochi che avevano anche l’indubbio ruolo di sfogo delle passioni sociali - e che, quindi, le indirizzavano e le riducevano all’ordine -, e consenso verso le divinità, gli dèi, i cui simulacri decoravano la struttura, che, dunque, aveva un suo, sebbene indiretto, ma indubbio, ruolo sacro.
E così, ritualmente, ciclicamente, gli uomini seguivano lo spettacolo del sangue e dell’eroismo, il gioco della morte, da parte di chi vi accedeva come professione e come guerra, e di chi, semplicemente, inscenava un’esecuzione esemplare, lasciato alla mercè di quelle bestie che avevano rifiutato l’Ordine e delle quali bestie lui, delinquente, criminale, “noxius” come si diceva con termine tecnico, alla fin fine faceva parte. Era ridotto al rango di bestia, e con le bestie doveva vedersela, non era un “Gladiator” che, sebbene nella parte inferiore dell’Ordine imperiale, tuttavia era parte di quell’Ordine stesso.
Ma non dobbiamo mai dimenticare che gli “Amphitheatra” erano costruiti con sotto tutta una struttura che permetteva ai Giochi di funzionare come una macchina ben rodata. Per tutti, i volenti e i nolenti, quando la porta si apriva e da sotto si accedeva all’immediata luce del giorno, iniziava il Gioco con la morte, la scossa di adrenalina riportava alla lotta, il tempo scorreva rapido e mandava i suoi fendenti a chi doveva giocarsi la posta più importante, la posta di sempre, quella che ognuno si gioca senza sapere: la vita. Ma, in quel preciso momento, lo sapevi, sapevi che cosa ti stavi giocando...
Anche oggi noi viviamo un tempo di estrema spettacolarizzazione, all’apparenza non così violento, anche se mi starei attentissimo ad emettere facili giudizi, non certo perché noi si possa dimenticare che si trattava di un Gioco crudele4, ma perché anche noi accettiamo come “normale” tante cose che il buon senso direbbe non esser tali, o che genti, e del passato e del futuro, considererebbero devianti e malate. E le accettiamo di buon grado, quasi fossero “normali”, quasi fossero la norma, di sempre, della vita umana, da che tempo fu, quando così non è affatto, ma invece sono prodotti storici.
Però pensiamo alla citazione in calce, dove la spettacolarizzazione della lotta e del sangue per guadagnare il consenso e mantenerlo s’inceppò su di un osso troppo duro, che in quell’epoca furono i primi cristiani; questi fecero saltare il meccanismo non per le usuali argomentazioni che di solito si credono, ma in effetti perché, al fondo, usarono il meccanismo stesso della spettacolarizzazione contro se stesso. E pensiamo anche ai nostri tempi di spettacolarizzazione, se non sia possibile, cioè, usare quei meccanismi contro loro stessi e farli implodere...
Quindi è una vicenda che si lascia meditare a lungo, perché...
Così crollano gli imperi...
Così il mondo si trasforma...
Andrea A. Ianniello

NOTE
1 Tant’è che “verso la fine del sec. XI Atanasio, duca di Napoli, lo adibì a fortezza e ne affidò il comando al conte Guaferio. A quell’epoca veniva comunemente chiamato Berolais, termine sul quale eruditi e studiosi han versato fiumi d’inchiostro, senza (…) giungere ad una conclusione soddisfacente” (A. Perconte Licatese, Capua Antica, Edizioni Sparaco 1997, p. 102.

2Vanno operate poi significative differenze, all’interno dei giochi, tra i combattimenti dei gladiatori e quelli dei condannati. A differenza dei condannati, i gladiatori erano tali per professione. Indubbiamente appartenevano ad una tra le categorie socialmente più disprezzabili – il paragone prossimo è con la prostituzione – ma ricevevano un compenso per la loro prestazione. I condannati erano designati con il termine tecnico di noxii. Vi erano i damnati ad ludum ed i damnati ad bestias. Un’ulteriore distinzione va operata tra coloro che venivano condannati semplicemente a combattere, per cui veniva offerta loro una sia pur minima possibilità di scampare alla morte, e coloro a cui il combattimento nell’arena era inflitto come forma di esecuzione capitale. Le esecuzioni dei noxii avvenivano nella pausa di mezzogiorno, dopo le venationes del mattino e prima dei munera [così eran chiamati i “Ludi” gladiatori veri e propri, nota mia] del pomeriggio” (Anna Carfora, i cristiani al leone. I martiri cristiani nel contesto mediatico dei Giochi gladiatorii, Edizioni Il Pozzo di Giacobbe 2009, p. 37).

3 Ne vediamo degli esempi anche tra i Longobardi, per esempio la famosa storia del teschio nel quale Alboino volle far bere la regina Rosmunda, “Bevi Rosmunda, dal teschio di tuo padre!”; su questo cfr.: http://it.wikipedia.org/wiki/Rosmunda_%28regina%29

4 Cfr., F. Cardini, Quell’antica festa crudele, Il Mulino, 2013. “Festa crudele” potremmo dire che la vita un poco lo è di per sé. Mi ricordo una volta che, guidando la macchina, dovevo fare una scelta fra due strade, scelsi di svoltare in una e ne fui subito contento, perché così evitavo un problema sulla strada. Mi stavo congratulando con me stesso quando mi avvidi però, appena dopo, con la coda dell’occhio, che l’altra strada, quella che credevo di aver rifiutato partendo da una mia saggia decisione, in realtà presentava un cartello di divieto di transito... In altre parole, non vi sarei mai potuto passare in ogni caso! Così è la vita, in gran parte si tratta di andare per il cammino dove sei obbligato dicendo: “Oh! Era proprio ciò che volevo...”, e questo ci parla del lato costrittivo della vita, che, quindi, sa esser cruda. Dall’esser cruda all’esser crudele il passo è breve...

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