“Non vi è più colpo di forza del potere, semplicemente non vi è più niente né al di qua né al di là (il passaggio dal «molare» al «molecolare» è ancora, in Deleuze, una rivoluzione del desiderio, in Foucault è un’anamorfosi [1] del potere), ma sfugge di colpo a Foucault che il potere […] (anche il potere infinitesimale) […] non è soltanto polverizzato, ma è polverulento, minato da una reversione, travagliato da una reversibilità […] che non possono apparire nel mero processo genealogico [che Foucault ha tanto studiato]. In Foucault si sfiora sempre la determinazione politica in ultima istanza. Domina in lui una forma che si fraziona nei modelli carcerario, militare, di «asilo», disciplinare [ed è questo ciò che hanno in mente i neoeletti seguaci di Foucault e della “dittatura sanitaria”, ma il punto è proprio che il modello militare della prima metà del XX, con echi nel comunismo della seconda metà del XX sec., non funziona più da tempo, è stato superato ed esiste solo in maniera residuale: più che improbabile che venga riesumato oggi: essi confondono il controllo “molecolare” della tecnica col modello “militare” degli stati militaristi fra le due Guerre Mondiali del Novecento: che allucinazione! Che cantonata!]; questa forma non si radica più in rapporti di produzione qualsiasi [pertanto non è “marxismo”] (son questi che al contrario si modellano su di essa [ed ecco perché il marxismo ha cominciato a non funzionar più bene da una certa epoca], sembra piuttosto trovare il proprio processo in se stessa [autoreferenzialità] – e questo è un immenso progresso sull’illusione di fondare il potere su una sostanza di produzione o su una sostanza di desiderio, ma d’altra parte Foucault se smaschera tutte le illusioni finali circa il potere, non ci dice niente circa il simulacro del potere stesso”.
J. Baudrillard, Dimenticare Foucault, Cappelli editori, Bologna 1977, pp. 88-89, corsivi in originale, mie osservazioni fra parentesi quadre.
In relazione al recente articolo di Cacciari, “Il tecnico e i silenzi del Politico”, su “La Stampa” del 31-04-2021, vi sarebbero varie considerazioni da fare.
Commentiamolo in breve.
La tesi di fondo, è giusta: la “rivendicazione” di cosiddetta “identità” si fa per esser presenti dentro una situazione sempre più – strutturalmente – schiacciata sul “tecnico”, come categoria e come operatività concreta. Non vi può esser dubbio su ciò, per cui tale “rivendicazione”, in luogo di essere una manifestazione di forza, lo è di debolezza. Ma, e sia detto en passant, è del tutto inutile andare a dirglielo: non ascoltano, son i figli del tempo, per cui la rivendicazione finale di Cacciari, secondo il quale sarebbe bello vi fosse un Congresso dove si discuta di cosa fare rispetto a tale digitalizzazione sempre più potente, sono inutili, e, se anche si facesse, si risolverebbe in chiacchiere al vento: vincerebbe l’unica cosa che sanno fare, cioè la rivendicazione del “buon uso” della tecnica. Magari fosse questo! Difatti, la tecnica non è un oggetto, come, per fare un esempio, un martello!
Dietro siffatte cose vi è il disconoscimento, la negazione, di tutto l’aspetto “critico” dell’ultima parte del secolo passato: la politica di oggi si basa su tale disconoscimento, tal disconoscimento infatti è il suo fondamento, perché – se la politica avesse accettato quell’apporto critico – avrebbe (la politica moderna) dovuto ammettere che l’essenziale le sfugge, cosa impossibile dal punto di vista del consenso e della giustificazione del suo stesso agire, agire sempre più però – ed inevitabilmente – dominato dalla tecnica che si rende sempre più autonoma, e cioè priva di controllo, e cioè sempre più difficile da indirizzarsi ad un fine qualsiasi. Ma le cose sono andate anche peggio: la politica di oggi non sa proporre fini, di un qualsiasi genere, se non il ritorno al passato, vecchio patto sociale di post fine Seconda Guerra Mondiale.
Giusta pure l’analisi – ma sono cose ben note, poiché siamo in tale situazione non certo da ieri, ma da decenni –, e cioè che la “politica” non sa (ma in realtà, non può) più proporre un fine comune, lo si è detto. Tra l’altro, poi, questo “proporre un fine comune”, in realtà, è l’ essenza stessa del “politico”, sempre inteso come categoria.
Ma siamo in tale situazione perché? Perché il “patto sociale” post Secondo Conflitto Mondiale da degli anni è ormai saltato, e la politica “democratica occidentale” si basava – strutturalmente – su di esso. Il “succo” della situazione attuale sta proprio in ciò: che molte forze vorrebbero “rifare” tal patto sociale, dopo la “scoppola” – di chiacchiere – del “populismo”, e qui son d’accordo con Cacciari: che i democratici si quietino, non c’è chissà che in arrivo, il problema non è il populismo – che è una falsa risposta, e difatti non approda a niente di che –, bensì la rivolta delle classi medie, sempre più escluse dal digitalismo imperante, dalla dittatura digitale, una dittatura del tutto inedita, che non si basa sulla centralità dello stato: tutte le analisi attuali “toppano” perché hanno in mente la forza dello stato, Hitler o Stalin, ma stanno fuori proprio: è vero il contrario, cioè che la dittatura della tecnica nasce dal fallimento di quei progetti d’ “iper” statalismo.
Ma torniamo al perché, non alle circostanze storiche che ne hanno indotto il successo, ne hanno provocato il “far così” presente.
Il patto sociale post Conflitto Mondiale – in realtà un solo Conflitto in due fasi, la “Seconda Guerra dei Trent’Anni” secondo alcuni (G. Galli, ma pure altri) – è saltato grazie a quella stessa tecnica che n’è stato il prodotto più evidente. La tecnica digitalizzante separa, individualizza: il suo modello è l’individuo – dunque non una società, comunque quest’ultima sia caratterizzata – individuo che, con un clic, accede a tutte le informazioni, prima, poi anche ad un gigantesco mercato, virtuale. Quindi non più il mero, passivo accedere a delle “informazioni” (che non sono comunicazione, come ben si sa), ma di più: attivo partecipare ad un mercato, virtuale. Ecco perché la mera riedizione del patto sociale passato è un simulacro di patto sociale. Lo si fa perché oggi tutto tende ad avere una natura “simulacrale”, ch’è parodistica rispetto al patto sacrale. Ecco perché un patto sociale simulato può aver successo, solo che non si può più ragionar di ciò secondo ottiche politiche, questo è il punto vero.
La contraddizione non nasce dal fatto che tutto ciò non possa farsi – al contrario: si fa!, ed è il nostro presente –, ma dal voler mantenere un’ottica passata (la “politica” e la sua capacità decisionale) a fronte d’una situazione radicalmente mutata, soprattutto: mutata in modo irreversibile, cioè che non si può revertere, far rigirare sul suo asse per ricondurla alla sua origine.
Chimerico anche quel che suggerisce Cacciari al termine dell’articolo: che cioè occorre una sorta di “nuovo patto” come si farebbe altrove – io direi: come si tenta di fare altrove, che sia negli USA o nella Cina continentale: cambia la modalità ma non la sostanza del problema –, “nuovo patto” che costruisca un’ “alleanza”, come lui dice, per avere “almeno un’efficacia dialettica” con le potenze tecno-economiche oggi dominanti – Cacciari non si fa, infatti, alcuna illusione (ed ha ragione) sulla “reversibilità” di detta “tendenza fondamentale del nostro tempo” (per dirla con E. Severino), ma chiede solo uno spazio politico, per avere “almeno un’efficacia dialettica”, della politica!, rispetto alle “grandi potenze tecniche, economiche, finanziarie della nostra epoca”, come scrive lui.
Ma siamo sicuri che la tecnica digitale “voglia” – mero uso strumentale del termine: non è un individuo umano – “dialogare”?
Che senso ha il dialogo nel mondo tecnico?
Nessun senso.
Questo pone problemi alla “democrazia”? Stra ovvio, ma ne abbiamo di questi problemi, e non certo da ieri!
Che senso ha la “democrazia” in un mondo dove il “dialogo”, in effetti, non ha un suo statuto specifico, ma è solo episodico e, tutt’al più, strumentale?
La tecnica digitalizzante “spinta” può risolvere i “problemi dell’umanità”? Solo come un simulacro di risoluzione. Il punto che va ben capito, ed è ben lungi dall’esserlo, sta nel fatto che la simulazione di una cosa e la cosa (cosiddetta) “reale”, per la digitalizzazione, ovvero nel mondo iperdigitalizzato, è lo stesso. Tra i due non vi è distinzione se non residuale. Vero è che “Achille non raggiunge mai la tartaruga”, e sussisterà sempre una differenza tra la forma simulata e la realtà cosiddetta “fattuale”, ma la tartaruga simulata è sempre più simile alla tartaruga “vera” …
Dunque la potenza tecnica davvero avrebbe interesse ad offrire – senza contropartite – questa possibilità di – relativissima e solo “a cottimo” – “autonomia del politico”?? Mica è detto … Tale offerta avrebbe senso se e solo se vi sia la possibilità che la digitalizzazione – come accade spesso – comporti degli effetti così “implosivi” nella società da esserci la necessità di “altro”. Ma un tal “altro” potrebbe a sua volta esser offerto – senza contropartite – da parte della politica moderna che, obliando del tutto la lezione del Novecento, si è votata, e legata, mani e piedi alla tecnica? E, si badi bene, che questa precisazione va fatta perché il problema crescerà, solo che la risposta a tal problema – una volta che il populismo si dimostra sempre più quel pallone gonfiato ch’è sempre stato, ed anzi ha “tirato la volata” per l’attuale “restaurazione” in atto – non potrà più essere data dalla politica moderna. E, poi, che tale politica possa rivestire una forma democratica o di altro genere, in relazione al problema esaminato, non fa differenza. Questo perché trattasi di problema strutturale, radicale, afferente alla struttura del palazzo, all’armatura sulla quale poi si poggiano le forme, che possono essere anche assai diverse: parliamo di fondamenta, infatti, qui.
Quelli che ricercano una loro – sempre relativissima – “efficacia dialettica” (per dirla con Cacciari) credono di averla, la realtà è che non ce l’hanno.
La tecnica non ha proprio alcun fine salvo il fine di continua sua espansione senza fine, il fine di realizzare concretamente fini, senza fine. La natura dei fini stessi non è un problema tecnico, né ora né mai. Un vaccino o una bomba atomica, per la tecnica è lo stesso, esattamente. Sei tu che dici che il primo è “per il bene dell’umanità” e l’altro per il suo male: questo alla potenza tecnica non interessa minimamente. Chiaro che tale potenza però abbia la necessità dello stato, della mano pubblica (come la vicenda recentissima dei vaccini anti Covid oggi sta qui a dimostrare “al di là di ogni possibile dubbio”), ma ciò non significa che tu signoreggi la tecnica! Né che il fine – che tu dici “buono” – sia strutturalmente inserito nella tecnica come un suo fine. Non è così.
In una parola, la tecnica è un parassita che necessita della società per replicarsi, ma che distrugge (la società bersaglio) pian piano, perché ne devia le forze a suo favore, cosa inevitabile peraltro. E cioè, la tecnica non è un oggetto – di cui si può fare “buon uso” o, al contrario, non farne, come un coltello, una siringa, un’automobile – ma è un sistema, che tende ad autonomizzarsi come un virus.
Vi sono i virus informatici? Sì.
Essi hanno come modello i virus biologici? Sì. Allo stesso modo funziona la tecnica.
E la politica moderna non è un vaccino per tale virus.
Quando si leggono queste cose, di solito ci si sente sempre obiettare: “Ma, allora, non si può fare niente??”. “Laggente” sempre chiede “cosa fare”, come se fare fosse facile! (Chiaro: si parla qui d’un fare davvero efficace, non un simulacro di “fare” …).
La situazione di oggi plasticamente denota questo: ci sta un sol parametro dove sia avvenuta un’inversione di correnti di fondo? Neanche uno! Quel che vediamo è un peggioramento – a vista d’occhio, in un solo anno e mezzo! - di ogni parametro, un processo implosivo sociale continuo e crescente. Questa è la realtà. E la politica moderna non può farci nulla. Quel che puoi fare non è certo pretendere di entrare in un “agone” tutt’altro che agonistico e con regole ferree, ancorché non evidenti, ma devi cominciare molto lontano, dal cambiamento culturale a monte. Non puoi subito cominciare con la ricerca del consenso (la “politica”, per l’appunto) senza mai aggredire i pilastri fondamenti di una situazione che ti ho condotto qui, all’impotenza de facto. Se non fai così, qualsiasi ricerca del consenso “is futile”, direbbero gli inglesi …
Andrea A. Ianniello
[1] Cf.
https://treccani.it/vocabolario/anamorfosi/,
nel secondo significato, dunque: illusione ottica, molto usata in arte soprattutto nella stagione barocca, ma non solo.
Come ho detto altrove, cf.
RispondiEliminahttps://associazione-federicoii.blogspot.com/2019/12/cose-di-piccolo-cabotaggio-1-della.html,
speriamo che, con questo ed eventualmente il prox. Post, possasi alfin venire a cose **solo** di “piccolo cabotaggio” – come amo dire per i-scherzo. Com’era poi, peraltro, mia intenzione alla fine di due anni fa, sennonché, la pandemia – “pan de nostra”, mica è solo mia! … – mi ha costretto a rivedere tale decisione.
Il vulcano dovrebbe ormai essere a fine della fase detta “eruttiva” per entrare in fase di riposo si sera possasi – e lasciar solo fenomeni vari di vulcanesimo, ma indebolito …
Chi avrà quindi avuto “orecchie per intendere”, avrà inteso, mentre chi non ne ha mai ne avrà, pertanto è del tutto inutile cercare di cambiarlo: fatica di Sysipho, come suol dirsi.
Il problema **radicale** della politica di oggi è che non ha finalità, più che la modalità di funzionamento la sua crisi sostanziale deriva dalla perdita di finalità strutturali che non siano ancillari alla potenza della tecnica: quest’ultima, poi, controlla indirettamente “l’economia autoreferenziale”, cioè il capitalismo. La politica di oggi si limita solo a chiedere la sua “autonomia” – l’ “autonomia del politico” famosa – e la chiede alla potenza della tecnica, che non ha nessun’altra finalità se non la sua indefinita espansione, l’indefinita espansione della sua capacità di realizzare concretamente fini, fini di un qualunque tipo. Alla tecnica è, dunque, del tutto estraneo il “fine politico”, quello “collettivo” invocato da Cacciari nell’articolo qui sopra commentato.
RispondiEliminaScopo della finalità politica è il mantenimento della coesione sociale, ma la tecnica, di cui pure la politica necessita, oggi agisce in seno individualizzante, separativo, frammentante. Passata da molto tempo è l’epoca della tecnica della fabbrica, che univa larghe masse: quelle che sussistono sono state divise secondo contratti e bisogni, per tacere l’enorme “esercito di riserva” marxiano, realizzatisi proprio in seguito al fallimento di Marx, ulteriore paradosso di una situazione intricata.
RispondiEliminaMoltissimo visualizzato questo post.
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