Ci sia, comunque, consentito di terminare con Apollo, in particolare l’ Apollo di Veio (A P L V V E I I S).
“Gli etruschi non furono gli ultimi epigoni di una civiltà nelle sue crepuscolari apparenze come si son voluti fare apparire sotto la suggestione di giudizi malevoli e di notizie fantasiose trasmesse da storici incapaci di comprenderli […]. Nonostante i segni lontani di un pro cesso degenerativo in atto nel modo di vivere e di pensare degli etruschi, nonostante gli aspetti tellurici […] con le sue madri cosmiche intronate col figlio in grembo [typo le Matres matutae, ma qui si è già visto un limite di Lensi Orlandi in una nota precedente; nota mia], nonostante certi atteggiamenti indiscutibilmente dionisiaci […], non ci è dato di riscontrare […] un’affermazione di un dominio naturalistico e materiale […].
Mai ci è dato di scoprire, sia pure ridotto, della nostra automatica epoca […] democraticamente antiaristocratica, in affannosa ricerca di un godimento sempre più facile [chissà cos’avrebbe detto a paragone di quel che sarebbe successo dopo gli anni Sessanta e, ancor più, dopo la prima parte dei Novanta!!, nota mia] espresso nell’idolatria delle folle pronte al sacrificio con uno slancio privo del tutto di ogni contenuto trascendente e al tempo stesso infoiate davanti all’attrice procace e provocante, allo sportivo del giorno, al momentaneo idolo politico. E neppure ci è dato scoprire un qualsiasi atteggiamento della nostra epoca intellettualistica, estetizzante e astrattizzante dove l’esasperazione sessuale è presente in ogni momento con un’intensità sconosciuta alle forme più ossessive della decadenza asiatica. L’ideale supremo della civiltà etrusca si espresse costantemente in un mondo uranico di potenze immutabili e prive di nascita in opposizione a tutto ciò che rappresenta il mondo inferiore e contingente di coloro che nascono, si trasformano e muoiono. […]
Si affermò nella insistente visione delle vittorie di Ercole, di Perseo, di Teseo […]. Davanti a quest’ideali l’etrusco che ignorò peccato e pentimento, restò in piedi memore della sua augusta origine divina. Fu serio perché consapevole e non, come si vuol far credere, […] crepuscolare spirito perduto in un labirinto di stravaganze. In piedi e senza timore fissò negli occhi il suo rosso Apollo impetuoso e gagliardo che nella sala cristallina del museo scintillante, misterioso e impenetrabile seguita tuttora a sorridere” (1).
Andrea A. Ianniello
(1)
G. Lensi Orlandi, Il segreto degli Etruschi, Gruppo Editoriale Brancato, Catania 2012, pp. 188-189, corsivi miei. Apollo è ricordato come colui che “dà la morte a distanza” da G. Colli. Ed ecco quel che Colli scriveva, sempre al riguardo del “sorriso”: “Questi e altri discorsi sono pure suggestioni prive di vigore originario, si avvalgono di rappresentazioni fittizie, interpolate, ricostruite; quando si scoprano […] espressioni preservate senza mediazioni astratte – come avviene per alcune figure e testimonianze sorte in quel tempo ma resistenti al tempo nella loro natura espressiva – la possibilità di recuperare quella vita si approfondisce in modo subitaneo. In questi testimoni si focalizzano e si rappresentano tutti i faticosi sussidi indiretti; essi sono uno scorcio illuminante, una gravida abbreviazione di quanto il discorso storico va intessendo fiaccamente, poiché forniscono ‘la piccola indicazione’, direbbe Platone, l’aiuto a chi possiede l’attitudine per compiere il gran salto all’indietro. Tal è il caso per le figure della scultura in un breve periodo, pochi decenni tra il sesto e il quinto secolo:non ci si muove qui tuttavia su un terreno dimostrativo, piuttosto su un piano evocativo. Questi kùroi sono raffigurazioni di coloro cui si rivolgevano le parole dei sapienti. Qui soltanto è in nostro possesso una vibrazione primitiva. Il senso di quelle parole doveva esser tale da risultare comprensibile agli uomini così raffigurati […]. Certo, non era destinato a noi! E se commentare queste figure significa stemperarle, sarà lecito tuttavia accennare alla risonanza fisiologia che la loro vista opera su di noi anzitutto un brivido di meraviglia […]. I grandi occhi dorici aperti – vuoti per noi, quasi una Medusa che impietrisca – son aspri ance nei volti delle kòrai; i disegno delle orbite è elaborato e scarno a un tempo […]. Qualcosa ci manca negli occhi, ma la bocca è preservata, e dallo sguardo che atterrisca salva il sorriso,dove si manifesta una philanthropia ingannevole, poiché il sorriso è il promo segno fisico della ragione simulatrice, della sua malizia e ironia. Appena percettibile è la contrazione della bocca, piegata in alto agli angoli, così che le labbra lievemente si schiudono. E’ questo l’elemento dolce della simmetria, ma ambiguo ancora nella serenità, nel dominio giocondo sull’apparenza, nel fiore della bellezza, che dissimula una minaccia”, G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi Editore, Milano 1968, ivi, pp. 175-176, corsivi in originale. Ecco, quello dell’Apollo di Veio è questo sorriso ricordato da Colli, sorriso che “dissimula una minaccia”, in quanto è il segno espressivo esteriore della “ragione simulatrice”. Quanto ad Apollo (e Dioniso): “Oggi è possibile ascoltare le parole di Nietzsche sui Greci con un sentimento analogo – sia pure più tenue e sfumato – a quello con cui egli ascoltava sullo stesso tema Winckelmann e Goethe, ossia con un assenso ce approfondito conduce a un dissenso. Dalla ‘serenità greca’ Nietzsche risalì indietro a Dioniso e alla tragedia, dove ritrovò la sua costellazione culminante [quel che dicesi Medium Coeli]: ora ci si può avventurare più indietro ancora – e le scoperte archeologiche hanno arricchito lo sguardo – alla ricerca di un’altra ‘serenità greca’. L’abisso dionisiaco, quel sommovimento e turbamento supremo, fu padroneggiato da Apollo prima e meglio che nella tragedia. Senza contare che talora Dioniso indica il pullulare interiore e l’effusione democratica sorti dalla rottura di un precedente equilibrio apollineo. Nietzsche è penetrato nelle anime di quegli uomini, ma non ne ha visto i corpi […]. Che il sorriso degli Egineti si stato da lui interpretato come un artificio di scultori primitivi dimostra che gli mancarono gli occhi per la natura saettatrice di Apollo – per il logos [corsivo in originale]”, ivi, pp. 189-190, corsivi miei. Ma quando Apollo sia divenuto solo quel “dio del sogno” e della “rappresentazione” che è, secondo il Nietzsche de La nascita della tragedia, e tuttavia mantiene – e diffonde – il suo strumento di distruzione indiretta – la sua “ragione simulatrice”? Che cosa succede, allora? Più o meno il mondo che abbiamo sotto gli occhi …
La “Grande Menzogna”, per Colli, è la scrittura, che occulta il lato “vivente” dell’espressione del logos, ma non è così, qui si è sbagliato, ha preso un mero effetto per la causa; invece, che la “Grande Menzogna” sia il sostenere che il logos è costruttivo, quando invece, come l’arco d’Apollo, è distruttivo, però a distanza, questo è verissimo, su questo ha senz’altro avuto ragione. E, dopo questa prima, grande menzogna, eccone sorgere un’altra, la “Seconda Menzogna”, ovvero la scienza, che piega il logos all’ “utile”, “Contemporaneo a Descartes è il deciso sopravvento della scienza sulla filosofia, nel senso che la prima non è più covata e allevata dalla seconda come una creatura prediletta, […] e bruscamente, con maniere volgari, congeda la nutrice. A quest’emancipazione si accompagna la seconda menzogna, dopo quella platonica: la ragione non si accontenta di essere ‘costruttiva’, ma vuol diventare anche ‘utile’. Ma utile è ciò che favorisce il principium individuationis e i suoi fini […]. Nella struttura dell’apparenza […] i fini degli individui sono i risultati più illusori, più aberranti dell’immediatezza; soccorre qui l’oracolo eracliteo: ‘sebbene il logos sia comune e concatenato, i più vivono come se ciascuno avesse un proprio mondo di pensiero’. Subordinata al punto di vista dell’individuo, la conoscenza diventa così uno strumento dell’azione [momento e cambiamento decisivi, nota mia; corsivi miei]: in questa crisi, tragica e decisiva, per i secoli seguenti, il filosofo Descartes impallidisce, trascolora sino ad annullarsi nello scienziato, e in generale la filosofia si ritira ufficialmente dal giuoco, cedendo il banco [corsivi miei]. Il vincitore è privo di venerazione [come tutti i parvenu sempre sono; nota mia], e da allora il titolo di filosofo designa qualcuno che sta tra l’acchiappanuvole e il giullare”, ivi, pp. 222-223, corsivi in originale, salvo diversamente indicato fra parentesi quadre. E, d’altro canto, non fece Nietzsche di Apollo il dio del principium individuationis? E cos’accade quando lo strumento di distruzione indiretta di Apollo, l’arco, divenuto – non a caso – cosiddetta “arma da ‘fuoco’” (ovvero che spara a distanza) venga sottoposta all’ “utile” e si sparga per tutto il globo, partendo senz’altro dall’Occidente, ma toccando pure l’Oriente (“Per secoli questa [la ragione] rimase sul trono, poi passò lo scettro alla scienza, che rivelò i poteri della ragione nella sfera dell’utile, dove il logos diventa spurio, e sotto questo segno riuscirono le più difficili conquiste, caddero persino, in direzione del sole nascente, le roccaforti di ciò che è interiore”, ivi, p. 173, corsivo in originale)? Accade quel che abbiamo sotto gli occhi! L’uomo – gli uomini, la civiltà umana – non signoreggiano più lo scatenamento della potenza dell’ “utile” divenuta sistema tecnico-economico, e auto-sostenente, di fatto, incontrollabile, ma per mezzo del consensus: per quest’ultimo ecco il ruolo – del tutto residuale – della “politica moderna”. Ora, chiedere a quest’ultima un progetto, è futile, soprattutto molto ingenuo: dovrebbe porre in questione il suo ruolo di “agente consensuale”, ma, se lo facesse, non avrebbe più nulla in mano, infatti solo questo ruolo le è rimasto. In ogni caso, però non lamentiamoci, serve a poco; l’insistente lamentio dà l’impressione dell’impotenza, e, comunque, ricorda quel che disse la volpe alla gallina: “‘Oh come odio dover fare un uovo tutte le mattine’, si lamentò la gallina. ‘Adesso non ne hai più bisogno’, disse la volpe. Hawky, Fiaba a colazione” in N. Classen, Carlos Castaneda e i guerrieri di Don Juan, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 1998, p. 127, corsivi in originale. Che la gallina, dunque, non si lamenti eccessivamente …
Tra l’altro, ricordiamoci i due volti di Apollo: l’Apollo “Licio” (del “lupo”, lykos, e “luce”, lyké) e, tuttavia, per l’ ambivalenza dei simboli sottolineate da Guénon più volte, è anche l’ Apollyon, Apocalisse di Giovanni (9, 11), tra l’altro, Apollyon, che significativamente significa, in greco, “Distruttore” (= Apollo …), a sua volta, è la forma greca dell’ebraico Abaddon; a tal proposito, della relazione fra lupo e Apollo – e Seth –, cf. J. Robin, René Guénon. Testimone della Tradizione, Edizioni “Il Cinabro”, Catania 1993, pp. 42-43. A sua volta, guarda caso, Abaddon significa, in ebraico, esattamente “Distruttore” (= Apollo, di nuovo) … “Non ci sarebbe dunque nulla d’inverosimile nel fatto che, in terra celtica, il dio dalla testa di lupo [Beleiz = Apollo “Lycio”], dopo l’ occultamento del suo aspetto solare e propriamente apollineo, abbia ceduto il posto a questo dio dalla testa d’asino, di origine egiziana, ma destinato ad un ‘impero’ universale, e ‘che altri non è se non Set o Tifone [il suo nome greco]’, il cui culto, secondo Guénon, ‘permane ancora ai nostri giorni, e alcuni affermano pure che esso dovrà continuare sino alla fine del ciclo attuale’”, ivi, p. 43, corsivi miei.
Sia detto solo en passant, ma la “reincarnazione” cosiddetta “non superò mai, in Oriente, lo stadio della superstizione popolare – come, del resto, in Occidente molti fedeli non vanno al di là dello stretto significato letterale e adorano immagini dipinte o rappresentazioni mentali – conviene riconoscere che certe formulazioni, da parte di Orientali qualificati, potrebbero suggerire che essi adottino questa ipotesi [cf. Le Vite passate del Buddha (Jâtaka), UTET, Torino 1992]. Si tratta, in effetti, o di espressioni puramente simboliche evocanti la trasmigrazione dell’essere attraverso stadi di esistenza sovrumana, o piuttosto di allusioni a ciò che i Pitagorici designavano col nome di metempsicosi, e che non ha nulla in comune con la reincarnazione. In verità, quest’ultima è propria dell’Occidente moderno, tanto che lo spiritismo, a cui comunemente la si associa, agli inizi non l’aveva ancora adottata […]. Si può, tuttavia, datare la prima manifestazione della teoria reincarnazionista alla fine del XVIII secolo, col principe Carlo di Hesse”, ivi, p. 50. La potenza delle “torri”, comunque, oggi sembra in piena espressione …
“Gli etruschi non furono gli ultimi epigoni di una civiltà nelle sue crepuscolari apparenze come si son voluti fare apparire sotto la suggestione di giudizi malevoli e di notizie fantasiose trasmesse da storici incapaci di comprenderli […]. Nonostante i segni lontani di un processo degenerativo in atto nel modo di vivere e di pensare degli etruschi, nonostante gli aspetti tellurici […] con le sue madri cosmiche intronate col figlio in grembo [typo le Matres matutae, ma qui si è già visto un limite di Lensi Orlandi in una nota precedente; nota mia], nonostante certi atteggiamenti indiscutibilmente dionisiaci […], non ci è dato di riscontrare […] un’affermazione di un dominio naturalistico e materiale […]. Mai ci è dato di scoprire, sia pure ridotto, della nostra automatica epoca […] democraticamente antiaristocratica, in affannosa ricerca di un godimento sempre più facile [chissà cos’avrebbe detto a paragone di quel che sarebbe successo dopo gli anni Sessanta e, ancor più, dopo la prima parte dei Novanta!!, nota mia] espresso nell’idolatria delle folle pronte al sacrificio con uno slancio privo del tutto di ogni contenuto trascendente e al tempo stesso infoiate davanti all’attrice procace e provocante, allo sportivo del giorno, al momentaneo idolo politico. E neppure ci è dato scoprire un qualsiasi atteggiamento della nostra epoca intellettualistica, estetizzante e astrattizzante dove l’esasperazione sessuale è presente in ogni momento con un’intensità sconosciuta alle forme più ossessive della decadenza asiatica. L’ideale supremo della civiltà etrusca si espresse […] nell’insistente visione delle vittorie di Ercole, di Perseo, di Teseo […]. Davanti a quest’ideali l’etrusco che ignorò peccato e pentimento, restò in piedi memore della sua augusta origine divina. Fu serio perché consapevole e non, come si vuol far credere, […] crepuscolare spirito perduto in un labirinto di stravaganze. In piedi e senza timore fissò negli occhi il suo rosso Apollo impetuoso e gagliardo che nella sala cristallina del museo scintillante, misterioso e impenetrabile seguita tuttora a sorridere”, G. Lensi Orlandi, Il segreto degli Etruschi, cit., pp. 188-189, corsivi miei.
Qui sopra “ce” va corretto in: che.
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